Riprendiamo da Avvenire del 22/12/2017 un articolo di Nicola Pini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio, in particolare il tag nord_sud_mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
In meno di 20 anni in Italia la quota di ricchezza nazionale detenuta dal 90% meno benestante della popolazione si è ridotta dal 60 al 45% del totale. Mentre il 10% più ricco ha accresciuto la sua parte fino al 55%. In questo grande 'travaso' di patrimonio il top della classe agiata, l’1% degli italiani, ha visto salire la sua quota parte di circa cinque punti percentuali superando il 20% del tesoro privato complessivo. I dati si riferiscono agli anni dal 1995 e il 2013 e confermano come il nostro Paese abbia conosciuto, come gran parte del mondo sviluppato, un’impennata delle diseguaglianze sociali. Se la tendenza generale non è nuova questi dati, che riguardano i patrimoni delle famiglie, mostrano una polarizzazione più accentuata di quello che finora hanno mostrato altre analisi, ad esempio quella di Bankitalia, che indica in circa il 45% le ricchezze del top 10% della popolazione sul totale.
A darne conto è una ricerca presentata nei giorni scorsi da tre economisti, Salvatore Morelli, dell’unità di studi sulle diseguaglianze dell’università della Città di New York, Paolo Acciari, del ministero dell’Economia, e Facundo Alvaredo, della Pse di Parigi, nell’ambito della pubblicazione del primo World inequality report (presso appunto la Paris school of economics) da parte di un folto gruppo di studiosi internazionali, il cui esponente più noto è il francese Thomas Piketty. Per la prima volta i tre analisti hanno potuto ricostruire l’andamento e la distribuzione delle ricchezze personali in Italia anche attraverso i dati derivanti dalle dichiarazioni di successione, ovvero dalla eredità. La ricerca tiene conto pertanto di tutte le attività reali e finanziarie e delle famiglie, dagli immobili alle partecipazioni, dai risparmi alle aziende possedute. L’analisi è basata ancora su stime preliminari ma, se confermata, fuga ogni dubbio sui trend della distribuzione dalla ricchezza nel nostro Paese.
Le cifre che ne emergono non si prestano infatti a fraintendimenti: seguendo una sorta di effetto calamita la ricchezza privata è andata ad accumularsi dove già era presente piuttosto che a distribuirsi sull’intero corpo sociale. Come emerge dai dati presentati, tanto il top 1% che il top 10% della popolazione hanno infatti accresciuto la propria quota parte di circa un terzo, rispetto al totale (rispettivamente dal 15 al 20% e dal 40 al 55%) mentre nel contempo scendeva di altrettanto quella del resto degli italiani. Il periodo di osservazione copre tanto un periodo di moderata crescita dell’economia, dal ’95 fino al 2007 (anni durante i quali anche le politiche di privatizzazione potrebbero avere favorito l’acuirsi dei divari patrimoniali) quanto gli anni bui della crisi, dal 2008 al 2013. Guardando ai grafici presentati la 'curva della diseguaglianza' resta quasi sempre in aumento con una certa accelerazione tra il 2004 e il 2006 e un rallentamento negli anni della recessione.
Il rapporto sulle diseguaglianze presentato a Parigi evidenzia del resto come l’aumento degli squilibri economici nel mondo sia un fenomeno di lungo corso e non il portato della crisi di questi anni. Oggi che la bassa marea della recessione ha lasciato sul bagnasciuga un esercito di nuovi poveri e messo a rischio le sicurezze del ceto medio, il dato è ovviamente più eclatante. Ma il drastico allargamento della forbice tra top e down della scala sociale è un tratto caratteriale degli ultimi 30 anni della nostra storia. Mentre dall’inizio del secolo scorso fino agli anni Ottanta nei Paesi avanzati il divario di ricchezza si era attenuato. «L’Italia – spiega Morelli – è uno dei Paesi dove il rapporto tra ricchezza aggregata totale e il totale dei redditi prodotti ogni anno è tra i più elevati al mondo, una delle nazioni a più elevata intensità capitalistica, dove la ricchezza vale molto più del reddito». Il dato generale che emerge, commenta l’economista, è che «si accresce sempre di più il peso della ricchezza ereditata, della trasmissione dinastica patrimoniale, rispetto alla generazione di reddito. Una situazione dove, come è stato detto, il passato divora il futuro».
Tra il 1980 e il 2016 l’1% più ricco della popolazione mondiale si è assicurato il 27% dell’aumento complessivo di ricchezza. Il 50% più povero del pianeta ha a sua volta migliorato le sue condizioni (grazie al boom delle economie emergenti) ma la sua fetta di torta è stata solo il 12% del totale. In termini relativi, i più sfavoriti sono stati i ceti popolari e le classi medie dei Paesi avanzati, tra i quali l’andamento dei redditi è stato debole e in taluni casi negativo. Dal rapporto emerge però anche come i diversi sistemi economici abbiano reagito diversamente alla spinta del liberismo, della finanziarizzazione dell’economia e della globalizzazione. In Europa e in Italia la ricchezza non è equamente distribuita ma i divari restano comunque meno accentuati. Qui l’eredità del sistema di protezione sociale novecentesco e l’accesso di larghe fasce di popolazione alla proprietà immobiliare hanno parzialmente arginato la crescente polarizzazione.
Usa ed Europa occidentale sono andati nella stessa direzione ma a velocità diverse. Parlando ora di redditi e non di patrimoni negli States la quota detenuta dal top 1% è schizzata dall’11 al 20% del totale, mentre il 50% alla base della piramide sociale scendeva dal 21 al 14%. Nel Vecchio continente invece i ricchissimi hanno accresciuto il loro reddito dal 10 al 12% e la metà più povera della popolazione è scesa dal 24 al 22%. Se poi si allarga il focus dai pochi super-ricchi al 10% più benestante, il reddito in Europa occidentale è passato negli ultimi dieci anni dal 35 al 37% del totale.
Siamo ancora lontani, per fortuna, dai divari delle altre maggiori economie: in Cina il decile più ricco possiede il 41%, in Russia il 46, negli Usa il 47. Al vertice delle diseguaglianze l’India (55%) e il Medio Oriente (61%). Anche in Brasile le iniquità sono enormi. Ma in controtendenza con gran parte del mondo, dagli anni Novanta si sono ridotte. Se l’accrescersi del divario sociale fosse il carburante di una crescita diffusa e stabile potrebbe comunque essere considerato un prezzo accettabile da pagare. Ma oggi «la ricerca economica converge sul fatto che livelli alti di diseguaglianza non sono una cosa positiva per la stabilità del sistema, che efficienza ed equità vanno perseguiti insieme», aggiunge Morelli. Gli squilibri eccessivi tendono da un alto ad aumentare il debito, dall’altro a comprimere i consumi delle classi popolari verso forme di low cost generalizzato che, a cascata, spingono verso il basso anche le retribuzioni. E anche quando il tenore di vita resta stabile, la perdita relativa di ricchezza dei molti nei confronti delle élites può accrescere invidia e risentimento sociale, alimentare il populismo e le 'avventure' politiche.
Secondo gli estensori del rapporto, se le tendenze attuali non verranno contrastate le disuguaglianze aumenteranno ancora. Questo esito però non è una fatalità, quanto invece la conseguenza delle scelte politiche e dei diversi modelli economici. Se a prevalere saranno le dinamiche americane i divari si accresceranno ancora. Con il trend osservato in Europa le diseguaglianze tenderebbero a una maggiore stazionarietà. Ma come fronteggiare la polarizzazione sociale? Gli autori del World inequality report insistono su alcune priorità. La lotta ai paradisi fiscali – divenuti resort di lusso degli speculatori finanziari ed evasori fiscali top class – una maggiore progressività dei prelievi fiscali sul reddito (che al contrario è diminuita negli ultimi decenni), forme di tassazione su grandi patrimoni ed eredità invece che sul lavoro. E ancora: mantenimento di una presenza pubblica nell’economia, salario minimo, migliore rappresentanza dei lavoratori negli organi direttivi delle imprese, un accesso concreto all’istruzione superiore per le classi popolari.
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Del morire.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Qual è il grande problema della nuova legge sul biotestamento? Consiste innanzitutto nella sua prospettiva pragmatica, contraria al patrimonio ideale comunista, cattolico e liberale, improntato a forti ideali, che ha dato origine all'Italia come democrazia.
La nazione ha sempre condiviso la necessità di esaltare i grandi valori, avendo però al contempo compassione per chi non fosse in grado di tenervi fede. Mai compassione senza la contemporanea proposta dei grandi ideali. Ad esempio dinanzi al suicidio l'atteggiamento tipico è sempre stato quello di ritenerlo una scelta triste e sbagliata, avendo però comprensione per chi compiva quel passo (io stesso posso testimoniare di tanti funerali di suicidi in cui ci siamo stretti insieme non a difendere un presunto diritto a togliersi la vita, bensì per ritrovare coraggio nel riaffermare il valore della vita e per pregare per l'amico disperato). Questo atteggiamento era ancora presente sia nella popolazione, sia nella mente del legislatore, dinanzi alle grandi questioni del divorzio (il referendum in merito è del 1974) e dell'aborto (il referendum in merito è del 1981). Molti ritennero che quelle leggi non intendevano proporre – probabilmente senza comprendere invece la mens dei fautori che intendeva proprio questo - un presunto “diritto” a tradire o ad indebolire la famiglia, così come pensavano che non si trattasse di dichiarare un diritto ad abortire.
Lo Stato - in teoria - continuava a proporre la “bontà” sociale dell'amore fedele e indissolubile dell’uomo e della donna, unitamente però ad uno sguardo di compassione per chi falliva nell’ideale di costruire una famiglia. Lo Stato - in teoria - continuava a proporre la “bontà” sociale della maternità e paternità, unitamente pero ad uno sguardo di compassione per chi abortiva. Indicativo in tal senso è il primo articolo della legge 194 che si apre dichiarando il primato della vita del concepito - l’Art. 1 recita infatti: «Lo Stato… tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite».
Negli slogan di allora erano presenti, ad esempio, espressioni come “L’aborto non è un reato”, non identiche a “L’aborto è un diritto”. Pur in una visione problematica, l’accento era comunque posto più sulla non punibilità che sul presunto diritto ad una libertà di abortire: si intendeva in qualche modo non negare il fatto che l’aborto fosse comunque un male e che la morte del bambino fosse una questione gravissima. Tutto doveva però essere coperto da comprensione verso le persone che così decidevano (la responsabilità nel tempo, a partire da quegli anni e a differenza del passato, venne in maniera assurda scaricata sempre più sulla donna, al punto che oggi un maschio quasi non se ne sente responsabile, come ha recentemente sottolineato la Hargot[1]).
Con queste esemplificazioni non si intende difendere tale sguardo tipicamente italiano. Si vuole, invece, sottolineare come tanti italiani, ben al di là dell’ideologia già chiara di chi propugnava tali leggi, le interpretarono alla luce di una visione vera e giusta, quella che ha sempre cercato di condannare il "peccato", ma mai il "peccatore".
Tale visione non è solo cristiana e cattolica, ma era allora condivisa dal pensiero comunista e da quello liberale.
Da tempo, invece, si e fatta strada una nuova e alternativa visione della vita, totalmente pragmatica e attenta unicamente a pretesi diritti del singolo e mancante di una riflessione sui suoi doveri e sul coinvolgimento della comunità nelle scelte del singolo.
L'idea di uomo che ne emerge è quella di un essere caratterizzato da ogni “libertà” di scelta, senza responsabilità alcuna cui egli sia "chiamato" dalla comunità cui appartiene, senza “doveri” verso un dato che lo supera, come il fatto stesso di aver ricevuto la vita senza averla chiesta.
Quella che intendeva essere nella mente di molti una comprensione verso il fallimento matrimoniale si è cosi mutata nella pretesa che ognuno abbia il diritto di modificare o interrompere ogni relazione quando più gli piaccia e che la stessa “promessa” di fedeltà, lo stesso “per sempre”, sia un elemento estraneo alla famiglia. Allo stesso modo l'aborto viene oggi da taluni rivendicato come un diritto assoluto, rifiutando che si provi addirittura a prendere in considerazione l'idea che la società possa fare di tutto perché il bambino possa nascere comunque dalla madre per essere poi affidato ad altri (ciò avveniva nei secoli passati con il sistema delle “ruote” che, alla fine dei conti, si rivelava ben più umanizzante delle prospettive moderne).
Questo atteggiamento è ancora più evidente nel caso delle DAT che, per definizione, sono decisioni prese in anticipo, a prescindere dalle loro possibili concretizzazioni tutte da verificare – come dice il termine stesso, appunto, Dichiarazione “Anticipata” di Trattamento.
Non si afferma più allora, come sarebbe preferibile: "Poveretto, non ce la fa a scegliere di continuare a vivere perché soffre troppo fisicamente o psichicamente". Il senso di espressioni del genere consiste nel conservare come punto di riferimento la "preferibilità" del non togliersi la vita e, con essa, l’attestazione che non si è padroni della vita, ma che essa chiede un impegno a cui si deve tenere fede: ma nel senso di frasi come queste rientra anche la comprensione della comunità per la persona che non “riuscisse” a tenere fede a quella vita ricevuta in dono.
Non, quindi, una comunità che si limita a dichiarare la possibilità di due scelte, bensì che afferma chiaramente la non equivalenza delle due possibilità, pur avendo poi comprensione ed affetto nei confronti di chi optasse per ciò che è meno vero e bello.
Con la nuova legge, invece, si innalza, il cartello di un pretesa “diritto” al punto che non si permette nemmeno l'obiezione di coscienza: “Ha deciso in anticipo, quando era lucido, di non voler prolungare la vita e ne ha diritto. La vita appartiene solo a lui ed egli ne decide a suo assoluto piacimento e la comunità è lì solo per prendere atto delle sue decisioni”.
Si noti bene che il tratto eutanasiaco del dispositivo legale emerge non nei critici della legge quanto nelle dichiarazioni degli stessi fautori della legge e, ancor più, nella foto che è stata scelta “dagli intellettuali” dei media a simbolo della “vittoria legale” con i volti commossi di parenti di pazienti sostenitori del trattamento eutanasiaco.
Qual è allora la prospettiva problematica che è evidente nella legge e nei commentatori, nel dispositivo messo in atto così come negli “intellettuali” che la esaltano?
È proprio quella di vedere le DAT non come una concessione, bensì come un diritto, come un diritto a decidere se, come e quando morire. La legge si basa su questa visione, sena dichiararla appieno: ritiene che la comunità non abbia da offrire nessuna indicazione sul valore della vita. Alla comunità sociale è dato solo di registrare il dato stabilito dal singolo. Manca ogni prospettiva di senso e ogni visione comunitaria, tradendo ciò che è proprio della migliore tradizione comunista, cattolica e in fondo anche liberale. La legge è “liberista” e basta. Solo il singolo ha voce e, al contempo, è lasciato spaventosamente solo nella sua “libertà”.
La comunità - dello stato, del mondo medico, della società - cessa di dire alla persona che è preziosa anche quando è gravemente malata, cessa di incoraggiarla sul fatto che la sua vita ha una dignità a prescindere dalle condizioni fisiche. Non dichiara più la fiducia che esista un valore della testimonianza della debolezza che può essere più preziosa dell’efficienza di qualcuno che è giovane e sano. La comunità si limita a dire: “Decidi tu. Quello che decidi per me è equivalente”.
Fino ad oggi, tutta la comunità, con i suoi messaggi educativi e con il suo apparato legislativo, dichiarava di preferire che chi era nella debolezza della malattia continuasse a vivere ed incoraggiava i suoi parenti a sostenere questa decisione come sensata: proclamava che la vita ha una sua dignità incomparabile anche dove non è più cosciente. Certo, essendo laica, la comunità non giungeva, come crede la fede, a dire che in una persona debolissima è presente Cristo stesso: però incoraggiava il malato e i suoi cari a ritenere che valesse la pena vivere fino all’ultimo respiro, ritenendo la vita inviolabile. Per la comunità come nessuno poteva decidere di darsi la vita, così nessuno poteva decidere di togliersela.
Si noti bene che esiste un concetto di “vocazione” anche laico (lo ha utilizzato per esempio Max Weber nei suoi scritti), dove la vita non è semplicemente “mia”, bensì è qualcosa che io sono tenuto ad onorare, anche se non è possibile definire esattamente da chi venga e chi è precisamente colui che la “chiama” a continuare ad essere.
Questa visione, ovviamente, sosteneva anche i cari del malato, mostrando loro che l’intera comunità riteneva che il loro prodigarsi per lui fosse meritevole e degno, prezioso e vero, anche se il sofferente non avesse alcuna seria possibilità di riprendersi. Come egli li aveva amati, così era bello che ora lui fosse amato da loro fino a che una morte naturale non ne avesse determinasse una “vocazione” ad uscire dal mondo. Quell’amore apparentemente senza senso era più sensato dell’efficienza di tanti corpi sani. Il debole, il gravemente malato, addirittura l’incosciente, davano un diverso ritmo al mondo, conferivano un diverso peso alle cose.
La comunità fino ad oggi diceva: la vita ha un senso, sempre e comunque, anche se non è possibile definirlo precisamente. Poiché ha un senso, ecco che un malato grave o un anziano cronico, può avere una vita più sensata di un giovane rampante: il senso non è determinato dalle condizioni di salute, ma è legato alla vita stessa della persona. Un disabile incapace di comunicare secondo i criteri della maggioranza delle persone, può essere invece testimone di una diversa visione della vita ed è prezioso almeno quanto un grande comunicatore.
Il tirarsi indietro di una persona con il suicidio, ma anche l’abbandonare alla morte una persona non più cosciente, era qualcosa di avvertito come triste e disdicevole, anche se si aveva poi sempre comprensione per chi si fosse trovato in queste condizioni e non avesse retto alla pressione. Il morire non era insomma visto come qualcosa di “individualistico”, come un diritto “individuale”, bensì ognuno era “chiamato” a lottare per la vita fino all’estremo e il suo tirarsi indietro avrebbe in qualche modo ferito la società stessa, gli altri, poiché avrebbe privato tutti dell’apporto di una persona e di una testimonianza, anche silenziosa, a ricordare che la vita non è solo dei sani.
Si potrebbe dire in una parola così: era chiaro che non si era padroni della vita e che per un misterioso disegno era bene accogliere la vita così come essa era.
Ora tutto questo è come messo da parte. È il singolo a decidere e la vita non è più una “vocazione”, nemmeno laica.
In conseguenza di questo, non si può tacere il fatto che questo nuovo orientamento di pensiero avrà senza alcun dubbio conseguenze prevedibilissime - ma anche imprevedibili - nei decenni a venire anche sulle persone che, di per sé, vorrebbero continuare a vivere anche se gravemente malate, si pensi ancora ai disabili o agli anziani cronici. La legge introduce come un tarlo: se la comunità riconosce che è un bene che alcuni si privino dell’alimentazione o dell’idratazione, perché non privare di tali trattamenti altri che sono parimenti malati da molto tempo o addirittura incoscienti?
Conosco una famiglia amica che ha avuto una figlia, Sabina, che nei primi anni di vita, essendo cieca, sorda ed incapace di qualsiasi comunicazione, sembrava non avere una vita propria. L’amore dei genitori, l’amicizia di tanti e l’aiuto di medici competenti l’hanno fatta maturare al punto che essa comunica ora, ma solo con il contatto, riconoscendo le persone che le prendono la mano. Cosa dire di una vita come questa? Per i suoi amici Sabina è preziosissima, anche se lei non potrà mai dire ad altri cosa pensi di se stessa. Senza aiuto, immobile com’è, non potrebbe vivere da sola nemmeno per un nuovo giorno: eppure non è la sua presenza ricca e preziosa, un dono per tanti? Lo stato deve incoraggiare gli amici di Sabina a sostenerla in vita o si deve limitare a dire: “Decidete voi se valga la pena o meno che viva, perché per la comunità questo è indifferente”?
Riassumiamo: la principale problematicità della nuova legge consiste a nostro avviso nel fatto che per la prima volta viene concesso alla persona il presunto “diritto” di decidere anticipatamente se ha senso continuare a vivere o meno. Si lascia intendere che sia un diritto, che sia qualcosa di naturale, pensare di farla finita una volta che la malattia indebolisce seriamente la lucidità di una persona. La legge si astiene dal proporre argomenti e gesti favorevoli al sostenere la vita di chi è in estrema difficoltà: se ha deciso, ha deciso e non se ne parli più.
In questa maniera, però, la comunità si tiene fuori dalla storia di chi è gravemente malato e non riafferma la grandezza della vita anche se fosse debolissima: la comunità si auto-esonera da una qualsivoglia testimonianza in merito.
Tutto è risolto pragmaticamente. Della vita si tace.
È importante sottolineare con tristezza che la linea dei partiti di centro-sinistra e di centro-destra è parimenti confusiva sui temi su indicati. Premettiamo che non si intende dare qui indicazioni partitiche – qualsiasi lettore a noi affezionato sa che tale è la nostra linea, da sempre, quella di astenersi da ogni ingerenza partitica.
Da un punto di vista, invece, di una visione antropologica ed etica non si può non rilevare la coincidenza dell’approvazione della legge sulle DAT da parte del governo guidato da una certa parte politica, mentre dall’altra parte Berlusconi prometteva ai suoi elettori una vita di 125 anni (con le pensioni conseguenti).
Dal punto di vista antropologico la legge sulle DAT e la promessa berlusconiana di un prolungamento dell’esistenza dell’età anziana appaiono come due visioni complementari egualmente mistificanti che negano la realtà della vita umana così come essa è e si modifica chiedendo di essere accettata e non di essere negata decretandone la fine anticipata o un prolungamento impossibile. Lasciate la vita così com’è, non siete dei demiurghi, né in aggiungere, né in levare.
1/ Contro il vittimismo e chi lo incentiva. Chi promuove il vittimismo inter-culturale è complice della violenza e del mancato sviluppo. Chi incentiva il vittimismo è eurocentrico e colonialista, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Diversi intellettuali provenienti da mondi extra-europei chiedono con sempre maggior insistenza ai loro connazionali di trarsi fuori dal vittimismo nel quale versano. Si pensi, ad esempio al filosofo franco-marocchino Abdennour Bidar[1], al libanese Samir Khalil Samir[2], all’algerino Kamel Daoud[3], all’islamologo Maurice Borrmans[4], all’imam francese di origini algerine Hochine Drouiche[5], ai vescovi della Nigeria e del Senegal[6].
Chiedono ai loro connazionali di cessare di attribuire indistintamente le colpe del mancato sviluppo del proprio paese, sia economico che culturale, all’occidente.
Lo chiedono non perché l’occidente non abbia colpe.
Lo chiedono, invece, perché i loro paesi di origini hanno colpe gravi come il mondo occidentale e se cambiasse l’occidente, ma non loro, a niente servirebbe, perché le proprie responsabilità sono sufficienti a rendere impossibile un vero sviluppo.
Lo chiedono perché hanno compreso che lo sviluppo culturale dell’occidente dipende anche dalla capacità di autocritica che a loro manca e dal fatto che l’Europa è abituata non farsi mai un alibi dei torti subiti da altre culture e paesi o religioni, bensì sottopone a critica continua la propria cultura e la propria religione.
Lo chiedono soprattutto perché il vittimismo, con la sua logica del capro espiatorio proiettato sempre esternamente a sé, è proprio ciò che impedisce di chiarire a se stessi se si vuole realmente uno sviluppo culturale ed economico ed una maggiore libertà in campo religioso, rimboccandosi le maniche e cominciando a realizzarlo.
Tutti costoro hanno chiaro che una visione vittimista impedisce di guardare in casa propria: a loro avviso, con la scusa dell’occidente, nessuno si interroga più se il mancato sviluppo non dipenda anche da una mancata passione per la cultura, la scuola e l’istruzione e la loro libertà, nesuno si chiede se non dipenda anche da una mancata del mondo femminile in vista di una generazione di donne più libere e protagoniste, nessuno si chiede se non dipenda anche dalla mancanza di una maggiore libertà di analisi critica delle fonti religiose, che implichi la possibilità di un pubblico dissenso o anche dell’abbandono esplicito della fede originaria da parte di alcuni.
Gli intellettuali summenzionati – e tanti altri con loro - hanno compreso, inoltre, che ci sarebbe sufficiente ricchezza in casa propria, nonostante le ingiustizie altrui, se non ci fosse corruzione locale e se gli aiuti dell’occidente venissero effettivamente utilizzati a beneficio di tutti e non di singole caste o famiglie o tribù. Sanno bene che una diminuzione della pressione economica dell’occidente, se non compensata da una nuova mentalità lavorativa locale, scevra da corruzione e animata da una nuova etica del lavoro, non basterebbe allo sviluppo dei loro paesi, bensì rischierebbe di impoverirli ulteriormente.
Gli intellettuali occidentali, invece, sono così eurocentrici – proprio loro che criticano la cultura europea in quanto eurocentrica – che talvolta nemmeno si avvedono di tali posizioni che emergono nei pensatori più intelligenti dei paesi dell’Africa, del nord dell’Africa o del mondo medio-orientale.
Essi continuano a ripetere che l’occidente e il colonialismo occidentale sono stati e sono la causa del mancato sviluppo.
Per quel politicamente corretto così facilmente confondibile con un vero rispetto per le altre culture non si accorgono che sono gli stessi intellettuali più avveduti di quei paesi a denunciare per primi il razzismo e il tribalismo da sempre presente in Africa e mai scalfito nella mentalità musulmana.
Si noti bene – e ciò varrà anche per le osservazioni successive – che con ciò non si intende disprezzare l’Africa o i musulmani così come noi riteniamo che chi critica l’Europa e i cristiani per la schiavitù e le crociate non intenda disprezzarli, bensì molto più semplicemente compiere un lavoro di chiarificazione storica. Infatti, il lavoro degli storici in merito al colonialismo occidentale ha portato ad un mea culpa pubblico dell’occidente laico e della Chiesa che sono grati ai suoi critici del loro lavoro. Le osservazioni in tal senso qui registrate vanno nella stessa direzione, quella di un lavoro storico volto non alla ricerca di un capro espiatorio, bensì di un’analisi più scientifica ed equilibrata che faccia rifuggire dall’idea stessa di capro espiatorio. Se non si assisterà ad un lavoro più equilibrato degli storici che mostri le pecche della storia islamica e africana almeno in tema di sviluppo, agli occhi della gente semplice sarà sempre troppo facile rifugiarsi nel vittimismo e dimenticare di essere stati anche carnefici e corresponsabili del mancato sviluppo.
Si pensi al colonialismo arabo-musulmano che, dal VII secolo in poi, ha diviso l’Africa dall’Europa, portando alla scomparsa delle culture tradizionali di tanti popoli – si pensi solo alla sottomissione araba dei berberi - e portando alla quasi totale scomparsa della presenza cristiana che invece avrebbe giovato ad un progresso più libero di quelle società.
Si pensi all’immensa tratta schiavista islamica prima araba e poi turca che dal VII secolo al XX ha flagellato l’Africa nera, precedendo e seguendo quella portoghese, spagnola e inglese.
Si pensi alle lotte tribali interne alle popolazioni africane, con imperi e regni che si sono asserviti a vicenda ben prima dell’arrivo degli occidentali.
Come è esistito ed esiste un colonialismo occidentale, così è esistito ed esiste un colonialismo islamico e arabo ed esiste ed è esistito un colonialismo intertribale.
Lo sfruttamento economico poi gli uni degli altri è certamente causato anche dell’occidente, ma è stato ed è allo stesso tempo presente in tutte queste culture.
Ma si pensi anche al colonialismo del blocco sovietico. Nazioni come l'Angola, il Mozambico, l'Etiopia, l'Eritrea hanno sofferto di un colonialismo di stampo comunista che ha soffocato lo sviluppo economico e la libertà culturale di quei paesi. Al tempo della Guerra fredda, Ovest ed Est colonizzavano a loro modo regioni diverse dell'Africa, cercando con armi, soldati e denaro di portarle dalla loro parte. L'Angola, ad esempio, giunse ad avere più di 23.000 soldati cubani "colonialisti" stanziati sul proprio territorio. Tuttora l'Eritrea, una delle più terribili dittature africane dalla quale provengono moltissimi dei migranti e dei profughi, conserva il carattere militarista del comunismo che lo tiranneggiò: i giovani, costretti ancora oggi a tempo indeterminato alla leva militare e oppressi anche quanto a libertà religiosa da uno stato ateistico, cercano di fuggire in Europa per trovare libertà da quel colonialismo di stampo materialista.
Oggi, poi il colonialismo prende nuovi nomi e nuovi volti, poiché sono la Cina, l’India e i paesi arabi del golfo ad essere entrati a pieno titolo nel club del Nord del mondo e il loro potere è certamente oggi immensamente più grande di quello del sud dell’Europa (Grecia, Italia e Spagna).
Inoltre l’enorme corruzione dei governi africani e medio-orientali è una delle cause determinanti della povertà di ampie fasce di popolazione in quelle nazioni: il divario fra ricchi e poveri è molto più alto nei paesi del Golfo o dell’Africa, ma anche in Cina e India, rispetto all’Europa, ed è molto più alto del divario economico fra quei paesi e l’Europa stessa[7].
Tutto il discorso costruito in passato intorno ai concetti di Nord e Sud del mondo è in corso di rapida revisione, poiché al nord del mondo appartengono ormai paesi nuovi, dal Brasile, alla Cina, all’India, ai paesi arabo-musulmani, mentre ne stanno uscendo diverse nazioni occidentali, fra le quali l’Italia[8]. Se il migrante ritiene ancora che un viaggio in Italia possa essere per lui motivo di promozione sociale, non così lo consiglierebbe un esperto di politiche lavorative che lo inviterebbe, invece, a recarsi in Arabia Saudita, in Iran o in Kuwait.
Gli intellettuali summenzionati non intendono minimamente relativizzare le responsabilità colonialiste europee - e noi con loro - , ma intendono al contempo mettere in rilievo il colonialismo tipico dei paesi nord-africani e islamici.
Intendono soprattutto insistere sul fatto che non si può attribuire solo a cause esterne il mancato sviluppo culturale, bensì ci si deve domandare se non sia la propria religione o la propria cultura (o almeno il modo di intenderle in determinate epoche) ad essere al contempo – e forse più ancora che il colonialismo occidentale – causa dei debolissimi investimenti in chiave educativa, nei confronti delle nuove generazioni e delle donne in particolare.
Affermano questo non per essere meno critici verso l’occidente, bensì perché ritengono che solo una critica ai propri paesi e alla loro politica culturale, come alla visione dei propri capi religiosi, permetterà uno sviluppo reale.
Papa Francesco, proseguendo la linea di richiesta di perdono già fatta propria dal Concilio e da Giovanni Paolo II, continua a ripete con sapienza ai cristiani e all’occidente che, nonostante le innumerevoli storie di santità e di carità, ci sono stati torti perpetrati da occidentali e anche da cristiani e questo suo atteggiamento non deve essere interpretato come un disprezzo della fede di cui lui stesso è il padre e il custode: ebbene i paesi islamici, i paesi del nord Africa e dell’Africa intera hanno bisogno di simili leader religiosi che sappiano mostrare le pecche della propria storia, non per un disprezzo verso di essa, bensì in vista di quella conversione che sola permette lo sviluppo.
Il vittimismo, poi, oltre ad essere falso e improduttivo, ha oggi una conseguenza devastante che deve essere tenuta presente da chi scrive di tali questioni. Il vittimismo ingenera desideri di ribellione e, a volte, di vendetta e invita a farsi “giustizia” da soli, facendo sì che il violento si senta nel giusto, anzi si senta il “solo” giusto, proprio perché ribelle violento contro i “malvagi”.
In un tempo di fondamentalismi, anzi, il vittimismo è l’arma psicologica più utilizzata dai violenti per reclutare giovani. Proprio facendo forza su reali e presunti torti subiti si invitano i giovani alla violenza contro chiunque, anche contro la popolazione civile, convincendoli della necessità di gesti estremi come l’unica via possibile per eliminare gli “altri”, personificazione del male, cioè coloro che hanno sempre attentato a “noi”, figli del bene.
Invece, la riflessione culturale occidentale - e la sua traduzione a livello educativo nella scuola - insegna sempre più alle nuove generazioni a riconoscere le proprie colpe, le colpe del proprio paese, le responsabilità della propria religione. Proprio questa via porta ad una visione diversa dell’“altro”. La via del vittimismo, invece ingenera risultati opposti nelle culture “altre”, anch’esse bisognose di riconoscere le proprie violenze storiche e le proprie colpe nel mancato sviluppo, mentre certamente non mancano di additare quelle degli altri, come il colonialismo e lo schiavismo occidentali.
Non si dimentichi mai, per comprendere l’importanza di uscire dalla logica indolente e violenta del vittimismo, che esistono atteggiamenti differenti in persone diverse che pure appartengono agli stessi paesi. Gli stessi intellettuali sopra citati lottano per un’evoluzione non violenta e per sostenere politiche culturali di maggiore apertura e di accesso a studi per giovani e donne. Lottano per una libertà di studio e perché le popolazioni si liberino da stili vessatori e tribali, come da imposizioni religiose. Sono espressioni di quelle culture, ma non vittimisti.
Anche la presenza dei cristiani indigeni di quei paesi - si pensi ai cristiani palestinesi o arabi - mostra che, pur nell’identica condizione di sudditanza, ben diversi possono essere gli esiti se si esce dal vittimismo: chi è di cultura cristiana spinge sempre a rifiutare qualsiasi tipo di soluzione violenta e ad accrescere il grado di istruzione laica, facendo sì che più uno diviene radicalmente cristiano più scelga atteggiamenti politici realistici, capaci di dialogo, rifiutando ogni assenso, anche solo implicito, a qualsiasi esito che tenda alla violenza. La presenza cristiana araba ed africana pone la questione del radicalismo religioso e del suo influsso positivo o negativo negli atteggiamenti di vittimismo: infatti, nel caso del cristianesimo, più uno si converte radicalmente a Gesù, più esige giustizia, ma con i mezzi della politica e del dialogo, desideroso di una maggiore istruzione libera dei suoi figli, sempre pronto personalmente al perdono.
Tale esito è un ulteriore rifiuto del vittimismo ed una scoperta del ruolo attivo della religione vissuta in modo radicale che inviti ad assumersi le proprie responsabilità nel campo della cultura e della pace, mentre si denunciano i torti altrui.
Fondamentale è che il vittimismo sia bandito in ogni vero modello educativo. Se una seria ricerca storica deve portare ad ammettere le responsabilità altrui nel mancato sviluppo, essa deve al contempo aiutare a comprendere le proprie colpe in tale ritardo: solo questa duplice ed equilibrata visione garantisce una visione culturale e religiosa che rifugga dalla violenza e anzi la combatta all’origine.
Il ripetere il mantra del vittimismo e del capro espiatorio è, invece, il modo migliore per soffiare sul fuoco: qualunque intellettuale dipinga il mondo in tinte di bianco contro nero si rende oggi corresponsabile del dilagare della violenza e, soprattutto, non aiuta i popoli che dichiara di amare a crescere e a maturare. Solo da una scelta profonda e consapevole di voler porre in atto uno sviluppo culturale ed economico può nascere un reale progresso.
È sempre più facile individuare un nemico esterno a sé che lavorare sul proprio cuore e sulla propria religione e cultura.
N.B.
Anche la storia marxista ha conosciuto l’utilizzo del vittimismo in chiave rivoluzionaria. Un esempio: i terroristi marxisti di Sendero Luminoso in Perù assassinarono il prete missionario don Alessandro Dordi, poiché egli aiutava i campesinos ha studiare, a lavorare la terra più proficuamente, a creare reti di aiuto e di solidarietà, ad accrescere la propria ricchezza con i propri mezzi, oltre che annunziare loro la fede. Per Sendero Luminoso questo lavoro di sviluppo del popolo era “pericoloso” perché allontanava i contadini dalla rabbia che li avrebbe spinti alla rivolta. Per loro era meglio mantenere la popolazione nella fame, purché crescesse la rabbia: chi lavorava concretamente allo sviluppo andava eliminato.
2/ Chi è oggi colonialista?, di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Non è mai tempo perso provare a precisare chi sia il “colonialista” che viene accusato di aver rovinato e di rovinare tuttora culture e paesi, decretando la fine delle tradizione locali ed impedendo uno sviluppo conforme alla storia locale.
Nel passato, infatti, spesso sono stati i missionari cristiani a preservare dal “colonialismo”, a fare di tutto per conservare i costumi positivi ed i valori delle culture tradizionali, portandovi certo il cristianesimo, ma in modo che esso salvasse tutto ciò che c’era di buono nelle tradizioni linguistiche e familiari, nel rapporto fra anziani e giovani, nell’afflato umano e religioso. Essi si sono spessissimo opposti a gruppi laici, interessati solamente al guadagno economico, che invece intendevano sfruttare senza ritegno le popolazioni locali. I missionari si sono sempre distinti poi, nel secolo scorso, per il contributo che hanno dato alla conquista dell’indipendenza delle diverse nazioni, lavorando alla fuoriuscita dal colonialismo.
Oggi poi il colonialismo è non solo quello islamico che tende a livellare le culture locali, come, ad esempio, quella berbera, a partire dai precetti coranici, ma ancor più quello dei media e quello delle visioni libertarie in campo affettivo e familiare che destabilizza le tradizioni tipiche di paesi e tribù.
Si peni all’effetto devastante della TV e degli smartphone che impongono modelli culturali alieni agli antichi rapporti di fedeltà e di onore presenti in tante popolazioni. Ma si pensi anche alle politiche sulla sessualità imposte da altissimi organismi internazionali che offrono aiuti umanitari solo a condizione che le popolazioni locali accettino di lavorare sui temi del gender o sulla contraccezione, venendo meno a tradizioni secolari in materia.
Il lato colonialista dell’occidente spesso deve essere identificato spesso con tutte quelle agenzie laiche che vorrebbero che tutti aderissero ai must della cultura digitale e libertaria, rinnegando tradizioni millenarie basate sui legami familiari.
Molta della povertà in cui versano bambini e giovani soli nelle periferie di tante città africane deriva anche dalla dissoluzione di quel patrimonio umano che un tempo sorreggeva le persone anche in condizioni di estrema povertà, prima dell’incontro con altri mondi (si pensi alla situazione economica nel cuore dell’Africa nera prima della sua scoperta da parte del resto del mondo nella seconda metà dell’ottocento).
Riprendiamo sul nostro sito la catechesi tenuta da papa Francesco nell’udienza generale del 27/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi vorrei soffermarmi con voi sul significato del Natale del Signore Gesù, che in questi giorni stiamo vivendo nella fede e nelle celebrazioni.
La costruzione del presepe e, soprattutto, la liturgia, con le sue Letture bibliche e i suoi canti tradizionali, ci hanno fatto rivivere «l’oggi» in cui «è nato per noi il Salvatore, il Cristo Signore» (Lc 2,11).
Ai nostri tempi, specialmente in Europa, assistiamo a una specie di “snaturamento” del Natale: in nome di un falso rispetto che non è cristiano, che spesso nasconde la volontà di emarginare la fede, si elimina dalla festa ogni riferimento alla nascita di Gesù. Ma in realtà questo avvenimento è l’unico vero Natale! Senza Gesù non c’è Natale; c'è un'altra festa, ma non il Natale. E se al centro c’è Lui, allora anche tutto il contorno, cioè le luci, i suoni, le varie tradizioni locali, compresi i cibi caratteristici, tutto concorre a creare l’atmosfera della festa, ma con Gesù al centro. Se togliamo Lui, la luce si spegne e tutto diventa finto, apparente.
Attraverso l’annuncio della Chiesa, noi, come i pastori del Vangelo (cfr Lc 2,9), siamo guidati a cercare e trovare la vera luce, quella di Gesù che, fattosi uomo come noi, si mostra in modo sorprendente: nasce da una povera ragazza sconosciuta, che lo dà alla luce in una stalla, col solo aiuto del marito... Il mondo non si accorge di nulla, ma in cielo gli angeli che sanno la cosa esultano! Ed è così che il Figlio di Dio si presenta anche oggi a noi: come il dono di Dio per l’umanità che è immersa nella notte e nel torpore del sonno (cfr Is 9,1). E ancora oggi assistiamo al fatto che spesso l’umanità preferisce il buio, perché sa che la luce svelerebbe tutte quelle azioni e quei pensieri che farebbero arrossire o rimordere la coscienza. Così, si preferisce rimanere nel buio e non sconvolgere le proprie abitudini sbagliate.
Ci possiamo chiedere allora che cosa significhi accogliere il dono di Dio che è Gesù. Come Lui stesso ci ha insegnato con la sua vita, significa diventare quotidianamente un dono gratuito per coloro che si incontrano sulla propria strada. Ecco perché a Natale si scambiano i doni. Il vero dono per noi è Gesù, e come Lui vogliamo essere dono per gli altri. E, siccome noi vogliamo essere dono per gli altri, scambiamo dei doni, come segno, come segnale di questo atteggiamento che ci insegna Gesù: Lui, inviato dal Padre, è stato dono per noi, e noi siamo doni per gli altri.
L’apostolo Paolo ci offre una chiave di lettura sintetica, quando scrive - è bello questo passo di Paolo -: «È apparsa la grazia di Dio, che porta la salvezza a tutti gli uomini e che ci insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tt 2,11-12). La grazia di Dio “è apparsa” in Gesù, volto di Dio, che la Vergine Maria ha dato alla luce come ogni bambino di questo mondo, ma che non è venuto “dalla terra”, è venuto “dal Cielo”, da Dio. In questo modo, con l’incarnazione del Figlio, Dio ci ha aperto la via della vita nuova, fondata non sull’egoismo ma sull’amore. La nascita di Gesù è il gesto di amore più grande del nostro Padre del Cielo.
E, infine, un ultimo aspetto importante: nel Natale possiamo vedere come la storia umana, quella mossa dai potenti di questo mondo, viene visitata dalla storia di Dio. E Dio coinvolge coloro che, confinati ai margini della società, sono i primi destinatari del suo dono, cioè - il dono - la salvezza portata da Gesù. Con i piccoli e i disprezzati Gesù stabilisce un’amicizia che continua nel tempo e che nutre la speranza per un futuro migliore. A queste persone, rappresentate dai pastori di Betlemme, «apparve una grande luce» (Lc 2,9-12). Loro erano emarginati, erano malvisti, disprezzati, e a loro apparve la grande notizia per prima. Con queste persone, con i piccoli e i disprezzati, Gesù stabilisce un’amicizia che continua nel tempo e che nutre la speranza per un futuro migliore. A queste persone, rappresentate dai pastori di Betlemme, apparve una grande luce, che li condusse dritti a Gesù. Con loro, in ogni tempo, Dio vuole costruire un mondo nuovo, un mondo in cui non ci sono più persone rifiutate, maltrattate e indigenti.
