1/ Quanto odio nello specchio di Narciso, di Pierangelo Sequeri 2/ Von Balthasar: sì alla scienza, di Pierangelo Sequeri 3/ Sequeri: la friabile teologia di Eugenio Scalfari, di Pierangelo Sequeri
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1/ Quanto odio nello specchio di Narciso, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 9/2/2017 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, cfr. la sezione Cristianesimo, ecumenismo e dialogo fra le religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)
Il primo santo del calendario post moderno non è più Prometeo, come annunciava Marx, proiettando sul soggetto collettivo la potenza dell’auto-realizzazione umana. È Narciso, come aveva enunciato Max Stirner (1806-1856), prefigurando l’unicità individuale di quell’auto realizzazione.
Prometeo annuncia la decostruzione della religione, sfidando 'il dio' dell’antico assoggettamento, in favore degli uomini. La ribellione è ancora in favore dell’umano, almeno, e disposta a pagare il prezzo della trasgressione. Narciso annuncia la decostruzione della società, ma non vuole subirne alcuna conseguenza.
Narciso vive dell’amore dell’altro, ma se ne attribuisce il merito esclusivo: non riconosce e non restituisce nulla. Narciso non lavora e non si sacrifica, non ci pensa neppure. L’Unico di Stirner non vuole avere altro fondamento che se stesso, e non pretende di essere il fondamento per nessuno. Questo tratto potrebbe farlo sembrare politicamente corretto, dato che non vuole essere assoggettato, ma nemmeno pretende di assoggettare. In realtà l’Unico, che vuole essere semplicemente se stesso e determinarsi da sé, è il parassita perfetto. Il perfezionamento della sua anaffettività è pericoloso per noi, e dannoso per lui stesso.
L’Unico, che sembra il trionfo individuale della volontà di potenza, in realtà è il brodo di coltura dell’indebolimento della volontà, destinato a consumare lui stesso. Questo non gli impedirà di essere attraente e fascinoso, nella sua immagine di eterno adolescente che si sottrae a ogni legame e si fa da sé. Per rimanere tale, e vincere la disperazione crescente di una compiutezza che gli sfugge, sarà pronto a tutto: dalla finzione cosmetica alla dipendenza chimica, dal godimento dell’impotenza altrui al gregarismo irresponsabile del branco. Mi domando, a proposito di questa odierna mescolanza del carattere anaffettivo e di quello distruttivo, se non ci sia una correlazione profonda tra l’affermazione pseudosecolare del monoteismo del sé e il fondamentalismo pseudoreligioso dell’annullamento dell’altro. L’elemento comune è l’impressionante regresso della pietas erga hominem, che abita in forme diverse i due mondi, apparentemente in conflitto fra loro. Il tratto anaffettivo, il vuoto del puro non amore, stabilisce un nesso rivelatore.
Non c’è passione, in questo nuovo odio che si vorrebbe religioso; né desiderio, in questa nostra ossessione di sé che si vorrebbe razionale: c’è istupidimento mediatico, e fredda disperazione. […]
La potenza dell’ego chiede di essere verificata nella debolezza dell’io altrui: perciò, quando l’autorealizzazione di sé diventa il tema ossessivo di un’ingiunzione assoluta, anche la derealizzazione dell’altro lo sarà. L’invidia dei divini si insinua nello spirito della competizione fra gli umani, e la sovrana insensibilità della loro apatheia si propone come un modello: la neutralizzazione emotiva della compassione per l’altro diviene un complemento necessario del culto della propria identità. L’autorealizzazione posta come fondamento umanistico e principio etico è il problema, non la soluzione.
La mia convinzione è che, se si inquadra esattamente il nodo, non è poi così difficile cambiare rotta. Perché non si tratta di cancellare la dignità del soggetto libero e consapevole, sacrificandola all’alterità o alla collettività. Non è una questione di democrazia o di ascesi. Si tratta di uscire - mentalmente, anzitutto - dall’incantamento di Narciso, impasticcato e afasico, rompendogli lo specchio e mandandolo a lavorare. Scoprirà di essere migliore, sarà felice. (E anche noi).
2/ Von Balthasar: sì alla scienza, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 14/5/2013 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)
Torna attuale «Die Gottesfrage»: un’opera del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988) pubblicata nel 1956 e poi trascurata per decenni, riedita con aggiunte nel 2009 e tradotta ora per la prima volta in italiano con il titolo «La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo» (Queriniana, pp. 210; qui sotto riportiamo parte della postfazione di Pierangelo Sequeri). Nel piccolo gioiello dimenticato von Balthasar accetta tra l’altro alla «teoria dei tre stadi», enunciata da Auguste Comte, liberandola dalla sua interpretazione positivistica. l’uomo culturalmente è passato dalla religione alla metafisica, per approdare poi alla scienza come interpretazione risolutiva del mondo.
Scienza e cristianesimo sono le matrici di polarizzazione del confronto culturale odierno, fra le quali la religione fornisce il terreno di confronto e di scontro: elemento mediatore ma anche terzo incomodo. La scienza della natura, in quanto fattore di socializzazione dell’unico sapere razionalmente condivisibile, ormai, non è più soltanto visione del mondo: aspira essenzialmente al ruolo di garante del senso.
La mossa è sottile, rispetto alla rozzezza dello scientismo, in quanto non pretende di sostituire la filosofia e la religione, ma semplicemente di garantire – in ogni ipotesi di senso – l’integrità della ragione. Un teologo che affronti questa configurazione con la passione e la freddezza necessaria all’intelligenza nella quale deve inoltrarsi, a vantaggio della fede, deve esibire, con la massima naturalezza, onestà intellettuale e dominio dei suoi mezzi.
L’elaborazione del tema nel testo di von Balthasar è iscritta in una mossa di stile. Il primo tratto è il riconoscimento del fatto che l’esistenza dell’uomo porta con sé, sin dall’inizio, insieme con la vita dello spirito, la religione e la tecnica: il plesso di queste figure fondamentali dell’esperienza caratterizza sempre il mondo nel quale l’uomo appare come soggetto.
«Da quando l’uomo vive sulla terra è esistito lo spirito, e con esso il sapere e la “scienza”, e con essa la cultura e la tecnica: lo attestano la prima ascia di pietra, il primo fuoco, la prima sepoltura. E quanto più indietro si spinge la tradizione umana (ed è possibile che quanto più indietro essa arriva, tanto più pura emerga), l’uomo è sempre stato un essere religioso, egli sa di essere sotto un potere divino, che deve riconoscere e venerare e dal quale deve attendere la salvezza. Così, attraverso tutti i cambiamenti storici, si dà un tipo costante di esistenza umana, una humanitas perennis».
In tal modo è già subito sbarrata la strada, anche dalla parte del cristianesimo, all’idea che la specificità umana debba essere trovata sul fronte di un’attività dello spirito che non ha niente a che fare con la scienza e con la tecnica. (...) «L’uscita dell’uomo dall’avvolgimento del cosmo – scrive Balthasar – dove egli era custodito come l’uovo nel guscio, può essere vissuta anzitutto soltanto come esperienza che oggi viene chiamata insicurezza. Ma invece di usare questa parola come un rimprovero, pieno o dimidiato – come se l’uomo fosse incappato in questa situazione pericolosa per mancanza di preveggenza e dovesse ritornare a rintanarsi il più in fretta possibile nell’involucro abbandonato – si farebbe meglio a sottolinearne il senso positivo e storicamente necessario».
La lettura stessa del passaggio deve riacquistare il nitore di questa spassionata considerazione dell’ambivalenza. Nella nuova struttura del mondo – prosegue von Balthasar – l’uomo ha perso, del passato, qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. (...) «La scomparsa, o almeno la limitazione, della protezione naturale rende l’uomo finalmente autentico, lo fa essere quello per cui il racconto della creazione lo ha stabilito: signore della creazione, colui che, senza abbassarsi in alcun modo al suo livello, l’amministra nel servizio responsabile di fronte al suo Creatore, e la sviluppa in conformità alle proprie tendenze». E d’altro canto, nella condizione odierna, deve pur apparire ancora di nuovo, e con definitiva chiarezza, che quest’uomo moderno, avendo “conquistato un potere sulla natura” prima del tutto impensabile, «si è al tempo stesso caricato di un’imprevista responsabilità per se stesso e per la natura».