Cari fratelli e sorelle, in questi giorni apriamo la mente e il cuore ad accogliere questa grazia. Gesù è il dono di Dio per noi e, se lo accogliamo, anche noi possiamo diventarlo per gli altri - essere dono di Dio per gli altri - prima di tutto per coloro che non hanno mai sperimentato attenzione e tenerezza. Ma quanta gente nella propria vita mai ha sperimentato una carezza, un'attenzione di amore, un gesto di tenerezza... Il Natale di spinge a farlo. Così Gesù viene a nascere ancora nella vita di ciascuno di noi e, attraverso di noi, continua ad essere dono di salvezza per i piccoli e gli esclusi.
[…]
[Un saluto di cuore rivolgo ai pellegrini di lingua tedesca. Il Mistero di Natale deve anche aver luogo in ciascuno di noi, come ha detto il Pellegrino Cherubico: «Ah potesse diventare il tuo cuore una mangiatoia, Dio nascerebbe bambino di nuovo sulla terra». Il Signore ci accompagni a portare la sua pace e il suo amore agli uomini e donne del nostro tempo.]
[…]
أرحب بمودة بالحاضرين الناطقين باللغة العربية، وخاصة بالقادمين من سوريا، ومن العراق، ومن الأراضي المقدسة، ومن الشرق الأوسط. ميلاد يسوع هو التحقيق التام لوعود الله. إن الله لا يحب بالكلام، فمحبته لا تكتفي بإرسال الأنبياء أو الرسل أو النصوص، بل تدفعه إلى تبني ضعفنا وحالتنا البشرية ليرفعنا إلى مرتبة الكرامة البنوية المفقودة. إن تجسد الله هو الدليل على صحة محبته، فالشخص الذي يحب حقًا يتوحد تمامًا مع مَن يحب. ليبارككم الرب جميعا وأطيب التمنيات بعيد ميلاد مجيد وسنة سعيدة!
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua araba, in particolare quelli provenienti dalla Siria, dall’Iraq, dalla Terra Santa e dal Medio Oriente. La nascita di Gesù è il compimento delle promesse divine. Dio non ama a parole, il Suo amore non si limita all’invio di profeti, messaggeri o testi, ma Lo porta ad abbracciare la nostra debolezza e la nostra condizione umana per sollevarci alla dignità filiale perduta. L’incarnazione di Dio è la prova certa dell’autenticità del Suo amore, Chi ama veramente si immedesima con l’amato. Il Signore vi benedica e tanti auguri di glorioso Natale e felice anno nuovo!]
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, vedi la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Il prof. Sergio Lanza, docente di teologia pastorale presso l’Università Lateranense di Roma scomparso alcuni anni fa, ha lungamente riflettuto sul metodo “vedere-giudicare-agire”, cercando di precisare quale sia il metodo corretto da usare in teologia pastorale per discernere la volontà di Dio nelle scelte ecclesiali.
Lanza insegnava che sussiste fra teoria e prassi un ruolo di reciprocità non asimmetrica. Perché, in realtà, non esiste uno sguardo oggettivo, ma il “vedere” è necessariamente condizionato dalle pre-comprensioni di colui che guarda. L’atteggiamento metodologicamente corretto non è, dunque, una pretesa “oggettività scientifica” del vedere, bensì un’esplicitazione dei presupposti a partire dai quali si indaga il reale.
Ad esempio: poiché lo sguardo credente insegna che il male presente nella società dipende da una ferita del cuore umano, questo dona una luce per leggere i dati sull’ingiustizia presenti nella realtà. Il sociologo individuerà alcune cause della violenza in determinati contesti economici, il credente saprà bene, invece, che può essere l’inverso e che determinati contesti economici dipendono dal fatto che una certa visione della vita data da una cultura o da una religione sono la vera causa dello squilibrio economico. Tutto questo non è un a priori: bisognerà di volta in volta operare un discernimento per comprendere qual è la causa profonda di una situazione e, quindi, quali le azioni da porre in atto. Ciò che conta è la consapevolezza che il “vedere” non è neutro, ma dipende dai criteri con cui si interroga la realtà.
Il “vedere” così, è già un “giudicare”, poiché non si registra semplicemente la realtà, bensì la si registra relativizzando i presupposti sociologici, e tenendo presenti invece quelli culturali e spirituali. Per vedere occorre una asimmetria nel rapporto fra dato teologico e dato scientifico per cogliere qualcosa che lo sguardo scientifico non è in grado di cogliere. In questa maniera non si nega il “vedere”, bensì si “vede” il reale anche con gli occhi della fede.
“Vedere” e “giudicare” non sono così, per Lanza, due tappe di un processo, bensì due dimensioni costitutive del processo di decisione pastorale.
La critica di Lanza si rivolge giustamente al fatto che, nelle analisi pastorali a partire dagli anni sessanta e settanta, la sociologia è stata la “scienza” determinante: ma proprio l’analisi sociologica si è rivelata spesso non scientifica e non “realista” – si pensi alle tante “profezie” sociologiche fallite sulla scomparsa del religioso nel mondo post-moderno - proprio perché anche la sociologia ha letto il reale a partire dai suoi punti di vista filosofici e valoriali, mischiando così “vedere” e “giudicare”.
Oggi è evidente a tutti i ricercatori, ad esempio, che le analisi di Z. Bauman sulla società liquida non sono delle analisi scientifiche, bensì sono tesi filosofiche di un autore che desiderava che la società fosse liquida e che, quindi trascurava nelle sue presentazioni della società post-moderna tutti quei dati che si opponevano alla sua teoria. Egli leggeva come dati trascurabili e connotati in maniera negativa tutti quei fenomeni che mostravano la presenza di persone e gruppi percentualmente consistenti che si opponevano alla liquidità: uno sguardo asimmetrico che conferisca importanza al dato di fede, può invece riconoscere, più liberamente di Bauman costretto dal suo pensiero troppo ideologico, che la presenza nel sociale di percentuali numerose che cercano la verità in campo esistenziale e religioso non è un dato “reazionario” e in contro-tendenza, bensì corrisponde ad una esigenza dell’uomo che è insopprimibile, nonostante le tesi sociologiche intendano ridicolizzare tali posizioni che sono evidenti in ambito sociale.
Per fornire un secondo esempio, si può pensare alle tesi della sociologa Hervieu-Léger le cui analisi della condizione ecclesiale in Europa sono chiaramente influenzate dalla sua visione, legittima ma personale, del futuro del cristianesimo[1].
Lanza però riteneva saggiamente che, se il dato sociologico, essendo troppo spesso ideologico, spinge a trascurare il dato teologico, così anche il dato teologico può portare in molti autori a sottovalutare l’invece prezioso dato sociologico. Se è vero che solo la presenza di Cristo in una determinata cultura permette che alcune situazioni si sblocchino è anche vero che ciò non è garantito. Il dato scientifico - ad esempio quello dello squilibrio economico - è importante e non deve essere trascurato. A volte un’azione pastorale fallisce esattamente perché non vede quel dato, perché non riflette, prima di agire, su quello squilibrio.
Per Lanza, insomma, nel “vedere” c’è già un “giudicare”, poiché si vede a partire da uno sguardo già educato: solo questa consapevolezza permette di evitare un riduzionismo del dato, quasi che esso possa essere letto oggettivamente, a prescindere dalla fede.
Ad esempio, tutto cambia se si “guarda” la realtà con uno sguardo che contempla l’idea di “redenzione” che deve essere operata dalla grazia o se la si guarda semplicemente con l’idea di “emancipazione” che l’uomo sarebbe in grado di realizzare da solo con un’azione sociale. I due sguardi ben diversi modificano l’analisi stessa del reale e, ovviamente, ancor più l’azione pastorale che si intende porre in atto: si può così puntare ad una azione che cambi la visione religiosa nei cuori, oppure ad uno sguardo che si incentri su di un’azione più politica, oppure si può decidere un mix delle due. Solo un “discernimento” concreto permette di decidere un’azione pastorale ed essa non è un procedimento matematico che conduca infallibilmente dal “vedere” al “giudicare” all’“agire”.
Inoltre l’“agire” non è qualcosa – secondo Lanza – che possa essere semplicemente dedotto dall’aver “giudicato”. L’“agire” implica sempre uno spazio di creatività e di libertà laicale, per il quale non esiste induzione, né deduzione possibile che faccia passare dal reale all’azione (induzione) o dai valori all’azione (deduzione), bensì esiste un che di imponderabile e di libero che può essere apportato solo dal discernimento secondo lo Spirito e nella libertà.
Il rischio del metodo “vedere-giudicare-agire” è quello di un induttivismo che pensi di poter risalire “scientificamente” dai dati all’azione pastorale. Lanza ha sempre ricordato come la filosofia della scienza moderna abbia negato questo modo di procedere, consapevole che le grandi scoperte scientifiche dipendono invece da una intuizione che supera i dati empirici.
Ma d’altro canto, nemmeno è valido un metodo deduttivo che pensi di agire pastoralmente a partire da determinati principi, deducendone le azioni da compiere in successione. La filosofia della scienza moderna nega anche questa via. Se la scienza non procede per induzione, essa non procede nemmeno per deduzione.
Esiste, invece, nella scienza come nella pastorale un circuito virtuoso da attuare fra teoria e prassi, poiché non è possibile passare né dalla prima alla seconda, né dalla seconda alla prima in maniera diretta: in teologia pastorale nessun metodo induttivo e nessun metodo deduttivo ha mai funzionato bene.
Lanza ricordava anche un limite del metodo deduttivo: l’incapacità di rendere conto della complessità del reale. Più recentemente Flavio Felice ha aggiunto a tale riflessione il concetto di “effetti non intenzionali del processo”. Se un determinato protagonista pastorale elabora un processo, ecco che esso avrà necessariamente degli effetti non intenzionalmente previsti che lo condizioneranno e che genereranno degli effetti collaterali che obbligheranno a continue correzioni di rotta. Anche per questo nessun metodo deduttivo funziona in pastorale.
Nei testi che seguono vogliamo lasciare le parole allo stesso Lanza.
1/ Albert Einstein contro il metodo induttivo
Vale la pena innanzitutto leggere un testo nel quale egli mostra di aver recepito la lezione della filosofia della scienza, oggi consapevole che non si giunge alle grandi scoperte per via induttiva[2]:
«È istruttivo ascoltare a questo proposito una voce autorevole, quella di Albert Einstein: «L’immagine più semplice che ci si può formare dell’origine di una scienza empirica (Erfahrungswissenschaft) è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare - in considerazione dell'insieme disponibile dei singoli fatti - un insieme più o meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo ai singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo. Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare dal mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza fatti i quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi?
Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della caduta libera dei gravi senza l'idea preconcetta stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo siano complicati dall'azione della resistenza dell'aria, nondimeno noi consideriamo cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente nullo. I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell'induzione. Una concezione (Erfassung) intuitiva dell’essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta (Aufstellung) di un principio (Grundlage) ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso tramite sviluppi e calcoli noiosi, vengono poi messe a confronto con l'esperienza e forniscono così un criterio per la giustificazione (Berechtigung) del principio ammesso.
Il principio (assiomi) e le conseguenze formano insieme quella che si dice una 'teoria'. Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura - per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l'elettrodinamica moderna ecc. - hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica.
Il ricercatore parte dunque sempre dai fatti, il cui nesso costituisce lo scopo dei suoi sforzi. Ma egli, tuttavia, si avvicina ai fatti tramite una scelta intuitiva tra teorie pensabili basate su assiomi.
Una teoria può ben venir riconosciuta come sbagliata, qualora ci sia un errore logico nelle sue deduzioni o può venir riconosciuta come inadeguata (unzutreffende) allorché un fatto non si accorda con una delle sue conseguenze. Ma mai può venir dimostrata la verità in una teoria. E ciò perché mai si sa se anche nel futuro non si scoprirà nessuna esperienza che contraddica le sue conseguenze; e sono sempre pensabili altri sistemi di pensiero, in grado di connettere gli stessi fatti dati. Se sono a disposizione due teorie, entrambe compatibili con il materiale fattuale dato, allora non esiste nessun altro criterio per preferire l'una all'altra fuorché lo sguardo intuitivo del ricercatore. E così che si capisce come acuti ricercatori i quali dominano teorie o fatti possano tuttavia essere appassionati sostenitori di teorie opposte.
In questa agitata epoca io sottopongo al lettore le presenti brevi, oggettive considerazioni, giacché io sono dell'avviso che per mezzo della silenziosa dedizione a scopi eterni, comuni a tutte le culture umane, si può oggi essere più attivamente utili al risanamento politico che attraverso le trattazioni e le professioni politiche»[3].
2/ Il discernimento e la memoria storica della chiesa elaborata nella tradizione
Un secondo testo mostra l’asimmetria del dato teologico presente nel “vedere” pastorale: il discernimento non è semplicemente “moderno”, ma attinge alla ricchezza della tradizione ecclesiale che ha già sperimentato determinate crisi e passaggi, che conosce i motivi del crearsi di determinate situazioni. Il “vedere” del discernimento pastorale non bypassa quindi la tradizione cristiana, ma sa recepire da essa criteri già sperimentati per comprendere il volere di Dio:
«Il discernimento opera sul filo della memoria storica; è, in altri termini, atto di tradizione: «la nostra interpretazione deve sempre aver presente: la continuità della storia della salvezza, come si manifesta in forma più eminente nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento; l’analogia della fede; il magistero della Chiesa; e i giusti dettami della prudenza umana (GS 4.11.37)»[4].
Al dato tradizionale si aggiunge così il risvolto antropologico-culturale e l'esplicito riferimento ecclesiale. Il discernimento fa tesoro della esperienza consolidata: fa riferimento all'orizzonte interpretativo dell'esistenza umana in cui la fede cristiana incontra la riflessione della filosofia e delle scienze umane e considera attentamente il momento giuridico e normativo.
Mette al primo posto, inoltre, il bene fondamentale della comunione ecclesiale, che non deve mai per nessuna ragione essere lacerata.
Nessuno di questi fattori costituisce, come si è detto, una regola da applicare meccanicamente. Le Scritture, ad esempio, illuminano e guidano il discernimento, ma esigono a loro volta discernimento, perché vi si possa udire la voce non contraffatta di Dio e scorgere il progetto autentico di salvezza. Anche i criteri ecclesiali della edificazione e dell'utilità comune, così come quelli spirituali e pastorali della diaconia e della corresponsabilità, non sono ricette di immediata applicazione pratica: orientano il discernimento e, a loro volta, lo esigono. Ciò non produce incertezza o evasività, ma impone l'umiltà, la fatica, e anche il rischio, di una ricerca incessante, che non parte mai da zero, ma non è mai definitivamente conclusa»[5].
3/ Il metodo “vedere-giudicare-agire”
In un terzo testo Lanza affronta direttamente la questione del metodo “vedere-giudicare-agire” sottolineando il valore positivo di tale proposta, ma anche i limiti ove non si sia avvertiti che non si tratta di una successione di tappe, bensì di una compresenza di dimensioni:
«È questione di prospettiva, dunque; ma, e non meno, di metodologia. Il modo di procedere, infatti, non ha valenza tecnico-pratica, ma sempre individua un modo di vedere e, a sua volta, in qualche modo contribuisce a crearlo.
È frequente constatare, p.e., una netta scollatura tra la fase analitica e quella progettuale propriamente detta: l'analisi e valutazione (quando c'è) della situazione, infatti, non influisce sulla determinazione degli obiettivi e delle scelte, che sono ritenute (o così si dichiara e si crede) nell'ambito della fede. Raramente si determinano le priorità pastorali attraverso una valutazione situata, ben connessa, cioè, alla situazione: la pastorale è chiamata a decidere che cosa è più importante e urgente non in sé, ma in relazione alle esigenze reali di quella comunità o di quella persona: mettendo quindi in relazione di reciprocità i principi e i valori assoluti con la situazione sul campo (p.e., gli argomenti da proporre nella catechesi), la loro sequenza, il loro spazio non può essere determinato deduttivamente, come "calco" dai manuali dottrinali, né per semplice adattamento didattico, ma solo attraverso una programmazione pedagogica che coniughi sapientemente le diverse esigenze in gioco, senza mai piegare o ridurre l'una all'altra. Così è pastoralmente del tutto improprio (e spesso errato) parlare di "primati": ciascuno ha i suoi (liturgia o catechesi; adulti o giovani; carità o annuncio ...), con relative, inutili diatribe. Ne viene una progettazione mutila o, per converso, astratta, che si mantiene sulle generali, sia perché non entra nei problemi e nelle questioni reali (così non si scontenta nessuno: chi non è d'accordo sulla solidarietà, la pace, la vita ... come valori da proporre e difendere?), sia perché si estende a dismisura (così si accontentano tutti: si amplia a dismisura il ventaglio delle problematiche e delle connessioni pastorali, in modo che nessuno si senta escluso dal progetto). Qui la ricerca di criteri operativi fondati, certo non facile, è perlopiù lasciata a evocazioni di prammatica, che lasciano il tempo che trovano. E, naturalmente, nessuna verifica, che metterebbe a nudo l'inconsistenza dell'insieme.
Si deve perciò ribadire la larga insufficienza del metodo deduttivo-applicativo, Ma anche il metodo vedere/giudicare/agire presenta non poche carenze.
La progettazione - intesa in senso stretto come momento specifico di elaborazione del progetto - vive soltanto se inserita in una sequenza metodologicamente compiuta e corretta, che corrisponde specularmente, di fatto, alla metodologia propria della riflessione teologico- pastorale: essa può venir sinteticamente disposta in tre fasi o momenti, così distinti:
- analisi e valutazione
- decisione e progettazione
- attuazione e verifica.
Senza l'accurata messa in atto di questi tre essenziali momenti - ciascuno con le proprie specifiche esigenze e caratteristiche - non è possibile parlare di progettazione pastorale.
Le tre fasi corrispondono solo numericamente al classico trinomio: vedere - giudicare - agire, al quale va riconosciuto l'indubbio meriti storico di aver dato veste metodologica non evanescente alla riflessione pastorale; ma che presenta più di un limite e difetto. Non si dà un "vedere" che si ponga sul piano meramente descrittivo e non implichi, invece, fin dall'inizio, una precisa prospettiva di lettura (precomprensione/interesse) e una almeno iniziale (anche se magari inconscia) attivazione di criteri interpretativi. Questa aporia (illusione positivistica o "neorealistica") è tanto più insidiosa quando affida alla sociologia (erroneamente supposta obiettiva e "innocente") il compito di fotografare e dire la realtà: non esiste sociologia neutrale e innocente! (Si ricordino le osservazioni fatte a proposito delle deviazioni metodologiche di una parte della cosiddetta teologia della liberazione). Rischio di ideologia!
La lettura della situazione deve essere condotta teologicamente fin dal primo istante dell'itinerario riflessivo teologico-pastorale.
Tale metodo, inoltre, appare di fatto impraticabile. Si veda, p.e., Effatà, Apriti, lettera pastorale del card. Martini sul comunicare (1990). Benché scandita, dopo una premessa e una introduzione, secondo il classico trinomio, essa presenta fin dalle prime battute elementi espliciti di interrogazione critica e di interpretazione: siamo di fronte a un modo di procedere corretto, ma con un riferimento metodologico improprio.
Di fatto, il classico trinomio individua non la scansione sequenziale dell'itinerario metodologico, ma la costituzione stessa del pensare la pastorale. Si tratta cioè di componenti (o dimensioni) costitutive che qualificano il pensiero teologico-pratico in ogni sua fase o momento. Le tre dimensioni sono come le "componenti chimiche" del pensiero teologico-pastorale. Lo qualificano e lo determinano nella sua figura epistemica appropriata.
Possiamo denominarle dimensione kairologica, operativa, criteriologica. La prima dice la relazione specificamente teologica alla situazione; la seconda il riferimento costante all’azione ecclesiale, cui tutta la riflessione teologico-pastorale è volta. La dimensione criteriologica, infine, indica la specifica determinazione dei criteri (di analisi, decisione, progettazione, attuazione e verifica): criteri che, per il legame inscioglibile con la situazione e l'azione, potranno essere correttamente determinati soltanto in figura di interdisciplinarità (reciprocità dialettica asimmetrica[6] del dato di fede e del dato antropologico).
Queste tre dimensioni, inoltre, si richiamano costantemente, si coappartengono: esse si radunano e concentrano nella elaborazione criteriologica, che costituisce il nucleo qualificato e il centro focale della elaborazione teologico-pastorale. Nel metodo vedere giudicare agire, invece, le fasi di progettazione e attuazione, ristrette nella sola indicazione "agire", non vengono svolte nella loro specificità e nelle necessarie articolazioni: rischiano cioè di essere assorbite o nella (presunta) oggettività del vedere, o nella (impropria) ideologia del giudicare. Come si è detto, le dimensioni non si dispongono in sequenza, ma sono presenti in tutte le fasi dell'itinerario. La dimensione kairologica indica fondamentalmente che per pensare correttamente la pastorale è necessario porsi sempre (e non solo nella prima e ultima fase, come vuole il metodo vedere - giudicare - agire) in relazione con la situazione; dice inoltre (per questo la si chiama kairologica) che tale approccio alla realtà è sempre connotato dalla fede e ha quindi valenza teologica specifica, e non solo accessoria o derivata.
La progettazione pastorale - è opportuno ribadirlo - non è operazione di tecnologia pastorale, anche se richiede l'attivazione di tutte le migliori energie e competenze disponibili. È, piuttosto, espressione di teologia e, se si vuole, di sapienza e di arte.
Ciò non significa che essa non sappia ben precisare gli elementi che la caratterizzano e, in qualche modo, la costituiscono:
- Obiettivi: vengono determinati dopo la lettura teologica della realtà e la decisione pastorale che ne consegue; non ripetono i principi e valori fondamentali, ma li concretizzano in relazione alla situazione specifica; possono essere generali (non generici) o intermedi. Esempio: indicati i connotati che la comunità parrocchiale deve assumere nel suo preciso contesto, si tratterà di cogliere quali aspetti siano più e quali meno carenti, quali più o meno condivisi, quali più o meno facilmente realizzabili, per stabilire obiettivi realistici e reali.
- Tappe: determinano i tempi di realizzazione e prevedono contestuali verifiche; hanno carattere più disteso nel progetto, più ravvicinato e calendarizzato nella programmazione.
- Attori: si individuano le competenze da attivare e/o valorizzare (la buona volontà non basta, anzi il suo eccesso guasta), in riferimento alle reali disponibilità della comunità parrocchiale; con attenzione tuttavia alla più ampia rete della vita zonale e diocesana; e con l'avvertenza a valorizzare risorse presenti sul territorio e troppo spesso trascurate.
- Mezzi e strumenti: vanno specificati con cura, ma senza cadere in perfezionismi tecnocratici; anch'essi si scelgono non secondo una prospettiva ideale, ma in relazione alle reali possibilità della comunità»[7].
Note al testo
[1] Lo ricorda M. Introvigne che così ha scritto: «La sociologa afferma di “(…)guardarsi bene dall’avventurarsi sul terreno teologico e delle prospettive, cui la sociologia è doppiamente estranea”. Così dovrebbe essere: ma in un’opera di questo respiro è inevitabile che emergano anche opinioni personali dell’autrice. Così, non è difficile leggere fra le righe dei capitoli sulla famiglia e sull’ordine naturale per rendersi conto che la sociologa francese considera assurde e anacronistiche le prescrizioni cattoliche [...]. Inoltre, nonostante si affermi di volersi limitare alla diagnosi, emerge qua e là anche qualche elemento di terapia. Le simpatie dell’autrice vanno a quei sacerdoti e vescovi francesi che tacitamente – senza proclamare in modo aperto un dissenso teologico – resistono alle norme “romane” facendo accedere alla comunione i divorziati, adottando posizioni autonome in materia di omosessualità, e così via. “La fine di un mondo – scrive – non è necessariamente la fine del mondo”: la Chiesa di Francia secondo Danièle Hervieu-Léger non ha speranze di riconquistare una posizione culturale e sociale di centralità, ma può sopravvivere attraverso una profonda riforma in cui non solo si proponga come “cattolicesimo fragile” – secondo le proposte di Mons. Simon – ma sia capace di compiere una “(…) rivoluzione ecclesiologica che dia un senso a questa fragilità”. Senza assolutamente forzare il suo discorso, sembra che la sociologa francese pensi qui a una Chiesa di Francia capace di liberarsi delle “(…) costrizioni legate al quadro romano all’interno del quale essa rimane tenuta a esprimersi”, ponendosi in sintonia con l’opinione comune in tempi di “ultramodernità” particolarmente sui temi della morale sessuale, come hanno fatto quelle comunità protestanti che hanno accettato di benedire i matrimoni omosessuali, di “(…) ordinare pastori omosessuali” e così via. Qui si pongono naturalmente problemi teologici e filosofici complessi cui, appunto, “(…) la sociologia è doppiamente estranea”. Vi è tuttavia un terreno su cui la sociologia può invece certamente “avventurarsi”, ed è quello delle previsioni – e, prima ancora, delle constatazioni –relative al successo di proposte teologiche esigenti rispetto ad altre che si limitino a rispecchiare le tendenze prevalenti nell’opinione pubblica postmoderna (o “ultramoderna”). Se vi è un dato che la teoria dell’economia religiosa ha dimostrato con dovizia di dati empirici è che, nelle società contemporanee, vi è una domanda davvero scarsa per forme religiose che si limitino ad applaudire il relativismo morale dominante anziché contestarlo. Ovunque nel mondo le comunità religiose che propongono un accostamento più rigoroso guadagnano membri, mentre quelle lassiste ne perdono» (M. Introvigne, Secolarizzazione, "eccezione europea" e caso francese: una recensione di Europe: The Exceptional Case di Grace Davie e Catholicisme, la fin d'un monde di Danièle Hervieu-Léger).
[2] S. Lanza, Convertire Giona. Pastorale come progetto, Roma Morena, Edizioni OCD, 2005, pp. 113-115.
[3] A. Einstein, Induktion und Deduktion in der Physik, in «Berliner Tageblatt», 25 dicembre 1919: cf D. Antiseri, Epistemologia ed ermeneutica: il problema del metodo in K.R. Popper e H.G. Gadamer, in Aa.Vv., Ermeneutica e razionalità contemporanea, «Hermeneutica. Annuario di Filosofia e Teologia fondato da Italo Mancini», Brescia 1997, 255-275, qui 262.
[4] Sinodo dei vescovi 1980, Post disceptationem. Elenchus propositionum de muneribus familiae christianae in mundo moderno, 24.10.1980, Propositio 5.
[5] S. Lanza, Convertire Giona. Pastorale come progetto, Roma Morena, Edizioni OCD, 2005, pp. 124-125.
[6] Dove la asimmetria conferma e garantisce la specificità e la normatività del dato di fede.
[7] S. Lanza, Progetto, discernimento, verifica pastorale, in Centro Orientamenti Pastorali, Creatività dello Spirito e programmazione pastorale, Atti della XLVIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, Roma, Edizioni Dehoniane Roma, 1998, pp.79-83.
Riprendiamo dal sito CulturaCattolica.it un articolo di Donata Conci pubblicato l’8/8/2009. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Come tutti i grandi scrittori, l’Autrice ha deciso dunque ad un certo momento della sua vita di mettere per iscritto la propria esperienza e ciò che ha appreso, per aggiungere un tassello alla storia di verità che gli uomini di ogni tempo, assieme, pazientemente tessono e costruiscono con la scrittura, e allo stesso tempo per capire sempre più profondamente quello che si cela nella vicenda umana propria e altrui, per chiederne assieme il significato ultimo e il riscatto.
Il romanzo prende avvio con un Prologo in cui l’Autrice racconta di quando era bambina e con la zia Henriette si stava recando alla Basilica di Sant’Antonio a Padova:
“Prendemmo la strada sotto i portici per andare al Santo. Era il 13 giugno, il giorno del mio onomastico. Pioveva, e io non volevo muovermi, ma il nonno Yerwant aveva detto: “È ora che la bambina conosca il suo santo. È già quasi troppo tardi, ha cinque anni. Non sta bene fare aspettare i santi…” (A. Arslan, “La masseria delle allodole”, Rizzoli, 2004, pag. 7).
Ben presto furono raggiunte da nonno Yerwant, uno dei protagonisti della storia narrata, che presa per mano la piccola Antonia, e accompagnatala all’interno della Basilica, le disse:
“Questa Chiesa è come una nave ed è il tuo santo che la guida. Questa chiesa è come un porto ed è il tuo santo che ci accoglie qui dentro e il male resta fuori dal portone. Questa è la casa visibile che conduce alla casa invisibile. Qui tu sarai sempre a casa. Hai sentito quello che ha detto il santo: Dio è consolazione e conoscenza, è vicinanza nella malattia, cuore caldo che batte vicino al tuo. Qui ci sono tutti i nostri morti: la nonna Antonietta, la mia mamma giovinetta, tutti i miei fratelli scomparsi nella deportazione” (Op. cit., pag. 12).
Quindi si incontrarono col Padre provinciale , che rivolgendosi alla piccola la invitò a tornare presto a trovarlo:
“Tu, poiché ti chiami come lui (riferendosi al Santo), e sei donna, hai degli speciali doveri. Ci sono tanti Antonii, ma poche Antonie” (Op. cit., pag. 14).
E forse “quegli speciali doveri” accennati dal frate non andranno del tutto dimenticati nella vita della scrittrice.
Riprendiamo da Avvenire del 23/12/2017 un articolo di Nicoletta Martinelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, cfr. le sezioni Cinema ed Educazione e media.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
«Il crimine rappresentato e raccontato può diventare una sorta di scuola criminale per chi lo osserva?». La domanda se la poneva Roberto Saviano, autore di Gomorra – tanto del libro quanto della fiction, di cui si è appena conclusa la terza serie su Sky – rispondendosi, anche, e archiviandola come un sofismo.
La realtà sembra dargli torto se, come ha denunciato Luigi De Magistris, a Napoli il giorno dopo la messa in onda del serial le aggressioni si moltiplicano, le "stese" come le chiamano in gergo, per intimidire le persone inermi e sfidare le cosche rivali. Le critiche del sindaco a Gomorra, non le prime, parlano di emulazione, di ragazzi che imitano fatti e personaggi del telefilm, e arrivano il giorno dopo l’aggressione (in perfetto stile gomorrese) di un diciassettenne, Arturo: l’ultima delle coltellate ha sfiorato la giugulare. Pochi millimetri hanno fatto la differenza tra la vita è la morte.
Che il male sia l’unico e assoluto protagonista della serie Saviano lo ha sempre sostenuto, andando fiero di essere riuscito a cancellare ogni traccia del bene. Ha un senso: la malvagità nuda e cruda, la miseria umana senza filtri e la spietatezza stomacano, la violenza è respingente. Dopo un po’ non ne puoi più.
O forse no.
«Tocca allo spettatore il compito di capire quanta Gomorra ha dentro», teorizza Saviano. Ne discende che qualcuno si può scoprire invaso, già colonizzato da una brutalità che riconosce e non disconosce. L’eccellenza della serie non aiuta, promuovendo un’estetica del male a prodotto di cassetta, spalleggiata dalle truppe d’assalto della pubblicità e della comunicazione che non sparano a salve. Gli strateghi del marketing – i "persuasori occulti", come li definiva Vance Packard in un saggio del 1957 sul potere della pubblicità, che ha fatto scuola – convincono lo spettatore che non c’è niente di male nell’appassionarsi al male, dandogli ogni strumento per un’immersione più profonda. Sky ha prodotto approfondimenti sul "gomorrese", la parlata dei camorristi, e ogni personaggio ha la sua clip che ne descrive tutti i vizi ma - come da copione - nessuna virtù. Ciascun protagonista ha i propri ammiratori. Sì, ammiratori: perché se proprio non puoi parteggiare per i buoni, finisci che tra i cattivi scegli quello che ti piace. L’assuefazione alla violenza è dietro l’angolo. Come succede con gli zombie di "The Walking Death", altra serie Sky di successo, che dopo due puntate sono solo un sottofondo che non fa paura a nessuno – magari solo un po’ di ribrezzo – anche alla spietatezza ci si abitua, te la aspetti, la digerisci.
Ma se i morti viventi sono una finzione che più finta non si può la camorra è una realtà. Può piacere un cattivo? Eccome! «Totò Riina? Era una brava persona, sentiremo la sua mancanza», si addoloravano, all’indomani della sua morte, senza alcuna vergogna gli anziani di Corleone, i coetanei del boss che un boss – a sentir loro – non era, tantomeno uno spietato assassino. E mentre quelli sproloquiavano seduti su una panchina in piazza, la figlia e il genero di Riina raccoglievano in un’altra piazza – quella digitale – il cordoglio di centinaia di persone, collezionando decine e decine di "like" sulle loro pagine listate a lutto. Quanta Gomorra c’è in quelle persone?
Viene da chiedersi se l’Italia può permettersi un capolavoro come Gomorra, così ben fatto, così attraente: Saviano fa un’apertura di credito al pubblico, partendo dal presupposto che si schifi di fronte a tante nefandezze. Ma il ritmo serrato delle azioni, l’accavallarsi degli omicidi, l’intrecciarsi dei tradimenti non si limita a documentare il male, finisce per mitizzarlo, ricoprendo di un’aura eroica criminali che nella realtà sono ignoranti, spietati, grotteschi e volgari.
Quel che il marketing ha messo in moto attorno a Gomorra è pericoloso, qui molto più che altrove: perché in certe zone del Paese un posto da spacciatore al servizio dal boss è conteso e, se arriva, benedetto. Davanti alla tv, sedotti da Gomorra, non ci sono solo adulti con anticorpi sviluppati, capacità di analisi e di sintesi, giudizi già formati. Ci sono anche tanti giovani. Molteplici ricerche confermano che sono loro i primi utilizzatori di Rete e social network, attivissimi nel cercare informazioni, ma anche i primi a non saper distinguere il falso dal vero.
La grande bugia di Gomorra è ben confezionata: il bene non esiste, il male c’è ed è l’unica scelta, solo chi è disposto a morire e a uccidere è uomo vero. Su queste pagine ce lo siamo chiesti pure negli anni scorsi, e oggi la domanda torna assillante: vale la pena rischiare così che tanti siano affascinati e persuasi dal 'lato oscuro' della realtà sino ad abboccare?
Riprendiamo sul nostro sito un testo di Andrea Lonardo. Per altri testi dell'autore, vedi il tag scritti_andrea_lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
Ogni festa appare dolorosa per chi è triste. Come per chi è in festa è fastidioso rivolgere lo sguardo a chi è nel dolore. Ben oltre il Natale.
Ricordo l'emozione che provai un giorno, ascoltando un giovane che diceva: "Per una donna che non riesce ad avere bambini è un grande dolore vedere giovani mamme felici con i loro neonati. E per chi ha appena partorito è faticoso stare vicino a chi ha appena perso un figlio per malattia e gli ricorda la caducità del proprio". Parlava a tanti amici che si volevano bene, ma che pure soffrivano nello stare insieme in condizioni così diverse.
Non è facile che convivano insieme chi è nel dolore e chi è nella gioia.
Ebbene il Natale è festa innanzitutto per chi è nella solitudine. Ben più del capodanno. Non solo perché al volgere di un anno pesa il ricordo di una persona che ci ha lasciato e non c’è più. Non solo perché il capodanno è troppo esagerato nell'obbligare a festeggiare un passaggio, nel pretendere che si sia felici anche se la propria vita non ha né capo, né coda.
Ma soprattutto perché il Natale non è la festa dei gaudenti, bensì dei poveri. È la festa di coloro che attendono una visita. Poiché addirittura Dio viene a visitare noi che siamo soli.
Il Natale è festa anche per chi è sconclusionato: senza quel Bambino, infatti, niente ha conclusione.
Il Natale si caratterizza per la scoperta del dono immeritato: quel Bimbo viene non per chi è meritevole, bensì viene proprio perché ogni vero dono è immeritato e dal giorno di quella nascita è iniziata sulla terra la storia della misericordia.
Un amico mi raccontava di aver spiegato il Natale ai ragazzi di una scuola media a partire dal verbo “riparare”. Diceva loro come le feste accentueranno il loro dolore se hanno genitori separati o se debbono subire situazioni false, nelle quali si recita una parte. Ma che, appunto, Cristo viene a ripararli, a proteggerli, proprio in tali situazioni. Essi hanno il diritto di dichiarare che soffrono, mentre la cultura benpensante impone loro di dire che la separazione dei genitori non ha creato in loro alcuna sofferenza. A motivo del Natale quel dolore può essere detto e vissuto proprio perché Cristo li protegge e li ripara.
Non solo – continuava. Il verbo “riparare” indica anche che qualcosa si è rotto nella vita e che non vi è chi lo riaggiusti. Cristo non viene per i beoti che ritengono che tutto vada bene, bensì proprio per chi desidera che le cose si riaggiustino. Cristo viene per “riparare”, per riaggiustare relazioni dove non vi è pace: senza di lui tutto resterebbe irrimediabilmente “frantumato”.
Ma Cristo viene anche per rinsaldare la convinzione che non è sbagliato essere felici e gioire dell’amore, dove esso invece esiste e cresce. Prima di quel Bambino l’uomo non sapeva di essere figlio. Ancora oggi gli atei non pensano che esista un padre nei cieli e ritengono di essere nati per caso, senza amore eterno. In alcune regioni italiane, come in molte religioni, di Dio c’è da diffidare, poiché egli è ritenuto invidioso della gioia degli uomini. Nel napoletano, se qualcuno è felice, si invita a non dirlo ad alta voce, poiché se lassù qualcuno lo sentisse, ecco che interverrebbe a spezzare quella gioia sentita come inopportuna: qui la divinità è un idolo, nemica della gioia degli uomini. Meglio che gli dèi non sappiano della felicità degli uomini, altrimenti la faranno cessare – pensano gli idolatri.
Nel presepe, invece, il Dio che “ripara” è anche il Dio che gioisce della felicità degli uomini. Gli uomini possono dirgli la gioia di un bambino e di un amore, sapendo che Egli ne sarà felice.
Solitudine e compagnia, necessità di riparare ciò che è rotto e libertà di gioire di ciò che è bello: nel Natale possono convivere insieme.
Riprendiamo da Avvenire del 17/12/2017 un articolo di Davide Rondoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
Il presepe non è un simbolo, è un racconto. A questo pensavo vedendo ovunque i segni del presepe e, contemporaneamente, nei media riaffiorare anche quest’anno, per motivi diversi, le discussioni intorno alla pertinenza del suo allestimento in luoghi pubblici. È così mentre un preside siciliano lo toglieva dalla scuola, la Regione Lombardia lo inaugurava in piazza. E altrove lo stesso, tra chi vuol togliere e chi vuol mettere. Ci divideremo anche sul presepe? Sulla cosa più semplice e mite, sulla creatura poetica e delicata di san Francesco – santo che tutti a parole peraltro onorano? Quando lo inventò, il santo e poeta non volevo creare un simbolo, ma raccontare nuovamente un fatto.
Anzi il più grande fatto della storia, l’avvenimento che ha portato nel mondo, come dice Ungaretti, un Dio che ride come un bimbo, un Dio che non allontana gli infedeli, che non respinge i poveri, che non evita i fragili. Vorrei che fosse ancora così, un racconto più che un simbolo. I simboli a volte sono freddi, utili a fare propaganda, a essere appunto simboli di idee, o addirittura di ideologie. Certo, il presepe è diventato in un certo senso simbolo di una storia che segna la vicenda del nostro Paese e territorio e società in un modo che solo uno stupido può negare.
Ma innanzitutto si fa per raccontare ancora, per arricchire di particolari che vengono dalla vita vissuta (da qui le nuove statuine proposte anno dopo anno a Napoli, nella via degli artigiani del presepe) la grande scena che nessuno poteva mai prevedere, e che Dio ha creato per noi. Raccontare un fatto è diverso dal difendere un simbolo. I simboli procedono spesso verso l’astrazione, sono simboli per quanto importanti di concetti: identità, civiltà, cultura... Tutte cose sacrosante, specie in momenti di confusione, ma guai a ridurre il presepe, questo mite e misterioso racconto, a un simbolo scontato, utile a propugnare idee invece che a sgranare gli occhi di fronte al fatto che narra.
I simboli possono essere anche impugnati e difesi, e certo va fatto quando sono in gioco questioni serie. Ma il presepe non va brandito, va guardato. Va ascoltato. Con il cuore commosso di chi - come l’innamorato di fronte al sì, all’eccomi della donna amata - si trova dinanzi a un dono immenso, sproporzionato ai suoi meriti e alle sue capacità. È bello, è giusto che uomini e donne, famiglie, persone da sole, o rappresentanti delle istituzioni sentano il bisogno di raccontarsi e raccontare ancora questo grande fatto. È come un riverbero che dallo stupore dei pastori e di san Francesco arriva fino a noi, nelle nostre case tra le mensole e la tv, o nelle piazze, o dove si vive si soffre si cresce.
È una notizia che continua a correre, a raccontarsi. Il più misterioso e affascinante dei racconti. Un fatto vero che, come accade per tutti i fatti importanti, viene raccontato in molte lingue, secondo tante sensibilità e culture diverse. Ma un racconto, non un simbolo ideologico. Infatti mentre i simboli possono scaldare soprattutto le discussioni, i racconti scaldano i cuori e la conoscenza. Ogni discussione, se ben argomentata può essere utile, specie se non nega la storia e la libertà. Ma credo che nel nostro tempo, e nel tempo di questa nostra Italia sempre ferita è sempre benedetta, sia più importante oggi la silenziosa commozione che la vivace discussione.
Alzare i toni davanti al Presepe può essere giusto, se le parole sono attraversate anche dallo stupore, dalla preghiera e dal silenzio del cuore. Perciò viva ogni piccolo o grande presepe, ogni piccola o grande versione d’un racconto del Fatto che ci dà speranza.
Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 21/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sul papato, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
Cari fratelli e sorelle,
Il Natale è la festa della fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo per ridonare all’uomo la sua dignità filiale, perduta a causa del peccato e della disobbedienza. Il Natale è la festa della fede nei cuori che si trasformano in mangiatoia per ricevere Lui, nelle anime che permettono a Dio di far germogliare dal tronco della loro povertà il virgulto di speranza, di carità e di fede.
Quella di oggi è una nuova occasione per scambiarci gli auguri natalizi e auspicare per tutti voi, per i vostri collaboratori, per i Rappresentanti pontifici, per tutte le persone che prestano servizio nella Curia e per tutti i vostri cari un santo e gioioso Natale e un felice Anno Nuovo. Che questo Natale ci apra gli occhi per abbandonare il superfluo, il falso, il malizioso e il finto, e per vedere l’essenziale, il vero, il buono e l’autentico. Tanti auguri davvero!
Cari fratelli,
avendo parlato in precedenza della Curia romana ad intra, desidero quest’anno condividere con voi alcune riflessioni sulla realtà della Curia ad extra, ossia il rapporto della Curia con le Nazioni, con le Chiese particolari, con le Chiese Orientali, con il dialogo ecumenico, con l’ebraismo, con l’Islam e le altre religioni, cioè con il mondo esterno.
Le mie riflessioni si basano certamente sui principi basilari e canonici della Curia, sulla stessa storia della Curia, ma anche sulla visione personale che ho cercato di condividere con voi nei discorsi degli ultimi anni, nel contesto dell’attuale riforma in corso.
E parlando della riforma mi viene in mente l’espressione simpatica e significativa di Mons. Frédéric-François-Xavier De Mérode: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti»[1]. Ciò evidenzia quanta pazienza, dedizione e delicatezza occorrano per raggiungere tale obbiettivo, in quanto la Curia è un’istituzione antica, complessa, venerabile, composta da uomini provenienti da diverse culture, lingue e costruzioni mentali e che, strutturalmente e da sempre, è legata alla funzione primaziale del Vescovo di Roma nella Chiesa, ossia all’ufficio “sacro” voluto dallo stesso Cristo Signore per il bene dell’intero corpo della Chiesa, (ad bonum totius corporis)[2].
L’universalità del servizio della Curia, dunque, proviene e scaturisce dalla cattolicità del Ministero petrino. Una Curia chiusa in sé stessa tradirebbe l’obbiettivo della sua esistenza e cadrebbe nell’autoreferenzialità, condannandosi all’autodistruzione. La Curia, ex natura, è progettata ad extra in quanto e finché legata al Ministero petrino, al servizio della Parola e dell’annuncio della Buona Novella: il Dio Emmanuele, che nasce tra gli uomini, che si fa uomo per mostrare a ogni uomo la sua vicinanza viscerale, il suo amore senza limiti e il suo desiderio divino che tutti gli uomini siano salvi e arrivino a godere della beatitudine celeste (cfr 1 Tm 2,4); il Dio che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi (cfr Mt 5,45); il Dio che non è venuto per essere servito ma per servire (cfr Mt 20,28); il Dio che ha costituito la Chiesa per essere nel mondo, ma non del mondo, e per essere strumento di salvezza e di servizio.
Proprio pensando a questa finalità ministeriale, petrina e curiale, ossia di servizio, salutando di recente i Padri e Capi delle Chiese Orientali Cattoliche[3], ho fatto ricorso all’espressione di un “primato diaconale”, rimandando subito all’immagine diletta di San Gregorio Magno del Servus servorum Dei. Questa definizione, nella sua dimensione cristologica, è anzitutto espressione della ferma volontà di imitare Cristo, il quale assunse la forma di servo (cfr Fil 2,7). Benedetto XVI, quando ne parlò, disse che sulle labbra di Gregorio questa frase non era «una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi»[4].
Analogo atteggiamento diaconale deve caratterizzare anche quanti, a vario titolo, operano nell’ambito della Curia romana la quale, come ricorda anche il Codice di Diritto Canonico, agendo nel nome e con l’autorità del Sommo Pontefice, «adempie alla propria funzione per il bene e al servizio delle Chiese» (can. 360; cfr CCEO can. 46).
Primato diaconale “relativo al Papa”[5]; e altrettanto diaconale, di conseguenza, è il lavoro che si svolge all’interno della Curia romana ad intra e all’esterno ad extra. Questo tema della diaconia ministeriale e curiale mi riporta a un antico testo presente nella Didascalia Apostolorum, dove si afferma: il «diacono sia l’orecchio e la bocca del Vescovo, il suo cuore e la sua anima»[6], poiché a questa concordia è legata la comunione, l’armonia e la pace nella Chiesa, in quanto il diacono è il custode del servizio nella Chiesa[7]. Non credo sia per caso che l’orecchio è l’organo dell’udito ma anche dell’equilibrio; e la bocca l’organo dell’assaporare e del parlare.
Un altro antico testo aggiunge che i diaconi sono chiamati a essere come gli occhi del Vescovo[8]. L’occhio guarda per trasmettere le immagini alla mente, aiutandola a prendere le decisioni e a dirigere per il bene di tutto il corpo.
La relazione che da queste immagini si può dedurre è quella di comunione di filiale obbedienza per il servizio al popolo santo di Dio. Non c’è dubbio, poi, che tale dev’essere anche quella che esiste tra tutti quanti operano nella Curia romana, dai Capi Dicastero e Superiori agli ufficiali e a tutti. La comunione con Pietro rafforza e rinvigorisce la comunione tra tutti i membri.
Da questo punto di vista, il richiamo ai sensi dell’organismo umano aiuta ad avere il senso dell’estroversione, dell’attenzione a quello che c’è fuori. Nell’organismo umano, infatti, i sensi sono il nostro primo legame con il mondo ad extra, sono come un ponte verso di esso; sono la nostra possibilità di relazionarci. I sensi ci aiutano a cogliere il reale e ugualmente a collocarci nel reale. Non a caso Sant’Ignazio di Loyola ha fatto ricorso ai sensi nella contemplazione dei Misteri di Cristo e della verità[9].
Questo è molto importante per superare quella squilibrata e degenere logica dei complotti o delle piccole cerchie che in realtà rappresentano – nonostante tutte le loro giustificazioni e buone intenzioni – un cancro che porta all’autoreferenzialità, che si infiltra anche negli organismi ecclesiastici in quanto tali, e in particolare nelle persone che vi operano. Quando questo avviene, però, si perde la gioia del Vangelo, la gioia di comunicare il Cristo e di essere in comunione con Lui; si perde la generosità della nostra consacrazione (cfr At 20,35 e 2 Cor 9,7).
Permettetemi qui di spendere due parole su un altro pericolo, ossia quello dei traditori di fiducia o degli approfittatori della maternità della Chiesa, ossia le persone che vengono selezionate accuratamente per dare maggior vigore al corpo e alla riforma, ma – non comprendendo l’elevatezza della loro responsabilità – si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria e, quando vengono delicatamente allontanate, si auto-dichiarano erroneamente martiri del sistema, del “Papa non informato”, della “vecchia guardia”…, invece di recitare il “mea culpa”. Accanto a queste persone ve ne sono poi altre che ancora operano nella Curia, alle quali si dà tutto il tempo per riprendere la giusta via, nella speranza che trovino nella pazienza della Chiesa un’opportunità per convertirsi e non per approfittarsene. Questo certamente senza dimenticare la stragrande maggioranza di persone fedeli che vi lavorano con lodevole impegno, fedeltà, competenza, dedizione e anche tanta santità.
È opportuno, allora, tornando all’immagine del corpo, evidenziare che questi “sensi istituzionali”, cui potremmo in qualche modo paragonare i Dicasteri della Curia romana, devono operare in maniera conforme alla loro natura e alla loro finalità: nel nome e con l’autorità del Sommo Pontefice e sempre per il bene e al servizio delle Chiese[10]. Essi sono chiamati ad essere nella Chiesa come delle fedeli antenne sensibili: emittenti e riceventi.
Antenne emittenti in quanto abilitate a trasmettere fedelmente la volontà del Papa e dei Superiori. La parola “fedeltà”[11] per quanti operano presso la Santa Sede «assume un carattere particolare, dal momento che essi pongono al servizio del Successore di Pietro buona parte delle proprie energie, del proprio tempo e del proprio ministero quotidiano. Si tratta di una grave responsabilità, ma anche di un dono speciale, che con il passare del tempo va sviluppando un legame affettivo con il Papa, di interiore confidenza, un naturale idem sentire, che è ben espresso proprio dalla parola “fedeltà”»[12].
L’immagine dell’antenna rimanda altresì all’altro movimento, quello inverso, ossia del ricevente. Si tratta di cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da trasmetterle al Vescovo di Roma al fine di permettergli di svolgere più efficacemente il suo compito e la sua missione di «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione»[13]. Con tale recettività, che è più importante dell’aspetto precettivo, i Dicasteri della Curia romana entrano generosamente in quel processo di ascolto e di sinodalità di cui ho già parlato[14].
Cari fratelli e sorelle,
ho fatto ricorso all’espressione “primato diaconale”, all’immagine del corpo, dei sensi e dell’antenna per spiegare che proprio per raggiungere gli spazi dove lo Spirito parla alle Chiese (cioè la storia) e per realizzare lo scopo dell’operare (la salus animarum) risulta necessario, anzi indispensabile, praticare il discernimento dei segni dei tempi[15], la comunione nel servizio, la carità nella verità, la docilità allo Spirito e l’obbedienza fiduciosa ai Superiori.
Forse è utile qui ricordare che gli stessi nomi dei diversi Dicasteri e degli Uffici della Curia romana lasciano intendere quali siano le realtà a favore delle quali debbono operare. Si tratta, a ben vedere, di azioni fondamentali e importanti per tutta la Chiesa e direi per il mondo intero.
Essendo l’operato della Curia davvero molto ampio, mi limiterei questa volta a parlarvi genericamente della Curia ad extra, cioè di alcuni aspetti fondamentali, selezionati, a partire dai quali non sarà difficile, nel prossimo futuro, elencare e approfondire gli altri campi dell’operato della Curia.
La Curia e il rapporto con le Nazioni
In questo campo gioca un ruolo fondamentale la Diplomazia Vaticana, che è la ricerca sincera e costante di rendere la Santa Sede un costruttore di ponti, di pace e di dialogo tra le Nazioni. Ed essendo una Diplomazia al servizio dell’umanità e dell’uomo, della mano tesa e della porta aperta, essa si impegna nell’ascoltare, nel comprendere, nell’aiutare, nel sollevare e nell’intervenire prontamente e rispettosamente in qualsiasi situazione per avvicinare le distanze e per intessere la fiducia. L’unico interesse della Diplomazia Vaticana è quello di essere libera da qualsiasi interesse mondano o materiale.
La Santa Sede quindi è presente sulla scena mondiale per collaborare con tutte le persone e le Nazioni di buona volontà e per ribadire sempre l’importanza di custodire la nostra casa comune da ogni egoismo distruttivo; per affermare che le guerre portano solo morte e distruzione; per attingere dal passato i necessari insegnamenti che aiutano a vivere meglio il presente, a costruire solidamente il futuro e a salvaguardarlo per le nuove generazioni.
Gli incontri con i Capi delle Nazioni e con le diverse Delegazioni, insieme ai Viaggi Apostolici, ne sono il mezzo e l’obbiettivo.
Ecco perché è stata costituita la Terza Sezione della Segreteria di Stato, con la finalità di dimostrare l’attenzione e la vicinanza del Papa e dei Superiori della Segreteria di Stato al personale di ruolo diplomatico e anche ai religiosi e alle religiose, ai laici e alle laiche che prestano lavoro nelle Rappresentanze Pontificie. Una Sezione che si occupa delle questioni attinenti alle persone che lavorano nel servizio diplomatico della Santa Sede o che vi si preparano, in stretta collaborazione con la Sezione per gli Affari Generali e con la Sezione per i Rapporti con gli Stati[16].
Questa particolare attenzione si basa sulla duplice dimensione del servizio del personale diplomatico di ruolo: pastori e diplomatici, al servizio delle Chiese particolari e delle Nazioni ove operano.
La Curia e le Chiese particolari
Il rapporto che lega la Curia alle Diocesi e alle Eparchie è di primaria importanza. Esse trovano nella Curia Romana il sostegno e il supporto necessario di cui possono avere bisogno. È un rapporto che si basa sulla collaborazione, sulla fiducia e mai sulla superiorità o sull’avversità. La fonte di questo rapporto è nel Decreto conciliare sul ministero pastorale dei Vescovi, dove più ampiamente si spiega che quello della Curia è un lavoro svolto «a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori»[17].
La Curia romana, dunque, ha come suo punto di riferimento non soltanto il Vescovo di Roma, da cui attinge autorità, ma pure le Chiese particolari e i loro Pastori nel mondo intero, per il cui bene opera e agisce.
A questa caratteristica di «servizio al Papa e ai Vescovi, alla Chiesa universale, alle Chiese particolari» e al mondo intero, ho fatto richiamo nel primo di questi nostri annuali incontri, quando sottolineai che «nella Curia romana si apprende, “si respira” in modo speciale questa duplice dimensione della Chiesa, questa compenetrazione tra l’universale e il particolare»; e aggiunsi: «penso che sia una delle esperienze più belle di chi vive e lavora a Roma»[18].
Le visite ad limina Apostolorum, in questo senso, rappresentano una grande opportunità di incontro, di dialogo e reciproco arricchimento. Ecco perché ho preferito, incontrando i Vescovi, avere un dialogo di reciproco ascolto, libero, riservato, sincero che va oltre gli schemi protocollari e l’abituale scambio di discorsi e di raccomandazioni. È importante anche il dialogo tra i Vescovi e i diversi Dicasteri. Quest’anno, riprendendo le visite ad limina, dopo l'anno del Giubileo, i Vescovi mi hanno confidato che sono stati ben accolti e ascoltati da tutti i Dicasteri. Questo mi rallegra tanto, e ringrazio i Capi Dicastero qui presenti.
Permettetemi anche qui, in questo particolare momento della vita della Chiesa, di richiamare la nostra attenzione alla prossima XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Chiamare la Curia, i Vescovi e tutta la Chiesa a portare una speciale attenzione alle persone dei giovani, non vuol dire guardare soltanto a loro, ma anche mettere a fuoco un tema nodale per un complesso di relazioni e di urgenze: i rapporti intergenerazionali, la famiglia, gli ambiti della pastorale, la vita sociale... Lo annuncia chiaramente il Documento preparatorio nella sua introduzione: «La Chiesa ha deciso di interrogarsi su come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia. Attraverso i giovani, la Chiesa potrà percepire la voce del Signore che risuona anche oggi. Come un tempo Samuele (cfr 1 Sam 3,1-21) e Geremia (cfr Ger 1,4-10), anche oggi ci sono giovani che sanno scorgere quei segni del nostro tempo che lo Spirito addita. Ascoltando le loro aspirazioni possiamo intravedere il mondo di domani che ci viene incontro e le vie che la Chiesa è chiamata a percorrere»[19].
La Curia e le Chiese Orientali
L’unità e la comunione che dominano il rapporto della Chiesa di Roma e le Chiese Orientali rappresentano un concreto esempio di ricchezza nella diversità per tutta la Chiesa. Esse, nella fedeltà alle proprie Tradizioni bimillenarie e nella ecclesiastica communio, sperimentano e realizzano la preghiera sacerdotale di Cristo (cfr Gv 17)[20].
In questo senso, nell’ultimo incontro con i Patriarchi e gli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali, parlando del “primato diaconale”, ho evidenziato anche l’importanza di approfondire e di revisionare la delicata questione dell’elezione dei nuovi Vescovi ed Eparchi che deve corrispondere, da una parte, all’autonomia delle Chiese Orientali e, allo stesso tempo, allo spirito di responsabilità evangelica e al desiderio di rafforzare sempre di più l’unità con la Chiesa Cattolica. «Il tutto, nella più convinta applicazione di quella autentica prassi sinodale, che è distintiva delle Chiese d’Oriente»[21]. L’elezione di ogni Vescovo deve rispecchiare e rafforzare l’unità e la comunione tra il Successori di Pietro e tutto il collegio episcopale[22].
Il rapporto tra Roma e l’Oriente è di reciproco arricchimento spirituale e liturgico. In realtà, la Chiesa di Roma non sarebbe davvero cattolica senza le inestimabili ricchezze delle Chiese Orientali e senza la testimonianza eroica di tanti nostri fratelli e sorelle orientali che purificano la Chiesa accettando il martirio e offrendo la loro vita per non negare Cristo[23].
La Curia e il dialogo ecumenico
Ci sono pure degli spazi nei quali la Chiesa Cattolica, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è particolarmente impegnata. Fra questi l’unità dei cristiani che «è un’esigenza essenziale della nostra fede, un’esigenza che sgorga dall’intimo del nostro essere credenti in Gesù Cristo»[24]. Si tratta sì di un “cammino” ma, come più volte è stato ripetuto anche dai miei Predecessori, è un cammino irreversibile e non in retromarcia. “L’unità si fa camminando, per ricordare che quando camminiamo insieme, cioè ci incontriamo come fratelli, preghiamo insieme, collaboriamo insieme nell’annuncio del Vangelo e nel servizio agli ultimi siamo già uniti. Tutte le divergenze teologiche ed ecclesiologiche che ancora dividono i cristiani saranno superate soltanto lungo questa via, senza che noi oggi sappiamo come e quando, ma ciò avverrà secondo quello che lo Spirito Santo vorrà suggerire per il bene della Chiesa»[25].
La Curia opera in questo campo per favorire l’incontro con il fratello, per sciogliere i nodi delle incomprensioni e delle ostilità, e per contrastare i pregiudizi e la paura dell’altro che hanno impedito di vedere la ricchezza della e nella diversità e la profondità del Mistero di Cristo e della Chiesa che resta sempre più grande di qualsiasi espressione umana.
Gli incontri avvenuti con i Papi, i Patriarchi e i Capi delle diverse Chiese e Comunità mi hanno sempre riempito di gioia e di gratitudine.
La Curia e l’Ebraismo, l’Islam, le altre religioni
Il rapporto della Curia Romana con le altre religioni si basa sull’insegnamento del Concilio Vaticano II e sulla necessità del dialogo. «Perché l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro»[26]. Il dialogo è costruito su tre orientamenti fondamentali: «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione»[27].
Gli incontri avvenuti con le autorità religiose, nei diversi viaggi apostolici e negli incontri in Vaticano, ne sono la concreta prova.
Questi sono soltanto alcuni aspetti, importanti ma non esaurenti, dell’operato della Curia ad extra. Oggi ho scelto questi aspetti, legati al tema del “primato diaconale”, dei “sensi istituzionali” e delle “fedeli antenne emittenti e riceventi”.
Cari fratelli e sorelle,
come ho iniziato questo nostro incontro parlando del Natale come festa della fede, vorrei concluderlo evidenziando che il Natale ci ricorda però che una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta. In realtà, una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l’anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili.
Angelo Silesio, nel suo Il Pellegrino cherubico, scrisse: «Dipende solo da te: Ah, potesse il tuo cuore diventare una mangiatoia! Dio nascerebbe bambino di nuovo sulla terra»[28].
Con queste riflessioni rinnovo i miei più fervidi auguri natalizi a voi e a tutti i vostri cari.
Grazie! […]
Note al testo
[1] Cfr Giuseppe Dalla Torre, Sopra una storia della Gendarmeria Pontificia, 19 ottobre 2017.
[2] «Per pascere e accrescere sempre più il popolo di Dio ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri che tendono al bene di tutto il corpo» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 18).
[3] Cfr Saluto ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori, 9 ottobre 2017.
[4] Catechesi nell’Udienza generale del 4 giugno 2008.
[5] Cfr Giovanni Paolo II, Discorso alla riunione plenaria del Sacro Collegio dei Cardinali, 21 novembre 1985, 4.
[6] 2, 44: Funk, 138-166; cfr W. Rordorf, Liturgie et eschatologie, in Augustinianum 18 (1978), 153-161; Id., Que savons-nous des lieux de culte chrétiens de l'époque préconstantinienne? in L'Orient Syrien 9 (1964), 39-60.
[7] Cfr Incontro con i sacerdoti e i consacrati, Duomo di Milano, 25 marzo 2017.
[8] «Quanto ai diaconi della Chiesa, siano come gli occhi del vescovo, che sanno vedere tutto attorno, investigando le azioni di ciascuno della Chiesa, nel caso che qualcuno stia sul punto di peccare: in questo modo, prevenuto dall'avvertimento di chi presiede, forse non porterà a termine il [suoi peccato]» (Lettera di Clemente a Giacomo, 12: Rehm 14-15, in I Ministeri nella Chiesa Antica, Testi patristici dei primi tre secoli a cura di Enrico Cattaneo, Edizioni Paoline, 1997, p. 696).
[9] Cfr Esercizi Spirituali, N. 121: «La quinta contemplazione sarà applicare i cinque sensi sulla prima e la seconda contemplazione».
[10] Nel commento al Vangelo secondo Matteo di San Girolamo si registra un curioso paragone tra i cinque sensi dell’organismo umano e le vergini della parabola evangelica, che diventano stolte quando non agiscono più secondo il fine loro assegnato (cfr Comm. in Mt XXV: PL 26, 184).
[11] Il concetto della fedeltà risulta molto impegnativo ed eloquente perché sottolinea anche la durata nel tempo dell’impegno assunto, rimanda ad una virtù che, come disse Benedetto XVI, «esprime il legame tutto particolare che si stabilisce tra il Papa e i suoi diretti collaboratori, tanto nella Curia Romana come nelle Rappresentanze Pontificie”. Discorso alla Comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica, 11 giugno 2012.
[14] «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2,7)» Discorso nel 50° anniversario del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015.
[15] Cfr Lc 12,54-59; Mt 16,1-4; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 11: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane».
[16] Cfr. Lettera Pontificia, il 18 ottobre 2017; Comunicato della Segreteria di Stato, il 21 novembre 2017.
[18] Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2013; cfr Paolo VI, Omelia per l’80° compleanno, 16 ottobre 1977: «Si, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto, incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come e perché “Cristo è Romano” (cfr Dante, Div. Comm., Purg., XXXII, 102) […] la vostra “coscienza romana” abbia essa all'origine la nativa cittadinanza di questa Urbe fatidica, ovvero la permanenza di domicilio o l’ospitalità ivi goduta; “coscienza romana” che qui essa ha virtù d’infondere a chi sappia respirarne il senso d’universale umanesimo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV 1977, 1957).
[19] Sinodo dei Vescovi - Assemblea Generale Ordinaria XV, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, Introduzione.
[20] Da una parte, l’unità che risponde al dono dello Spirito, trova naturale e piena espressione nell’«unione indefettibile con il Vescovo di Roma» (Benedetto XVI, Esort. ap. post-sin. Ecclesia in Medio Oriente, 40). E dall’altra parte, l’essere inseriti nella comunione dell’intero Corpo di Cristo ci rende consapevoli di dover rafforzare l’unione e la solidarietà in seno ai vari Sinodi patriarcali, «privilegiando sempre la concertazione su questioni di grande importanza per la Chiesa in vista di un’azione collegiale e unitaria» (ibid.).
[21] Parole ai Patriarchi delle Chiese Orientali e agli Arcivescovi Maggiori, 21 novembre 2013.
[22] Insieme ai Capi e Padri, agli Arcivescovi e ai Vescovi orientali, in comunione con il Papa, con la Curia e tra di loro, siamo tutti chiamati «a ricercare sempre “la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza e la mitezza” (cfr 1 Tm 6,11); [ad adottare] uno stile di vita sobrio a immagine di Cristo, che si è spogliato per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9) […] [alla] trasparenza nella gestione dei beni e sollecitudine verso ogni debolezza e necessità» (Parole ai Patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche e agli Arcivescovi Maggiori, 21 novembre 2013).
[23] Noi «vediamo tanti nostri fratelli e sorelle cristiani delle Chiese orientali sperimentare persecuzioni drammatiche e una diaspora sempre più inquietante» (Omelia in occasione del centenario della Congregazione per le Chiese Orientali e del Pontificio Istituto Orientale), Basilica di Santa Maria Maggiore, 12 ottobre 2017). «Su queste situazioni nessuno può chiudere gli occhi» (Messaggio nel centenario di fondazione del Pontificio Istituto Orientale, 12 ottobre 2017).
[24] Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, 10 novembre 2016.
[28] Edizione Paoline 1989, p. 170 [234-235]: «Es mangelt nur an dir: Ach, könnte nur dein Herz zu einer Krippe werden, Gott würde noch einmal ein Kind auf dieser Erden».
Riprendiamo un brano da Paolo Flores d’Arcais, L’individuo libertario, Torino, Einaudi, 1999, pp. 116-118. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
N.B. de Gli scritti (A.L.) Sono stato alunno del prof. Flores d’Arcais alla Facoltà di Filosofa della Sapienza quando egli era assistente del prof. Lucio Colletti. Colletti venne bandito dagli autonomi dall’Università quando si distacco dal marxismo e potei essere partecipe delle ultime contestazioni rivoltegli dagli Indiani metropolitani, prima che potesse riprendere le lezioni. Il parallelismo istituito da Flores d’Arcais fra la prospettiva ideologica marxista e quella multiculturale è illuminante a mostrare come la libertà individuale ne risulti schiacciata.
A prima vista il multiculturalismo inalbera il vessillo della differenza radicale. Questa, tuttavia, si converte immediatamente in conformismo radicato, in identità coatta. Le sole differenze esaltate come inalienabili, e quindi ammesse, sono quelle collettive, infatti: il genere, l'etnia, eventualmente la preferenza sessuale. Mai l'individuo come dissenso rispetto all'identità del gruppo. L'analogia con il qui pro quo marxiano fra operaio reale e «classe» è impressionante.
Il femminismo proclama la necessità di riconoscere la differenza di genere. Ma la donna reale che si rifiutasse di riconoscersi in questa identità verrebbe dichiarata dall'ideologia femminista una donna sui generis, perché priva di «coscienza di genere». Una donna non autenticamente donna, perché ancora succube del modello maschilista. Esattamente come l'operaio non leninista, che Lenin dichiara infiltrato della piccola borghesia in seno alla classe operaia. In realtà il femminismo non chiede il riconoscimento della differenza della donna (ogni donna, singolarmente esistente), ma impone a ogni donna l'ideologia della differenza, quale criterio discriminante fra donna cosciente e donna-zio Tom. La stessa cosa, del resto, è avvenuta con il radicalismo nero. La stessa cosa sta avvenendo con l'omosessuale che non scelga di «uscire allo scoperto».
Di più. Poiché non esiste una sola ideologia femminista (o nera, o omosessuale) ma diverse scuole in reciproca concorrenza, ciascuna pretenderà di essere l'unica nel rappresentare la coscienza adeguata epperciò «vera». E getterà l'anatema sulle altre, con reciproche accuse di resa al nemico. Anche questo un déjà vu del marxismo-leninismo.
Le ideologie della differenza in realtà annientano la differenza. Questa logica opera con radicalità ancora più devastante se riferita alle etnie. Qui l'assoggettamento del singolo al gruppo, la determinazione eteronoma della sua volontà, celebra il suo sabba. La tutela della differenza quale attributo di una cultura-comunità, anziché dei singoli, equivale in realtà ad accettare le norme e i costumi del gruppo quali che siano. Se si pretendesse di discriminare all'interno di ciascuna cultura le norme accettabili rispetto a quelle «barbare e incivili», infatti, si eserciterebbe proprio il vituperato «imperialismo dell’assimilazione», che giudica ripugnante ciò che in altre culture è venerabile tradizione.
L'idea di un multiculturalismo liberale è totalmente illusoria, dunque, perché evita di misurarsi proprio con le norme «ripugnanti» che, nelle culture «altre», violano clamorosamente i diritti civili dell'individuo. Ma proclamare la eguale dignità di tutte le culture e trascurare le pratiche illiberali in esse presenti è un semplice espediente tautologico. Il multiculturalismo preso sul serio deve fare i conti non con il cous cous ma con la lapidazione delle adultere e la poligamia, non con il velo ma con la clitoridectomia e l'infibulazione. E magari con la pretesa che tali mutilazioni sessuali rituali vengano praticate negli ospedali pubblici, perché sono un «diritto» della bambina.
In questi rilievi non c'è nulla di caricaturale, purtroppo. La discussione sulla compatibilità fra logica dei diritti civili e logica del multiculturalismo rimane seria solo se affronta i casi cruciali, infatti. Che sono molto più numerosi di quelli - particolarmente tragici - appena richiamati. In ognuno di essi si tratta di scegliere: se venga prima la differenza come individuo o la differenza come cultura. Ma nel primo caso si è irrimediabilmente fuori della logica del multiculturalismo, a cui si pagherebbe solo un omaggio verbale (ma comunque ambiguo, e perciò pericoloso).
La logica della società multiculturale è del resto quella di una società progressivamente ghettizzata. Dove ogni identità-comunità offre in effetti protezione, ma onerosa, perché innanzitutto si protegge contro ogni comportamento non conformista, non obbediente alla tradizione, che ne possa minare l'unità e la stabilità. In definitiva, la scelta per il multiculturalismo, come del resto l'intera ideologia del politically correct, costituisce in realtà - soprattutto negli Stati Uniti - il surrogato consolatorio di una rivoluzione non riuscita: quella dei diritti civili e della compiuta cittadinanza per tutti. Ed esprime, sebbene in forma militante, la rassegnazione a quella sconfitta. Rischiando così di renderla definitiva.
Riprendiamo dal sito de La Nuova Bussola Quotidiana un articolo di Anna Bono pubblicato il 21/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
I filmati che mostrano degli emigranti africani arrestati e venduti come schiavi in Libia sono circolati anche in Africa insieme alla notizia di circa 20.000 detenuti in condizioni inacettabili. Hanno suscitato un’ondata di indignazione che ha costretto l’Unione Africana a promettere di riportare a casa entro poche settimane tutti gli emigranti in difficoltà: beninteso con il sostegno logistico e finanziario dell’Unione Europea e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, quest’ultima in realtà impegnata da anni a rimpatriare gli emigranti che chiedono aiuto.
Monsignor Benjamin Ndiaye, arcivescovo della capitale del Senegal Dakar, ne ha parlato il 25 novembre, a margine della cerimonia di ordinazione di cinque nuovi sacerdoti della sua diocesi. “Non abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di emigrazione illegale quando sappiamo benissimo come funzionano – ha detto – tutto questo deve finire”. Insieme alla Nigeria, il Senegal è uno dei paesi africani da cui partono alla volta dell’Italia più emigranti clandestini. Secondo Monsignor Ndiaye tutte le autorità religiose devono fare la loro parte e devono collaborare affinchè i giovani si impegnino nello sviluppo dei rispettivi paesi: “è meglio restare poveri nel proprio paese – ha detto – piuttosto che finire torturati nel tentare l’avventura dell’emigrazione”. Infine Monsignor Ndiaye ha lanciato un appello a tutte le personalità autorevoli affinchè si impegnino in attività di sensibilizzazione per far capire ai giovani i pericoli dell’emigrazione clandestina. Lui stesso si è rivolto ai giovani: “cari ragazzi – ha detto – tocca a noi costruire il nostro paese, tocca a noi svilupparlo, nessuno lo farà al posto nostro”.
In Nigeria il primo a reagire, il 28 novembre, pochi giorni dopo la diffusione dei video, è stato il presidente Muhammadu Buhari. Il capo di stato si è detto inorridito al vedere i suoi connazionali “trattati come capre, venduti per pochi dollari”. Ha quindi dichiarato che tutti gli emigranti nigeriani bloccati in Libia e altrove saranno riportati a casa e verranno reinseriti nella vita sociale ed economica del paese. Inoltre ha giurato che farà tutto il possibile per impedire che altri nigeriani intraprendano il pericoloso viaggio verso l’Europa: combatterà la corruzione, sconfiggerà definitivamente Boko Haram e altri gruppi armati, migliorerà i servizi pubblici, a partire da quello scolastico.
Nei giorni successivi anche i vescovi nigeriani hanno preso la parola, affidandosi all’agenzia di stampa Catholic News Service. Lo hanno fatto richiamando con fermezza sia il governo che la popolazione alle loro responsabilità. “Il governo nigeriano – ha detto Monsignor Joseph Bagobiri, vescovo di Kafachan – dovrebbe far capire ai giovani che c’è più speranza di vita in Nigeria di quanta pensino di trovarne in Europa o altrove. Il paese ha ricchezze e risorse immense. I nigeriani non dovrebbero ridursi a mendicanti andandosene alla ricerca di una ricchezza illusoria all’estero”.
Spetta ai nigeriani sviluppare il loro paese, ha aggiunto Monsignor Jilius Adelakan, vescovo di Oyo, evidenziando le responsabilità collettive: “Incominciamo a sviluppare il nostro paese in modo da renderlo un luogo in cui è desiderabile e piacevole vivere, facciamo in modo che siano gli stranieri a voler venire da noi”.
Ai tanti giovani che non vedono l’ora di andarsene Monsignor Bagobiri ha consigliato di non sprecare denaro per un viaggio rischioso, un progetto senza prospettive: “se i nigeriani emigrati clandestinamente, invece di spendere così tanto per il viaggio, avessero investito quelle somme di denaro in maniera creativa in Nigeria, in attività economiche, adesso sarebbero degli imprenditori, dei datori di lavoro. Invece sono ridotti in schiavitù e sottoposti ad altre forme disumane di trattamento in Libia”.
Il governo nigeriano ha già rimpatriato 3.000 emigranti bloccati in Libia. Il 29 novembre sono atterrati all’aeroporto internazionale di Lagos 242 giovani. Le telecamere li hanno ripresi mentre scendevano dall’aereo e muovevano i primi passi, felici e sollevati di essere di nuovo a casa. Molti erano stati ingannati, avevano creduto alle bugie di chi li ha convinti a emigrare. Un giovane elettricista ha raccontato di essere partito perchè gli avevano assicurato che in Europa avrebbe trovato un buon lavoro.
Su uno dei due aerei che nella notte del 5 dicembre hanno riportato in patria altri 401 ragazzi viaggiavano anche Mabel Emmanuel, Steven Ekhiator e il loro bambino, David, nato in Libia. I due giovani si sono conosciuti in un campo di detenzione. Un giorno Mabel ha chiesto a Steven di usare il suo cellulare per telefonare alla madre e chiederle del denaro. Al rifiuto della mamma Mabel è scoppiata in lacrime e allora Steven le ha dato il denaro di cui aveva bisogno. Così tra i due è sbocciato l’amore. Intervistati all’arrivo, hanno detto di essere felici, di non chiedere altro che di crescere insieme il piccolo David in Nigeria e che non proveranno mai più a emigrare clandestinamente: “Lo dico a tutti quelli che pensano di partire – ha aggiunto Steven – la Libia è un paese terribile”.
Riprendiamo da Avvenire del 10/12/2017 un’intervista di Mimmo Muolo al cardinale arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2017)
La traduzione italiana del Padre Nostro potrebbe cambiare presto. E proprio nel senso auspicato di recente da papa Francesco. Esiste infatti già una proposta della Cei – da «non indurci in tentazione» a «non abbandonarci alla tentazione» – recepita nella nuova traduzione della Bibbia Cei e nel Lezionario, ma ancora in attesa del via libera della Santa Sede per quanto riguarda l’uso liturgico nel Messale. Quando quel via libera arriverà, la preghiera insegnata da Gesù si potrà recitare con le parole «non abbandonarci alla tentazione» in tutte le occasioni. A ricostruire il lungo lavoro di vescovi, teologi e biblisti che ha portato alla nuova versione è il cardinale Giuseppe Betori, che afferma: «Bene ha fatto il Santo Padre a porre pubblicamente la questione e anche a rilevare che la Cei il suo passo l’ha già fatto». L’arcivescovo di Firenze, apprezzato biblista, ha seguito, infatti, il lavoro di traduzione fin dal 2000, quando era sottosegretario della Conferenza episcopale italiana. In tal modo è stato testimone oculare della convergenza sulla nuova formula – «non abbandonarci alla tentazione» di due personalità del calibro di Carlo Maria Martini e Giacomo Biffi, che non esita a definire «rispettivamente il miglior biblista e il miglior teologo all’epoca presenti nel Consiglio permanente della Cei».
Eminenza, come andarono dunque le cose?
L’inizio del lavoro risale in realtà al 1988, quando si decise di rivedere la vecchia traduzione del 1971, ripubblicata nel 1974 con alcune correzioni. Fu istituito un gruppo di lavoro di 15 biblisti coordinati successivamente da tre vescovi (prima Costanzo, poi Egger e infine Festorazzi), che sentì il parere di altri 60 biblisti. A sovrintendere questo gruppo di lavoro c’erano naturalmente la Commissione episcopale per la liturgia e il Consiglio permanente, all’interno del quale era stato creato un comitato ristretto composto dai cardinali Biffi e Martini e dagli arcivescovi Saldarini, Magrassi e Papa. Questo Comitato ricevette e vagliò anche la proposta di una nuova traduzione del Padre Nostro e, tra le diverse soluzioni, venne adottata la formula «non abbandonarci alla tentazione», sulla quale in particolare ci fu la convergenza di Martini e Biffi, i quali come è noto non sempre si ritrovavano sulle stesse posizioni. Ora, il fatto che ambedue avessero approvato questa traduzione fu garanzia per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi, della bontà della scelta. Eravamo ormai nell’anno 2000 e io fui presente a quella seduta in quanto sottosegretario della Cei.
Fu dunque un lavoro di squadra.
Esattamente. Fu un lavoro fatto dai migliori biblisti d’Italia, che furono guidati dai vescovi massimamente esperti in teologia e in Sacra Scrittura e che ebbe nei diversi passaggi del testo al vaglio del Consiglio Permanente la garanzia di un lavoro ben fatto, così da rassicurare l’intero episcopato. Perché si scelse proprio quella traduzione? Non è la traduzione più letterale, ma quella più vicina al contenuto effettivo della preghiera. In italiano, infatti, il verbo indurre non è l’equivalente del latino inducere o del greco eisferein, ma qualcosa in più. Il nostro verbo è costrittivo, mentre quelli latino e greco hanno soltanto un valore concessivo: in pratica lasciar entrare. I francesi hanno tradotto ne nous laisse pas entrer en tentation, cioè, «non lasciarci entrare in tentazione».
C’è differenza?
Noi abbiamo scelto una traduzione volutamente più ampia. «Non abbandonarci alla tentazione» può significare «non abbandonarci, affinché non cadiamo nella tentazione» – dunque come i francesi «non lasciare che entriamo nella tentazione» -,ma anche «non abbandonarci alla tentazione quando già siamo nella tentazione». C’è dunque maggiore ricchezza di significato perché chiediamo a Dio che resti al nostro fianco e ci preservi sia quando stiamo per entrare in tentazione, sia quando vi siamo già dentro. La Commissione degli esperti aveva fatto anche altre ipotesi, ma tutte più restrittive rispetto alla ricchezza di significato della traduzione poi scelta e approvata.
Perché questa nuova traduzione non è ancora nell’uso liturgico?
Nel 2001 la Congregazione per il culto emanò nuove disposizioni sulle traduzioni: la Liturgiam authenticam, che dovrà essere rivista, come ha segnalato papa Francesco dopo aver pubblicato il motu proprio Magnum Principium. Quel documento raccomandava traduzioni più letterali, per cui dovemmo rivedere tutto il lavoro di traduzione della Bibbia sotto la supervisione di un gruppetto di esperti guidati da tre vescovi: Caprioli, Monari e Bianchi. Insieme con loro lavorarono, oltre a me, otto biblisti di riconosciuto valore. Il tutto fu trasmesso ai vescovi, che suggerirono non poche modifiche, la maggior parte delle quali furono accolte, ma non toccarono la proposta di traduzione del Padre Nostro, e alla fine, nell’Assemblea della Cei del 2002, venne approvata l’intera traduzione con 202 “Sì” su 203 votanti. Il testo del Padre Nostro, se ben ricordo, fu votato e approvato a parte, per non avere nessun dubbio. La recognitio della Santa Sede arrivò nel 2007 e l’edizione della Bibbia Cei è quella del 2008.
E per l’uso liturgico?
In seguito si passò al Messale, perché il Padre Nostro si recita anche durante la Messa e in altri riti liturgici. La proposta fu quella di trasferire nel Messale la traduzione del Padre Nostro che era stata approvata nella Bibbia. E così avvenne. Questa traduzione, però, per poter entrare nell’uso liturgico deve essere “vidimata” dalla Santa Sede con quella che ora, in base alle nuove norme volute dal Papa, è una approbatio. Ma questo manca ancora. Non sappiamo se la Santa Sede ce la farà cambiare, ma si può pensare che il testo proposto venga approvato, considerato anche l’apprezzamento che sembra emergere per esso nelle parole del Santo Padre nella recente intervista sul Padre Nostro. Invece il nuovo Lezionario, cioè il libro delle letture durante la Messa, è già stato approvato dalla Santa Sede e qui il testo del Padre Nostro contiene la formula «non abbandonarci alla tentazione».
In definitiva, quando arriverà l’approbatio, anche nella preghiera che recitiamo individualmente si dovrà dire «non abbandonarci alla tentazione»?
Penso di sì, perché sarebbe strano avere una preghiera nella liturgia diversa da quella del catechismo e della vita spirituale. Forse ci vorrà un’altra approvazione da parte dei vescovi? Ma i vescovi una volta che hanno approvato il cambiamento per il Messale, ritengo che implicitamente l’hanno approvato anche per tutte le occasioni in cui si recita la preghiera del Signore.
Riprendiamo da La Stampa dell’11/1/2017 un’intervista di Francesco Peloso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione, intercultura nella sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2017)
Il prossimo 8 febbraio si terrà la terza giornata internazionale di preghiera e di riflessione contro la tratta delle persone; «sono bambini, non schiavi» è il titolo scelto per quest’anno. Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, presidente dell’associazione «Slaves no more», impegnata da molti anni nella costruzione della rete di religiose e religiosi contro il traffico di esseri umani, parla con «Vatican Insider» dei tanti aspetti drammatici di una delle piaghe più terribili del nostro tempo.
Suor Eugenia, possiamo provare a spiegare in termini generali cosa si intende per ‘tratta’ delle persone?
«È una forma di sfruttamento delle persone che può essere di tipo lavorativo, sessuale o per trapianti di organi; c‘è anche lo sfruttamento dei minori dovuto a tante ragioni, anche per le adozioni; in tutti questi casi parliamo di ‘tratta’ cioè di traffico. A muovere i fili ci sono i trafficanti, coloro che usano queste situazioni per ottenerne un guadagno. I trafficanti si occupano di gestire la tratta, e chi ci va di mezzo sono le persone più inesperte, più povere, quelle che stanno cercando di trovare un futuro e una vita migliore e spesso cadono nelle mani dei trafficanti; questi ultimi, a volte, sono persone di cui nessuno sospetta, riescono ad essere scaltrissimi pur di catturare le loro prede. Fino a qualche anno fa il traffico maggiore riguardava lo sfruttamento sessuale, perché c’era una grande richiesta di ‘manodopera’ a buon mercato. E’ un fenomeno che prosegue, però attraverso una modalità specifica: quella dei richiedenti asilo».