Soltanto in questa tensione, del resto, egli «è veramente uomo». Il nodo che ora ritorna in chiaro riguarda proprio la “religione”: e a questo punto, proprio nel senso per cui essa riguarda la coscienza “attuale” di questa specifica responsabilità dell’uomo per il proprio destino. «Questa responsabilità è così pesante, ma anche così ponderata, che egli non può portarla da solo; ma poiché non può più condividerla con la natura, non gli resta altro che condividerla con il Creatore: nella preghiera, nel dono di sé, nel rapporto con colui che non è un pezzo della natura e non offre all’uomo una ricetta già pronta che lo sottragga alla sua libera e decidente responsabilità».
Di qui deve venire il respiro necessario per introdurre nell’orizzonte della categoria di “religione” – intermedia e insieme cruciale – il senso profondo e critico della svolta umanistica che è infine necessaria nell’epoca della scienza naturale (non contro di essa) e nell’epoca della secolarità politica (non contro di essa).
Lo sfondo della rivelazione cristologica del legame indissolubile e salvifico di Dio con l’uomo, che sempre di nuovo offre una prospettiva alla fatalità della scissione, prende respiro proprio a partire dalla parola rivelata della creazione, che ne ha rischiarato l’orizzonte. La possibilità di «infiammarsi ancora una volta per Dio», in luogo di attestarsi pigramente e pavidamente sul già pensato, una volta per tutte, ne sarà – filosoficamente, non solo teologicamente – il complemento necessario.
Di qui Balthasar volge lo sguardo verso l’altro crinale di questa sua originale introduzione al tema dello “spirito del cristianesimo e del suo destino” nell’epoca ormai inaugurata e in vigore (la sfida è già stata lanciata da tempo, al cristianesimo: essa va raccolta, appunto, non incistata nel risentimento e nella malinconia). «Prima che il cristiano pensi di “cavarsela” con questo solitario di oggi, di portarlo avanti o addirittura di convertirlo, dovrebbe chiedersi con che cosa pensi di andargli incontro». Naturalmente, in un senso sostanziale e immodificabile, il cristiano sa che cosa porta: chi è Colui nel quale ha creduto, e a quale rivelazione rende testimonianza, in obbedienza e amore del suo Signore. Ma di certo, anche il cristianesimo deve ogni volta esaminare se stesso: dato che porta questo tesoro in vasi di creta, e deve ogni volta prendersi cura per il lógos della sua speranza per l’interlocutore che si presenta. (...)
Il saggio si chiude, con elegante figura di inclusione, sul tema di una nuova “visione” della natura creata, che deve restituire respiro e orizzonte per la “solitudine” di un soggetto che è finito nel guscio di un’autocomprensione che – a dispetto delle apparenze – non intercetta più il mondo, né la storia.
In questo solipsismo inapparente, l’individuo è irraggiungibile e isolato anche per la questione seria del cristianesimo. Il corpo-mondo, sottratto all’anestesia di una visione ossessivamente libidica e macchinale della natura e del cosmo, potrebbe ricominciare a parlare e a intrattenere corrispondenze con le cose dello spirito. E persino a mettersi in dialettica con il soprannaturale: accettando la sfida di un’irruzione che resiste al pensiero del caso come a quello della necessità.
«La natura si trascende nell’uomo. Ma l’uomo è spirito soltanto in quanto egli trascende di nuovo verso Dio il mondo che egli è, la cui quintessenza egli rappresenta». La mortificazione della natura impoverisce il mondo e toglie senso al tempo. Alla lunga, ciò deve anche togliere respiro all’uomo.
La parola di Dio non è una grandezza mondana. Eppure, rende più grande il mondo. Il nostro, in effetti, è diventato piccolo e monotono: ormai sta tutto in un iPhone. Invece, è il movimento della creazione divina, in cui siamo coinvolti e del quale siamo responsabili, che restituisce lo spazio e il tempo alla grandezza dell’anima.
La nuova evangelizzazione avrà presto bisogno di mettere in contatto la ritrovata vitalità delle origini della fede con la lingua materna della creazione in cui l’uomo prende il respiro di Dio. Ossia lo spirito. L’affresco di questo piccolo gioiello che è la Gottesfrage di Balthasar è ancor oggi un glossario perfetto per riaffezionarci all’impresa.