In che modo?
«In sostanza si sfrutta l’arrivo di queste persone via mare, poi i trafficanti fanno fare alle vittime una domanda d’asilo politico, che la maggioranza di loro non si vedrà mai riconosciuto; è un meccanismo che coinvolge soprattutto donne minorenni poverissime. Queste si fanno tutto il percorso che le porta prima fino alle coste della Libia e poi da lì a Lampedusa, e una volta sbarcate i trafficanti le inducono a fare richiesta d’asilo politico. Con questo documento entrano nei centri d’accoglienza, gli Sprar, (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati); tuttavia da quel momento le donne sono in possesso solo della domanda d’asilo e per avere una risposta possono passare anche uno o due anni. Qui entrano in gioco i trafficanti. Questi ultimi infatti le hanno aiutate finanziariamente a venire in Italia, e hanno quindi messo sulle loro spalle un enorme debito che deve essere pagato poi con lo sfruttamento sulle strade. C‘è da dire che da questi centri, durante il giorno, le persone possono entrare e uscire, così i trafficanti le vanno a prendere e le riportano, mentre la polizia di fronte a un documento con richiesta di asilo non può fare molto».
Il meccanismo perverso quindi è quello della restituzione di un debito…
«Sì, un debito di cui loro a volte non conoscono nemmeno il valore. Un valore che può arrivare a cifre fra i 50 e i 70mila euro; il più delle volte ora vengono prese di mira le ragazzine analfabete che sono più ricattabili».
Sta dicendo che anche la burocrazia, con i suoi tempi lunghi, agevola lo sfruttamento…
«Sì, e si va anche oltre. Perché trascorso il periodo dell’attesa di una risposta alla domanda d’asilo, queste donne si trovano ormai sul territorio italiano e continuano ad essere sfruttate fino a quando il debito non è saldato. Ma quando ciò avviene queste donne sono finite, distrutte. Si tenga conto che negli ultimi due anni, solo dalla Nigeria, sono arrivate 12mila donne, sono dati del Ministero degli Interni. Queste nigeriane sono in maggioranza minorenni, analfabete, ricattabili quindi, perché per altro sono sottoposte ai riti Voodoo che sono violenti e hanno un impatto fortissimo su di loro, molte poi arrivano incinte. Gli sfruttatori sanno che quando una ragazza arriva incinta ha un canale preferenziale di aiuto. Non di rado sono state messe incinte apposta».
Ma chi sono i trafficanti, parliamo di organizzazioni che sono attive sia nei Paesi d’origine che di destinazione?
«Esattamente. Ma non si tratta per forza di enormi strutture, possono essere anche organizzazioni di poche persone, il trafficante può essere anche un familiare, un amico di famiglia, è qualcuno che sfrutta la fuga dovuta alla povertà, alla violenza di Boko Haram (il gruppo armato di matrice fondamentalista, ndr), per quel che riguarda la Nigeria . E prendono le persone più sprovvedute dalle famiglie più numerose, facendo credere che poi che queste giovani potranno dare un aiuto ai fratelli e alle sorelle rimaste a casa ad andare a scuola, ma i guadagni ovviamente vanno nelle tasche degli sfruttatori. Perché se una persona deve pagare un debito netto di 50-60mila euro, dovrà lavorare sulla strada non meno di 4-5 anni dato che adesso la tariffa è bassissima poiché la crisi economica ha inciso anche su questo; quindi si può arrivare anche a 15-20 euro a prestazione. La persona continua ad essere usata e non ha neanche la capacità di capire che l’hanno imbrogliata».
Ma nei Paesi d’arrivo, chi è che opera lo sfruttamento?
«C‘è la connivenza di organizzazioni criminali italiane, ma il traffico vero e proprio è gestito da trafficanti nigeriani e soprattutto da donne nigeriane, le cosiddette madame, le maman, che le custodiscono dopo che sono sbarcate a Lampedusa. Vengono prelevate dai centri di permanenza temporanea e portate sulla strada; tanto se vengono fermate dalla polizia hanno il cedolino della richiesta d’asilo».
Il quadro è terribile, ma da dove si può cominciare per invertire la rotta?
«Prevenzione e informazione, sia nei Paesi d’origine che nei Paesi di destinazione. A settembre sono stata in Nigeria, era un po’ che non andavo, veramente il Paese è sprofondato in una miseria assoluta, eppure è pieno di petrolio, di ricchezze, ma la povera gente fa una vita estrema, nei villaggi non hanno nemmeno le scuole; la gente è disperata. E allora è disposta a credere a tutto anche perché le madame quando vanno giù arrivano con grandi ricchezze, e fanno vedere che in Europa, in Italia, c‘è lavoro e si può star bene. C‘è un’enorme ignoranza. E allora il lavoro che stiamo facendo, con la rete di religiose insieme alle Caritas e alle diocesi, è di far passare dei messaggi: guardate che l’Europa e l’Italia non sono il bengodi ma rappresentano un mondo di sfruttamento, guardate che mandate le vostre figlie verso la morte certa. C‘è un grande bisogno di investire sulla prevenzione. Inoltre, una volta che le donne hanno vissuto questa esperienza ricostruirle è difficilissimo, sono svuotate, non hanno più parametri, e sono state abituate ad essere usate e ributtate, non hanno più il senso della loro dignità, hanno in mente solo i soldi».
Quale lavoro fate in questo contesto come religiose?
«Noi religiose siamo state le prime a capire la necessità di creare una rete fra Paesi d’origine, transito e destinazione. Abbiamo detto: i trafficanti sono organizzatissimi per catturare le loro prede, noi dovremo essere altrettanto organizzate per bloccare questo fenomeno e dare risposte alternative. E abbiamo creato questa rete, ormai mondiale, che si chiama Talitha Kum, che raggiunge tutti i gruppi di religiose che si sono formati nei singoli Paesi e nei continenti e a livello intercontinentale e li mette in continuo contatto fra di loro. Lavoriamo sempre in rete».
Quindi siete favorevoli a strumenti come quello dei ‘canali umanitari’ per gestire l’immigrazione?
«Certamente. L’importante poi è che su questi temi si lavori con intelligenza. Le nostre case di accoglienza per esempio, hanno una tipologia particolare: le regole del gioco le facciamo noi. Se dobbiamo dare un’accoglienza diamola bene, creiamo occasioni di integrazione; che imparino a leggere e scrivere, teniamoli impegnati. Che poi è un modo per stabilire contatti positivi con le popolazioni locali; se infatti la gente vede queste persone girare a vuoto tutto il giorno, ragazzi che non sanno che fare dalla mattina alla sera, è naturale che alla fine si ribelli, che nascano preoccupazioni».
In quali altre aree del mondo il problema è particolarmente sentito?
«Nel sud est asiatico, per esempio, il problema è terribile, soprattutto per lo sfruttamento dei minori, dovuto anche al turismo. Ci sono queste bambine di 7,8 o 9 anni sfruttate sessualmente, è un crimine contro l’umanità».
Emerge, da quello che dice, un dato: c‘è un mercato, una domanda, una clientela nei Paesi ricchi…
«Sì, il problema della richiesta. Noi dobbiamo puntare moltissimo sulla formazione dei nostri giovani. La formazione al rispetto della dignità della persona, spiegare che non basta pagare per fare ciò che si vuole, la dignità di una persona non si compra, e quindi c‘è molto da fare. Noi, nei Paesi occidentali, dobbiamo investire sulla formazione e poi avere il coraggio di dire: ‘non ti è lecito!’. Chi ha più il coraggio di essere come Giovanni Battista che ha detto: ‘non ti è lecito’ a costo della sua vita. Ma anche noi come Chiesa dobbiamo diventare voce di questi poveri».
Su questo tema la voce del Papa si è levata con forza…
«È una voce, la sua, che ci stimola in continuazione, come Chiesa, come istituti religiosi, è un grande sostegno e un grande appoggio. C‘è però anche bisogno dei governi che stabiliscano delle leggi adeguate…»
Va quindi perseguito anche il cliente?
«Sì, d’altro canto oggi sulle strade non c‘è più distinzione fra il giorno e la notte. Quando arrivai a Roma nel 2000, andavo sulla Salaria di notte e trovavo 40 nigeriane, adesso non c‘è più differenza fra il giorno e la notte la donne in vendita sono dappertutto. Come si vende un sacco di patate si vende una donna. Che valori stiamo proponendo alla nostra società? C‘è solo il valore del denaro, per cui io pago e posso fare quello che voglio. Ma non si può comprare la dignità e il corpo di una minorenne; la prevenzione va fatta ceto nei Paesi d’origine, ma dovremmo lavorare anche moltissimo sulla richiesta, c‘è bisogno di un lavoro a tappeto nelle scuole, nelle parrocchie. Non si sente mai in una predica accennare a questo problema. Tutte le realtà di Chiesa devono sentirsi coinvolte in questo enorme problema, purtroppo invece le conferenze episcopali non ne parlano mai. E questa è una cosa che deve cambiare, serve la voce dei vescovi».
Riprendiamo dal sito http://www.mosaico-cem.it/ un articolo di Fiona Diwan pubblicato il 6/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2017)
Siamo in un’Accademia di studio a Babilonia, II secolo ev. Uno studente, Kahana, si nasconde sotto il letto del Maestro, detto Rav o Abba, e lo spia mentre sta avendo rapporti coniugali con la moglie: «… sente il suo maestro conversare e divertire sua moglie» e poi unirsi a lei. Kahana allora si palesa, alza la voce da sotto il nascondiglio e dice «La bocca di Abba sembra avere molta fame!». Scoprendo lo sfacciato intruso, il maestro gli dice: «Kahana, sei lì? Esci di qui, non ci si comporta così»; e l’allievo allora gli risponde: «Ma è la Torà e io devo studiarla!». Questa scena di voyeurismo è oggetto di uno stupefacente racconto del Talmud, nel trattato di Berakhot 62a. Chi ha ragione tra i due? Il Maestro che richiama l’allievo alle più elementari regole della buona educazione o l’allievo che, in modo paradossale, rivendica che una camera da letto è anche una casa di studio, così come lo è una biblioteca, e nella sessualità ci sarebbe un insegnamento sacro che spetta al maestro trasmettere allo stesso titolo di ogni altro sapere? I maestri del Talmud, da sempre, suggeriscono che l’insegnamento della Torà non si trova solo nei libri e che esiste una saggezza esistenziale che risiede in un modo di essere nel mondo, in un’arte di nutrirsi, lavarsi, pettinarsi e addirittura di allacciarsi i sandali. L’ebraismo rabbinico, opponendosi al dualismo del mondo greco-romano, non separa corpo e spirito, il corpo non solo non imprigiona l’anima né il pensiero, ma addirittura partecipa alla santificazione, alla relazione col divino, ed è un supporto di elevazione. Sempre nel Talmud, ci si chiede che cosa accadrebbe se si togliesse dal mondo la concupiscenza, lo Yetzer haRa. Risposta: “neanche un uovo verrebbe più deposto sulla terra” (Yomà 69b). Ovvero, se eliminiamo il desiderio, l’ordine del mondo e la sua continuità verrebbero compromessi. Del resto, come dice il rav e pensatore Itzchak Kutner, l’ebraismo non è forse un binyan shel chashvut, una costruzione di importanza, un edificio di significato? Tutto è importante per l’ebraismo, si spacca il capello in quattro e su ogni cosa di recita una berachà, anche bere un banale bicchier d’acqua diventa un gesto sacro per il quale dire grazie. Gli antichi romani, – professionisti in sacrifici umani con prigionieri dati in pasto ad animali e folla -, erano disgustati dalle regole della Kasherut, e dicevano che gli ebrei portano Dio in cucina. La realtà è che la sfida della vita ebraica è quella di portare l’Altissimo in ogni luogo, anche nei posti più oscuri, e di aumentare la Sua presenza con il più piccolo gesto. «Il Trattato di Berakhot esemplifica in tanti modi il fatto che il Talmud non censura niente, che ogni momento della vita dell’uomo è sacro e parte della creazione e dunque se ne parla. Che il corpo è importante quanto l’anima, il corpo non “sporca” il pensiero né lo spirito come in altre culture, ma è fondamentale per l’elevazione dell’essere umano, e quindi anche il sesso e il desiderio», dichiara l’editore Shulim Vogelmann che manda alle stampe per Giuntina i due volumi indivisibili del Trattato di Berakhot (pagine 994, euro 90,00), all’interno del Progetto Traduzione del Talmud, curato da rav Gianfranco Di Segni e diretto da Clelia Piperno, una seconda tranche questa dopo quella del Trattato di Rosh haShanà uscita nel 2016. Un’opera imponente, più di 50 studiosi e traduttori al lavoro e un software di linguistica e filologia computazionali, Traduco, assolutamente rivoluzionario e innovativo, il Progetto di Traduzione del Talmud aggiunge così un altro, imponente tassello alla costruzione dell’intero edificio. «Il sistema informatico Traduco, progettato e realizzato per la traduzione del Talmud Babilonese, si è consolidato nelle procedure raggiungendo ormai una forma stabile che garantisce continuità di lavoro nonché una relativa semplicità d’uso, ottenuta anche grazie alla stretta e continua collaborazione fra informatici e addetti alle fasi di interpretazione/traduzione e redazione», spiega Andrea Bozzi, coordinatore del comitato scientifico del PTTB. «Il lavoro di traduzione e di commento non ha preso più di un anno circa. Ogni capitolo è stato affidato a un traduttore diverso, quindi abbiamo nove traduttori (fra cui anche una traduttrice, diplomatasi al corso di Bagrut del Collegio rabbinico italiano)», spiega rav Gianfranco Di Segni, a cui è stata affidata la curatela dell’intero Progetto. «Tutto il testo è stato successivamente rivisto da quattro revisori di contenuto (due o tre capitoli ciascuno) e dalla redazione linguistica, per poi essere rivisto un’altra volta dal curatore con il compito di uniformare il tutto e integrarlo con tabelle, illustrazioni, rubriche varie, approntate da diversi collaboratori. Infine il trattato è stato impaginato e nuovamente sottoposto a revisione finale. Tutto questo lavoro di revisione dopo la traduzione ha preso tempo, circa altri tre anni. Per un trattato che nella nostra edizione sviluppa circa 1000 pagine è normale. C’è da considerare che il trattato Berakhòt è il più lungo di tutto il Talmud, non in termini di dappim (“fogli”, che sono 64, non un numero altissimo), bensì di caratteri: il motivo è che ci sono molti dappim con molto testo, a differenza di altri trattati in cui spesso i dappim hanno poco testo (ma molto commento). «L’importanza di Berakhòt sta anche nel fatto che è il primo trattato del Talmud – prosegue Di Segni -. In esso ci sono i fondamenti della fede ebraica, come le regole della lettura dello Shemà Israèl (Ascolta Israele…) e delle preghiere. Una domanda, molto attuale, è se lo Shemà possa essere recitato in una qualsiasi lingua o solo in ebraico. Si parla delle tante benedizioni che in diverse occasioni si recitano: molte quando si mangia, ma non solo. Anche quando si sente un tuono c’è un’apposita benedizione, che dice “Benedetto Tu o Signore la Cui potenza riempie il mondo”, e un’altra per quando si vede un fulmine o si assiste al passaggio di una cometa, e così via. C’è una benedizione per quando si vede un re o una bella creatura e in tanti altri casi. Ma non solo di preghiere e benedizioni si tratta, ci sono moltissimi altri argomenti. Si parla di sogni e dei modi di interpretarli. Ci si chiede se nell’aldilà si sia a conoscenza di ciò che succede sulla terra. Si parla dei motivi della sofferenza. Ci sono alcune pagine dedicate al problema se sia meglio una scuola a numero chiuso o aperta a chiunque, un altro problema attuale. Si parla della creazione dell’uomo e della donna, che secondo una opinione furono creati insieme e costituivano un essere androgino, che solo successivamente fu diviso in due: un’idea che può avere molte ripercussioni nel dibattito attuale sull’identità di genere. E tanto altro ancora. Insomma, buona lettura e buono studio (perché il Talmud va studiato e non solo letto; la parola “Talmud” vuole appunto dire “studio”)». Ma come si struttura la lettura del Talmud Berakhot? «I procedimenti di spiegazione dei testi e di confronto tra le fonti impiegano una struttura caratteristica (con uno specifico dizionario di espressioni) di domande e risposte, obiezioni e confutazioni spesso concatenate e articolate, in modo da rendere lo studio del testo stimolante e complesso. Con diversi meccanismi di associazione di idee e di analogia, la discussione si allarga ad argomenti anche molto diversi da quello iniziale. Una parte considerevole di queste “estensioni” non ha implicazioni strettamente giuridiche e di Halachà, e viene definita Aggadà, un campo che riguarda l’esegesi biblica, le narrazioni, gli insegnamenti morali e di buon comportamento», spiega Rav Riccardo Di Segni, Presidente del Progetto Traduzione Talmud Babilonese. Che cosa troviamo ancora in Berakhòt? Il trattato di “Benedizioni” ha nell’ebraismo significati rituali, religiosi e filosoficiche conducono il lettore a riflettere sul rapporto stesso tra l’uomo e il divino. È il trattato che apre il Talmud, considerato tra i più profondi e interessanti, e che affronta norme agricole, regole relative alla più importante preghiera, lo Shemà, ma anche l’Amidà. Efficacia di preghiere e benedizioni E poi le regole che traggono origine dalla preghiera di Channà (la cui storia viene qui raccontata), la donna sterile che si recò al Bet Hamigdash per pregare il Signore di concederle un figlio. La preghiera fu efficace e da lì a un anno nacque un bambino, Samuele, il profeta. E poi le benedizioni sul cibo e sulla vita quotidiana o a quando si assiste a un miracolo, a un particolare fenomeno atmosferico o a uno spettacolo della natura, di quando ci si salva da un pericolo o si riceve una buona o una cattiva notizia. Ma il trattato Berakhòt è famoso per le sue numerose parti di racconto, di Midrash. Si tratta di passaggi che aprono lo spazio a considerazioni filosofiche, alla conoscenza storica, archeologica e scientifica, con brani di notevole interesse anche economico e sociologico. E infine troviamo una incredibile e molto freudiana disamina dei sogni, della possibilità di interpretarli e del valore che può essere loro attribuito. Nei nove capitoli di Berakhòt, nella migliore tradizione talmudica, si entra in una sorta di “universo” nel quale nessun argomento è escluso dalla discussione dei maestri. Il capitolo 9 è dedicato appunto quasi tutto ai sogni. Dal foglio 55a: “Disse rav Chisdà: Tutti i sogni vanno bene eccetto un sogno in cui ci si vede mentre si digiuna”. Spiegano i Maestri: a un sogno fatto durante un digiuno non si deve dare valore. Per lo stesso motivo un sogno conseguente a una grande angoscia o sofferenza non deve essere preso in considerazione. “E disse ancora rav Chisdà: Un sogno che non è stato interpretato è come una lettera che non è stata letta”. Spiegano i Maestri: Il sogno è una lettera che Dio ci manda, con un messaggio cifrato che va compreso attraverso l’interpretazione. Secondo Rashì un sogno premonitore si realizza nel modo in cui è stato interpretato, quindi lo stesso sogno può essere buono o cattivo a seconda dell’interpretazione che gli viene data. Se non è stato interpretato, anche un buon sogno non si realizzerà. Il fatto tuttavia che per motivi contingenti si sia venuti meno alla proibizione di mettere per iscritto la Torà Orale, non ci deve far credere che essa abbia perso la sua natura originaria, ossia la sostanziale oralità. La Torà Orale è stata paradossalmente messa per iscritto al fine di poter continuare a essere espressa oralmente dal popolo d’Israele. La vita dell’ebreo inizia quindi con la capacità di benedire. Ma cosa significa benedire e cos’è una benedizione? «È la capacità di dire grazie. Il Trattato di Berakhot è il più studiato e il meno difficile. Come mai la Legge Orale inizia con questo trattato? Perché ha come cardine il principio di riconoscenza: se non si è capaci di riconoscenza verso Dio non lo si sarà nemmeno verso gli altri», spiega Rav Roberto Della Rocca. «Chi non è riconoscente non dà valore a nulla, dice Maimonide, ed è questo il senso profondo di una berachà, ossia che ogni cosa non deve essere data per scontata, non ti viene data gratis. E che è nel saper dire grazie che sta la grandezza di ciascuno di noi. La berachà, la benedizione, cos’è in fondo se non la capacità di essere consapevoli che non si è autosufficienti, né onnipotenti?, per educarci al senso del limite o a non diventare troppo egoriferiti? Prima di metterti a seminare un campo devi capire da dove ti viene il raccolto». Il Talmud quindi non solo come Opus magnum dell’ebraismo, ma anche come Opera aperta, un al di là del versetto che produce un’esplosione del testo, un big bang di significato, capace di creare ulteriori mondi di senso. Ma anche che nutre, sostanzia e disciplina la materia incandescente della vita nei suoi più intimi e riposti recessi. Specie nella modalità della Machloket, la discussione talmudica, una polemica incessante dove non si persegue la conciliazione, nessuna sintesi conciliatoria che viene a sopprimere la contraddizione. La Machloket, scrive Marc-Alain Ouaknin ne Il libro bruciato (ECIG), è un modo di pensare il rifiuto della sintesi e del sistema: è antidogmatismo allo stato puro, è parola plurale, un pensiero che non può essere posseduto, è un dire e disdire, scrivere e cancellare, pensiero atletico e destabilizzazione incessante; e la Chavrutà, l’amicizia di studio, non è un incontro tra due persone che condividono lo stesso pensiero, ma lo scontro tra duellanti mai stanchi di capire ciò che il testo (e la vita) ci vogliono dire. «Forse il miglior modo per farsi un’idea di quest’opera consiste nel considerare che non esiste nessun altro libro come il Talmud, in nessuna letteratura – scrive Rav Adin Steinsaltz -. Si può affermare che la maggior parte del Talmud è composta da discussioni sulla legge ebraica. E, dal momento che la legge ebraica abbraccia pressoché ogni aspetto della vita, queste discussioni sono altrettanto sfaccettate: filosofiche, teologiche, legali e filologiche. Il Talmud non pretende di essere un’enciclopedia, tuttavia si occupa di tutto, dall’astrologia alla zoologia, dalla medicina all’economia, così come tratta di demoni e di angeli. Il suo stile è conciso, fino a risultare criptico; si ripropone di fornire prove sicure, come in matematica, ma la sua struttura è costruita sulle libere associazioni, come nella poesia».
Riprendiamo da Avvenire del 22/7/2015 un articolo di Silvia Guzzetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
N.B. de Gli scritti La scoperta è importante, non tanto per le interpretazioni erronee che ne sono state date, quasi che siano esistiti necessariamente frammenti coranici prima di Maometto, bensì perché invita a pensare il Corano insieme ai dati documentari: questa è la strada per camminare insieme agli amici musulmani, mostrando come il lavoro interpretativo non debba spaventare, perché l’esegesi cattolica e quella ebraica, confrontandosi con le ricerche archeologiche e storiche sono arrivate nei millenni a posizione nuove su Adamo, Abramo e Mosè, mantenendo salda la fede, e che, quindi, non si deve avere paura di studiare scientificamente e storicamente i testi antichi, anzi proprio lo studio dei testi in comparazione con la storia li libera dalle interpretazioni fondamentaliste, mostrando come non siano veri “letteralmente”, bensì nel loro significato salvifico. Allo stesso modo, la tradizione cristiana insegna l’importanza che sia data alle donne la possibilità di studiare i testi sacri e di superare anche gli uomini in questo, come è avvenuto nel caso di questa scoperta.
“Ho capito dalla scrittura che quei manoscritti erano così antichi. Quel tipo particolare di caratteri risale a quel periodo”. Con queste parole la ricercatrice milanese, Alba Fedeli, racconta la scoperta del manoscritto più antico del Corano che sta facendo il giro del mondo. Milanese, allieva di Sergio Noja Noseda, laureata alla Cattolica, la dottoressa Fedeli ha insegnato arabo alla Statale prima di partire per l’università di Birmingham nel 2000. Proprio studiando antiche pergamene negli archivi dell’ateneo inglese si accorge che si tratta dei frammenti più antichi del Corano che sono rimasti lì per un secolo senza che nessuno si accorgesse della loro importanza. La ricercatrice ha insistito perché la biblioteca facesse datare col carbonio dall’università di Oxford la pergamena di pelle di pecora o capra che ha collocato il manoscritto nel periodo che va dall’anno 568 all’anno 645 entro due decenni dalla morte del profeta Maometto. L’autore del testo avrebbe quindi conosciuto personalmente il fondatore dell’islam e ascoltato il testo fondamentale della religione musulmana recitato proprio sulle sue labbra. Immagini del manoscritto completo sono già disponibili su Internet, nella “Virtual Manuscript Room” dell’ Institute for Textual Scholarship and Electronic Editing dell’università di Birmingham, e la dottoressa Fedeli ha curato anche versioni elettroniche del testo. La pergamena, che è rimasta per anni in una collezione di documenti del Medio Oriente, sarebbe stata scritta meno di due decenni dopo la morte del profetta Maometto da qualcuno che l’avrebbe conosciuto personalmente. Secondo Muhammad Isa Waley, l’esperto della British Library su questo tipo di manoscritti, la scoperta renderà felici i musulmani.
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 7/12/2017 un articolo di Silvia Morosi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Ecologia.
Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo di Roberto Contu pubblicato il 6/12/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
Quando il direttore di Romasette.it mi ha proposto una rubrica sugli adolescenti, un secondo dopo la gratitudine, ho chiesto di potere riflettere un po’ prima di accettare. Insegno da quindici anni in un istituto di secondo grado e mi occupo di didattica e di formazione degli insegnanti, da anni mi capita di scrivere sulla scuola e, non ultimo, due dei miei tre figli sono adolescenti: il tema dovrebbe essere per me pane quotidiano. Eppure la prima preoccupazione è stata sul cosa non avrei voluto scrivere in una rubrica che parla di adolescenti piuttosto che su cosa avrei potuto scrivere. Provo a spiegare. Oggi mi pare siano ricorrenti due tendenze ogni volta che gli adulti affrontano questo tema. La prima riguarda l’enfatizzazione della difficoltà dello sguardo tra generazioni, quasi sempre esercitato dall’alto verso il basso. Tanto più in una società dove la distanza d’età tra genitori e figli è andata aumentando, il confronto tra noi e i nostri tempi e loro e il loro tempo sembra sempre più arduo, per qualcuno impossibile. La seconda tendenza è quella dell’enfasi sul montare del dato emergenziale. A scuola, sui media, al parco tra genitori, in parrocchia, dire adolescenza è sempre più dire, a caso e in ordine sparso, bullismo e cyberbullismo, violenze e fragilità, dipendenza dal mondo digitale, sessualizzazione precoce, incapacità della gestione emotiva, mancanza di motivazioni. Ecco, in queste due tendenze, semplificate in modo sbrigativo, si compendia tutto ciò che non vorrei scrivere in questa rubrica. Non perché non ci sia del vero in analisi del genere: sarebbe stupido negare il realismo di un certo tipo di sguardo. Ma di questo in molti dicono e scrivono meglio del sottoscritto. Credo però che in questa alterità così burrascosa (mi basta pensare al dopocena di ieri, tra fuoco e fiamme con un figlio, sulla via crucis per la gestione del suo smartphone) esista ben più di un piano inclinato verso il basso o peggio di un precipitare verso l’abisso. E lo dico non solo per l’esperienza quotidiana di un volto altro del mondo adolescenziale, assolutamente carico di bellezza. Per quanto altrettanto vero, per quanto esperienza dei molti che sanno accendere luci piuttosto che spegnerle, non sarebbe sufficiente ribadire il volto luminoso dell’adolescenza: rientrerebbe in ciò che è sempre stato l’eterno incontro/scontro tra le generazioni. Lo dico piuttosto per una convinzione anzitutto di pensiero, precisa, riguardante il nostro tempo e da questo determinata. Sono persuaso che oggi questo confronto, al netto della gran fatica che impone, sia per noi adulti occasione imperdibile di riappropriazione di un mondo nuovo che non abbiamo ancora compreso, altro da quello che è stato e che loro abitano già. I nostri adolescenti comunicano in modo diverso, stanno nella storia in modo diverso, conoscono in modo diverso. I nostri adolescenti amano in modo diverso, odiano in modo diverso, soprattutto azzerano un bagaglio valoriale che è stato valido per generazioni. Questa apparente tabula rasa spesso ci spaventa fino a diventare un lutto impossibile da elaborare. Eppure mi domando: siamo sicuri che il vuoto che questa generazione sta facendo sia un deserto senza vita? Non potrebbe essere invece un inedito spazio di libertà abitabile anzitutto da noi adulti? Siamo sicuri che sia necessariamente un male la rimessa in discussione delle pietre angolari della nostra generazione, siano esse antropologiche, culturali, ideali, spirituali? Potrebbe esserlo, certo, ma per dichiarare il default c’è sempre tempo. Chissà se invece, provando a visitare il mondo degli adolescenti, nelle sue irriducibili complessità e contraddittorie bellezze, non possa aprirsi proprio per noi adulti un nuovo e inatteso spazio di conoscenza e di speranza. Sì, proprio a partire da quelli che ci sembrano gli spauracchi peggiori e su cui vorrei provare a dialogare con voi in questa rubrica. Appuntamento tra quindici giorni.
Riprendiamo da Avvenire del 10/12/2017 un’intervista di Monica Mondo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2017)
Teologo, domenicano, biblista, docente a Oxford, consultore del Pontificio consiglio Giustizia e pace. Padre Timothy Radcliffe ha il sorriso di Fra Tuck, il compagno di Robin Hood, e non è purtroppo lo zio di Daniel Radcliffe, l’attore che impersona Harry Potter, anche se, spiega, gli piacciono molto i libri e i film di Harry Potter: sarebbe un bell’escamotage e un bel modo per attirare tanti giovani. E visto che il cristianesimo si diffonde per contagio, potrebbe forse nascondere la sua vera identità e dire che è davvero lo zio di Harry Potter. «Beh, sicuramente venderei molti più libri se facessi in questa maniera!». «Aver fede nel tempo dell’incertezza si può», come recita il sottotitolo del suo Il bordo del mistero edito per l’Italia dalla Emi (Pagine 144, euro 14,00). «Sì, penso che sempre in periodi di incertezza si deve aver fede perché essere cristiano, essere credente non significa che hai tutte le risposte, ma significa che sei sempre in cerca, sei sempre all’inizio della tua indagine. E in tal senso essere cristiano significa sempre essere in un’avventura in cui c’è sempre bisogno dell’aiuto di tutti i tuoi amici, di tutte le persone che sono con te».
Lei dice che viviamo «nel tempo del fondamentalismo, che è una caratteristica della modernità». In che senso? Prima c’era lo stesso, e i domenicani erano considerati maestri di rigore. “Domini canes”, si interpretava.
«C’è una distinzione da fare tra rigore e fondamentalismo. Il fondamentalismo significa che in un solo linguaggio si possono avere tutte le risposte. Il fondamentalismo del XIX secolo è stato quello scientifico, si pensava che la scienza ti potesse rispondere a tutto. Oggi invece abbiamo un fondamentalismo economico e molti pensano che il mercato sia la soluzione di ogni bisogno. E poi c’è il fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo si genera quando c’è un modo troppo semplicistico di descrivere le cose, e penso che la via d’uscita sia sempre impegnarsi con chi la pensa in maniera diversa, mentre i fondamentalisti non riescono a parlare con quelli che pensano diversamente da loro. Il rigore è ben altra cosa, rigore significa che si cerca di fare di tutto per comprendere i grandi interrogativi: l’analisi profonda è molto diversa dal fondamentalismo».
«Amare la gente – scrive – significa trovare la giusta combinazione di offerta di spazio e dono di sé». Ovvero troppa o troppo poca libertà fanno male?
«Se si parla a qualcuno bisogna sempre cercare di dargli spazio, perché possa mostrarsi l’altro, per ascoltare come parla, chi è veramente. Ogni volta che si parla con qualcuno ci si sorprende sempre, e gli devi dare lo spazio perché ti possa sorprendere, questo è il cuore di ogni buona e giusta conversazione. In qualunque amicizia si dà a chi hai di fronte la possibilità di essere diversa da quel che tu pensavi all’inizio e di non conformarsi alle tue idee iniziali su quella persona».
Come si fa ad avere speranza?
«Penso, in base alla mia esperienza, che se si vuole sperare bisogna rivolgersi soprattutto a quelli che sembrano non avere più speranza, e si apprenderà insieme a sperare. Ricordate, c’è stato a settembre uno spaventoso uragano a Houston: io sono stato sul posto per visitare tutte le aree devastate. La gente mi ha detto che all’inizio era molto arrabbiata, però quello che mi ha colpito è stato il loro coraggio, e anche la loro gioia di essere vivi. E questo ha aiutato anche me a sperare. Io andrò a Baghdad per trascorrere un po’ di tempo con fratelli e sorelle, e posso dire che se si vuole avere speranza si deve proprio andare a Baghdad, perché si incontrano persone la cui vita è veramente molto dura, non possiamo neanche immaginarlo. E si vede, si riscontra una speranza che non pensavi potesse esistere».
Senza perdono dei peccati non c’è speranza?
«Sì, il contrario della felicità non è la tristezza ma avere un cuore duro che non ha più sentimenti. Quando si è in contatto con persone che soffrono ti si apre il cuore, e se il tuo cuore si spalanca puoi essere felice di nuovo. La cosa più importante per essere felici è rifuggire dalle tue piccole preoccupazioni. Quando tu sperimenti il dolore degli altri, smetti di pensare a te stesso e cominci a condividere quello che vivono loro e allora avrai una felicità enorme, avrai un’anima. Nel libro di Ezechiele si dice: “Toglierò i vostri cuori di pietra e vi renderò cuori di carne”, un cuore quindi che è in grado di sentire, di avere nuovamente sentimenti»
Cito ancora da Il bordo del mistero: «La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso».
«Quando soffriamo talvolta pensiamo che le nostre vite non abbiano più significato, e ci chiediamo perché questa sofferenza, a cosa serva. Ma questa è una perdita di tempo! La nostra speranza è che alla fine vedremo come la nostra vita è un percorso, un viaggio verso la pienezza dell’amore, della comprensione. E quindi noi viaggiamo per cercare di capire chi siamo, per vedere i piccoli segni che ci fanno capire dove stiamo andando. Dobbiamo fidarci, e quando arriviamo alla pienezza d’amore e di vita, nonostante le prove che abbiamo passato, allora riscopriamo il significato. Adesso abbiamo soltanto qualche flash qua e là, che ci fa capire che siamo fatti per amare, amare totalmente. Arriveremo alla pienezza d’amore alla fine del nostro percorso e tutto quello che abbiamo vissuto, abbiamo sopportato, allora assume significato».
«Il cristianesimo fa richieste francamente impossibili», scrive. Che non possiamo ottemperare da soli. Ci vuole la Chiesa, quindi?
«Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Perché tu puoi essere in grado di amare in un modo di cui io non sono capace e così io rispetto a te. Un amore incondizionato è impossibile, è un dono che viene dato a ognuno di noi poco a poco, nel tempo. La cosa più bella dell’essere umano è che è chiamato ad essere sempre qualcosa di più, più di quello che noi possiamo immaginare, pensare di essere. Domani incontrerai tuo fratello, tua sorella, tuo figlio, tua figlia, che ti insegneranno molto di più e ti faranno entrare in questa pienezza dell’amore. Penso che ogni volta che amiamo qualcuno di un amore vero, ci rendiamo conto del mistero trascendente dell’amore che va oltre tutto quello che riusciamo a immaginare di poter ricevere».
«La modernità accetta la fede se rimane confinata nell’ambito privato o se ha un ruolo decorativo, senza invadere lo spazio pubblico». Se è irrilevante, dunque, da sacrestia.
«E non può essere così! Penso per esempio a papa Francesco, che in questo momento si sta impegnando con i problemi umani immediati, e penso che il cattolicesimo è sempre affascinato dai drammi che la gente vive, qui ed ora. Aver fede non significa vivere in un piccolo mondo isolato, rimanere in un angolo, al sicuro, ma impegnarsi nella realtà. Ed è quello che fa il Papa andando a visitare i posti più difficili sulla Terra».
Spesso crediamo che obbedire significhi abbandonare la ragione e la libertà.
«Mi piace moltissimo l’origine del termine “obbedienza” che viene da ob audiens, che significa ascoltare profondamente. Per me essere obbediente nei confronti del mio fratello, come domenicano, non vuol dire smettere di pensare, “faccio quello che gli altri mi dicono”: no, io ascolto con tutta la mia intelligenza, con tutta la mia immaginazione e fantasia. Quindi la vera obbedienza è basata sull’intelligenza».
«Il cristianesimo esalta la corporeità», sottolinea. Possiamo dire che è materialista più che spiritualista.
«Penso che l’essenza del cristianesimo sia che Dio è diventato uno di noi, è diventato una persona come noi, si è fatta corpo. E il dono del cristianesimo è quando Gesù dice “questo è il mio corpo, lo do a voi”; non dice la mia mente, il mio spirito e la mia anima. Dobbiamo essere contenti di essere anche corporeità, e questo proprio quando molte persone odiano il loro corpo, quando la gente si vede troppo magra, troppo grassa, troppo bassa, troppo brutta. In questo momento dobbiamo riconoscere che possiamo abitare in un corpo perché siamo spirito che abita in un corpo, e dobbiamo amarlo questo corpo. Il cuore del cristianesimo è la santità dei nostri corpi».
Anche la preghiera per noi europei, dalla Riforma in poi, è diventata un atto puramente mentale. «Invece dobbiamo pregare con un’esuberanza fisica».
«La gran parte dei cristiani un tempo pregava con il corpo, per esempio san Domenico, fondatore del mio ordine, aveva nove modi di pregare col corpo. Anche Francesco d’Assisi diceva che tutto si può esprimere con il corpo ma noi oggi invece ci sediamo a un banco da soli, sembriamo un sacco di patate, non riusciamo più ad esprimere la spontaneità della nostra fede! Per pregare bene dobbiamo chiedere ai fratelli e sorelle africani di venirci a insegnare come si prega anche con il corpo».
Riprendiamo da Il Giornale un’intervista di Stefano Zurlo pubblicata il 30/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
N.B de Gli scritti Le risposte di Massimo Cacciari all’intervistatore sono interessanti e provocanti, tranne quando, affermando che “un filosofo non può credere”, di fatto rinnega quanto proposto nell’articolo stesso, poiché si dichiara promotore di quella cultura che nega alla radice la possibilità stessa della fede. L’intervista è, comunque, rilevante e preziosa.
Il Natale. Massimo Cacciari è un crescendo stizzito, quasi una filastrocca di imprecazioni: «Il Natale dei panettoni, il Natale delle pubblicità, il Natale dei soldi. Il Natale oggi è una festina». E nel dirlo si avverte la smorfia di disgusto.
La cronaca è un susseguirsi di episodi mortificanti: la scuola che abolisce il presepe nel segno del politicamente corretto, il parroco che ha paura di celebrare la messa di mezzanotte, la comunità che rinuncia ai canti tradizionali per non urtare l'altrui sensibilità. Il filosofo si spazientisce di nuovo, poi taglia corto come una ghigliottina: «Sono i cristiani i primi ad aver abolito il Natale».
Professore, vuole provocare?
«No, la verità è che l'indifferenza regna sovrana e avvolge un po' tutti: i laici e i cattolici».
D'accordo, c'è un Natale dei pacchi e dei regali e poi?
«E poi, io che non sono credente mi interrogo: c'è un simbolo che ha dato un contributo straordinario alla nostra storia, alla nostra civiltà, alla nostra sensibilità».
Che cosa è per lei il cristianesimo?
«Il cristianesimo è una parte fondamentale del mio percorso, della mia vicenda, è qualcosa con cui mi confronto tutti i giorni».
Perché laici e cattolici oggi balbettano davanti all'evento che tagliato in due la storia?
«Perché non riflettono, perché non fanno memoria di questa storia così sconvolgente».
Dio che si fa uomo.
«Capisce? Non Dio che stabilisce una relazione con gli uomini, ma Dio che viene sulla terra attraverso Cristo. Vertiginoso».
Forse per lei e pochi altri.
«Appunto. La nostra società è anestetizzata, il Natale è diventato una favoletta, una specie di raccontino edificante che spegne le inquietudini».
Insomma non si difende più il Natale, come ha scritto sul «Giornale» Alessandro Sallusti, perché non si sa più cosa è il Natale?
«Esatto. Se posso generalizzare, e so che da qualche parte ci sono le eccezioni, il laico non si lascia scalfire da questo scandalo; l'insegnante di religione non trasmette più la forza di questa storia, ma se la cava con una spruzzata di educazione civica e il prete, spesso e volentieri, declama prediche, comode comode e rassicuranti, che sono un invito all'ateismo».
Un disastro.
«Si è perso l'abc. La prima distinzione non è fra laico e cattolico, ma fra pensante e non pensante. Se uno pensa, come pensava il cardinal Martini, allora si interroga e se si interroga prima o poi viene affascinato dal cristianesimo, dal Dio che si fa uomo scandalizzando gli ebrei e l'Islam».
Siamo alle prese con uno scontro di civiltà?
«Ma che scontro. Anche dalle loro parti si è persa la portata profonda del fatto religioso. Viviamo in un mondo che dimentica la dimensione spirituale».
Da dove può partire il dialogo con le altre religioni?
«Il dialogo parte dalla consapevolezza, ma se consapevolezza non c'è, allora prepariamoci al peggio. E infatti i cristiani sono, e so che da qualche parte c'è sempre un resto d'Israele, servi sciocchi del nostro tempo».
Insomma, che cosa manca?
«Manca il brivido davanti a una vicenda cosi grande, incommensurabile. Io vedo nei musei le scolaresche che sostano davanti ai quadri con soggetto religioso».
Ce l'ha pure con i liceali?
«No, ce l'ho con i loro professori e non solo con loro. Questi giovani ricevono nozioni di natura estetica, ma poi se ti avvicini e chiedi loro: chi è quel santo? È il Battista? È Paolo? È Giovanni? Ti guardano con occhi sbarrati, non sanno nulla, sono smemorati come il nostro tempo».
Cacciari, ma lei è sicuro di non credere?
«Il filosofo non può credere».
Questo, con rispetto, lo afferma lei.
«Il filosofo non può accettare la lezione cristiana, però è inquieto e riflette».
Dunque lei prega?