3/ Sequeri: la friabile teologia di Eugenio Scalfari, di Pierangelo Sequeri
Riprendiamo da Avvenire del 16/1/2014 un articolo di Pierangelo Sequeri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/6/2017)
Nella memoria della mia ormai lunga carriera di insegnante di teologia è rimasto impresso un piccolo caso paradossale, che ricordo sempre con un misto di tenerezza e di imbarazzo. È d’uso, fra i candidati alla consacrazione sacerdotale, preparare per tempo l’immaginetta-ricordo, con una frase biblica o un motto spirituale. Dopo essermi felicitato con uno degli studenti del seminario, che mi aveva consegnato la sua, vi ho letto: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». L’indicazione dell’autore della citazione, però, non era Giovanni (1, 14), era Paolo VI!
L’episodio mi è venuto alla mente quando, leggendo con crescente sgomento l’editoriale di Eugenio Scalfari sull’abolizione "francescana" del peccato, sono arrivato alla frase: «L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco». In quel momento lo sgomento è stato alleggerito da un sorriso.
L’emozione dei colloqui col papa Francesco deve essere stata tale, mi sono detto, che l’uomo di mondo si è lasciato vincere dall’entusiasmo per la persona, indubbiamente eccezionale, fino a sortirne qualche effetto di disorientamento. Il disorientamento ha prodotto qualche enormità di attribuzione, in positivo e in negativo. Eccesso positivo, quando si pongono a fondamento della "rivoluzione" del Papa affermazioni che sono semplicemente pilastri della tradizione biblica e della fede cristiana. Eccesso negativo, quando si parla di un Papa che, per la prima volta nel cristianesimo fa «della predicazione evangelica il solo punto fermo» e perciò, conseguentemente, «abolisce il peccato».
Nel cristianesimo, se parli di legge e di grazia, di amore e di peccato, sempre fai appello alla dignità della coscienza e alla scelta della libertà. Non potresti neppure formulare i concetti, altrimenti. Da Abramo a Paolo, Dio vuole essere amato, e non subìto: è per questo che si parla di fede. E nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo – è parola di Gesù – ci sono tutta la Legge e i Profeti. È vero che si possono sempre riprodurre le derive di una religiosità ossessiva, che impernia tutto sull’oscura vischiosità del peccato, dimenticando la potenza dell’amore di Dio. Così come del resto ci sono giulive rimozioni del dramma della colpa che, facendone una semplice creatura del caos, svuotano la libertà di ogni passione per la giustizia.
Il cristianesimo stesso, ogni volta e per se stesso, anzitutto, deve ristabilire il giusto contrappunto. Ma non c’è proprio nulla da inventare. Per il resto, la novità dell’incarnazione redentrice del Figlio, professata dai cristiani, è certamente una rivelazione inaudita e dirimente della verità di Dio: ma non alternativa e contrapposta a quella di Abramo e di Mosè.
Neppure nei momenti di maggiore tensione, fra cristianesimo nascente e giudaismo, il dogma ecclesiastico ha ceduto all’idea della contrapposizione fra il Dio "cattivo" della Bibbia ebraica e il Dio "buono" del Vangelo cristiano. La tesi, coniata dal vescovo Marcione – siamo nel II secolo! – è combattuta come eresia pura e semplice.
Quanto poi alla breve storia dell’Universo che ricostruisce lo sfondo della presunta "rivoluzione" di Francesco, mi è più difficile non cedere allo sconforto. Non c’è quasi nessuna parola al posto giusto, e spesso le parole giuste non hanno il loro posto. (A parte il fatto che il Dio di Abramo e di Mosè vi risulterebbe irriconoscibile anche per loro stessi, persino Spinoza e Kant sorriderebbero per la boutade della contrapposizione fra legge e diritti che fa capolino). Su tutto il repertorio, insomma, siamo troppo al di sotto delle prove migliori del Nostro, ossia quelle autobiografiche, che abbiamo persino letto con sincero interesse.
Qui la sonata mi sembra troppo a orecchio. Insomma, possiamo ragionare utilmente sull’opinione difforme, non ci scandalizziamo della passione ideologica, e capiamo anche la necessità giornalistica. Ma non abbiamo materia di confronto specifico se l’informazione di merito è così friabile. Riproviamoci. La conclusione di Scalfari è verissima, in effetti: tutto questo ci riguarda. Eccome.