«La ricerca a un certo punto si avvicina alla preghiera. Certo, il fedele è convinto che la sua preghiera sia ascoltata, il filosofo prega il nulla. Però resta stupefatto davanti al mistero. E lo assorbe, come ho fatto nel mio ultimo libro su Maria: Generare Dio. Pensi, una ragazzetta che è madre di Dio. Da non credere, anche per chi ci crede».
Piatto nazista con il Natale tramutato in festa del solstizio
Follie storiche
Anche Hitler festeggiava il Natale? Nel 1941 aveva organizzato una grande cena sotto l’albero con tutti gli ufficiali e gli alti gradi dell’esercito. Ma non era contento: nella sua mente anche il Natale doveva diventare una festa diversa, una festa nazista.
Il Natale come festa della pace sulla Terra?
No: come recita un articolo di propaganda del 1937 (“Nuovi significati da dare ai Costumi ereditati”) il Natale non dovrebbe essere una “festa per una teorica pace per tutta l’umanità”, ma “una festa per la pace nazionale e domestica”. E questo implicava la necessità di liberarsi dei nemici della patria, come ebrei, rom, comunisti e omosessuali. Non era nemmeno concepibile che i tedeschi festeggiassero “il prodotto di una cultura orientale: il Natale doveva diventare germanico, come celebrazione dello spirito tedesco, dell’etnia tedesca, del sangue tedesco”. Insomma, andava cambiato. Ma come?
La parola “Natale”, la nascita di Gesù e l’arrivo di Babbo Natale
Prima di tutto, il Natale andava de-cristianizzato. La cosa poteva essere anche sembrare difficile, ma non lo è stata: si è fatto ricorso alle radici pagane della festa, che rintracciano l’origine in un antico culto del Sole e celebrano il solstizio. E, in questo modo, si metteva in soffitta ogni riferimento cristiano.
Per eccesso di zelo, decisero di modificarne anche il nome: anche se, a differenza dell’inglese “Christmas”, nel tedesco “Weihnacht” non c’è alcun riferimento al cristianesimo. Ma per evitare confusioni si è pensato di chiamarla Rauhnacht (“L’aspra notte”), con una punta di violenza in più [N.B. de Gli scritti ma anche Julfest, festa del Solstizio].
Per evitare ogni riferimento religioso nelle canzoni, si è dovuto passare a una profonda opera di riscrittura. Astro del Ciel, ad esempio, era piena di richiami alla nascita di Gesù. Ci hanno pensato Alfred Rosenberg e Heinrich Himmler in persona a riscriverla inserendo lodi nei confronti del nazional-socialismo. Il Salvatore divenne il Fuhrer.
E Babbo Natale? La questione era spinosa. Ripercorrere le sue radici implicava un richiamo alla sua origine cristiana, cioè a San Nicola di Mira, vescovo orientale (non germanico e non ariano). Non era praticabile nemmeno l’ipotesi di una cancellazione della tradizione, troppo forte e radicata nelle famiglie tedesche. Il colpo di genio fu allora di ribattezzarlo: aveva la barba? Sì? Allora era Odino, dio pagano della tradizione germanica, "rubato" dai cristiani ma restituito dai nazisti.
Babbo Natale come Odino
Le nuove decorazioni dell’albero
Anche qui occorrevano dei cambiamenti: l’albero andava bene, perché di chiara origine tedesca. La stella in cima no: o era a sei punte (e somigliava a quella di David) o a cinque (e ricordava il comunismo). La soluzione fu, anche qui, una sostituzione: o una bella svastica o una runa (un segno di un antico alfabeto germanico).
Al posto delle palle, ci potevano essere anche finte granate, o mitragliatrici giocattolo. O aquile, svastiche, insegne naziste, teste di Hitler. Il tutto era molto kitsch e, a sua difesa, si può dire che non piacessero tanto nemmeno a lui.
Tutte queste trovate durarono poco: nel giro di pochi anni la sorte della guerra si rovesciò e nel 1944, di fronte all’avanzata degli alleati, c’erano ben altri pensieri nella mente del Fuhrer rispetto al rebranding del Natale. Finì male per lui, e il Natale si salvò. Un pericolo scampato anche per noi, che possiamo scartare i regali senza dover ringraziare il dio Odino.
Manifesto antisemita con ebreo che commercializza il Natale
Riprendiamo da Avvenire dell’8/12/2017 un articolo di Giacomo Poretti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio. Per altri testi di Giacomo Poretti, vedi al tag giacomo_poretti.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
A volte i vescovi, se si mettono di impegno, sono capaci di rovinarti la vacanza meglio della mogli o della propria squadra di calcio. Sì, perché un milanese aspetta sant’Ambrogio come il resto d’Italia aspetta Ferragosto. Sant’Ambrogio arriva in un momento dell’anno che si situa tre mesi dopo la fine delle vacanze (a questo punto dell’anno il milanese è già agonizzante) e a due settimane dal Natale (dove svariati milanesi in genere soccombono).
Ecco che la festività di sant’Ambrogio, specie se il calendario come quest’anno favorisce un ponte di quattro giorni, è un vero è proprio toccasana da godersi tra sciate e polenta concia prima di affrontare le tanto temute festività natalizie. I viaggi in auto verso le località montane del ponte di sant’Ambrogio non sono quelli che si ricordano con maggior piacere: liti con la moglie sulle strade da evitare per non rimanere incolonnati, con il risultato che si sta tutto il tempo incolonnati a litigare, mentre dietro la nonna e il figlio si disputano l’iPhone per giocare a 'Clash of Clans'. Si arriva in loco verso le 21.30 e l’unica pizzeria del paese è stata presa d’assalto: sold out.
Si va a casa, fredda perché il papi si è dimenticato di accendere il riscaldamento, e si cerca di addormentarsi dopo una tazza di camomilla calda con la nonna che urla dalla mansarda: «La prossima volta piuttosto che venire con voi in montagna vado all’ospizio». Potrebbe bastare per un milanese tutto ciò?
No. Perché anche il Vescovo ci tiene a farsi sentire il giorno di sant’Ambrogio. Questo Vescovo, che si è insediato appena dopo le vacanze, proprio alla vigilia del 7 dicembre non gli è venuto in mente di sparare questa bomba del discorso sul buon vicinato e la decima? Ha cominciato con l’elogio e il ringraziamento praticamente di tutti quelli che lavorano a Milano, che di solito uno in quelle circostanze lì attacca coi soliti ringraziamenti dell’autorità, dello sponsor, di chi ha messo i fiori, di chi offre il salame e la fontina per l’aperitivo e poi finisce lì.
E invece questo Vescovo di Milano ha ringraziato tutti a uno a uno, tutte le categorie di lavoratori, anche i bidelli, le guardie carcerarie, quelli che ti danno il numerino al Tribunale per stare in coda, gli insegnanti di applicazioni tecniche, gli infermieri, gli stradini, e ha detto che tutti siamo utili, che se Milano funziona così bene è perché tanta gente che fa un lavoraccio (non ha detto così ma voleva dire così), si sveglia tutte le mattine e va a fare quella roba lì, e la fa bene, che uno non ci crederebbe e invece è proprio così che ha detto il Vescovo.
Dopo i ringraziamenti il Vescovo ha preso coraggio e deve essersi detto 'chi se ne frega, io la sparo più grossa' e ha tirato fuori la storia del buon vicinato, cioè ha detto 'se noi ci impegniamo, riusciamo a dimostrare che il sommo poeta Montale quando ha scritto quel bel verso ‘Milano è un enorme conglomerato di eremiti’ o aveva tre lineette di febbre oppure non era riuscito a trovare un idraulico che gli aggiustasse il lavandino che sgocciolava'. E così il Vescovo ha insistito sul fatto che dobbiamo diventare dei buoni vicini e anche pensare a loro.
Pensare ai vicini? Ma non abbiamo già tante cose a cui pensare? E come? E qui il Vescovo ha pensato 'o la va o la spacca', tanto ormai, deve essersi detto, 'al massimo mi tagliano le gomme della bicicletta'. Ha detto che bisogna ripristinare la decima!
Ma non quella in denaro, che al limite uno può sempre millantare di essere più povero di un clochard, no, il Vescovo intende la decima del proprio tempo da mettere a disposizione degli altri: «Ogni dieci parole che dici, ogni dieci discorsi che fai, dedica al vicino di casa una parola amica, una parola di speranza e di incoraggiamento. Se sei uno studente o un insegnante, ogni dieci ore dedicate allo studio, dedica un’ora a chi fa fatica a studiare. Se sei un ragazzo che ha tempo per praticare sport e divertirsi, ogni dieci ore di gioco, dedica un’ora a chi non può giocare, perché è un ragazzo come te, ma troppo solo, troppo malato. Se sei un cuoco affermato o una casalinga apprezzata per le tue ricette e per i tuoi dolci, ogni dieci torte preparate per casa tua, dedica una torta a chi non ha nessuno che si ricordi del suo compleanno. Se disponi di una casa per te e per la tua famiglia, ogni dieci accorgimenti per abbellire casa tua, dedica un gesto per abbellire l’ambiente intorno.
Naturalmente la regola delle decime potrebbe essere anche molto più impegnativa se si passa ad esempi più consistenti: ogni dieci case che affitti... ogni dieci euro che spendi... ogni dieci libri che compri... ogni dieci viaggi che fai...». Adesso capite perché il Vescovo ci ha rovinato il ponte di sant’Ambrogio? Perché noi milanesi non riusciamo a tirarci indietro quando c’è da fare qualche cosa di buono, non a caso si dice della nostra città «Milan con el cöer in man»: infatti è da mercoledì pomeriggio che stiamo pensando a come dedicare una decima del nostro shopping compulsivo; in cosa commutare una decima di happy hour; cosa potrà diventare una decima del nostro ozio televisivo; e una decima delle nostre incazzature in quale cosa si decanterà; si potrà modificare almeno di una decima la nostra alterigia?; e il nostro orgoglio è intaccabile da una decima di umiltà? Soprattutto è da intendersi che dovremmo anche rinunciare alla decima dei nostri week-end, forse è anche un bene visto come è andato quest’ultimo. Ma chi ha il coraggio di dire al Vescovo che la più incavolata è la nonna che dovrà rinunciare a una decima di 'Clash of Clans'?
Riprendiamo da Il sussidiario del 5/12/2017 un articolo di Niccolò Magnani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
L’Occidente di oggi è la prima società della storia costruita senza Dio e senza la fede: e come tale, rischia l’autodistruzione. Suona più o meno così l’allarme lanciato da uno dei massimi esperti culturali, sociali e religiosi d’Europa, il britannico Neil MacGregor, ex direttore del British Museum dal 2002 al 2015 e ora autore per Adelphi della “Storia del mondo in cento oggetti”.
Sabato scorso sul Financial Times (come ha ricordato oggi il Foglio), un articolo presentava la nuova mostra organizzata proprio da MacGregor al British Museum, dal titolo “Living with gods” in cui viene mostrato e denunciato l’estrema pericolosità di una società secolarizzata e senza Dio, nel tentativo invece di rendere evidente la grande profondità e ricchezza di tutto quel mondo che lentamente sta venendo sbarazzato dalla società moderna.
In prima battuta l’Inghilterra, ma non solo, con MacGregor che punta amaramente l’indice verso l’intero Occidente. «Siamo la prima società a funzionare senza religione», ha detto il grande esperto sulla Bbc, presentando un documentario dallo stesso titolo della mostra. Dall’Inghilterra all’Europa, il passo è breve e non c’è Brexit che tenga, le società sono su questo praticamente uguali: «siamo una società molto atipica. Stiamo cercando di fare qualcosa che nessuno ha mai tentato prima. Vivere senza narrativa comune, un cambiamento iniziato negli anni Sessanta».
DALL’ATEISMO ALLA DITTATURA
Secondo Janan Ganesh, che ha presentato la mostra sul quotidiano britannico, “la stranezza” della globalizzazione non ha fatto altro che produrre questo mondo: «gli hub della globalizzazione, come Londra, sono atei, quasi di carattere nichilista ma aspirano a ospitare un mondo esterno principalmente religioso».
Secondo il giornalista britannico, il paradosso mostrato da questo “rapporto” tra società atea e polo di attrazione per le religioni non occidentali (su tutti, Islam e induismo), vede in Londra il suo più completo “compimento”: «è diventata un centro per la finanza islamica mondiale, mettendo il suo spirito commerciale al servizio degli investitori religiosi».
Ma il risultato è la perdita, costante e sempre più veloce, della coscienza religiosa della propria tradizione: tornando al documentario firmato MacGregor, ciò che stupisce in senso negativo lo storico e esponente della cultura europea è proprio l’oblio della società per la sua componente religiosa. «In Gran Bretagna, il nostro capo di stato è stato investito del suo potere direttamente da Dio in un rituale pubblico ma la maggior parte dei cittadini lo ignora.
Quell’idea si è dissolta con incredibile velocità in questo Paese», denuncia MacGregor prima di aggiungere forse il punto centrale di questa disamina sulla società scristianizzata e senza più fede. «L’idea di separare religione e politica è impossibile. Entrambi parlano di come ci si relaziona con il mondo intorno»: secondo lo storico, la religione è al centro di come le persone fanno funzionare la comunità e per questo motivo perdere questo legame, questa relazione, ha acuito se non di fatto generato una perdita generale di comunità e una frammentazione della società come ultimo elemento risultante.
Una società atea, dimentica della proprio tradizione ed esposta ad un rischio gigantesco: nella mostra campeggia un poster di Vladimir Menshikov, “Non c’è alcun Dio” composto nel 1975. Si tratta di un oggetto che invita chiaramente ad eliminare la religione nella società, esattamente come quella stessa società particolare da cui proveniva: l’Unione Sovietica, nient’altro che un regime, una dittatura fondata sull'ateismo.
Come ricordava un passato editoriale illuminante dell’Osservatore Romano (quotidiano del Vaticano) a riguardo, «Volgendo uno sguardo retrospettivo sull’ateismo politico coltivato dal nazionalsocialismo in Germania o sul programma stalinista di estinzione della Chiesa, realizzato nell’Unione Sovietica, risulta ancora più evidente il carattere disumano e intollerante di tale neo-ateismo. Appare infatti chiaro che il cosiddetto ateismo scientifico difficilmente può opporre resistenza al suo stesso trasformarsi in ateismo quale visione globale del mondo e dunque quale programma politico-totalitario di assoluta disumanità».
Riprendiamo da La Repubblica del 23/11/2017 un articolo di Valentina Avon. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
Una mamma posta su Twitter una foto con didascalia tratta dal libro di scuola dei figli che spiega: sulla Stazione Spaziale non c'è gravità perché troppo lontana dalla Terra. E Samantha Cristoforetti risponde secca: "Quanto scritto è una grandissima sciocchezza". Aggiungendo allibita: "Ma veramente si tratta di un testo scolastico?"
"Primo anno delle superiori" ha risposto la mamma, a questo punto incuriosita, come altri commentatori, che sono intervenuti chiedendo lumi. Il punto infatti è che, come AstroSamantha ha specificato, "alla quota della Iss l'attrazione gravitazionale è circa il 90% di quella sulla superficie terrestre", cioè praticamente uguale. Ma allora, perché fluttuano?
A BORDO DELLA ISS
Nella conversazione che ne è seguita si trova la spiegazione, che ha a che fare con un certo Isaac Newton e le sue teorie (del 1687). La Stazione Spaziale è "un corpo in caduta libera che non raggiunge mai il suolo". Perché la Terra è tonda, anche se c'è chi dopo secoli ancora non vuole crederci: "La stazione 'cade' continuamente verso il suolo ma il suolo 'curva' alla stessa velocità, spiega un tweet nella conversazione. È così che la Iss orbita intorno al nostro pianeta, a 400 km sopra le nostre teste e a più di 27 mila chilometri all'ora, facendo 15 giri della Terra ogni giorno. E per chi ci sta dentro è come stare in un ascensore che precipita, con il corpo che "resta indietro": anche chi ha frequentato le giostre ha potuto fare una breve esperienza di quel fluttuare, che in orbita è continuo.
L'ERRORE SUL LIBRO DI TESTO
Nel libro c'è una foto degli astronauti con una didascalia che spiega che "allontanandosi dalla superficie terrestre, diminuisce l'intensità dell'attrazione gravitazionale", perciò sulla Iss "l'intensità della forza di gravità è ridotta al punto che persone e oggetti devono essere ancorati". Nulla di più sbagliato.
L'APPELLO DI ASTROSAM: "CONDIVIDETE IL SAPERE"
Samantha Cristoforetti ha annunciato che segnalerà il libro di testo al Miur, al ministero di Istruzione, Università e Ricerca. Dopo aver segnalato un link a una spiegazione semplice e scientifica su come funzioni la gravità nella Stazione Spaziale, e aggiunto con saggezza che "Se avete imparato una cosa nuova, vi chiedo un favore, se potete: oggi spiegatela ad un'altra persona". Cercare il sapere e condividerlo è un buon modo per difendersi da bufale, fake news, e ora anche da brutti errori sui testi scolastici.
LE SCUSE DELL'EDITORE
In serata sono arrivate le scuse di Giuseppe Ferrari, direttore editoriale della Zanichelli. In un post su Facebook scrive: "Mi scuso per il grave errore, sono due volte dispiaciuto: come direttore editoriale e come ex insegnante di fisica. Domattina su online.scuola.zanichelli.it/phelanpignocchino troverete la pagina corretta e le istruzioni per chi vuole cambiare il libro".
Vedi anche i 2 bellissimi video consigliati da Gli scritti. Nel primo Sunita Williams presenta l’intera ISS, nel secondo Samantha Cristoforetti, appena giunta sulla ISS, tiene la prima conferenza stampa, dinanzi alle icone di Cristo e della Madonna presenti sulla stazione orbitante, portate nello spazio dagli astronauti, scienziati e insieme credenti.
- Departing Space Station Commander Provides Tour of Orbital Laboratory (Sunita Williams)
- Welcome to the Space Station (Samantha Cristoforetti)
Riprendiamo dal profilo FB di Alberto Pellai un post pubblicato il 2/1/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
Terminate la grandi feste natalizie, una delle cose che mi colpisce sempre è la pletora di articoli che vengono pubblicati per promuovere con diete istantanee un dimagramento veloce dei chili di troppo presi nel corso delle mangiate festive. Per settimane la pubblicità ci ha invitato a comprare e consumare ogni genere di cibo e poi, finite le feste, la stessa pubblicità, con la complicità di testate e giornalisti sempre sul “pezzo”, ci invita a perdere peso, a sentirci in colpa per esserci lasciati andare a tavola.
Ne viene costantemente fuori un’immagine di noi in balia del cibo prima e del senso di colpa dopo. Questa ambivalenza così patologica rispetto al cibo e all’immagine corporea fa particolarmente male alle nostre figlie.
Infatti, crescere in un mondo che ha creato lo slogan “bellezza = magrezza” e che soprattutto alle ragazze impone uno standard di bellezza quasi irraggiungibile, dà molti problemi a chi è preadolescente o adolescente. Il 19 gennaio uscirà il mio nuovo libro “Girl R-Evolution. Diventà ciò che sei” (De Agostini ed.) dove provo a spiegare alle ragazze quanto gli stereotipi di genere al femminile rappresentano a volte un vero e proprio ostacolo alla crescita, impedendo loro di abbracciare un’idea di sé libera da vincoli imposti dal mercato e in grado di affermare competenze che non siano solo centrate sull’esteriorità e sull’immagine fisica da perseguire ad ogni costo.
Avete mai pensato a quanto è contraddittorio che TV e giornali siano saturi di immagini (soprattutto di donne, ci avete mai fatto caso?) che non fanno altro che cucinare e mangiare, ad ogni ora del giorno e della notte (spesso si tratta , tra l’altro di cibi ad alto contenuto calorico e con scarso valore nutrizionale). Eppure in tali immagini tutti sfoggiano un corpo perfetto. Come a confermare che il cibo è un bene di consumo, che porta un enorme piacere nella nostra vita e senza alcuna conseguenza sul nostro benessere.
Ma poi sugli stessi giornali e riviste, soprattutto quelle rivolte alle donne, si trovano sempre tra i titoli di copertina argomenti legati a diete e strategie di dimagramento. E le ricerche dimostrano che questa costante preoccupazione per il peso ha un effetto devastante soprattutto sulle ragazze. Numerosi studi dimostrano che chi consulta più frequentemente riviste o siti rivolti in particolare al pubblico femminile ha maggiori probabilità di mettersi a dieta e di considerare i corpi ritratti in quelle immagini come riferimenti per il corpo che vorrebbe avere.
Peccato che, tra tutte le ragazze che si mettono a dieta, solo una minoranza ha un reale problema di sovrappeso. Ho fatto molta ricerca su questo tema e ho scoperto che la metà circa delle ragazze con un indice di massa corporea nella norma dichiara, comunque, di mettere in pratica qualche strategia per perdere peso. E, ben più grave, una percentuale variabile tra il 20 e il 30% di coloro che sono clinicamente sottopeso (e quindi che dovrebbero avere come unico obiettivo quello di mettere su qualche chilo) sono anch’esse intrappolate nel sogno di diventare ancora più magre.
Non è un caso se negli ultimi 50 cinquant’anni, proprio a partire dal boom economico, quasi tutte le bambine del mondo hanno giocato con una bambola, – la Barbie, – il cui corpo è lontano anni luce dal corpo reale che quelle stesse bambine avranno da adulte. Un corpo, ahinoi, ingannevole, perché Barbie, se fosse una donna in carne e ossa, sarebbe letteralmente inguardabile. Inserendo la sua struttura e forma fisica in un computer e immaginando la sua altezza pari ad 1,70 metri, si scoprirebbe che le misure della Barbie adulta sarebbero 81 cm di seno, 43 cm di vita e 71 cm di fianchi. Nella realtà, una donna con quella struttura fisica sarebbe un’anoressica grave. E proprio intorno ad un modello di corpo fortemente malsano, la maggioranza delle bambine del mondo industrializzato, ha costruito le proprie fantasie di bellezza, di successo e femminilità, di autonomia e realizzazione di sé.
Per cui, in questi giorni, ogni volta che sentite parlare di senso di colpa per il cibo mangiato, di dimagramento, di lotta disperata contro i chili di troppo, provate a discutere in modo più approfondito con le ragazze che vivono al vostro fianco. Aiutatele a guardare con pensiero critico le molte immagini in cui vivono immerse, immagini che spingono a mangiare senza alcun limite e freno inibitorio, ma che al tempo stesso fanno sentire in colpa se non si ha un corpo perfetto o se si trova una traccia di cellulite sulle proprie cosce.
Davvero dobbiamo rimanere in silenzio di fronte a questa invasione ossessiva che il mercato fa nel mondo delle nostre paure e insicurezze, attaccando il nostro senso di autostima e ancorando la percezione del valore di noi stessi unicamente a parametri estetici irraggiungibili? Nel libro Girl R-evolution ho dedicato differenti capitoli agli stereotipi di genere molto diffusi tra le ragazze, tra cui quelli associati alla bellezza, alla magrezza, alla sessualizzazione precoce, alla confusione che esiste tra fare sesso e fare l’amore, al bisogno di mostrarsi nei social diversi da come si è nella realtà. Tutti temi con cui noi genitori ci confrontiamo ogni giorno, se stiamo crescendo figlie che si affacciano alla preadolescenza. Ma a volte questi temi entrano nella loro vita ancora prima, già nella prima e seconda infanzia. Voi cosa ne pensate? Qual è la sfida educativa più grande che state affrontando con le vostre figlie?
Riprendiamo da L’Espresso del 7/12/2017 un articolo di Sergio Stagnitta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Cinema e Genitori.
Il Centro culturale Gli scritti (10/12/2017)
Questa recensione, vi anticipo, sarà molto particolare nel senso che voglio raccontarvi il film Matrix (il primo episodio, quello di apertura, del 1999) esattamente come l’ho raccontato e descritto ai miei figli di 11 e 10 anni.
Qualche giorno addietro ho deciso di fargli vedere Matrix, provando a spiegargli i concetti, non semplicissimi, che stanno alla base dei film, concetti filosofici, psicologici, sociologici, tecnologici, insomma tante cose condensate in un film straordinario che ha vinto ben 5 premi Oscar. Proverò a raccontarlo con gli stessi esempi, le stesse metafore che ho utilizzato con loro, mettendo spesso in pausa il film.
Matrix si apre con il protagonista (Keanu Reeves) che di giorno è un tranquillo dipendente di una società informatica, di notte, un famoso Hacker che si fa chiamare Neo ("Neo" è l'anagramma sia della parola "one" in inglese, unico, prescelto, che di "eon" in inglese, "eone" eterno, immortale).
Neo riceve letteralmente una “chiamata” (termine che avrà un grande valore in questa storia, più avanti lo vedrete…) che lo conduce da Morpheus, capitano della città di Zion.
Morpheus gli dice perché lo ha chiamato: “Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti, senti solo che c’è. È questa sensazione che ti ha portato da me.”
Prima che Morpheus gli sveli di cosa si tratta, Neo deve fare una “scelta” (anche questo termine sarà fondamentale a proposito di schiavitù e uomini liberi), attraverso la famosissima scena della pillola azzurra o rossa. “Pillola azzurra, fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai! Pillola rossa, resti nel paese della meraviglie e vedrai quanto è profonda la terra del bianconiglio!”.
Neo sceglie la rossa, bene, si prosegue…
Attraverso le parole di Morpheus, Neo viene a scoprire che Matrix è una potentissima tecnologia di neuro-simulazione che costruisce una realtà fittizia nella mente delle persone. Quello che vediamo non è la realtà, ma pura rappresentazione. La realtà è invece che il mondo è quasi completamente distrutto, il sole si è spento, e gli esseri umani vivono coltivati all’interno di contenitori pieni di liquido e collegati a Matrix attraverso cavi elettrici. Una sorta di utero, pieno di liquido amniotico, diverso da quello materno perché ci rende schiavi piuttosto che darci la vita.
Lo scopo finale delle macchine che dominano il mondo è quello di utilizzare il corpo umano come fonte energetica, per Matrix noi siamo delle semplici pile!
Come ho raccontato tutto questo ai miei figli? Ho utilizzato il racconto biblico dell’Esodo, la liberazione dalla schiavitù del popolo ebraico, il popolo eletto da Dio.
Come sappiamo, il popolo ebraico vive in schiavitù presso gli egiziani da 430 anni. Dio si serve di Mosè per liberarlo, mettendolo in cammino nel deserto, e facendo con questo popolo un patto, ovvero che lo condurrà nella “terra promessa”.
A questo punto, ho detto ai miei figli: “ma cosa vuol dire essere schiavi? E perché non possiamo rimanere protetti e inconsapevoli nel bozzolo di Matrix. Del resto se non conosciamo la verità, anche quel modo di vivere non è poi così male! Stessa lamentela che gli ebrei hanno fatto a Mosè, quando si sono trovati nel deserto con maggiori stenti rispetto alla vita in Egitto!
La risposta che ho dato ai miei figli è: perché la schiavitù è ripetizione, essere costretti a vivere dentro uno schema rigido, sempre uguale a se stesso, prevedibile, tipico delle macchine. La libertà, di contro, non vuol dire felicità immediata (anche l’equipaggio di Morpheus viveva abbastanza male, ed infatti un membrò tradirà tutti), così come pensava il popolo ebraico e come pensiamo noi, tutti i giorni. La libertà contiene in sé una promessa più grande: rompere lo schema, a noi caro, protettivo, ma falso, che tutto nella vita procederà secondo i nostri piani, i nostri desideri. Modificare la pretesa di voler e poter controllare tutto, prevedere tutto, decidere in modo indipendente su tutto. Nella schiavitù, nulla può essere lasciato al caso, non possiamo fidarci ed affidarci a nessuno. Nessuna speranza, nessuna fede, solo controllo puro, Matrix appunto!
Per aiutare i miei figli a capire meglio la trama, ho provato ad accostarla a quella del “Signore degli anelli” (film e libro che loro amano tanto, soprattutto il maschio). Così come nel Signore degli anelli, in Matrix c’è una compagnia, un gruppo di persone con maggiore consapevolezza della maggioranza delle persone. Questa compagnia nel Signore degli anelli è capeggiata da Gandalf, un grande mago saggio, in Matrix da Morpheus. C’è un oggetto misterioso da distruggere: l’anello e Matrix. Entrambi elementi pericolosi, simboli del potere mortifero. C’è un regno da ricostruire, un nuovo tempo da vivere in libertà.
All’inizio, scrivevo, della “scelta”, termine fondamentale per questo discorso. Morpheus avrebbe potuto tranquillamente prelevare da dentro Matrix Neo, l’eletto, senza la sua volontà, "staccargli la spina" e portarlo nella nuova avventura. Ma questo non è umano: la libertà deve necessariamente passare da una scelta libera e consapevole: pillola azzurra o pillola rossa. Così come Dio avrebbe potuto senza alcun problema strappare tutti noi dalla schiavitù e dalla morte e portarci nella terra promessa; ma senza il libero arbitrio, senza scelta, sarebbe stato come Matrix, una tecnologia che ci costringe a sé, imprigionandoci e rendendoci schiavi.
La libertà passa sempre attraverso una scelta, la schiavitù mai!
Questa scelta si attiva attraverso una “chiamata”, altro tema introdotto all’inizio. Neo viene chiamato, Mosè viene chiamato, tutti noi siamo chiamati a rompere gli schemi della falsa illusione.
Del resto Neo, l’eletto, può distruggere le macchine non perché è più potente di loro, ma grazie alla sua libertà, che gli consentirà di rompere gli schemi prefissati dalla macchine, la creatività come valore aggiunto.
Concludo con un’ultima domanda: Se dovessimo rapportare questo film alla nostra vita, chi è veramente Matrix?
La risposta che ho dato ai miei figli è che Matrix siamo noi! Siamo noi esseri umani, perché abbiamo paura, paura dell’ignoto, della morte. Paura di gettarci nel vuoto, come scrivevo prima, senza certezze precostituite.
Matrix ci chiede di voler controllare tutti gli elementi. Del resto è un programma che ci costringe all’interno di una direzione schematica, ripetitiva, una sorta di “coazione a ripetere” dalla quale non si esce.
Se ci pensiamo la schiavitù ha anche un forte potere di attrazione: sapere esattamente, meglio, pretendere di sapere esattamente, cosa ci succederà domani, dopodomani, tra un anno. Avere la pretesa di dominare e controllare tutti gli eventi della vita, certamente ha una forte attrattiva, ha a che fare con il potere e soprattutto con il controllo.
La libertà, nell’Esodo è determinata da Dio che dice al popolo ebraico: guardate che in questo luogo voi siete schiavi, perché state facendo costantemente la stessa cosa. Io vi porto nel deserto, con la promessa di una terra tutta vostra, ma non vi darò subito gli elementi di benessere, vi sto dicendo piuttosto che in quel luogo voi sarete liberi perché vi metterete in cammino, starete in una condizione sempre dinamica, vigile, attiva, nella quale non è possibile sapere oltre quello che state vivendo adesso.
Quindi la libertà è la possibilità di stare in contatto con una dimensione ignota, ma sapendo (e il popolo ebraico era questo che doveva sentire profondamente), che c’è una forza buona, di amore, che ti sta conducendo per la giusta strada. La libertà è affidarsi all’altro, non quella di rimanere nel bozzolo, protettivo e immaginario di Matrix.
Devo dire che alla fine i miei figli hanno capito, e di questo ne sono stato molto felice!
Riprendiamo dal Corriere della Sera dell’8/12/2017 un articolo di Sara Regina. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Maria.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2017)
N.B. de Gli scritti È particolarmente interessante che un quotidiano del rango del Corriere della Sera, resosi conto dell’ignoranza in materia di cristianesimo presente non solo fra i suoi lettori, ma più in generale nell’opinione pubblica, decida di pubblicare articoli esplicativi e formativi, che intendono colmare le lacune. Questo è vero giornalismo, ben al di là del voyeurismo corrente. Il lavoro “giornalistico” de Gli scritti, come la pubblicazione de Le domande grandi dei bambini, si muovono nella stessa direzione: aiutare la formazione.
La «Madunina» sulla guglia maggiore del Duomo di Milano, dedicato alla Natività di Maria
L’8 dicembre la Chiesa festeggia la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria: un dogma basato su antica tradizione cristiana e proclamato ufficialmente da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 con la bolla «Ineffabilis Deus».
Ma che cosa s’intende con «Immacolata Concezione», ovvero «concepimento senza macchia»? Va chiarito innanzitutto che non si tratta di un riferimento alla verginità di Maria e al concepimento di Gesù per opera della Spirito Santo, come facilmente si potrebbe pensare. Si tratta invece di una riflessione sulla figura della donna scelta «da tutta l’eternità» per essere la madre del Salvatore.
Per questo, come si legge nella bolla di Pio IX, Maria «nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale». Il dogma è riferito quindi al concepimento di Maria stessa da parte dei suoi genitori, San Gioacchino e Sant’Anna.
Si comprende così perché papa Pio IX scelse la data dell’8 dicembre: precede di nove mesi esatti l’8 settembre, Natività di Maria, festa introdotta in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. A Maria Nascente sono dedicate moltissime chiese tra le quali il Duomo di Milano, sulla cui guglia maggiore svetta la celebre statua detta «Madunina», attraverso la quale la Beata Vergine Maria è venerata come protettrice della città.
A Lourdes nel 1858, quattro anni dopo la proclamazione del dogma, la quattordicenne Bernadette Soubirous riferì al suo parroco, padre Dominique Peyramale, di aver visto in una grotta una «piccola signora giovane» che, alzando gli occhi al cielo e unendo in segno di preghiera le mani, le aveva detto in occitano, la lingua locale, una frase che lei non aveva compreso: «Que soy era immaculada concepciou», «Io sono l’Immacolata Concezione». L’apparizione di Lourdes è oggi considerata dalla Chiesa come una delle conferme del dogma.
1/ È più grande ciò che ci unisce di ciò che ci divide
1.1/ Principio teologico e spirituale che illumina ogni dettaglio e che quindi illumina ogni successivo discorso
Giovanni Paolo II, Enciclica Ut unum sint, 20 Così credeva nell'unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all'unità di tutti i cristiani. Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: "È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide".
Papa Francesco discorso tenuto il 31/10/2016 a Malmö in Svezia «Tra di noi è molto più quello che ci unisce di quello che ci separa». Ne è segno anche il lavoro comune che luterani e cattolici fanno insieme per testimoniare nell’amore verso gli uomini la scoperta che Dio è amore
1.2/ Lo sguardo è ormai quello del Concilio Vaticano II che mostra come la discussione sul principio della sola Scriptura sia totalmente superato: Gesù è la Parola
Dei Verbum: la Parola di Dio completa è Gesù: noi non siamo un “popolo del libro” La Parola di Dio è trasmessa dalla chiesa La Parola di Dio è messa per iscritto come “regola” della fede. La Bibbia è Parla di Dio, non è “la” Parola di Dio
Tutte le lettere di san Paolo brillano della consapevolezza che il volto di Dio ci è stato rivelato in Gesù
Cfr. la Lettera ai Romani, la più importante per tutta la Riforma, scritta proprio ai cristiani di questa città
Rom 1,1-4 Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore;
1 Tes 2,13 Noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.
1.1.1/ Ma anche principio da tenere sempre presente nella presentazione di ogni cosa in un tempo di confusione
cfr. C.S. Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi
1.2/ Differenza fra ecumenismo e dialogo inter-religioso
Sura IV («Sura delle donne»), 157
Nel contesto di rimproveri fatti agli ebrei di Medina, essi sono accusati per aver detto: «"Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!", mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]. In verità, coloro che si oppongono a [Gesù], sono certamente in un dubbio a suo riguardo. Essi non hanno alcuna conoscenza di [Gesù]; non seguono che congetture e non hanno ucciso [Gesù] con certezza».
-rifiuto del Battesimo da parte di gruppi che sono solo apparentemente cristiani (es. Testimoni di Geova)
1.3/ I 3 grandi punti fermi di ogni ecumenismo e di ogni fede cristiana: Gesù uomo e Dio, la Trinità, il battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito
dalla Postfazione di M. Fédou a F. Varillon, Un compendio della fede cattolica, EDB, Bologna, 2007, p. 97 Padre Varillon ha detto e ridetto l’importanza centrale di ciò che chiamava «l’essenziale dell’essenziale», ossia delle «tre verità fondamentali e congiunte» che sono «la Trinità, l’Incarnazione, la nostra divinizzazione»: «[...] La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo» (F. Varillon, Bellezza del mondo e sofferenza umana. Colloqui con Charles Ehlinger, Bayard, Paris, p. 115)
1.4/ La realtà della chiesa e dei sacramenti
Massimamente con gli ortodossi
Riconoscere la verità del Battesimo
Ma anche con i luterani: Lutero credeva nella presenza reale di Gesù nell’Eucarestia
da A. Sabetta, Sacramento e parola in Lutero, apparso in “Rassegna di teologia” 51 (2010), pp. 583-606 La Confessioaugustana (CA) definisce la chiesa «l'assemblea dei santi nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti» (VII), Parola e Sacramenti che, «in virtù della disposizione e dell'ordine di Cristo, sono efficaci anche se sono amministrati da malvagi» (VIII). […] La questione dei sacramenti ha focalizzato ed è rimasta centrale nella teologia di Lutero, se si considera che tutto il decennio 1519-1528 è fortemente attraversato da una riflessione sulla tematica sacramentale, volta non solo a determinare la natura del sacramento e i suoi elementi costitutivi, ma anche ad analizzare i due sacramenti della fede, cioè il battesimo e la santa cena. [...]
-l’esemplificazione iconografica di Caravaggio nel Martirio di San Matteo
- e di Michelangelo e Caravaggio nella Cappella Paolina e nella Cappella Cerasi
-e del “teatro” barocco: il baldacchino del Bernini
1.5/ L’unica confessione dei martiri
-chi non ama il nemico e non perdona chi lo uccide non è un martire
Papa Francesco, discorso al movimento del Rinnovamento nello Spirito il 3/7/2015 «Noi sappiamo che quando quelli che odiano Gesù Cristo uccidono un cristiano, prima di ucciderlo, non gli domandano: “Ma tu sei luterano, tu sei ortodosso, tu sei evangelico, tu sei battista, tu sei metodista?”. Tu sei cristiano! E tagliano la testa. Questi non confondono, sanno che c’è una radice lì, che dà vita a tutti noi e che si chiama Gesù Cristo, e che c’è lo Spirito santo che ci porta verso l’unità! Quelli che odiano Gesù Cristo guidati dal maligno non sbagliano, sanno e per questo uccidono senza fare domande».
1.6/ La testimonianza comune
a/ di Dio
Papa Francesco: la fede non è una sub-cultura
da Benedetto XVI nella Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23 settembre 2011 Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale. L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui?
dal discorso tenuto da Benedetto XVI nell’incontro con i rappresentanti del consiglio della "Chiesa Evangelica in Germania" nella Sala del Capitolo dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011 In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore[…] La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. […] Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze?
papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015 «La libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione».
Papa Francesco, Evangelii Gaudium 200 Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
b/ dell’uomo e della società
Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965 Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d'una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi […] Ma Noi dicevamo, e tutti lo avvertite, che questo momento è anche grande. Grande per Noi, grande per voi. Per Noi, anzitutto. Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l'opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d'un messaggio per tutta l'umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell'intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d'essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata […] 1. Il Nostro messaggio vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione. […] Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace; Noi osiamo, col Nostro, portare qua il loro tributo di onore e di speranza. Ecco perché questo momento è grande anche per voi.
papa Francesco tenuto il 31/10/2016 nell’evento ecumenico nella Malmö Arena, in occasione della Commemorazione Comune luterano-cattolica della Riforma (31 ottobre – 1 novembre 2016) Grazie a questo nuovo clima di comprensione, oggi Caritas Internationalis e Lutheran World Federation World Service firmeranno una dichiarazione comune di accordi, allo scopo di sviluppare e consolidare una cultura di collaborazione per la promozione della dignità umana e della giustizia sociale. Saluto cordialmente i membri di entrambe le organizzazioni che, in un mondo frammentato da guerre e conflitti, sono state e sono un esempio luminoso di dedizione e servizio al prossimo. Li esorto a continuare sulla strada della cooperazione. […] È una buona notizia sapere che i cristiani si uniscono per dar vita a processi comunitari e sociali di comune interesse.
1.7/ Una visione sintetica della fede
I 4 pilastri (cfr. i 2 Catechismi di Lutero, il Maggiore e il Minore, il Catechismo di Calvino e il Catechismo del Concilio di Trento): la fede professata, la fede celebrata, la fede vissuta e la fede pregata
Le tre virtù: fede, speranza e carità
La fede cristiana non è complicata
2/ Le differenze possono tranquillamente essere dette nell’amore, poiché la libertà della discussione e la ricerca della verità appartengono intrinsecamente al cristianesimo
2.1/ Non le questioni periferiche delle indulgenze
- una storia più precisa, non solo su dettagli come le tesi e le indulgenze
R. Sabene, Fede, accoglienza e indulgenze nella Fabbrica di San Pietro in Vaticano, in A. Di Sante – S. Turriziani (a cura di), Quando la Fabbrica costruì San Pietro. Un cantiere di lavoro, di pietà cristiana e di umanità. XVI-XIX secolo, pp. 43-61
L. Palermo, Le finanze pontificie all’epoca di Leone X, in Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura, I, Roma, 2016, pp. 45-58
- cfr. anche il pellegrinaggio di Lutero a Roma
2.2/ Nemmeno di per sé la questione della Scrittura
Non era assente la Parola di Dio, bensì la lettura personale della Scrittura
da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172) In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471. Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione.
da La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it ) Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92. Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità: «Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251). Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252). Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone: «Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252). Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima: «A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbia in inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scrittura in inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253). Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele. Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa. Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura. Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza. Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255). Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.
2.3/ Una modalità di presentare la Parola di Dio secondo i “misteri” di Cristo, cioè secondo le feste dell’anno liturgico
- il Concilio di Trento
Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione «1. […] perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi. Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi. Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]»
- Il ciclo della Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella), ma anche i mosaici di Santa Maria Maggiore, cero pasquale di San Paolo fuori le Mura, gli affreschi di San Giovanni a Porta latina, i mosaici con le storie della vergine di Santa Maria in Trastevere, frammenti di affreschi del cavallini in Santa Cecilia in Trastevere nelle pareti a fianco del Giudizio, gli stucchi di San Giovanni in Laterano, ecc. cc.
- il San Matteo di Caravaggio
2.4/ La grande questione della tradizione (cioè della presenza di Dio nella Chiesa, nella Chiesa che dona la Parola agli uomini in ogni epoca)
- Gesù ha voluto la Chiesa, Gesù ha voluto Pietro, Gesù ha voluto la presenza sacramentale in maniera indissolubile da quella scritturistica
U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 234-250 A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva. La trasmissione della predicazione apostolica al di fuori della Scrittura, come pure tutto ciò che ne è oggetto, si chiama Tradizione. […] Ai fini della trasmissione e della conoscenza di tutta la Rivelazione, la Tradizione e la Scrittura, sono tutt’e due necessarie, e quindi né l’una né l’altra è sufficiente da sola. Questo dice che tra di esse esiste un rapporto di mutua interdipendenza, fondato su elementi che ambedue hanno in comune e su elementi propri a ciascuna.
- l’una dona la Parola viva, l’altra è “regola”; Cfr. S. & K. Hahn,Roma dolce casa, Ares, Milano, 2012
- L’aggiunta di San Pietro nella Vocazione di Matteo di Caravaggio
- Qui ancora Paolo e Pietro
Gal 2,14 Quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?».
Eppure tutti gli apostoli riconoscono il ruolo di Cefa/Pietro
Giovanni che attende ad entrare nel sepolcro e ricorda poi il dialogo con Gesù su Gv e Pt
Così i sinottici
Così Paolo: sia in Atti, sia sempre in Galati
Gal 2,8-9: Colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti – e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi.
1 Cor 15,3-8: A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Anche con turisti e pellegrini protestanti, come con cattolici o atei, si può presentare il legame fra Pietro e Paolo
Cfr. iconografia del loro abbraccio, del loro comune martirio (e sostituzione ai 2 fondatori di Roma, Romolo e Remo): i nuovi fondatori di Roma
Senza Pietro e Paolo Roma non sarebbe ciò che è
- Giovanni Paolo II, Ut unum sint 95 Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova.
- difficoltà del non accettare più il sola Scriptura da parte protestante
2.5/ L’iconografia dai primi secoli, al II Concilio di Nicea, a Lutero, a Calvino (un’esemplificazione della “tradizione”)
II Concilio di Nicea (787) «Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema. Se qualcuno non saluta queste (immagini), (fatte) nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema. Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema».
«Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa essere limitato, secondo l'umanità, sia anatema».
Il problema iconoclastico dopo Lutero
da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia nel Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 99-100 La posizione di Lutero riguardo alle immagini si modifica sensibilmente intorno al 1520-22 in parte a causa del conflitto con Carlostadio. La svolta può essere forse individuata, in questo caso, nei sermoni della Quaresima del 1522. Pur mantenendo vivi gli attacchi contro la falsa sicurezza delle buone opere e il lusso inutile, Lutero sottolinea che nessuno, nemmeno il più semplice di spirito, è tanto sciocco da confondere l'immagine con chi essa rappresenta, e prendere per divini dei segni umani. Inoltre, Lutero contesta l'efficacia politica dell'iconoclastia. L'iconoclastia luterana non esiste in sé. È tutta questione di contesto locale, di rapporti di forze tra il clero, il magistrato del luogo, la popolazione urbana. Non c'è un unico modello di ritiro delle immagini. In un grande numero di casi, il magistrato cittadino, il Rat, intende conservare il controllo del processo di trasformazione delle chiese. Il fine e la giustificazione di questo atteggiamento sono quelli di evitare tumulti, di mantenere l'ordine, di impedire gli scandali. D'altronde, fu questo uno degli argomenti principali di Lutero nel suo scontro con Carlostadio: le violenze iconoclastiche scandalizzano i semplici, li turbano profondamente, urtando la loro sensibilità. Le violenze impediscono o allontanano il trionfo del Vangelo, più di quanto non lo favoriscano. Inoltre, la confisca o l'eliminazione delle immagini pongono immediatamente problemi giuridici complessi: a chi appartengono realmente questi beni dall'ambiguo statuto?
da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia nel Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 108-109 L'iconoclastia è divenuta endemica nel corso degli anni 1550. Fino dagli anni 1560-61, vale a dire prima delle guerre, assume una dimensione rivoluzionaria, suscita le sommosse che radunano centinaia di partecipanti, tocca pressoché tutte le regioni del regno, specie quelle sudoccidentali. Una marea di pubblicazioni, anonime o no, di libelli, di canzoni, di componimenti poetici giustifica e celebra la distruzione degli idoli. Le prudenze di Calvino sono dimenticate: questi testi violenti e gioiosi invitano i fedeli ad agire, a non perdere tempo, a instaurare al più presto il regno del Vangelo in terra. Un canto anonimo di questi primi anni di guerra civile così chiama alla distruzione immediata delle immagini: «ôte la toile de tes yeux / Et reconnais le Dieu des cieux, / Peuple abruti. Tombe par terre / Tes idoles de bois et de pierre» («strappa il velo dai tuoi occhi / E riconosci il Dio dei cieli, / Popolo abbrutito. Getta a terra / I tuoi idoli di legno e di pietra»). Abbattere gli idoli è dunque il primo passo verso la vera fede, il presupposto indispensabile, la condizione necessaria per riconoscere il vero Dio. Una volta fatto questo, il trionfo della Parola di Dio sarà imminente. [...] [A Lione], da un lato, i soldati protestanti entrano nella chiesa di San Giusto e cominciano subito, secondo un testimone, ad «abbattere, demolire e frantumare tutte le immagini, i reliquiari e gli altari della chiesa». Allo stesso modo, si impadroniscono di «libri e abiti che offrono in strada al dileggio». Altri testimoni confermano che i soldati si sono introdotti nelle case dei canonici e hanno rubato o distrutto ciò che vi hanno trovato. Fanno nelle strade parate e sfilate parodistiche. Dall'altro lato, tuttavia, alcuni gesti si rifanno con tutta evidenza a un rituale più sofisticato. Quella stessa mattina, il pastore Ruffy entra nella cattedrale di San Giovanni e fa cadere a terra il grande crocifisso. Ci salta sopra a piedi giunti sguainando la sua spada; mozza la testa del Cristo e la brandisce in alto gridando: «Ecco la testa dell'idolo». Il pastore ordina quindi di ridurre il resto del corpo in quattro pezzi e si reca alla residenza episcopale con la testa in mano. Infine, qualche giorno più tardi, il barone des Adrets, comandante delle truppe protestanti della regione, giunge a Lione. Molto rapidamente, pone fine a questa prima iconoclastia, indotto a questo da una lettera di Calvino in data 16 maggio 1562. Da quel momento, l'iconoclastia cambia radicalmente. Sono stati stipulati dei contratti tra il barone des Adrets, i suoi rappresentanti o il consolato, e alcuni demolitori privati, pagati per il loro lavoro. Alcuni notai o librai sono incaricati di redigere inventari esatti dei beni sequestrati nelle chiese e di consegnarli alle autorità. Gli iconoclasti privati sono perseguiti dalla giustizia come razziatori.
Cfr. Iconoclasme. Vie et mort de l’image médiévale, Ed. Musées de Strasbourg, Berne, Somogy, 2001 (catalogo di una mostra del 2001)… cfr. anche le tombe, come la tomba di Erasmo da Rotterdam
- cfr. Martin Lutero e Cranach, suo pittore ufficiale; cfr. la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Wittenberg
- cfr. la distruzione di abbazie (e cattedrali presso gli scozzesi)
III/La purificazione della memoria, una caratteristica del cristianesimo
- Chiedere tutti perdono di intolleranza e censura e ancor più violenze fisiche: non una difesa a priori, bensì un’apertura di orizzonti. La fede nella grazia che opera nel peccato
Presso i cattolici
cfr. il monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori
Ma esso comprende, fra gli altri, anche:
- Lucilio (Giulio Cesare) Vanini, perseguitato dai cattolici perché si fa protestante e dagli anglicani perché torna ad essere cattolico, ucciso infine a Tolosa. Nel medaglione di Vanini, si vede in piccolo la testa di Lutero, perseguitato e a sua volta persecutore di eretici e di streghe.
-Aonio Paleario, ucciso come eretico dall'Inquisizione nel 1570 e Michele Serveto, ucciso come eretico dal tribunale di Calvino a Ginevra nel 1553.
Presso i protestanti
Da A. Lonardo, Galilei fu il fondatore degli studi biblici moderni, più che il padre dell’eliocentrismo. Una nuova prospettiva sull’astronomo pisano (on-line su www.gliscritti.it) La straordinaria vicenda della badessa Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (monasterodi Santa Chiara) che vennero costrette ad ascoltare 111 prediche protestanti perché si convertissero al luteranesimo e, unica fra le comunità religiose, poterono sussistere fino all’estinzione, senza poter però più accogliere novizie e senza poter più ricevere la Comunione fino alla morte (poiché tutti i preti cattolici erano stati espulsi dalla città)[1], mostra quanto il principio del cuius regio eius religio ebbe effettivamente vigore. Si pensi che In Svezia venne nuovamente permesso il culto pubblico cattolico solo a partire dal 1951, dopo un divieto di più di quattro secoli[2]. Similmente nell’Inghilterra della regina Elisabetta I, dopo che già Enrico VIII aveva espulso tutti i frati e i monaci e distrutto le loro abbazie, un prete cattolico trovato a celebrare messa era condannato a morte dopo tortura, insieme ai laici che lo avessero ospitato[3]. Molti storici ritengono addirittura che W. Shakespeare fosse in realtà cattolico, ma che, essendogli vietata tale professione di fede, l’abbia vissuta in segreto[4]: la figlia Susanna compare nelle liste di “ricusanza” del 1606, mentre il padre John era certamente cattolico e sembra che non intendesse piegarsi alla fede anglicana allora al potere. Negli anni immediatamente successivi alla questione galileiana, addirittura, i puritani in Inghilterra inasprirono le misure di stampo religioso, perseguitando ormai non più solo i cattolici, ma anche gli anglicani che li avevano perseguitati a loro volta. Nel 1642, cioè 9 anni dopo la condanna di Galilei, essi emanarono le prime misure restrittive nei confronti dei teatri e nel 1647, cioè 14 anni dopo la condanna di Galilei, ne decretarono la sistematica distruzione in tutta l’Inghilterra, perché ritenevano che gli spettacoli teatrali corrompessero i costumi del popolo[5]. I puritani decretarono contemporaneamente, sempre in età barocca, la distruzione di tutti gli organi nelle chiese e imposero l’abbandono di strumenti come i violini, in quanto strumenti che avevano il potere di distrarre il popolo (solo con la “restaurazione” di Carlo II si ebbe una rinascita musicale in Inghilterra con figure come quella di Henri Purcell[6]). Tali fatti sono qui evocati non in chiave giustificativa dell’atteggiamento cattolico di allora, bensì a stigmatizzare ancor più quell’errato atteggiamento che fu di un’epoca che cercò di controllare l’“espressione pubblica”, ritenendo che ciò avrebbe giovato al mantenimento dei buoni costumi. D’altro canto è interessante come altri uomini del tempo lavorassero fianco a fianco al di là delle loro appartenenze religiose, come nel caso del canonico cattolico Copernico che approfondì le sue ricerche astronomiche insieme a protestanti comeRetico e Osiander che gli furono vicini negli ultimi anni della sua vita, in una sorta di ecumenismo ante litteram.
Presso le sinagoghe
da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146 I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.
Presso le nuove inquisizioni laiche
dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi
- Dinanzi a Galilei
Lutero, Discorsi a tavola dai Tischreden redatto da Anton Lauterbach e relativo al 4 giugno 1539, in D. Martin Luthers Werke, Tischreden, 6 voll., Weimar, 1912-1921, vol. 4 (1916), n. 4638, pp. 412-413 (citato in M.-P. Lerner, Aux origines de la polémique anticopernicienne (II).Martin Luther, Andreas Osiander et Philipp Melanchton, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 90 (2006), pp. 410-411). «Si parla di un nuovo astronomo che avrebbe dimostrato che la Terra si muove invece del cielo, del Sole e della Luna, come se un uomo su un carro o in barca pretendesse che non si muove di posto, ma che sono la Terra e gli alberi che viaggiano. Ma è così al giorno d’oggi: quando un uomo vuol fare il furbo, non gli deve piacere ciò che piace agli altri, così è colui che vuole mettere sottosopra tutta l’astronomia. Ma anche se l’astronomia è confusa, io credo nella Santa Scrittura, perché è al Sole che Giosuè ha ordinato di fermarsi e non alla Terra».
Il rifiuto dell’eliocentrismo in ambito luterano vide ulteriori tensioni fino ad oltre la metà del seicento, quando, nel 1679, Niels Celsius venne costretto ad abiurare all’eliocentrismo dai docenti dell’Università di Uppsala: lo studioso aveva difeso la centralità del sole nell’opera De principiis astronomicis propriis. (Cfr. H. Sandblad, The Reception of the Copernican System in Sweden, in Colloquia Copernicana I, Études sur l’audience de la théorie héliocentrique (Studia Copernicana V), Wroclaw, 1972, pp. 241-270, in particolare pp. 251-259).
- Madonna galileiana
- È precisamente il Galilei esegeta che imposta correttamente il problema: non basta la sola Scriptura
4/ Vedere con lo sguardo dei santi
4.1/ La questione della Riforma cattolica contemporanea alla Riforma protestante e della Controriforma è una questione storica, ma anche teologica
da H. Jedin, Riforma cattolica e controriforma, in H. Jedin (a cura di), Storia della chiesa VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 513-514 Tanto il concetto di «riforma cattolica» quanto quello di «controriforma» presuppongono nel termine «riforma» la designazione storica della crisi protestante con la conseguente frattura della fede e della chiesa. Con «controriforma» il giurista Pütter di Gottinga (1776) intese la riconquista alla fede cattolica, operata con la forza, delle regioni divenute protestanti. Ranke parlò inizialmente di controriforme (al plurale), ma presto riconobbe il carattere unitario del movimento e ne vide la radice nella «restaurazione, quasi piantagione ex novo, del cattolicesimo». Con l'opera di Moritz Ritter Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation (Storia della Germania al tempo della contro-riforma, 1889), il concetto di controriforma, contre-réforme, counter-reformation, contrarreforma, prese piede anche in Germania, ma si urtò contro il rifiuto quasi unanime della storiografia cattolica, perché esso sembrava concepire il nuovo consolidarsi della chiesa cattolica in modo unilaterale, come reazione allo scisma protestante e perché portava il marchio dell'uso della forza in materia di religione. L. Pastor, J. Schmidlin e altri preferirono quindi la designazione di «restaurazione cattolica», nella quale tuttavia non si esprimono sufficientemente né la continuità col medioevo, né i nuovi elementi apportati dalla riforma tridentina. Nel frattempo W. Maurenbrecher, in dipendenza dal Ranke, aveva adottato (1880) il termine di «riforma cattolica» per designare quel rinnovamento di sé operato dalla chiesa, specialmente in Italia ed in Spagna, che si riannodava ai tentativi di riforma del tardo medioevo. Egli era stato preceduto dai cattolici Giuseppe Kerker (Katholische Reform, 1859) e Costantino Höfler (Romanische Reformation, 1878). Noi diamo la preferenza a questa designazione di «riforma cattolica», perché allude ai tentativi di rinnovamento che si ebbero nella chiesa dal XV al XVI secolo, senza escludere, come il termine «restaurazione», i nuovi elementi che fanno la loro comparsa e l'influsso esercitato dalla crisi protestante sullo sviluppo del movimento. Tale designazione ha tuttavia bisogno di venir completata dal concetto di controriforma, perché di fatto la chiesa rinnovata e rafforzata internamente, dopo il concilio di Trento, passa al contrattacco e riconquista parte del terreno perduto, sia pure mediante un'alleanza con l'assolutismo confessionale, il cui significato è stato messo in evidenza dall'Eder. Entrambi i concetti hanno quindi una loro giustificazione, designano però dei movimenti non separati, ma connessi tra loro. Anche autori cattolici come Paschini e Villoslada ritengono di poter usare la designazione di controriforma per l'intero movimento di rinnovamento e di riconquista. Soltanto collegati tra loro i concetti di riforma cattolica e di controriforma possono servire a designare quest'epoca della storia ecclesiastica.
da G. Martina, Storia della chiesa, Ut unum sint, Roma, 1980, p. 244 In sostanza, il problema «riforma o controriforma?», rinnova in un altro contesto la questione del rapporto fra il momento carismatico e quello giuridico tante volte incontrato: la riforma cattolica corrisponde al momento carismatico, e mostra maggiore spontaneità e freschezza, ma è più limitata; la controriforma corrisponde al momento giuridico, e sembra rallentare lo slancio iniziale, mentre in realtà ne assicura la stabilità. In questo senso è stato detto, da storici laicisti, che la riforma cattolica fu sconfitta proprio nel momento in cui sembrava riportare vittoria, acquistando l'appoggio della gerarchia, mentre storici cattolici hanno opposto che la riforma cattolica poté vincere proprio perché divenne controriforma.
4.2/ I santi: dividono ed, insieme, uniscono
dall’Editoriale de “La Civiltà Cattolica”, n. 3562, 21/11/1998 Nel Cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo, si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità. Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. È straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leonardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc. È un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico. Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il Concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana; furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana. Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio. In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni ed interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi.
- ma pensiamo anche all’arte (cfr. Michelangelo, il Mosè per Giulio II e la cupola): è lì, linea perpendicolare che unisce
- guide che usano il “noi” della Chiesa, senza includervi i turisti: se siete credenti, non è contro la laicità mostrare il vostro gesto di preghiera, senza chiederlo ai vostri clienti
Riprendiamo sul nostro sito la relazione tenuta dal prof. Carlo Cardia l’8/11/2017 presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura in occasione del Convegno “Paolo VI, il Papa della modernità: giustizia tra i popoli e amore per l’Italia”, promosso e organizzato dalla cattedra di Diritto ecclesiastico dell’Università di Roma Tre in collaborazione con l’Abbazia dei Benedettini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi di Carlo Cardia, vedi la tag carlo_cardia.
PREMESSA. LO SGUARDO VERSO L’ALTO. IL PAPA PIU’ ITALIANO E PIU’ UNIVERSALE DELLA MODERNITA’
Una scelta spirituale strategica, e uno scritto sulla condizione della donna del primo Novecento, fanno intravedere la personalità del giovane Giovanni Battista Montini, proprio per la loro apparente eterogeneità. Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Bedeschi, morto nel campo di Mauthausen nel 1945, il giovanissimo Montini esprime l’idea che lo sta catturando, perché annuncia che “la mia vita passerà rivolta in alto”, ambirà a vette che superano la dimensione terrena, rispondono a una chiamata superiore[1]. E’ l’annuncio della scelta del sacerdozio, che Giovanni Battista compirà presto e s’intreccerà con suggestioni spirituali e religiose, come quella di farsi benedettino, da cui nasce la lunga frequentazione dei monaci, anche di questa Basilica di San Paolo, su cui tornerò più avanti. Ricordo l’attrazione per S. Ignazio di Lojola e la Compagnia di Gesù, nonché la vicinanza alla famiglia rosminiana per lui e i suoi discepoli. Queste suggestioni verranno sostituite e colmate da tanti incarichi affidati presto al giovane prete, a proposito dei quali (in particolare per la direzione del Circolo romano della FUCI) parlerà del suo “piccolo e ritorto sentiero”[2].
Diversa la citazione che voglio fare di un articolo che il giovane Montini scrive nel 1921 per la Rivista “La Madre Cattolica”, dove invita a riflettere sulla condizione della donna, movendo da questo semplice fatto: “che anche all’altra metà, l’inseparabile metà dei cittadini, meglio di cittadine, viene aperta la vita pubblica: le porte di essa s’aprono anche per la donna; essa uscirà per pronunciare il suo plebiscito sui pubblici affari: una scheda, un’arma anche per lei; e la cosa sembra molto semplice”. Aggiunge, in una complessa analisi: “oggi non arriviamo a misurare le conseguenze di questo fatto, le intravediamo nella gestione della cosa pubblica che potrà indifferentemente essere guidata dal cervello e dalla mano d’un uomo, come dal cervello e dalla mano d’una donna; cosa diversa, che avrà certo, non diciamo quali, le sue conseguenze”[3].
L’analisi si sofferma su elementi psicologi e storico-giuridici, quelli contrari al voto femminile, e quelli favorevoli. Tra i primi, individuati con sottile ironia, “v’è uno stato d’animo, che potremmo chiamare di verecondia politica, che ha finora guardato di malocchio un diritto che implica certamente dei disturbi, come la rinuncia all’antico quieto vivere e quindi “non pensare”; che tende all’infrazione dell’abitudinaria soggezione muliebre, pur tanto gentile, se da essa nacque la cavalleria, e pur tanto ovvia, se è voluta dalla natura; e che all’esercizio di nuovi diritti mette in gioco nuove responsabilità, di cui finora la donna non s’era creduta capace”. Segue un giudizio storico di qualche rilievo, quando l’Autore segnala una tradizionale arretratezza cattolica, sui diritti civili. Ricorda che le contrarietà al voto femminile, “sono più facili a essere meditate da un ceto femminile distinto per senso morale e per educazione, che da uno superficiale o privo di convinzioni profonde: ecco forse la ragione per cui le donne cattoliche, all’estero, dove nacque il movimento per il suffragio femminile, non furono sempre all’avanguardia, e da noi molte ancora non capiscono i vantaggi d’un simile istituto, e invece capiscano bene che i tempi camminano”[4].
Prosegue, individuando quanto v’era d’arretrato nell’opposizione al suffragio femminile: “non comprendere come i tempi portino necessariamente a ciò. Per negare il suffragio femminile non uscire di casa, non entrare in tutti gli uffici, in tutte le scuole; avrebbe dovuto mantenersi il voto a pochissimi uomini, quelli solo che davvero avrebbero potuto dirsi superiori e agli altri e alla donna; avrebbe dovuto essere arrestato in principio il movimento democratico”. E soprattutto cogliendo quanto di cristiano vi sia nell’accettare il progresso: “saper discernere non i pregi del passato, ma i bisogni dell’avvenire e preparati arditamente secondo un programma di bene. Chi manca dell’intuizione del bene non ne possederà che a stento e senza efficacia l’esercizio”[5].
L’attrazione e l’aspirazione al trascendente, che catturerà la sua esistenza, lo studio e l’azione per comprendere e cambiare la storia dell’uomo, costituiscono gli orizzonti della vita di Giovanni Battista Montini, e indicano in qualche modo un’altro suo eccellente carattere: Paolo VI sarà il Papa più italiano e insieme più universale della modernità. Formatosi in un ambito cattolico bresciano che aveva superato l’intransigentismo dell’Ottocento, Giovanni Battista respira in famiglia una cultura politica nazionale, aperta sin dagli inizi agli orizzonti europei per il tramite della lingua e della cultura francese. E vede evolvere la propria vita tra incarichi ecclesiastici sacerdotali, come l’assistenza agli studenti universitari che lo pongono al centro dello scontro con il fascismo e la sua indole totalitaria, e incarichi diplomatici che, dopo un passaggio a Varsavia, lo situano al centro della Curia romana. Di lì, egli sale i livelli della collaborazione con Pio XI fino all’inserimento nella Segreteria di Stato come primo collaboratore di Pio XII[6] in tutto il periodo della seconda guerra mondiale e dello spiegamento del totalitarismo nazista, poi di quello comunista-staliniano.
Il punto di congiunzione tra dimensione italiana e dimensione universale della persona di Montini sta nella sua cultura ecclesiastica, sempre all’avanguardia per un’epoca di snodo tra passato e futuro, e nell’essere presto proiettato in un orizzonte che supera gli eventi politici immediati. Giovanni Battista è subito immerso in un mondo giovanile nazionale nel quale si forma la classe dirigente italiana che governerà lo Stato democratico nel post-fascismo, e manterrà come nessun Pontefice ha fatto nel Novecento, stretti e personali rapporti con i governati cattolici italiani, fino a vivere alcuni drammi personali e politici che hanno segnato il suo pontificato. Ma Giovanni Battista Montini è stato anche l’ecclesiastico collaboratore di due Pontefici, soprattutto di Pio XII, riuscendone ad assimilare la capacità di direzione e guida della Chiesa, vivendone lo spirito antitotalitario, preparando l’evoluzione verso il Concilio e realizzandone le più impegnative innovazioni: questo ricco intrecciarsi d’intelligenza, spiritualità, impegno storico, ha fatto di lui il più grande Papa riformatore della modernità.
Paolo VI non è diventato Papa per caso, o all’improvviso, è stato forse il Papa più annunciato del Novecento, e non è mai stato quel Papa incerto, sofferente per le sue incertezze e per le critiche che ha ricevuto spesso anche in ambienti cattolici più o meno dissenzienti. Quasi tutti sapevano che Montini sarebbe stato successore di Giovanni XXIII (un po’ com’era accaduto per lo stessa Papa Roncalli[7]), e ciò non può destare alcuno stupore neanche tra i credenti, dal momento che non esiste un orario preciso perché si attivi l’ispirazione dello Spirito Santo, che può ben essere precedente all’evento conclavizio. Paolo VI ha avuto sin dagli inizi precisa consapevolezza della funzione petrina, di cui è stato investito,e con piena consapevolezza ha saputo guidare un Concilio Vaticano II che era aperto a molteplici correnti e orientamenti, ed ha saputo resistere ad una contestazione della Chiesa quale non si era mai avuta nell’epoca moderna.
Di qui il duplice versante del suo Pontificato. Paolo VI ha saputo agire come papa italiano con una formazione laica e mediatrice che attingeva alla nostra tradizione nazionale, e ha guidato la classe dirigente italiana con una sapienza che ha aperto le porte al più ricco pluralismo religioso e ideale della storia italiana. Insieme, Papa Montini ha chiuso i conti con il tradizionale confessionismo, ha radicato la Chiesa nella modernità e per certi versi ha ricondotto la Cattedra di Pietro alle origini, con il primo viaggio di ritorno da Roma a Gerusalemme, per poi spingerla nei mari aperti in tutto il Pianeta: ha fatto conoscere il Papa agli uomini di tutti i Paesi, e razze, di ogni opinione religiosa o culturale. Se la Chiesa per un certo periodo ha vissuto la sua universalità stretta nei confini d’Europa e dell’Occidente, Paolo VI la ripropone al mondo intero, recandosi all’Assemblea generale dell’ONU per affermare che la Chiesa e l’Organizzazione delle Nazioni hanno un tratto decisivo comune, hanno entrambe rappresentatività universale, perché ognuna di esse rappresentano tutti i popoli e le nazioni del mondo.
PAOLO VI E L’AMORE PER L’ITALIA. STORIA, RISORGIMENTO, REPUBBLICA.
Nei Messaggi d’onore che abbiamo ricevuto per il nostro Convegno[8] diverse personalità ricordano il rapporto che ha unito Paolo VI all’Italia e alla Repubblica democratica, e il Prof. Garancini parlerà da par suo sul senso della storia proprio di Paolo VI. Io vorrei ritagliarmi uno spazio per parlare di entrambe le cose da una angolazione particolare, da quell’amore speciale del Papa per l’Italia, il suo legame secolare con la Chiesa di Roma, il risorgimento che ha fatto l’Italia moderna e democratica. Non stupisca se uso la parola “amore”, perché così ho sempre percepito il rapporto di Paolo VI con l’Italia, dalle sue parole, dagli scritti, dal suo magistero. Mi limito ad esplorare questo legame per come s’è sviluppato in più direzioni. Ho già detto che Papa Montini è stato il Papa più italiano che abbiamo avuto nel XX secolo per aver vissuto, e saputo interpretare, da protagonista le grandi fasi della nostra storia nazionale, fin da quando si sono intrecciate e sviluppate le nostre radici storiche e spirituali. Sulle quali Paolo VI si sofferma con la propria insuperabile capacità di sintesi, culturale e poetica, l’11 gennaio 1964, quando si reca in visita al Quirinale. Il Papa ricorda di non avere più il titolo “d’una sovranità temporale (…); ma solo quello della Nostra potestà spirituale che guardava ieri e tanto più guarda oggi all’Italia come ad un popolo costituente nella sua grande maggioranza e, sotto certi aspetti, vorremmo dire nella sua totalità, una comunità cattolica”. Aggiunge, con un passaggio indimenticabile per la sua bellezza: “vogliamo un bene, un bene tutto spirituale, pastorale, oltre che naturale, a questo magnifico e travagliato paese; non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione spirituale la sua coscienza romana ed i suoi figli migliori”[9].
Paolo VI mantiene viva, da giovanissimo, una visione provvidenziale della storia, e in questo orizzonte elabora una singolarissima trasfigurazione del nostro Risorgimento quando nel 1962 parla in Campidoglio, pochi mesi prima di diventare Papa. Egli evoca le opposte intransigenze che si confrontano e combattono nel corso dell’Ottocento e toccano il punto più alto con la breccia di Porta Pia nel 1870, e la fine del potere temporale dei Papi. Aggiunge, quindi, con ardire e originalità: “la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando sugli avvenimenti”. Il Papa, infatti “usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, com’è noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimone del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai”[10]. I giovani qui presenti sanno che da sempre noi italiani eravamo consapevoli che i nostri grandi Padri della Patria stanno tutti in Paradiso, perché i meriti acquisiti per il bene del Paese portano in cielo: anche l’amor patrio conduce diritti in Paradiso. Nel 1962, il Cardinale Montini inserisce la nostra storia risorgimentale in un disegno storico voluto dalla Provvidenza, è una cosa bellissima.
Questa visione grande della storia, e della specifica storia italiana, accompagna Paolo VI fin dagli inizi, lo situa stabilmente sul versante di quel cattolicesimo democratico che è capace di superare l’intransigentismo ottocentesco, di porsi come alternativa alla politica e mentalità del fascismo trionfante, di impegnarsi nella elaborazione della Costituzione democratica e nella crescita del secondo dopoguerra, fino agli ultimi giorni nei quali matura la tragedia di Aldo Moro e l’appello del Papa agli uomini delle Brigate Rosse[11]. Un filo rosso robusto, bene individuato dalla storiografia, unisce il giovane Montini a una visione politica democratica, da quando, pur nei limiti imposti dalle maglie dei Patti lateranensi, coglie subito l’antitesi radicale tra concezione fascista dello Stato e un certo umanesimo cattolico. Egli accetta il Concordato del 1929 come strumento di salvaguardia della Chiesa e delle sue libertà, ma ne individua limiti e negatività che un tempo dovranno essere superate, e dedica molto suo impegno sacerdotale alla formazione di quella una dirigente cattolica che dovrà rifondare e dirigere, insieme ad altre forze politiche di sinistra, la nuova democrazia costituzionale.
Paolo VI è fermo sostenitore dell’autonomia dei laici nella politica italiana, ma questa autonomia si afferma poco per volta e il Papa segue con attenzione e discrezione l’evoluzione della Democrazia cristiana. Egli condivide i dubbi e le incertezze comuni nella fase dell’apertura a sinistra, e da Milano l’Arcivescovo mette in guardia dai rischi dell’apertura a sinistra: “riteniamo in conformità ai ripetuti avvertimenti della Sede Apostolica e alle istruzioni dell’Episcopato Lombardo, non doversi favorire la cosiddetta ‘apertura a sinistra’ nel momento presente e nella forma ora prospettata”[12]. Le cautele da cui è circondato il giudizio negativo – “nel momento presente e nella forma ora prospettata” – consentono all’Arcivescovo di Milano di accettare, e seguire con premura, la svolta maturata più tardi verso il centro-sinistra che diventò, da allora, l’orizzonte della politica italiana.
Di questo lungo, lunghissimo, rapporto con la democrazia italiana vorrei oggi ricordare un tratto, poco conosciuto, delle relazioni tra Santa Sede e partiti della sinistra storica col negoziato per la riforma del Concordato del 1929, che inizia formalmente nel 1976 e si concluderà nel 1984. Il contributo essenziale per questa importante riforma deriva dalla scelta condivisa di Santa Sede, Palazzo Chigi, partiti della sinistra, quando nel 1976, con il consenso esplicito di Paolo VI, si sceglie la strada di sottrarre il negoziato alle trattative diplomatiche necessariamente riservate, ponendolo sul c.d. binario della parlamentarizzazione. Non si tratta d’una scelta ovvia, perché così si inserisce la riforma in un processo più ampio, parlamentare e partitico. Tra l’altro, si legittima pienamente in questo modo il ruolo politico del partito di Enrico Berlinguer che, per la prima volta nella storia italiana avvia rapporti diretti e intensi con la Santa Sede, in specie col Cardinale Agostino Casaroli e l’Arcivescovo Mons. Achille Silvestrini.
Alla base di questa scelta è un’intesa, proposta da Casaroli e accettata di buon grado dagli esponenti della sinistra, da Berlinguer in modo particolare: che ciascuno si impegnasse a non far trapelare nulla, né all’esterno, né negli organi di partito, dei contenuti del negoziato e dei suoi sviluppi. Beninteso, i risultati della trattativa, con i testi elaborati e presentati al Parlamento, erano conosciuti da tutti perché ogni bozza di Concordato era prontamente pubblicata sui giornali; tuttavia, era salva la riservatezza sui numerosi incontri tra Governo e Santa Sede, ma anche tra forze politiche dentro e fuori il Vaticano, nelle più diverse sedi. Può sembrare, questo, un meccanismo di negoziazione complesso, intricato, sotto certi aspetti consociativo, ma funzionò alla perfezione, con una lealtà dei leader politici, e degli esponenti ecclesiastici, che non fu mai incrinata per alcun interesse di parte, pure legittimo. Tra l’altro, la scelta di associare Enrico Berlinguer alla trattativa diretta con il Governo e la Santa Sede divenne mezzo non secondario per aprire la politica italiana a un’interlocuzione più ampia rispetto ai confini del centro-sinistra che, nonostante le vicissitudini successive, con il tempo si andata consolidando in modo definitivo.
La motivazione di questa scelta erano diverse, ma s’incontrarono facilmente. La Santa Sede voleva, e Casaroli lo disse in più occasioni, un Accordo stabile, con un forte sostegno politico, in specie del PCI, che era esposto più di altri al vento della contestazione anticoncordataria, e che però garantiva il maggior sostegno parlamentare rispetto ad altre componenti della sinistra. Ci si rese conto subito di un tratto caratteristico del negoziato avviato nel 1976. Esso si tradusse in una lunga ‘guerra di posizione’ sulle singole materie ecclesiastiche, con discussioni a volte estenuanti su una o più parole, su materie che entravano e uscivano dal testo concordatario, e si tradusse anche in qualche formula un po’ arzigogolata (penso al matrimonio, la cui trattazione fu lunga e piena di complicazioni), ma poggiava su un punto fermo: nessuno degli interlocutori, neppure per un momento, Agostino Casaroli o Enrico Berlinguer, pensarono potesse fallire. Le componenti politiche, per parte loro, percepirono poi che ogni anno che passava la società maturava, cultura e mentalità politica della parte ecclesiastica si facevano più aperte, il traguardo si avvicinava e ciò che nel 1976 sembrava un traguardo difficile, nel 1980, 84, 85 divenne quasi uno sbocco naturale, con quel tratto decisamente riformatore che molti si attendevano.
Voglio citare un momento di speciale importanza del negoziato, anche oggi poco conosciuto, che evoca un tratto comune di Paolo VI e di Enrico Berlinguer, che fece da asse negli anni seguenti. Esso riguarda il nodo centrale dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche che aveva conosciuto una vicenda peculiare nella storia italiana. Era un nodo irrisolto, perché la lungimiranza del ceto dirigente liberale aveva consentito con l’Unità d’Italia, e fino al 1929, di mantenere l’insegnamento della religione cattolica almeno in tutte le scuole elementari, ed esso, pur facoltativo, venne scelto da tutte le famiglie italiane[13]. L’avvento del fascismo, prima con la Riforma Gentile del 1923, poi con i Patti Lateranensi del 1929, rafforza l’insegnamento religioso nelle scuole elementari, inserendolo negli studi superiori, con formule che lo rendono quasi obbligatorio, creando una nuova frattura tra cultura laica e cultura cattolica.
Di fatto, nei decenni successivi una parte considerevole delle forze politiche anticoncordatarie manifestava una tendenza francesizzante, avendo come obiettivo l’espulsione dalla scuola dell’insegnamento religioso, e ciò determinò la necessità di una sorta di sondaggio preliminare sull’argomento per vedere se esistessero o meno ostacoli per l’avvio di un negoziato che si voleva far giungere in porto. Sul punto, nei contatti diretti con la Santa Sede – che il Sen. Paolo Bufalini ed io tenevamo con Casaroli e Silvestrini – ci fu chiesto di conoscere direttamente l’orientamento di Enrico Berlinguer, dal momento che una opposizione seria sul punto avrebbe reso tutto più difficile. Era noto, d’altronde, e fu fatto rilevare, l’orientamento convinto di Paolo VI perché la scuola italiana non fosse privata di questa dimensione culturale e religiosa. Enrico Berlinguer fece sapere, per mio tramite, che la riforma del Concordato doveva portare a una piena ed effettiva facoltatività di tale insegnamento, per sanare le ferite aperte dalla Riforma Gentile e dal Concordato del 1929. Ma confermò nel merito che non solo non c’erano ostacoli, ma c’era piena e convinta condivisione nel mantenere l’insegnamento religioso nella scuola pubblica perché “è necessario che nella scuola ai giovani si parli di valori, valori umani e morali” (osservazione che Berlinguer fece anche in altre occasioni, in particolare negli ultimi giorni del negoziato). In altri termini, Enrico Berlinguer, e altri esponenti a lui vicini, intendevano questo punto non come concessione da fare alla Chiesa ma come un profilo importante per la formazione dei giovani, purché effettuato sulla base di una libera scelta delle famiglie e dei ragazzi. E questo è stato per anni l’orientamento ufficiale espresso in ogni sede, pubblica o riservata.
La scelta di Berlinguer fu accolta con gioia da Agostino Casaroli, che la definì “saggia, sorretta da motivazioni profonde”, e fece conoscere dell’ammirazione di Paolo VI per questo importante risultato. Il consenso del Papa venne riferito a Enrico Berlinguer, il quale commentò che Paolo VI era una saggia guida per il momento storico che attraversava l’Italia. Un giudizio che Berlinguer ha avuto modo di ribadire in altre occasioni, compresa quella della scomparsa di papa Montini nel 1978[14].
IL PROGRAMMA DELL’ECCLESIAM SUAM DEL 1964. DIALOGO CON I NON CREDENTI E DIALOGO INTERRELIGIOSO.
Paolo VI definisce la sua prima Enciclica del 1964 come una “nostra semplice conversazione epistolare”, che non vuole turbare l’opera del Concilio in atto, né vuole “rivestire carattere solenne e propriamente dottrinale”, ma semplicemente “vuol essere un messaggio fraterno e familiare”. In realtà, a una prima lettura e a distanza di tempo dalla sua stesura, è difficile immaginare un’Enciclica più densa e programmatica dell’Ecclesiam Suam[15], soprattutto se si pensi che le linee direttrici del nuovo Pontificato investono la missione della Chiesa nel rapporto con tutti gli uomini, e costituiscono la sostanza del Pontificato di Paolo VI, che prefigura l’orizzonte del suo magistero, le più grandi innovazione annunciate, i cambiamenti strutturali realizzati nel governo universale della Chiesa[16].
Il cuore del programma paolino sta nel desiderio, e nella volontà, della Chiesa di dialogare con tutti gli uomini di buona volontà. Aprire i confini della Chiesa è l’obiettivo che il Papa affida alla sua opera, lo fa con un’immagine che ci parla dei “cerchi concentrici intorno al centro, in cui la mano di Dio ci ha posti”. Il “primo, immenso cerchio, (è quello) di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte, cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano, ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda”. Sin qui, l’ispirazione giovannea, più precisamente della Pacem in Terris, che a sua volta rinvia a quell’anima naturalmente cristiana che esiste nell’uomo e che la Chiesa vuole onorare della “nostra stima e del nostro colloquio”[17].
Interlocutori specifici di papa Montini sono anzitutto i non credenti, coloro che fanno professione di ateismo, verso i quali deve mutare la prospettiva della Chiesa e del magistero pontificio. Per il Papa, “in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anche che molti, in diversissime forme, si professano atei”. Ricorda, in primo luogo, i danni e i guasti di ideologie, regimi e sistemi politici, che si sono fondati su un ateismo aggressivo, persecutore, come persecutori sono altre ideologie di matrice religiosa che utilizzano il nome di Dio per compiere gli stessi misfatti che hanno compiuto chi combatte il nome di Dio. Ma Paolo VI aggiunge che “se ferma e franca dev’essere l’affermazione e la difesa della religione e dei valori umani ch’essa proclama e sostiene, non è senza pastorale riflessione che noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione”. Qui s’innesta lo spirito profetico del Papa quando espone le cause dell’ateismo, che nascono “talora dall’esigenza d’una presentazione del mondo divino più alta e più pura, che non quella forse invalsa in certe forme imperfette di linguaggio e di culto, forme che dovremmo studiarci di rende quanto più possibile pure e trasparenti per meglio esprimere quel sacro di cui sono segno”. Ancor più, Paolo VI vuole scandagliare le motivazioni più profonde dell’ateismo moderno, perché gli atei sono spesso “invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’Assoluto e del Necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del Principio e del Fine divino, di cui toccherà al nostro paziente e sapiente magistero svelare la trascendenza e l’immanenza”. Infine, prosegue, “li vediamo anche talvolta mossi da nobili sentimenti, sdegnosi della mediocrità e dell’egoismo di tanti ambienti sociali contemporanei, e abili nell’usurpare al nostro Vangelo forme e linguaggio di solidarietà e compassione umana: non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pure sono cristiane, tali espressioni di valori morali?”[18]
Fermiamoci su queste parole, che hanno aperto un varco tra credenti e atei nel mondo di oggi, che vogliono chiudere con il passato. Il riconoscimento dell’altro, della sua dignità, anche se con idee contrapposte, dei valori di cui è testimone, la prima ammissione degli errori, delle carenze, dei limiti dell’azione degli uomini di Chiesa nel far sprigionare dal Vangelo tutto il suo potenziale: tutto ciò costituisce carattere strutturale del Pontificato di Paolo VI. La svolta storica di rispetto per chi professa l’ateismo, determina un salto evolutivo dal quale non si torna indietro; non è soltanto il contributo specifico di un Papa per fare dei passi in avanti, rappresenta una tappa irreversibile della modernità dalla quale non c’è ritorno, perché dall’esclusivismo si passa al dialogo. Jean Guitton coglie questo aspetto della personalità e dell’opera di Paolo VI. Paolo VI “chiedeva a ogni partner di approfondirsi, quindi anche di superarsi. Se non si possono unire visibilmente gli spiriti, si può almeno chiedere a ciascuno di mirare a una più grande purezza, una più alta perfezione. Per esempio: agli atei, di avere un “razionalismo” aperto, di non negare niente a priori; ai credenti, di avere una certezza accogliente e una comprensione per l’incertezza. Paolo VI custodiva la speranza che un giorno il pluralismo radicale sarebbe cessato, che le diversità non avrebbero più riguardato l’essenziale, che la Chiesa, luogo delle verità nella Verità, sarebbe stata abbastanza vasta per accogliere tutto”[19].
Ancora nell’Ecclesiam suam, Paolo VI delinea il secondo cerchio dell’umanità con il quale la Chiesa intende sviluppare un dialogo inedito, che è “immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche. Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose, né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero, e quasi che autorizzassero i loro fedeli a non cercare se Dio stesso abbia rivelato la forma, scevra d’ogni errore, perfetta e definitiva con cui Egli vuole essere conosciuto, amato e servito; ché anzi, per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana, e nutrire speranza che tale sia riconosciuta da tutti i cercatori e adoratori di Dio”. Conclude l’Enciclica: “non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane; vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficienza sociale e dell’ordine civile”. Al tempo stesso, il Papa avvia il dialogo con altre religioni, perché la Chiesa non rifiuta nulla di “ciò che in queste religioni è vero e santo. Con sincera serietà essa considera quelle modalità d’azione e di vita, quei precetti e quelle dottrine che quantunque in molti punti differiscono da ciò che essa stessa crede e propone, tuttavia riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini”[20]. A far seguito a tutto ciò, Paolo VI, confermando la riforma della Curia romana alla luce dei principi dell’Ecclesiam Suam, e dei documenti conciliari, istituisce il Segretariato per i non cristiani nel 1964 (che sarà sostituito nel 1988 dal Consiglio per il Dialogo Interreligioso dalla Costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988). E aggiunge nel 1974 la Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani (confermata successivamente da Giovanni Paolo II).
Con l’apertura inedita ai non credenti, e con l’avvio del dialogo interreligioso, si chiude una modernità vissuta dalla Chiesa in un recinto orgoglioso, segnato dall’antica dottrina dell’extra ecclesia nulla salus, nella convinzione di una autosufficienza che Paolo VI ripone negli archivi della Chiesa. In questo modo, la dottrina cattolica si arricchisce di un universalismo prima sconosciuto, perché s’intreccia e si amalgama con culture, afflati religiosi, filosofie anche critiche verso la religione, che con il tempo influiranno sul modo d’essere e d’intendere il cattolicesimo oltre ogni confine immaginabile.
EBRAISMO ED ECUMENISMO, PER L’UNIONE DEL CEPPO EBRAICO-CRISTIANO
Dove Paolo VI rovescia il corso storico dei rapporti con le religioni è nella sua azione infaticabile per i nuovi rapporti con l’ebraismo e per la rinnovata parentela del ceppo ebraico-cristiano. Le basi teologiche della svolta storica sono contenute nella visione strategica del Concilio Vaticano II che cancella l’antigiudaismo coltivato, e realizzato giuridicamente, per secoli nel rapporto con gli ebrei. Con la Dichiarazione Nostra Aetate, e altri documenti successivi,ricompone il rapporto con il popolo ebraico, riconosce che la promessa di salvezza fatta da Dio nell’Antico Testamento agli ebrei mantiene intatto il suo valore anche dopo la venuta di Cristo. Non a caso, il Viaggio in Israele nel 1964 è il primo viaggio che porta il successore di Pietro nelle terre di Gesù, e che il Papa dichiara essere un viaggio religioso, rivolgendosi alle autorità dello Stato di Israele come ai “figli del popolo dell’alleanza”, e richiamando i comuni padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, evidenziando le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica, quasi per ricostruire il legame biblico tra cristiani ed ebrei che per tanto tempo s’era incrinato, quasi spezzato, certamente offeso da tante colpe dei cristiani[21]. Da quel momento il rapporto con gli ebrei non conosce interruzioni, si sviluppa su diversi piani. Con il documento conciliare Nostra Aetate, il riconoscimento della perenne validità della promessa biblica della salvezza al popolo ebraico pone su un piano diverso i rapporti tra cristiani ed ebrei, con il rifiuto d’ogni ostilità e concorrenzialità di conversione, con la purificazione della liturgia, nella quale dopo il primo intervento operato nel 1959 da Giovanni XXIII che elimina odiose formule, Paolo VI introduce un’altra formula del tutto diversa e teologicamente amichevole. Infine, nel 1974 Paolo VI istituisce una Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e la associa non con il Segretariato per il dialogo interreligioso, bensì al Segretariato per l’unità dei cristiani.Ebrei, cattolici, cristiani d’ogni denominazione fanno parte della stessa famiglia che ha radici nella rivelazione biblica.
La grandezza di questo magistero subisce ancora oggi i lampi di buio dell’antisemitismo che oscurano in Europa, nella nostra Italia, nella stessa Roma, il nostro orizzonte e rattristano la nostra coscienza, e chiedono a tutti noi, a cominciare da chi insegna nelle scuole e nelle Università, a estirpare ogni minima radice di questo antico male, che definimmo nel Convegno al Senato sulla libertà religiosa come una autentica malattia dell’animo umano. Anche per questa ragione, uno dei prossimi incontri che vogliamo realizzare, sarà dedicato ai rapporti tra ebraismo e cristianesimo, perché i giovani s’interroghino su quante radici comuni abbiamo, cristiani ed ebrei, su quali ideali e principi etici possiamo contare per un lungo cammino insieme. Dobbiamo fare di più, sentirci figli di una cultura giudaico-cristiana che è base comune per ogni segmento di umanità.
Il terzo cerchio, con cui Paolo VI dialoga, è quello “a noi più vicino, del mondo che a Cristo s’intitola”. Per il Papa, “in questo campo il dialogo, che ha assunto la qualifica di ecumenico, è già aperto; in alcuni settori è già in fase di iniziale e positivo svolgimento. Molto vi sarebbe da dire su questo tema tanto complesso e tanto delicato, ma il Nostro discorso non finisce qui. Esso si limita ora a pochi accenni, e non nuovi. Volentieri facciamo nostro il principio: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide. E’ questo un tema buono e fecondo per il nostro dialogo. Siamo disposti a proseguirlo cordialmente. Diremo di più: che su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei Fratelli cristiani, tuttora da noi separati. Nulla ci può essere tanto ambito che abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità. Ma dobbiamo pur dire che non è in nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità”. Paolo VI delinea un progetto ricco di ottimismo sul cammino ecumenico, e sarà lui a compiere passi storici immediati e irreversibili verso l’Ortodossia e altre Chiese cristiane. Ma non manca di manifestare subito preoccupazioni e incertezze: “intravediamo diffidenze e resistenze a questo riguardo”, segnala nell’Ecclesiam Suam, e aggiunge: “ora che la Chiesa cattolica ha preso l’iniziativa di ricomporre l’unico ovile di Cristo, essa non cesserà di procedere con ogni pazienza e con ogni riguardo; non cesserà di mostrare come le prerogative, che tengono ancora da lei lontani i fratelli separati, non sono frutto d’ambizione storica o di fantastica speculazione teologica, ma sono derivate dalla volontà di Cristo, e che esse, comprese nel loro vero significato, sono a beneficio di tutti, per l’unità comune, per la libertà comune, per la pienezza cristiana comune; la Chiesa cattolica non cesserà di rendersi idonea e degna, nella preghiera e nella penitenza, dell’auspicata riconciliazione”.
In questo modo, Paolo VI dimostra di avere una capacità di perfezione speciale, intravedendo le difficoltà che si incontreranno sulla via dell’ecumenismo. Anche nella mia vita, che singolarmente mi ha fatto incontrare fedeli di quasi tutte le confessioni religiose, riscoprire le nostre meravigliose radici ebraiche, ho sentito spesso profumo di santità in grandi personalità spirituali, di religione cattolica, ortodossa, ebraica, protestante, buddista: a una di loro, il Card. Attilio Nicora, con Giuseppe Dalla Torre, dedicheremo nei prossimi mesi una giornata di memoria e di riflessione. Ma ho anche avvertito un retro pensiero, quasi la convinzione che l’ecumenismo sia utile ma non possa superare i confini del bon ton, del diplomatismo. Nel cuore di alcuni restano vecchie diffidenze, ostilità nascoste. Ma fin quando i credenti, i cristiani, gli ebrei, non sentiranno dentro di sé una solidarietà spirituale autentica, una comunanza di figliolanza divina, l’ecumenismo e il dialogo non porterà tutti i frutti che può portare.
Se il dialogo con il primo cerchio, dei non credenti, ha posto Paolo VI all’avanguardia nell’abbattimento delle barriere tra gli uomini, l’impegno per l’unità dei cristiani vede in Papa Montini come vero campione dell’ecumenismo, con realizzazioni del tutto impensabili anche solo pochi anni prima. Tutto in Papa Montini converge nel favorire l’ecumenismo: il cattolicesimo italiano da sempre scevro da impostazioni ultramoniste; la sua apertura alla cultura europea, in specie francese che, insieme alle asprezze di settori reazionari cattolici, presentava le aperture di Maritain[22], Gilson, Guitton, verso gli ebrei e i cristiani di altre chiese; l’esperienza nella Segreteria di Stato di Pio XII nella quale si muovevano i primi passi verso incontri con cristiani. Ma in Paolo VI è stato decisivo il coraggio, un ardore che l’ha portato a cambiare la storia dei rapporti tra Chiese cristiane. Anche solo limitandomi alle prime iniziative, assistiamo ad un susseguirsi incalzante di date, scelte, incontri, con i quali si fece più in pochi mesi di pontificato che in decenni e secoli di storia, si sanarono più ferite, vere e proprie piaghe, che la Chiesa e tante Chiese cristiane pativano e si erano inferte da sole, in tanti secoli[23].
La tenacia e il coraggio sul camino ecumenico si manifestano subito sin dalle iniziative minori[24]. Il 1° luglio 1963 il Papa incontra esponenti del patriarcato di Mosca, della Comunione Anglicana e della Comunità di Taizé, venuti per la sua incoronazione; il 10 luglio invia cinque osservatori alla IV Conferenza Mondiale di Fede e Costituzione, che si tiene a Montréal; il 14 luglio delega due vescovi a rappresentarlo alle celebrazioni per il cinquantesimo dell’episcopato di Alessio, patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Ma sappiamo che il gesto storico decisivo è rappresentato nel 1964 dall’incontro con il patriarca ecumenico Athenagoras I, quando i due patriarchi d’Oriente e d’Occidente si abbracciano, dopo novecento anni di separazione ecclesiale, a Gerusalemme, nella sede della Delegazione Apostolica. Le parole di Paolo VI sono commosse e programmatiche: “grande è la nostra emozione, profonda la nostra gioia, in quest’ora veramente storica, in cui, dopo secoli di silenzio e di attesa, la Chiesa cattolica e la “ortodossia” nuovamente si rendono presenti nella persona dei loro rappresentanti più alti. Le divergenze di ordine dottrinale, liturgico, disciplinare, dovranno essere esaminate, a tempo e a luogo, in uno spirito di fedeltà alla verità e di comprensione della carità (…). Di questa carità siano simbolo ad esempio il bacio della pace, che il Signore ci ha concesso di scambiare su questa terra benedetta, e la preghiera insegnataci da Gesù Cristo, che siano sul punto di recitare insieme”. Un gesto di particolare significato è quello della funzione ecumenica realizzata a Roma, nella Basilica di S. Paolo Fuori le Mura il 4 dicembre 1965, e nella quale il Papa chiama gli osservatori “miei fratelli”, e riconosce nella omelia che la Chiesa ha nutrito in passato sentimenti non del tutto lodevoli, ma ora “abbiamo ricominciato ad amarci”, e sottolinea che “la Chiesa, nella sua meditazione secolare, ha scoperto tesori di verità e di vita, la cui rinuncia ci porterebbe ad essere infedeli”[25].
Il gesto storico definitivo si compie il 7 dicembre 1965 quando viene letto in Concilio, da mons. Johannes Willebrands, del Segretariato per l’unione dei cristiani, il testo del breve Ambulate in dilectione, con i quale Palo VI cancella la scomunica che i legati pontifici avevano emesso nei confronti del Patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, nel 1054. La solenne lettura è coronata dall’abbraccio che il Papa scambia con il metropolita di Heliopolis, Melitone, giunto in rappresentanza di Athenagoras: nello stesso momento nella cattedrale del Fanar ad Istanbul, alla presenza di sette legati papali, si svolge un’analoga celebrazione, durante la quale il segretario del Santo Sinodo legge un Tomos patriarcale, che cancella la scomunica di Michele Cerulario al Papa[26].
Oggi conosciamo gli sviluppi ecumenici realizzatisi non solo nei rapporti con l’Ortodossia, con cui la collaborazione si è fatta molto stretta, ma con tutto il mondo orientale dove è in atto una rinascenza cristiana importante e decisiva per il futuro d’Europa. Voglio ricordare gli incontri di Giovanni Paolo II con altri patriarchi, di Costantinopoli e di altre Chiese ortodosse nazionali, fino ai più recenti e solenni eventi ecumenici. Parlo dell’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca della Chiesa Russa a Cuba nel 2016, con l’approvazione di un importante documento comune sul rapporto tra le due Chiese e sul futuro d’Europa. E dell’incontro con il Papa della Chiesa Copta al Cairo nel 2017, che vide compartecipe sempre il Patriarca di Costantinopoli in una cornice di incontri con autorità dell’Islam sunnita. Se permettete, però, voglio ricordare anche la recente visita in Russia del Segretario di Stato vaticano, il Card. Pietro Parolin, per incontrare il Patriarca di Russia Kirill e il Presidente Vladimir Putin: un evento che ha arricchito ed esteso le relazioni di Roma con il Patriarcato di Mosca, e le relazioni della Santa Sede con la Russia per una azione continua a favore della pace e del dialogo tra le Nazioni e tra gli Stati.
FEDE E RAGIONE. UNIVERSALITA’ DELLA CHIESA E DELL’ONU.
Il 4 ottobre 1965 Paolo VI compie l’ultimo gesto universalistico del biennio dei miracoli, recandosi all’ONU dove pronuncia uno storico discorso all’Assemblea Generale, presieduta da Amintore Fanfani, con il quale concilia definitivamente la Chiesa con l’Organizzazione internazionale dei popoli, e inaugura la più grande fase di apertura della Santa Sede agli Stati contemporanei e alle organizzazioni internazionali[27]. L’immagine iconografica di Amintore Fanfani e di Paolo VI all’ONU riflette anche la realtà di un’Italia che vedeva crescere il suo ruolo nel consesso delle Nazioni e di un Pontefice che estende l’abbraccio della Chiesa a tutto il mondo.
Il Papa esprime la fiducia massima della Chiesa alle Nazioni Unite, offre una solenne ratifica morale all’altissima istituzione e riconosce che essa “rappresenta in qualche modo nel campo temporale ciò che la Chiesa cattolica vuole essere in campo spirituale, unica e universale”. In uno dei discorsi più appassionati del suo pontificato, Papa Montini unisce il passato di sofferenza dei popoli al futuro di speranza: “questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; noi, quali “esperti in umanità”, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi predecessori, quello di tutto l’episcopato cattolico, e nostro, convinti come siamo che essa rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale”. Dichiara di parlare a nome di tutte le vittime delle guerre, evoca la voce dei morti “caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace nel mondo”, e di tutti coloro che sono sopravvissuti alle guerre e dei giovani che sognavano “a buon diritto una migliore umanità”. La sua voce, continua, è “la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”, e formula il suo grido per la pace: “non gli uni contro gli altri, non più, non mai!”, ed evocando ancora le parole di John Fitzgerald Kennedy di quattro anni prima, conclude: “non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!”.
Il discorso del Papa all’ONU viene inserito, per volere dei Padri conciliari, negli atti del Concilio, e costituisce il fulcro di una svolta nelle relazioni internazionali che pone la Santa Sede al centro delle relazioni tra i popoli. Di fatto, siamo di fronte alla solenne conciliazione della Santa Sede col nuovo ordine mondiale e internazionale. Da questo momento, la partecipazione della Santa Sede alle attività di organismi collegati con l’ONU, la sua presenza diretta negli stessi e in altri organismi, conoscono una fase di espansione quasi senza limiti. Il Papa vede nella partecipazione al “governo mondiale” dell’umanità un’opportunità speciale per il dispiegamento del respiro universale della propria azione[28].
La visita del 1965 all’Assemblea Generale dell’ONU segna la discontinuità più forte nei confronti di una Chiesa collegata, per tante ragioni, all’Occidente, alla sua cultura, al suo orizzonte politico, ancora segnato dallo scontro tra Est e ovest[29]. Paolo VI resta ancorato alla difesa dei valori di libertà e di democrazia che la divisione dell’Europa esigeva ed imponeva, in coerenza con la scelta di campo di Pio XII per la politica antitotalitaria della Santa Sede[30]. Ma l’apertura all’ONU ha un significato che va oltre lo scontro tra Est ed Ovest, e pone le basi di un universalismo politico che la Chiesa non aveva mai conosciuto. La libertà politica e d’azione che la Chiesa acquisisce le permette di muoversi sui diversi scacchieri della scena internazionale, a cominciare da quello Europeo, per il quale Paolo VI si propone non solo di favorire il superamento della logica divisionista Est-Ovest[31] ma di preparare una nuova stagione che porti alla unificazione del continente[32]. E offre un nuova visione dei rapporti tra Est e Ovest, nell’interpretare i torti e le ragioni in modo non aritmetico pregiudiziale, come avveniva in passato, permettendo alla Santa Sede di intervenire più volte per favorire mediazioni, consigli e suggerimenti, nel supermento dei motivi di guerra, come avvenuto nel lungo corso della guerra in Vietnam[33]. Ancor più, la stagione dei diritti umani viene fatta propria, reinterpretata, dal Vaticano II, attraverso i capisaldi della libertà religiosa, affermata in Concilio come diritto universale[34]in opposizione alle condanne ottocentesche che avevano spostato il cattolicesimo su un versante antiliberale, e mediante una rilettura, si potrebbe dire biblica, dei rapporti tra i popoli e la riaffermazione del diritto delle Nazioni di tutto il pianeta ad essere direttamente protagoniste sulla scena della storia. Probabilmente è questo il cambiamento più profondo che la Chiesa di Paolo VI, sulla spinta delle intuizioni di Giovanni XXIII, compie, e che determina una svolta irreversibile di carattere antropologico e storico. Se gli uomini sono tutti eguali perché fatti a immagine e somiglianza di Dio, perché questo è alle origini il messaggio più rivoluzionario consegnato dalla Bibbia, ciò vuol dire che la storia e la civiltà appartengono a tutti gli uomini, senza differenza alcuna, e che la Chiesa deve far recuperare, in termini di diritti, beni materiali, speranza nel futuro, che tanti popoli hanno tolto a porzioni intere di umanità nel corso del cammino storico.
La Chiesa di Paolo VI non appartiene, neanche culturalmente, più a nessuno, e l’Enciclica Populorum Progressio, afferma di fronte all’umanità ciò che Paolo VI aveva già detto di fronte ai suoi rappresentanti all’ONU. Paradossalmente, la Teologia della Liberazione nel momento in cui (almeno in parte) sceglie di situare la Chiesa ancora all’interno dello scontro tra Est e Ovest, quasi attratta dalla cultura marxista per la sua dimensione rivoluzionaria, in quello stesso momento essa ridefinisce dei nuovi confini storico-politici per la Chiesa. Ma la Chiesa di Paolo VI è ormai senza confini, e si prospetta per il cattolicesimo una liberazione potenzialmente totale da ogni sudditanza politica, perché legata a una prospettiva di liberazione dell’umanità da ogni limite e da ogni oppressione, comunque denominata. Paolo VI sul punto è molto chiaro, compie scelte e formula prospettive che entrano direttamente nell’era della globalizzazione, pur in anticipo sul lessico che diverrà presto familiare.
Da quel momento il processo di liberazione da vincoli politici e culturali, è continuo e può caricarsi perfino di un’ambiguità prima sconosciuta. I passaggi di questa ambiguità sono molteplici, e si sviluppano senza sosta nel Pontificato di Paolo VI e poi in quelli successivi. La Chiesa di Paolo VI non conosce più appartenenze occidentali, eppure può in questo modo agire più liberamente nei confronti del mondo comunista e della sua Chiesa del silenzio: critica il totalitarismo di sinistra, e cerca di conquistare spazi anche limitati attraverso i piccoli e grandi passi di Giovanni XXIII e di Paolo VI, con la loro ost-politik che fa intravedere la caduta del comunismo. E Paolo VI potrà essere, nella fase della guerra fredda che ancora si situa nei tempi del suo pontificato, più libero e sciolto nei movimenti e nelle opzioni internazionali, più aderente un messaggio sempre più stringente e vincolante di rifiuto delle guerre, di ogni guerra[35]. Più lenta, ma altrettanto sicura, è l’emancipazione della Chiesa italiana dal cattolicesimo politico nazionale, che viene conservato e custodito finché giova nell’immediato, ma presto abbandonato quando il pluralismo politico diviene il nuovo orizzonte, in Italia e in Europa, nel quale si muovono le organizzazioni cattoliche.
La Chiesa missionaria, perché tale torna ad essere la Chiesa di Paolo VI, non è più debitrice a nessuno nella sua azione planetaria, essa vive ormai cercando di costruire l’utopia, addirittura prevenendo le accuse di utopismo: “certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto, e che essi non abbiano percepito il dinamismo d’un mondo che vuol vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore”[36]. È sostenitrice dei diritti umani ovunque, ma nel tempo si trova a difendere i diritti umani solidali contro quelli derivati dal relativismo, specie in materia di famiglia, filiazione, condizione femminile, sulla base del rifiuto antropologico di Paolo VI d’ogni forma di nichilismo, come risulta evidente nell’Enciclica Humanae Vitae. Acquisisce una libertà di azione politica e diplomatica senza rete nel momento in cui, con Paolo VI, relativizza a sua volte il valore dei diversi regimi politici e sociali. Al centro del sistema di valori internazionali sono posti i grandi obiettivi umanitari della Santa Sede, il perseguimento della pace sempre e dovunque, il valore della giustizia che con la Populorum Progressio diviene l’architrave della politica e della diplomazia pontificia[37], infine il valore della misericordia, enfatizzato da Papa Francesco sulla scia del magistero di Paolo VI, che finisce per polverizzare ogni residua collocazione geo-politica della Santa Sede, fino a colorare d’utopia scelte e decisioni politiche della Santa Sede nelle grandi istituzioni internazionali.
COLLEGIALITA’ E UNITA’ NEL GOVERNO DELLA CHIESA. COSCIENZA DELLA FUNZIONE PETRINA.
Nell’aprire al dialogo con il mondo, i non credenti, le religioni non cristiane, per l’ecumenismo[38], Paolo VI è stato il Papa del coraggio, che ha indicato nuove strade per il futuro, che oggi percorriamo con tante difficoltà e sofferenze nei rapporti tra religioni. Invece, nel riformare le strutture di Governo della Chiesa universale, Paolo VI è il Papa che ha agito con “prudente arditezza”, ma di più ha realizzato il programma, il suo progetto riformatore, con risultati dei quali ancora oggi gli siamo debitori. Il progetto di un nuovo Governo della Chiesa è fondato dall’inizio sulla visione strategica dei tre cerchi nei quali si distribuisce l’umanità, con strutture ed organismi che sono stati creati dalla Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae, e che hanno investito e coinvolto i rapporti con i non credenti, le altre religioni, le Chiese cristiane. Ma c’è un punto, già segnalato lucidamente nell’Enciclica Ecclesiam Suam, sul quale Paolo VI interviene ripetutamente in prima persona per salvaguardare quel continuum irrinunciabile nella storia della Chiesa e del suo governo: si tratta della tutela della funzione petrina in relazione alla quale, anche per la propria persona, presenta salda e totale consapevolezza.
Nel contesto del suo orizzonte programmatico, l’Enciclica del 1964 afferma che, anche solo l’ipotesi di una rimozione del primato del papa sarebbe priva di ogni consistenza, e ciò “non soltanto perché, senza il Papa, la Chiesa cattolica non sarebbe più tale, ma perché, mancando nella Chiesa di Cristo l’Ufficio pastorale sommo, efficace e decisivo di Pietro, l’unità si sfascerebbe; e indarno poi si cercherebbe di ricomporla con criteri sostitutivi di quello autentico, stabilito da Cristo stesso: “Vi sarebbero nella Chiesa tanti scismi quanti sono i sacerdoti” scrive giustamente S. Girolamo (Dial. Contra Luciferianos, PL XXIII, 173). Quasi in una sorta di premonizione di quel vento di contestazione che investirà appieno la Chiesa e il suo Pontificato l’Enciclica ammonisce: “lo spirito d’indipendenza, di critica, di ribellione male si accorda con la carità animatrice della solidarietà, della concordia, della pace nella Chiesa, e trasforma facilmente il dialogo in discussione, in diverbio, in dissidio, spiacevolissimo fenomeno, anche se purtroppo assai facile a prodursi, contro il quale la voce dell’Apostolo Paolo premunisce: “Non vi siano tra voi degli scismi”(1 Cor. 1, 10).
La questione della funzione petrina, del ruolo del Pontefice nel governo della Chiesa, si pone presto in Concilio nell’oscillazione tra le tradizionali tendenze ultramontaniste e quelle più antiche ma sempre vive aspirazioni conciliariste, e Paolo VI interviene direttamente e personalmente con una capacità direttiva, e una sapienza giuridica, che pochi si sarebbero attesi, se non avessero conosciuto la sua formazione e attività curiale, in particolare la vicinanza come stretto collaboratore di Pio XII. Paolo VI non attende che il Concilio si impegni in discussioni complicate e rischiose, e il 16 novembre 1964, interviene attraverso il Segretario generale del Concilio Mons. Pericle Felici con una Nota Esplicativa praevia, che verrà allegata agli Atti conciliari, e alla luce della quale deve essere letto e interpretato il terzo capitolo dello schema De Ecclesia[39].Il Concilio coglie subito la gravità del momento e il carattere strategico della Nota praevia , nella quale si delineano, al di là di ogni ragionevole dubbio, i rapporti intercorrenti tra il primato pontificio e la struttura del collegio episcopale. Si dichiara, anzitutto,con riferimento al termine “Collegio” e ai suoi componenti, che si diviene membri nel Collegio in virtù della consacrazione episcopale, mediante la comunicazione gerarchica con il capo del Collegio e con le membra, e che la consacrazione rendeva cronologicamente partecipi dei munera sacra propri del Collegio in comunione con il papa. Si ribadisce quindi che il Collegio non esiste senza il suo capo, il romano pontefice, vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale, il quale poteva esercitare la sua potestà in ogni momento e a suo piacimento. La consapevolezza della gravità del momento era chiara a tutti, perché “i Padri seguirono la lettura della Nota in straordinario silenzio, consci della solennità e della straordinarietà dell’intervento pontificio”[40].
Probabilmente è questo uno dei momenti più alti del pontificato di Paolo VI, nel quale s’innestano e attivano le tante riforme della struttura istituzionale della Chiesa, movendo da quel concetto di partecipazione che si estende a diverse componenti ecclesiastiche ed ecclesiali, sempre tutelando il principio d’autorità e di unità del Governo, contro rischi di dissolvimento e di dispersione. Il sapiente equilibrio realizzato da Paolo VI tra i princìpi d’unità e di partecipazione costituisce l’eredità più solida, e convinta, lasciata a una Chiesa che stava per vivere una delle fasi più convulse della sua dinamica interna[41]. Papa Montini trasforma la Curia come non era mai stata riformata sino ad allora, pone le basi, e poi realizza, una struttura come il Sinodo dei Vescovi, che adegua, e accosta, il governo della Chiesa all’episcopato di tutto il mondo, dà forza e stabilità alle Conferenze episcopali nazionali mediante le quali il metodo della sinodalità s’estende agli organismi rappresentativi delle nazioni del mondo.
S’è già detto quanto la formazione di Giovanni Battista Montini sia stata plasmata dalla collaborazione, con Pio XI, e Pio XII, nel governo della Chiesa, e quanto abbia giovato alla sua elevazione al Pontificato il rapporto sempre più intenso che si consolidò con Angelo Roncalli, il quale, subito dopo essere stato eletto Papa, il 28 ottobre 1958, lo crea Cardinale il 17 dicembre dello stesso anno[42]. La convinzione che Giovanni Battista Montini sarà il successore di Giovanni XXIII, cresce e si consolida nel tempo, avvalendosi anche di chiari segni di predilezione manifestati da Papa Roncalli. Ha un particolare significato il fatto che tra i primi appunti di Paolo VI si trova una riflessione personale sul mistero della elezione petrina: “Intanto la meditazione continua nello stupore di ciò ch’è avvenuto. Potevo, dovevo evitare? “Signore, Tu sai tutto”. Mi pare che i fatti erano più fuori di me; e che in me vi fosse una sincera e tacita preghiera di essere risparmiato, ma insieme il proposito di non commettere viltà e di fare oblazione, ancora della mia povera vita. “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi ma anche le mani e il capo”. Così andò, così agisce il Signore: lo sguardo intenzionale anche sulla piccolezza infinitesimale”[43].
Giovanni Battista Montini era consapevole della prossima chiamata al soglio pontificio. Utilizzando nuovamente il concetto di “gioco”, Paolo VI afferma nel 1972: “parve allora a noi d’essere sopraffatto dal gioco, meccanico e misterioso che fosse, d’una vicenda estranea e superiore alla nostra volontà; non avevamo mai minimamente desiderato, né tanto meno favorito la nostra elezione. Ci si vorrà credere”[44]. Ma la consapevolezza della funzione petrina cui è chiamato, induce Paolo VI prima a confessare la propria tremenda solitudine che deve vivere, poi di vivere lo sforzo continuo di guidare la Chiesa universale nei momenti decisivi del pontificato[45]. La solitudine “totale e tremenda” induce Paolo VI e percepire, e accettare, il peso delle proprie responsabilità: “mio dovere è quello di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri. Non devo avere paura”[46]. Ancora negli Appunti personali si delinea la missione di Pietro, confirma fratres tuos: “tocca a Pietro mostrare se stesso fortis in fide, franco e sicuro, ardito nella prudenza, senza dubbi e senza timore, pieno di fede e di Spirito Santo, capace di sintesi e di azione, esposto al rischio e al sacrificio”. E tocca lui “infondere nei fratelli la certezza profetica, l’energia, il coraggio, la letizia, la fede e la speranza e la carità in Cristo Signore, affermate nella coesione interiore alla Chiesa e nell’annuncio interpretativo e operativo di salvezza a contatto col mondo”[47].
Se non si comprende questo profilo della personalità di Paolo VI, si finisce per cedere a quella vulgata, per la quale egli fu un Papa incerto, ambiguo, spesso incapace di prendere decisioni sicure, sofferente per quanto ha fatto e deciso, e che ha saputo trasmettere all’esterno l’aspetto meno ottimistico della sua personalità. La realtà, la personalità del Papa, la sua opera a favore della Chiesa sono esattamente il contrario.
UNA FRENESIA LO PRENDE, UNA VERTIGINE, TALORA UNA FOLLIA LO INVADE. MA PAOLO VI CHIUDE TANTE FERITE DELLA STORIA.
A conferma del carattere forte e deciso di Paolo VI, sovviene la ruvidezza, la sistematicità, con la quale alcune componenti del dissenso ecclesiale dell’epoca scelgono il Papa come un vero bersaglio, per criticare, corrodere la sua azione, il suo sforzo di tenere unita la Chiesa.
Non è agevole riassumere le linee, e gli episodi, della contestazione che Paolo VI ha dovuto subire[48]. Basterà ricordare che le critiche scivolano presto sul piano personale, quand’è accusato di volta in volta d’essere “massone, filocomunista”, o “debole, restauratore, conservatore”[49]. Un’eco notevole hanno le scelte del monaco benedettino Giovanni Franzoni, Abate dell’Abbazia di San Paolo Fuori le Mura, che dà vita per diversi anni a una contestazione continua, aspra, su quasi tutte le scelte della Santa Sede, dal Concordato alla guerra in Vietnam, dal divorzio all’aborto, al celibato, al carattere oppressivo della disciplina ecclesiastica, e via di seguito: esse portano nel 1974 alla sua sospensione a divinis, poi alla riduzione allo stato laicale. Sulla scia di Dom Franzoni, ma anche in via autonoma,altri ecclesiastici come don Enzo Mazzi, danno via a comunità di base che tendono a creare strutture alternative a quelle cattoliche parrocchiali; per don Mazzi “ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere e evangeliche del popolo”[50].
A un livello diverso, emergono incomprensioni tra la Santa Sede e personalità come il Cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal 1967 al 1977, che sottolinea spesso la volontà del Papa di sminuire i contenuti innovativi del Concilio e di bloccare la ricerca teologica[51]. Alla morte di Paolo VI, il Cardinale vuole rimarcare: “io ho amato profondamente Paolo VI e inginocchiandomi presso la sua salma ho pianto con tutto il cuore; ma devo dire che le cose amare che ho sentito di dovere di dirgli, gliele ripeterei ancora tutte, anche oggi parola per parola per il bene della Chiesa”. La posizione di Pellegrino riflette una dimensione più vasta della contestazione che investe di volta in volta la Chiesa d’Olanda per motivi teologici, più disponibile a una concezione razionalistica del messaggio evangelico, o, al contrario il vescovo francese Marcel Lefèbre che rimproverava la Chiesa di Roma, Paolo VI in particolare, di cedere a correnti moderniste, e di contraddire la dottrina tradizionale della Chiesa: con la Chiesa olandese i dissensi sono rientrati, con Lèfebvre e la sua comunità di Écône si è consumato uno scisma che si stenta ancora a superare.
Diversa ancora la problematica che emerge con il formarsi della Teologia della liberazione, la quale si presenta come un vasto movimento teologico, culturale, e politico, che tende a reinterpretare l’orizzonte della salvezza cristiana in chiave non soltanto escatologica ma immediatamente politico-rivoluzionaria. Animata da teologi sud americani come Gustavo Gutierrez, Hélder Câmara, Leonardo Boff, questa corrente di pensiero ottiene un sostegno intellettuale anche in correnti della c.d. teologia politica di matrice mitteleuropea, soprattutto alimenta nel tempo movimenti e azioni politiche di grande rilievo nell’America del Sud che coinvolgono importanti personalità laiche ed ecclesiastiche[52]. Sul tema Paolo VI interviene più volte anche con importanti documenti, ribadendo che il messaggio cristiano non è rivolto solo alla salvezza ultraterrena ma coinvolge e alimenta anche una liberazione umana, fondata sulla dignità della persona e sui diritti: essa, però, deve comunque salvaguardare la dimensione escatologica del cristianesimo che interessa il destino dell’uomo nel suo complesso, ed evitare lo scadimento politico della presenza cristiana nei Paesi del terzo mondo e nelle Nazioni emergenti nella incipiente fase della globalizzazione. Probabilmente, la risposta di Paolo VI alla Teologia della liberazione costituisce nel XX secolo la più sapiente e illuminataelaborazione che sia stata concepita per attrezzare la Chiesa nei confronti di un movimento di dimensioni mondiali, salvaguardando il principio unitario e insieme la sua capacità rivoluzionaria.
La risposta di Paolo VI, di conseguenza, di fronte a sommovimenti molto diversi, alcuni autenticamente contestatori e distruttivi, altri animati da ispirazione e volontà autenticamente riformatrici, ha avuto un duplice livello. Da un lato, quello volto a recepire tutto ciò si muove nell’orizzonte del Concilio Vaticano II e della sua ispirazione innovatrice, anche prefigurando ulteriori cambiamenti; dall’altro quello di difendere la Chiesa dai rischi di disgregazione, mentre riappaiono i fantasmi dello scisma, lo scadimento di costumi ecclesiastici tradizionali, in Occidente e, con una peculiarità loro, in America Latina[53], e dolorosi affievolimenti nella capacità d’azione d’importanti ordini religiosi come quello della Compagnia di Gesù, tradizionalmente e istituzionalmente legato alla Santa Sede e alla persona del Pontefice.
In contrasto con l’immagine di Papa incerto, che si piega sotto i colpi del dissenso, interno ed esterno alla Chiesa, Paolo VI affronta i temi della contestazione ecclesiale che sono stati tanti e diversi. Su di essi si sofferma, tra l’altro nell’udienza generale del 15 gennaio 1969, con un’analisi approfondita, non esente da riflessioni psicologiche di grande rilievo, di cui si comprenderà l’importanza nei tempi successivi[54]. Paolo VI osserva che “l’uomo ha acquistato la coscienza sia delle deficienze in cui si svolge la sua vita, sia delle possibilità prodigiose con cui si possono produrre mezzi e forme nuove di esistenza, egli non sta più tranquillo: una frenesia lo prende, una vertigine lo esalta, e talora una follia lo invade per tutto rovesciare (ecco la contestazione globale) nella cieca fiducia che un ordine nuovo (parola vecchia), un mondo nuovo, una palingenesi ancora non bene prevedibile sta per sorgere fatalmente”[55]. Il Papa dichiara che “non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione, questo bisogno di rinnovamento, che per tante ragioni ed in certe forme è legittimo e doveroso”, e invita a considerare lo stesso evento conciliare quasi come una riprova della necessità di un rinnovamento generale: “che il Concilio abbia avuto e abbia tuttora come suo fine generale un rinnovamento di tutta la Chiesa e di tutta l’attività umana, anche nella sfera profana, è verità che traspare da ogni documento e dal fatto stesso del Concilio medesimo; ed appunto opportuna la domanda se noi abbiamo bene riflettuto su questo scopo principale del grande avvenimento. Anch’esso s’iscrive nella grande linea del movimento trasformatore moderno, del dinamismo proprio del nostro periodo storico. Anch’esso tende a produrre un rinnovamento. Ma quale rinnovamento?”.
Con questa domanda cruciale, Paolo VI colloca il Concilio al centro del generale movimento riformatore della modernità, e lo definisce evento religioso e cattolico, sottolineando però senza equivoci quali possono essere le deviazioni di una contestazione senza frutti. A questa domanda il Papa risponde in modo così netto da cancellare l’immagine stereotipata di Paolo VI piegato alle ingenerose critiche che gli vengono continuamente rivolte. Prosegue, infatti, sostenendo che “la risposta è complessa, perché molti sono i settore ai quali il rinnovamento vorrebbe applicarsi; e questa molteplicità ha dato pretesto anche ad arbitrarie intenzioni, le quali si vorrebbero attribuire al Concilio, come l’assimilazione della vita cristiana al costume profano e mondano, l’orientamento, così detto orizzontale, della religione, rivolta non più al primo e sommo amore e culto di Dio, ma all’amore e al culto dell’uomo, la sociologia come criterio principale e determinate del pensiero teologico e dell’azione pastorale, la promozione d’una presunta, inconcepibile “repubblica conciliare”; e così via”[56].
Paolo VI individua più volte i rischi d’una contestazione distruttiva, che non favorisce le riforme necessarie ma induce al dissolvimento di quanto s’è costruito nella storia millenaria della Chiesa: “l’interesse per il rinnovamento è stato da molti rivolto alla trasformazione esteriore e impersonale (…), alla accettazione delle forme e dello spirito della Riforma protestante, piuttosto che a quel rinnovamento primo e principale che il Concilio voleva, quello morale, quello personale, quello interiore”[57]. Dunque, nel pieno della sua attività riformatrice, nella Chiesa e nei rapporti della Chiesa con il mondo, Paolo VI conferma i capisaldi della fede cristiana e delle strutture di governo della Chiesa universale. E dimostra, di fronte alle ricorrenti crisi, di opposta tendenza, la capacità, e la fermezza, di risposta a chi supera i limiti del velleitarismo che pone a rischio il volto della Chiesa, aperta invece alla discussione, ma anche ferma nel respingere ogni intento dissolutore[58]. Noi tutti sappiamo, per primi gli studenti presenti a questo Convegno, che è sempre esistita nella Chiesa una tentazione formidabile, quella di trasformarla in una realtà (lato sensu) democratica, come avvenne in certo qual modo, in circostanze eccezionali, con il Concilio di Costanza, dopo il grande scisma d’Occidente. La subalternità del Papa al Concilio, definita con il Decreto Haec Sancta Synodus, l’obbligo d’indire con scadenza periodica ravvicinata l’assise conciliare, quasi come si sarebbe fatto più avanti nelle sessioni parlamentari delle nascenti democrazie, delineano a Costanza i tratti d’una sorta di democrazia ecclesiale. Ma conosciamo anche le conseguenze disastrose di quel periodo, e con questa consapevolezza, sappiamo tutti oggi che non vogliamo, non possiamo, desiderare, una Chiesa democratica, bensì una Chiesa sempre più spirituale. Sappiamo che una Chiesa democratica diventa parte e fazione della società, e per dirla con una battuta finirebbe col fare le primarie, finiremmo un giorno per andare a votare con le primarie, per il parroco e per il vescovo, distruggendo così quanto di positivo la Chiesa deve invece realizzare se vuole essere fedele a se stessa.
È bene osservare che già nell’udienza del dicembre 1969 Paolo VI si chiede: “dov’è la Chiesa che noi amiamo, che noi desideriamo? Quella di ieri era forse meglio di quella di oggi? E quella di domani quale sarà? Un senso di confusione sembra diffondersi anche nelle file dei migliori figli della Chiesa, talora anche fra i più studiosi e i più autorevoli; si parla tanto di autenticità; ma dove la possiamo trovare, mentre tante cose caratteristiche, alcune anche essenziali, sono messe in discussione? Si parla tanto di unità, e molti cercano d’andare per conto proprio. Di apostolato: e dove sono gli apostoli generosi ed entusiasti, mentre le vocazioni diminuiscono e fra il laicato cattolico stesso si affievolisce la coesione e lo spirito di conquista (…) Un senso di incertezza percorre, come un brivido febbrile, il corpo ecclesiale; è mai possibile che questo paralizzi nella Chiesa cattolica il suo carisma caratteristico, quello della sicurezza e del vigore?”[59].
Possiamo allora concludere che Paolo VI è stato, pur nella bufera del dissenso e della spinta critica oltre ogni misura, il più grande Papa riformatore della modernità. Quegli anni, mi riferisco agli anni ’60-’70 sono stati anni tumultuosi, non negativi come pretendono a volte i conservatori senza speranza, ma pieni di fiducia e ricchi di riforme in ogni campo. È stata un’epoca guidata non a caso da personalità come Paolo VI, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Amintore Fanfani, ciascuno dei quali, in un caleidoscopio apparentemente incomprensibile e frastagliato, svolge un ruolo pieno di passione ed equilibrio, innovazione e saggezza. Questi termini sembrano ossimori ma sono complementari, perché la passione è necessaria per cambiare il mondo, ma non è sufficiente, mentre l’equilibrio e la prudenza realizzano poi i sogni dell’utopia: l’innovazione spinge ad agire ma la saggezza garantisce che essa si realizzi, non resti solo una parola.
Da questa angolazione, possiamo comprendere la grandezza di Paolo VI che è stato il Papa che ha sanato le ferite della storia, dentro e fuori la Chiesa. Ha sanato antiche piaghe per le divisioni tra le Chiese affermando che “l’enterprise la plus mystérieuse et la plus importante de son ministère c’est l’oecuménisme”. Ha proclamato, chiudendo i capitoli di tanti Sillabi della storia cristiana, la libertà religiosa come diritto inerente la dignità umana. Ha elevato, più che in altre epoche, l’eguale dignità dei i popoli, e proclamato la giustizia come valore universale: ha scritto il lessico di una modernità libera e solidale, quel lessico che dopo tanti anni noi ancora usiamo per parlare di noi stessi, del nostro futuro, per spingerci a migliorarci con fiducia.
A queste riforme sono seguite tante altre, ne ricordo una che ha cancellato uno strumento di controllo del pensiero, che ai giovani non dice niente, ma chiude un capitolo plurisecolare, uno strumento che ai tempi della mia giovinezza appariva ridicola e grottesca: parlo della abolizione dell’Indice dei libri proibiti, istituito nel 1559 da Paolo IV e abolito il 14 giugno 1966. L’Index librorum prohibitorum, finalizzato tra l’altro a mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine”, s’è rivelato nel tempo, lo strumento più ottuso del potere clericale, con risultati che ai nostri occhi, ma anche agli occhi dei contemporanei delle diverse epoche, non si sa se definire più esilaranti o grotteschi. È noto, anche se molti giovani non lo sanno, che finirono all’Indice i più grandi scrittori, filosofi, e le più eccellenti opere della nostra letteratura, comprese quelle delle più grandi personalità cattoliche. Condannati dall’Indice sono stati, per ricordare alcuni, accompagnati da un crescendo Rossiniano, Dante Alighieri, per il De Monarchia, Niccolò Machiavelli, Francesco Bacone, Honoré De Balzac, Henri Bergson, Cartesio, Alexandre Dumas, padre e figlio, Gustave Flaubert,Victor Hugo, Immanuel Kant, Montaigne, Montesquieu, Blaise Pascal, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Jacques Rousseau, Stendhal, Émile Zola. E ancora Vittorio Alfieri, Cesare Beccaria, Ernesto Buonaiuti, Benedetto Croce, Antonio Fogazzaro, Vincenzo Gioberti, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Giacomo Leopardi, Enea Silvio Piccolomini (eletto poi come papa Pio II), Antonio Rosmini, Niccolò Tommaseo, Pietro Verri, Aldo Capitini, e via di seguito.
Si potrebbe quasi dire che la Chiesa ha finito per mettere all’Indice sé stessa, considerando che ha condannato autori e personalità laiche e cattoliche che costituiscono oggi l’espressione della cultura umanistica che ha superato i tempi della propria stagione ed è entrata tra le opere universali del pensiero umano[60]. Né dobbiamo pensare che all’epoca di Paolo VI l’Indice fosse un vecchio arnese del passato, anche perché il provvedimento di abolizione venne personalmente caldeggiato da Paolo VI nonostante l’opposizione di importanti ecclesiastici, e la mentalità di controllo guardingo era ancora in auge[61]. L’attenzione di Paolo VI per la libertà della cultura è, tra l’altro testimoniata dalla richiesta di perdono che egli rivolge agli Artisti, quando si rivolge loro affermando;: “vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! Rifacciamo la pace? Quest’oggi? Qui? Vogliamo ritornare amici?”. Sono parole nelle quali si assomma la delicatezza dello stile di Paolo VI, e insieme la forza riformatrici di chi dice, senza esitazione, che dobbiamo cambiare pagina.
Per me, poco più che ventenne, che studiavo avidamente la storia, Paolo VI rappresentò come un raggio di luce che diradava le ombre del passato, quelle che mi sono ritrovato a insegnare ai giovani per tanto tempo, come qualcosa che non deve mai dimenticare. Diradava l’ombra dei patimenti, inflitti dalle Chiese cristiane agli uomini, cristiani e non, per le inquisizioni, le guerre di religione, l’alleanza con il potere e l’assolutismo, che peseranno sulle Chiese che ne sono state responsabili. Altrettanto peserà, perché non s’è dileguata del tutto, l’ombra dell’alterigia e del clericalismo, che Papa Francesco ha richiamato, ad esempio il 17 maggio 2017 nel viaggio di ritorno da Fatima, ricordando che “il clericalismo allontana la gente”, “il clericalismo è una peste nella Chiesa”. Paolo VI ha fatto i conti con molti di questi mali, ha fatto i conti con il passato, e in effetti, le grandi riforme, strategiche e settoriali che egli ha realizzato, sono le migliori risposte agli errori del passato, ma anche le più solide basi per una Chiesa che vuol essere fedele all’Evangelo che deve diffondere[62].
PROFEZIA E STORICITA’ NEL MAGISTERO DI PAOLO VI. SACERDOZIO, CELIBATO, I TEMPI DELLA STORIA.
È opinione maggioritaria, in una pur vastissima letteratura su Paolo VI, che il suo pontificato possa dividersi in due fasi, la prima riformatrice, ispirata a idealità e obiettivi d’innovazione diretti a cambiare il volto della Chiesa in accordo con i principi della modernità, e laicità, la seconda ripiegata in sé stessa, quasi prigioniera di un conservatorismo privo di aperture. Si tratta, però, di valutazioni diacroniche, sul rapporto riformismo-conservatorismo nel papato di Paolo VI. Dal punto di vista dei contenuti la fase pessimista viene riferita a due encicliche tra loro vicine nel tempo la Sacerdotalis coelibatus del 24 giugno 1967, e l’Humanae Vitae del 25 luglio 1968, che sono entrambe confermative della tradizione celibataria, e degli orientamenti etici in tema di matrimonio e sessualità. Sennonché, lo spartiacque cronologico tra le due fasi non coincide con l’esplosione della contestazione, dentro e fuori la Chiesa, che nel 1967 si poteva considerare agli inizi, non ancora nella sua vera deflagrazione. Ancor meno lo spartiacque ha fondamento cronologico in quanto il 1967 è proprio l’anno della più grande e innovativa Enciclica di Paolo VI, la Populorum progressio, che riflette al massimo grado la grande spinta riformatrice del Concilio e del Papa.
Neanche il presunto ripiegamento potrebbe riferirsi ai primi ’70, nello stato avanzato della seconda parte del pontificato. Anche perché, come già accennato, il magistero paolino prosegue con accenti gravi a denunciare le ingiustizie, le iniquità, gli squilibri, che caratterizzano i rapporti tra i popoli, tra gli Stati. In particolare nel 1972, si ricordano interventi nei quali Paolo VI sottolinea i motivi di delusione che derivano dal contesto di violenza, ed eventi drammatici, che segnano la vita internazionale. Nella giornata della Pace, il 1° gennaio 1972, Paolo VI si chiede: “un ordine imposto con la forza, la prepotenza, la paura, la minaccia, il ricatto, l’abuso della debolezza altrui, l’abitudine invalsa di mantenere situazioni dove la gente soffre, dove non può nemmeno sollevarsi e migliorare la propria esistenza … è ordine vero? La schiavitù è ordine vero? La miseria sociale è ordine vero? La povertà senza rimedio e senza assistenza, è ordine vero? L’ignoranza voluta del popolo per tenerlo più facilmente soggetto, è ordine vero? Il dominio e lo sfruttamento dei forti sui deboli, dei ricchi sui miseri, è ordine vero?”[63]
Nell’omelia per la solennità degli apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno 1972, il Papa rileva una “onda di profanità, di desacralizzazione, di secolarizzazione”, constata che questa ondata di sfiducia, e di abbattimento, coinvolge direttamente la Chiesa, e fa nascere “il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa”; aggiunge che “è entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza”. Invece, in un appunto del maggio 1968, Paolo VI dichiara di voler essere “ardito nella prudenza, senza dubbi e senza timore, pieno di fede e di spirito, capace di spirito e di azione, esposto al rischio e al sacrificio”. Riflettiamo con attenzione sul ciclo temporale complessivo che ha segnato il Pontificato di Paolo VI, il quale viene a trovarsi tra la grande contestazione in Occidente e l’emancipazione dei popoli nel mondo intero. Nel pieno della contestazione Paolo VI realizza le più grandi riforme, elabora in anticipo sui tempi la dottrina sociale universale, fino a intravedere e prefigurare i problemi dell’era della globalizzazione, con una lungimiranza, e uno spirito profetico, che non l’abbandoneranno mai.
Dobbiamo, però, guardare anche al merito della critica a Paolo VI per il suo presunto conservatorismo, che trova fondamento alcuno nei contenuti del suo magistero. Occorre, infatti, evitare di ritenere la Chiesa perfetta, che ha sempre ragione, su qualunque argomento il magistero si pronunci: è un errore, non rende onore alla Chiesa e a chi la guida. Non solo perché non è vero, se riferito ai grandi ritardi, ed errori compiuti nel corso della storia, ma perché non fa capire l’evoluzione nella quale siamo immersi tutti noi.
Questo rapporto tra storicità e profezia, e i limiti dell’azione della Chiesa nella storia, richiama necessariamente il grande tema della laicità su cui è imperniato buona parte del Corso di insegnamento sui rapporti tra Stato e Chiesa per i nostri studenti. Gli studenti sanno che io cerco di far coincidere, almeno in prospettiva, il concetto di laicità con quello di obiettività, che s’oppone a ogni faziosità e idolatria, i cui confini spesso si confondono. Ogni tanto dico ai miei studenti, con quelle frasi che scappano un po’ dal cuore, che non dobbiamo mai cedere all’idolatria, nessuno dev’essere idolo per la nostra mente. E non ho certo bisogno di ricordare che questa era la grande lezione di John Henry Newman, che ricorre negli scritti e nelle conversazioni di Paolo VI, per il quale il sommo bene è la libertà di coscienza, ed esistono “casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”[64]. Tra l’altro, questo insegnamento mi fu trasmesso, nella mia felicissima e cattolicissima infanzia, proprio dai preti secolari che tanto influirono la mia educazione[65]. Guai, quindi a credere che Paolo VI non sia stato anch’egli figlio del suo tempo; il punto cruciale è che la sua spinta propulsiva ha contribuito a far cambiare profondamente il corso delle vicende storiche.
Con questo spirito ci soffermiamo su due documenti discussi del pontificato dei Paolo VI, uno relativo al Celibato ecclesiastico, l’altro, l’Humane Vitae, che ha affrontato i temi dell’antropologia, della sessualità, ma questi testi vanno letti con attenzione, cogliendone il significato più intimo. Sappiamo che la regola del celibato non ha fondamento divino, ha una dimensione, e un’origine storica, e sappiamo che nei tempi più recenti ha subito eccezioni. Tuttavia, problemi di questa dimensione non si risolvono con un sì o con un no, come uno spartiacque che divida modernità e tradizione in modo netto. Il fatto che il celibato derivi da una norma di diritto umano è importante: se ne può parlare con intelligenza esaminando i suoi diversi profili, etici, umani, sociologici. Ma dobbiamo anche sapere che l’abolizione del celibato cambierebbe profondamente, la Chiesa, l’immagine del clero, la sua funzione nella comunità ecclesiale e civile. Avremmo una Chiesa diversa, questo dobbiamo saperlo.
Siamo di fronte a un problema che subisce l’influenza della storia, se ne può chiedere un aggiornamento, perché esistono vie intermedie tra il celibato come regola universale e la sua abolizione. Esiste anzitutto la via maestra tradizionale seguita dalle Chiese Ortodosse nelle quali vige una sorta di ‘doppio binario’ tra chi rinuncia a sposarsi e chi opta per il matrimonio, con conseguenze canoniche notevoli. Esistono, poi, eccezioni non secondarie per la Chiesa cattolica, come quelle che esenta dal celibato i ministri di alcune Chiese cattoliche d’Oriente, e l’altra più recente per i pastori che dall’anglicanesimo scelgono di entrare nella Chiesa cattolica, e che possono essere confermati sacerdoti pur essendo sposati. Per questa ragione, per quella saggezza che era propria di Paolo VI, sempre attento a cogliere i segni dei tempi che cambiavano, possiamo guardare al futuro con una mentalità aperta, pronti a possibili innovazioni possibili, che a volte maturano lentamente ma che possono, come ha insegnato Papa Francesco, venire annunciate e realizzate quasi all’improvviso.
ETICA, FAMIGLIA, SESSUALITA’. PAOLO VI, ANTROPOLOGIA SOLIDALE, CONTRO IL NICHILISMO DELLA DISSOLUZIONE.
Un altro argomento, affrontato da Paolo VI, è legato anch’esso alla storicità e all’evoluzione umana, ma in parte molto minore, perché riguarda la dimensione antropologica della sessualità e della famiglia. Paolo VI compie una scelta, su una problematica poliedrica, che ad alcuni è parsa anacronistica, o regressiva, soprattutto (ma non solo) nel vasto mondo della contestazione. La critica si fonda sul fatto che l’Enciclica Humanae Vitae conferma la dottrina cattolica che collega la sessualità alla procreazione, la famiglia alla dimensione dell’amore e al fluire delle generazioni, respinge pratiche che separano le due realtà, intervengono con violenza sul processo procreativo.
Oggi noi siamo in grado di valutare meglio, cogliendone la profondità, le linee direttrici dell’Enciclica di Paolo VI. Naturalmente ribadendo che il documento paolino affronta temi etici fondamentali, oggetto di riflessione alla luce dei progressi della scienza, e che possono essere visti con diverse sensibilità culturali, meritevoli di aggiornamenti. Ma c’è oggi un profilo che dobbiamo vedere con chiarezza, che rende onore alla lungimiranza di Paolo VI, il quale sapeva bene di andare contro corrente, anche in ambito cattolico, ma rivendicò, pubblicamente e in più occasioni private, il suo diritto-dovere, di indicare le grandi linee di un’antropologia, e di una moralità, che non sviliscano la persona, non la riducano a oggetto di sfruttamento e di svilimento. Allora, noi dobbiamo vedere questa enciclica da un’altra angolazione, da quella deriva relativista che s’è sviluppata in Occidente fino a giungere oggi a scelte e pratiche che ci sono note, e interpellano drammaticamente la nostra coscienza e la coscienza dei giovani.
Guardiamo a quanto accade da tempo sotto i nostri occhi, dopo l’abbandono di principi e valori etici elementari che sono universalmente conosciuti. Guardiamo a quella separazione tra sessualità e procreazione che oggi è giunta al punto tale da rendere sconosciuta l’una all’altra; allo svilimento della figura femminile piegata a nuove di sfruttamento addirittura corporeo, alla realtà di minori cui è sottratta la conoscenza dei genitori, che devono patire addirittura l’amputazione di uno dei genitori, e vivere in una realtà relazionale monosessuale.
Chiediamoci, alla luce della ragione naturale, se le distorsioni cui assistiamo non costituiscano proprio ciò contro cui Paolo VI ci ha messo in allarme, chiedendoci di combatterlo strenuamente. Guardiamo al suo magistero con la libertà di coscienza già richiamata, con quella laicità che evoco spesso, e con quello spirito di verità che deve ispirare il nostro ragionare. Ci possiamo chiedere se in un testo così contestato e criticato[66], non siano contenute le più profonde verità sull’uomo, quelle che difendono la dignità della persona, della donna in modo particolare, che esaltano i principi e la bellezza della procreazione, del fluire delle nuove generazioni cui proprio i giovani guardano con gioia e speranza.
Sul merito di queste tematiche, alcune delle quali sono dolorosissime, intendo svolgere qualche considerazione. La sfida che l’umanità deve affrontare oggi è sottile, complessa, coinvolge quell’intreccio tra antropologia, scienza e religione, che determina scelte essenziali della vita umana, sulla famiglia, la procreazione, le fasi iniziali e terminali dell’esistenza. Il conflitto tra concezioni antropologiche determina quasi una frattura coscienziale che interroga la persona nelle sue più intime convinzioni: riguarda l’istituto del matrimonio, esteso a ogni tipo di convivenza, come una porta girevole nella quale tutti entrano ed escono quando vogliono, fino alla previsione dell’adozione per le coppie non eterosessuali, nonché la procreazione realizzata fuori dell’alveo naturale, in diverse varianti.
La cultura relativista imbocca una strada di non ritorno. Essa pone al centro dei diritti umani la sovranità dell’Io, afferma che il politeismo etico non è che l’altra faccia del politeismoreligioso già realizzato dall’illuminismo. Si va così oltre il liberalismo, e le sue basi etiche, e si teorizza la ‘non-verità dell’etica’: “nell’etica non c’è verità. I valori di vero e di falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo; né un’etica può dirsi vera derivabile, come da assiomi, da principi auto evidenti”. Due mondi opposti, due universi che non possono incontrarsi, con conseguenze che conosciamo. Considerare il figlio come oggetto del desiderio che si può avere, comprare, selezionare, vuol dire renderlo variabile indipendente di rapporti disumanizzati, per i quali si contratta nei mercati della maternità surrogata, nei laboratori scientifici privi di controllo che si attrezzano in alcune parti del mondo.
Una volta che si annulla il confine tra etica e diritto, o per meglio dire, che non si discute più sul rapporto tra giustizia e diritto (se non in termini limitati a livello economicistico) ma si inibisce perfino di concepire una qualche liaison tra leggi e fondamento etico, è già scritta la discesa verso il diritto procedurale (senza nemmeno la parvenza di garanzia data dalla Grund Norm), verso una neutralità della legge che deve ad un certo punto persino giustificare la propria neutralità di fronte ai consociati. John Rawls formula la più compiuta teoria del liberalismo politico come fonte di una giustizia procedurale che garantisca lo scambio di beni e valori tra persone che sono eguali nella sfera pubblica. Lo Stato non deve far nulla per spingere i cittadini ad accettare una particolare concezione (del bene) piuttosto che un’altra, salvo prendere misure per annullare o compensare gli effetti di politiche che eccedano in un senso o nell’altro[67]. Con Charles Larmore la posizione si radicalizza definitivamente quando nega la possibilità stessa di un’ideale della vita buona di Aristotele, perché una “vita piena può essere vissuta in una molteplicità di modi diversi, e tra questi non esiste alcune gerarchia distinguibile”[68].
Nasce un nuovo tipo di liberalismo, perché: “lo Stato (deve) rimanere neutrale”; esso “non dovrebbe cercare di promuovere alcuna concezione particolare della vita buona per via della sua presunta superiorità intrinseca, vale a dire, perché si suppone che questa sia una concezione più vera”. Ne deriva un proceduralismo estremo, privo d’ispirazione etica: “se i liberali rispettano alla lettera lo spirito del liberalismo, devono anche escogitare una giustificazione neutrale della neutralità politica”; devono cioè “escogitare dei principi politici che siano essi stessi neutrali, la giustificazione dei quali, cioè, non richieda l’appello alla concezione del bene in discussione”[69]. Cedendo a una involontaria ironia, Larmore ritiene che per lo Stato “alcune concezioni di vita buona saranno più apprezzate di altre”; e questa “è una verità universalmente riconosciuta e, credo, un fatto inevitabile. Quanto meno, chi desidera fare una vita da ladro, non avrà vita facile”[70].
In questo orizzonte si compie il cammino che ci allontana da una visione forte dei diritti, provoca la loro dissoluzione attraverso diverse tappe, alcune proposte con levità da intellettuali di varia estrazione. Conviene richiamarne una che, con la fine della vita buona, prefigura la distruzione della famiglia e il trionfo di un edonismo prossimo al libertinismo d’altre epoche. È quella di Jaques Attali, per il quale la famiglia monogamica “è solo un’utile convenzione sociale”. Secondo l’economista francese, andiamo “verso una concezione radicalmente nuova di relazione sentimentale e amorosa. Nulla ci impedisce di innamorarci di più di una persona contemporaneamente. Il fatto di avere più partner e vite multiformi renderà palese l’ipocrisia della società. Ciò non avverrà senza conflitti. Tutte le Chiese cercheranno di impedire una cosa del genere, soprattutto alle donne. Per un po’ resisteranno, ma alla fine trionferà la libertà individuale”. Il pensiero di Attali è come il trait d’union tra l’esaltazione teorica della libertà di fare ciò che si vuole e la sua traduzione pratica, che porta al deserto dei valori e dei diritti umani. Dentro ci sono cose che conosciamo ormai per esperienza diretta: i diritti si moltiplicano, i fondamentali non si distinguono più dai secondari, i doveri si dissolvono e si spezza il rapporto con l’umanesimo occidentale, da Aristotele a San Tommaso, da Montesquieu a Maritain, al diritto si sostituisce il desiderio, poi la “pretesa”, fino a sfociare nella guerra tra diritti a tutto danno dei soggetti che ancora non sanno e non possono difendersi.
L’ultimo passaggio segna il movimento dalla teoria alla pratica, investe una serie amplissima di eventi e situazioni, nonché il complesso delle relazioni sociali. Si adattano con disinvoltura svolte storiche decisive all’odierno nichilismo, e si subiscono un’ulteriore relativizzazione interna ai nostri territori, che falcidia i valori più alti costruiti dall’umanesimo, il rispetto degli altri, la solidarietà, la difesa dei più deboli[71], a cominciare da chi nasce e non può difendersi dal dominio degli adulti e delle loro pretese. Si legittima così l’eterologa, senza mai chiedersi se per il donatore non viga più alcun principio di responsabilità, se il figlio non abbia il diritto di conoscere il genitore naturale, che invece rimane nascosto per il resto dei giorni. Si ammette la filiazione per due persone che abbiano lo stesso sesso, senza chiedersi se il figlio non abbia il diritto naturale di avere un padre e una madre per ragioni morali, fisiche, psicologiche, sociali, conosciute da tutti. Si accetta perfino il ricorso alla maternità surrogata per dare dei figli a chi non può averne, anche se dello stesso sesso, perché se nell’etica non c’è verità si può cancellare il cammino moderno di emancipazione della donna: si può sfruttare il suo corpo, farne commercio secondo convenienza, e strumento per soddisfare desideri altrui, sottrarle il figlio che partorisce e nascondere lei al figlio nato. Qui sovviene una considerazione di Paolo VI che ci tocca da vicino, per la sua lungimiranza e gravità, perché il Papa, parlando con Jean Guitton, afferma che l’etica non può cambiare ogni volta che c’è una scoperta scientifica, assoggettandosi ad essa acriticamente: “per esempio”, afferma il Papa, “un domani ammetterebbe la procreazione senza paternità; tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto”[72]. È esattamente quello che è avvenuto, e che ho già descritto, superando barriere inimmaginabili ai tempi di Paolo VI, relative alla maternità, alla filiazione sconosciuta e commercializzata, alla distruzione di ogni relazione affettiva a base dell’istituto matrimoniale[73].
Riassumiamo ciò che vediamo accadere sotto i nostri occhi. Oggi si diffondono pratiche sconosciute all’esperienza umana con nuove forme di umiliazione della persona, della donna in particolare, come ha denunciato con coraggio la filosofa femminista Sylviane Agacinski nel suo impegno contro la maternità surrogata, con la quale si giunge a vendere il corpo della donna e consegnare un figlio che ha gestito ad altri. Esistono agenzie specializzate per comprare il figlio da donne povere e consegnarlo a coppie ricche, magari non eterosessuali. Si priva, così, un bambino di sua madre, si fa in modo che egli non senta mai il calore del corpo della mamma, o non senta mai il calore del corpo del padre. Siamo di fronte a prospettive terribili, che cancellano la figura della mamma, sacra in ogni lingua e cultura, dall’orizzonte corporeo e affettivo di suo figlio. Contro quest’orizzonte oscuro Paolo VI si è proposto e affermato come il profeta della vita, che tutela i diritti primordiali di chi nasce su questa terra. Aggiungo una considerazione personale. Possiamo coltivare un sogno, fare in modo che tutti, cristiani, ebrei, buddisti, musulmani, s’impegnino per evitare questo nichilismo, e consentire ad ognuno d’avere i genitori naturali che lo curino e crescano con amore? Penso che un impegno universale che abbia questo grande obiettivo, forse darebbe all’ecumenismo, al dialogo tra le religioni, basi più forti delle pur importanti discussioni dottrinali. Non è la dottrina che accosta l’uomo a Dio, o lo allontana, è il rispetto dei valori del Vangelo a spingere l’ecumenismo e il dialogo avanti, a cominciare dalla difesa di quella genitorialità che sola dà senso alla filiazione e al primo germoglio d’amore che i più piccoli sperimentano dalla nascita.
Se guardiamo con questi occhi a quello che viene definito il conservatorismo di Paolo VI finiremo per scorgerci in realtà una profonda lungimiranza che egli stesso esprime ponendosi le domande cruciali su Dio e la fede[74]. E Paolo VI affronta anche gli interrogativi più difficili formulati da ideologie antireligiose, come quando il 28 agosto 1968 si chiede: “può davvero e onestamente l’uomo moderno nutrire la convinzione che Dio rappresenti per noi una “alienazione”?; che solo senza Dio sia possibile quella pienezza di libertà e di responsabilità che consentirebbe di intraprendere con successo la “costruzione” del mondo e della storia?”.[75] Anche in questo caso il Papa cerca quel pizzico di verità contenuta in ogni domanda. E risponde che,“proprio per la mancanza e il rifiuto di Dio – fondamento dell’essere, della verità, della moralità, di tutti i valori – l’uomo si “altera” nel suo stesso equilibrio essenziale, per precipitare nella disumanità dell’egoismo, della tecnocrazie, dell’oppressione, o per finire con l’imprigionarsi in una contestazione totale e assurda”[76]. Conclude, con la consueta sottigliezza intellettuale: non si può negare che “talvolta non già Dio ma il concetto che l’uomo se ne forma, possa condurre a una comoda evasione, mentre l’Essere Supremo è la fonte di ogni massimo impegno; che tale concetto possa e debba purificarsi, così da risultate meno inadeguato all’indicibile Realtà che validamente esprime”[77]. La conclusione investe la capacità dell’uomo di dare risposta a tutto ciò che la coscienza chiede anche in modo sofferto, ma senza che possa scivolare, e perdersi, “nel soggettivismo, nel relativismo, nello storicismo, nello scetticismo”[78].
CONCLUSIONI. PAOLO VI, UOMO DELLA FEDE E DELLA SAPIENZA.
Paolo VI è probabilmente il Papa che nella modernità ha dato più risposte agli interrogativi dell’uomo, e più ha tradotto in realtà la sua visione strategica della riforma della Chiesa[79]. E forse è il Papa che più ha unito pensiero e azione nel dare alla Chiesa un volto nuovo, capace di accogliere l’uomo moderno con le sue esigenze, ma anche riconoscendo il fondamento, il valore, dei suoi dubbi, delle sue incertezze, per farne veicolo di spiritualità, di fede[80]. Ho parlato tanto nella mia Relazione dell’azione riformatrice di Paolo VI che non ha trascurato alcuna dimensione della modernità. Possiamo ricordare l’apertura a tutti gli uomini e a ogni religione, l’accettazione piena dei diritti fondamentali come orizzonte dell’azione della Chiesa, il riconoscimento della centralità dell’ONU nel consesso delle Nazioni fino ad affiancare la Chiesa alla sua azione in difesa della pace, l’inserimento di tutti i popoli, ed etnie, nel processo di emancipazione che fino ad oggi ha riguardato soltanto una parte dell’umanità.
Eppure, se dovessi cogliere il profilo che fa emergere la saggezza più grande che ha segnato il magistero di papa Montini, credo che stia nella concezione antropologica che ha elaborato per dare risposte alle domande che da sempre si affacciano nel cuore degli uomini, e sulle quali s’è interrogata ogni scuola di pensiero. Paolo VI non si presenta alla coscienza dei moderni con la sicurezza di chi già possiede la verità, e nega la complessità delle domande della coscienza, oserei dire che egli guarda all’uomo come a quel caleidoscopio esistenziale che la filosofia contemporanea ha individuato da tempo. Nel 1969, quasi riassumendo, questo pensiero, egli afferma: “è nella mentalità dell’uomo moderno, di tutti noi, possiamo dire, la persuasione che “tutto cambia”. L’osservazione della vita contemporanea ci dà l’impressione che ogni cosa è in via di trasformazione, è in movimento; tutto muta, tutto si evolve, tutto decade e tutto si rinnova. Siamo presi e compresi di questo senso d’instabilità delle cose[81].
Di qui, la domanda conclusiva che può annientare la coscienza religiosa: “la religione non sarebbe anch’essa soggetta a qualche importante cambiamento? E, di fatto, per contenere il discorso nel campo che ci riguarda, la nostra religione non è anch’essa in vita di mutazione?”. La risposta di Paolo VI sconcerta un po’ perché dice: “noi vi rivolgiamo una prima preghiera: fate attenzione! Attenzione alla complessità della questione”[82]. Papa Montini si conferma come il Pontefice che non dà risposte facili. Egli considera in primo luogo “il profilo soggettivo; cioè quello proprio dell’uomo, quello mentale, psicologico, filosofico. E noi tutti sappiamo a quali mutazioni, a quali arbitri, a quali storture, a quali dubbi, a quali negazioni, insomma a quali metamorfosi l’idea religiosa è stata ed è, in questi ultimi tempi, sottoposta. La discussione ne rimane sempre aperta”[83]. Ribadisce ancora che non esistono soluzioni facili: “l’uomo, questo essere dalle cento facce, può configurarsi in aspetti e in atteggiamenti diversissimi, proteiformi, rispetto alla religione, ma resta uomo, un essere cioè sostanzialmente qual è, non solo capace ma bisognoso di Dio; anzi, quanto più uomo egli è e diviene tanto maggiore si pronuncia in lui la religione”. La complessità delle situazioni della modernità è motivo ricorrente nelle analisi di Paolo VI, fino a rasentare insuperabili critiche a certo sociologismo mediatico[84].
Per questo singolare motivo, Paolo VI è espressione eminente di una laicità di cui oggi si sente tanto bisogno. La laicità non esclude l’amore per la Chiesa, ma l’amore per la Chiesa, presuppone una laicità critica, che fa cadere tante cose vecchie già segnalate: esclusivismo, temporalismo, ostilità verso la modernità, condanne per quanti hanno opinioni diverse. Nascono invece cose nuove per realizzare una società vicina all’uomo: dialogo con i non credenti, tra le religioni, ecumenismo, attenzione alla complessità antropologica della persona. Questa rivoluzione, che apre la Chiesa alla globalizzazione, è possibile perché sorretta da fede profonda e dalla fiducia nella ragione che non contraddice la fede. Anche per questo Paolo VI poneva tra gli obiettivi della sua opera quello di “snellire la Chiesa del suo provvisorio per darle il suo volto autentico”[85].
Concludo la mia relazione così come l’ho iniziata, con la lettera che Giovanni Battista diciassettenne scrive al suo compagno di scuola, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, ai nostri studenti. Guardate sempre in alto, ragazzi, coltivate i vostri sogni, le vostre ambizioni, i talenti evangelici che avete dalla nascita. Fatelo con fiducia, con la ragione e l’intelligenza, attingendo il più possibile agli ideali che certamente avete nel cuore. La passione e l’entusiasmo non sono confinati alla giovinezza, però mentre per chi sta avanti con l’età essi sono un dono, per i giovani sono le cose più belle e naturali che già avete; vedrete che la vita, pur con le sue sofferenze, vi darà molto più di quanto possiate immaginare, Questo, forse, è il lascito più grande che ci viene dalla straordinaria figura di Paolo VI, e da tutto ciò che ha fatto per la Chiesa e per il nostro Paese.
Note al testo
[1] Riferendosi alla sua chiamata al sacerdozio, orientata proprio alla vita monacale, Paolo VI si confida nel 1973 ai Padri Benedettini riuniti a Roma a Congresso: “J’etais comme en extase; c’est là, sans doute que Dieu a fat naître en mon ame les premiers desirs d’une vie consacrée à son service” (in Correspondences de Paul VI avec les moines de l’abbaye Sainte-Madelaine, a cura di Dom. Romain Clair, in “Istituto Paolo VI. Notiziario”, 9, 1984, p. 9.
[2] G. Battista ai familiari, 27 novembre 1923, in LF, I, pp. 271-272.Cfr. G. SCANZI, Paolo VI. Fedele a Dio, fedele all’uomo, Roma 214, p. 50.
[3] Cfr. “La Madre Cattolica”, Brescia febbraio 1921, p. 25. Prosegue l’articolo: “Così le intravediamo nella famiglia in cui il concetto patriarcale viene ancora una volta menomato, e accresciuto invece quello della eguaglianza giuridica anche in seno alle pareti domestiche” (ivi).
[5] “Ora è evidente che il nostro momento politico doveva fatalmente determinarsi per il suffragio femminile; opporsi significa violare le necessità dell’ora, e quindi mancare a un dovere e perdere un vantaggio” (ivi).
[6] G. ALBERIGO, Chiese italiane e Concilio: esperienze pastorali nella Chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, Genova 1988.
[7] Sull’argomento si può confrontare il libro di G. ANDREOTTI, A ogni morte di papa, nel quale l’Autore riferendo di un colloquio romano che ebbe con il Cardinale Giuseppe Maria Roncalli in prossimità del conclave del 1958, e nel quale il presule gli fece chiaramente intendere che c’era un largo consenso sul suo nome, e che quindi sarebbe diventato papa.
[8] I Messaggi d’onore sono inseriti nella prima parte degli Atti del Convegno dell’8 novembre, in corso di pubblicazione.
[9] Ricevendo il Presidente Giovanni Leone in Vaticano, nel 1972, Paolo VI torna in qualche modo sul legame che unisce storicamente e spiritualmente alla Cattedra di Pietro, sottolinea che “la storia – ma perché non dire la Provvidenza – ne ha legato in tanta misura le vicende a quelle del Papato, da quando l’umile Pescatore di Galilea è approdato nel cuore dell’impero romano e vi ha posto la sua Cattedra di Pastore dell’Urbe e dell’Orbe, ed anche, pensiamo, per chi il senso degli altissimi valori umani dei quali è portatrice la civiltà cristiana”. Per queste citazioni cfr. C. CARDIA, Il Giornale della Santa Sede e la Repubblica italiana, in AA. VV., Singolarissimo giornale. I 150 anni dell’Osservatore Romano, Torino 2010, p. 242 ss.
[10] Cfr. C. CARDIA, Risorgimento e religione, Torino 2011, p. 213.
[11] P. MACCHI (a cura di), Paolo VI e la tragedia di Moro: 55 giorni di ansie, tentativi, speranze e assurda crudeltà. La corrispondenza di Paolo VI durante la prigionia di Aldo Moro, Milano 1998.
[12] In Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), Istituto Paolo VI – Studium, Brescia-Roma 1997-1998, pp. 3607-3608.
[13] Per una ampia ricostruzione del rapporto tra scuola e religione nell’Ottocento in Italia, cfr. C. CARDIA, Risorgimento e religione, Torino 2015. Cfr., in più ampia prospettiva europea R. BENIGNI, Educazione religiosa e modernità. Linee evolutive e prospettive di riforma, Torino, 2017.
[14] È opportuno ricordare che la posizione di Berlinguer era stata discussa in riunioni e convegni del PCI in prossimità dell’avvio delle trattativa nel 1976, e che essa trovava il consenso esplicito e convinto di Paolo Bufalini, Giorgio Napolitano, Giuseppe Chiarante, e altri. Esistevano naturalmente altre posizioni, più vicine alla tradizione illuminista, ma fino al 1987 si potevano considerare minoritarie. Sull’argomento, e sugli sviluppi successivi alla questione dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, C. CARDIA, Stato e Chiesa in Italia. Contributo delle culture della sinistra. Il rapporto tra Casaroli e Berlinguer,
[15] Cfr. G. COLOMBO, Genesi, storia e significato dell’enciclica “Ecclesiam Suam”, Colloque International, cit. a nota successiva, p. 131-160.
[16]Ecclesiam Suam, Première lettre encyclique de Paul VI, Colloque International (Rome 24-26 octobre 1980), Istituto Paolo VI, Brescia-roma 1982.
[17] Jean Guitton segnala l’attenzione di Paolo VI per le manifestazioni di fede che emergono fuori dell’area cristiana e ricorda: “il papa mi interroga su Plotino. Sa che Plotino, secondo Porfirio, ha conosciuto nella sua vita “quattro estasi”?, e che in queste estasi raggiungeva non tanto l’essere di Dio quanto il suo non-essere. Il Papa sembra attirato dal pensiero di Plotino” (J. GUITTON, Paolo VI segreto, Cinisello Balsamo 2016, p. 104.
[18] Aggiunge l’Enciclica: “li vediamo valersi, talora, con ingenuo entusiasmo, d’un ricorso rigoroso alla razionalità umana nell’intento di dare una concezione scientifica dell’universo; ricorso tanto meno discutibile, quanto più fondato sulle vie logiche del pensiero non dissimili spesso da quelle della nostra classica scuola, e trascinato, contro la volontà di quelli stessi che pensano trovarvi un’arma inespugnabile per il loro ateismo, per la sua intrinseca validità, trascinato – diciamo – a procedere verso una nuova e finale affermazione sia metafisica, che logica del sommo Iddio: non sarà tra noi chi possa aiutare questo obbligato processo del pensiero, che l’ateo-politico-scienziato arresta volutamente ad un dato punto spegnendo la luce suprema della comprensibilità dell’universo, a sfociare in quella concezione della realtà oggettiva dell’universo cosmico, che rimette nello spirito il senso della Presenza divina, e sulle labbra le umili e balbettanti sillabe d’una felice preghiera’”
[19] J. GUITTON, Paolo VI segreto, Cinisello Balsamo 2016, p. 24.
[21] Cfr. l’intervento del Cardinale Kurt Koch, Presidente del pontifico Consiglio per la Promozione dell’unità dei Cristiani, tenuto il 28 aprile 2014 al Convegno “Da Giovanni XXIII a Francesco: ebrei e cristiani in dialogo”, in “L’Osservatore Romano”, 29.XI.2014.
[22] AA. VV., Montini e Maritain tra religione e cultura, Città del Vaticano 2000.
[23] Per l’ampia bibliografia sull’argomento, cfr. M. VELATI, L’ecumenismo al Concilio: Paolo VI e l’approvazione di “Unitatis redintegratio”, in Cristianesimo nella storia”, XXVI (2005)m pp. 427 ss.; P. DUREY, Paul VI et le Décret sur l’oecumenisme, in AA.VV., Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio, cit., pp 225 ss.
[24] Per diversi atti simbolici compiuti tra il 1964 e il 1965 si ricordano i seguenti. Si dà avvio alla restaurazione di alcune chiese ortodosse, patrimoni della cristianità, quali Sant’Andrea a Patrasso, San Saba a Gerusalemme, San Tito a Creta, San Parco ad Alessandria. Il 5 marzo 1965 viene riconsegnato alla Turchia uno dei vessilli conquistati il 7 ottobre 1571 nella Battaglia di Lepanto che era conservato a Santa Maria Maggiore. Sull’argomento, C. SICCARDI, Paolo VI. Il Papa della luce, Milano 2014, p. 259.
[25] In J. GUITTON, Paolo VI segreto, Cinisello Balsamo 2016, p. 15-16.
[26] L’evento è sancito dal breve pontificio Ambulante in dilectione, mentre le due Chiese si riconoscono come “sorelle” dopo l’annullamento delle scomuniche.
[27] R. L. WILLIAMS (a cura di ), The Pope’s visit: special Time Life Books report, New York 1985; A. M. ROSENTHAL – A.GELB (a cura di), The Pope’s journey to the United States, written by staff member of the New York Time, New York 1965.
[28] Cfr. G. RUMI, Montini diplomatico, in, Paul VI et la vie internazionale. Journées d’ètudes, “Istituto Paolo VI, Brescia-Roma 1992.
[29] Cfr. G. BARBERINI, L’Ostpolitik della Santa Sede. Un dialogo lungo e faticoso, Bologna 2007.
[30] Cfr. S. TRASATTI, La Croce e la stella. La Chiesa e i regimi comunisti in Europa dal 1917 a oggi, Milano 1993.
[31] AA, VV, Il filo sottile. L’ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli, a cura di A. MELLONI, Bologna 2006.
[32] Cfr. F. CITTERIO-L. VACCARO (edd.), Montini e l’Europa, Brescia 2000.
[33] Per gli interventi di mediazione nella guerra del Vietnam, cfr. M. MOLINARI, Santa Sede e Stati Uniti d’America negli anni 1964-1968: la guerra in Vietnam, in “Istituto Paolo VI. Notiziario” (2001) 41. Cfr. anche S. KARNOW, Storia della guerra del Vietnam, Milano 1985.
[34] Cfr. S. SCATENA, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003.
[35] A. GRANELLI – A. TORNIELLI, Papi e guerra. Il ruolo dei pontefici dal primo conflitto mondiale all’attacco in Iraq,, Il Giornale. Biblioteca storica, Milano 2003.
[36]Populorum progressio, n. 79. Sul punto cfr. F. DE GIORGI, Paolo VI. Il Papa del moderno, Brescia 2015, p. 565 ss.
[37] Cfr. M. CUMINETTI, La teologia della liberazione in America Latina, Bologna 1975; R. GIBELLINI, Il dibattito sulla teologia della liberazione, Brescia 1990.
[38] Cfr. P. G. FALCIOLA, L’evangelizzazione nel pensiero di Paolo VI, Roma 1980.
[39] G. CAPRILE, Contributo alla storia della “Nota explicativa praevia”, in AA.VV., Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio, cit.p. 620.
[40] E. APECITI, Paolo VI e la continuazione del Concilio, in AA. VV., Paolo VI. Una biografia, a curaa di X. Toscani, p. 390.
[41] Cfr., AA. VV., Paul VI et les Réformes Institutionnelles dans l’Église. Journée d’ètudes-Fribourg (Suisse) 9 novembre 1985, Istituto Paolo VI, Brescia-Roma 1987.
[42] Sull’argomento, Giovanni e Paolo. Due papi. Saggio di corrispondenza (1925-1962), a cura di L. Capovilla, Istituto Paolo VI – Studium, Brescia-Roma, 1982.
[43] Cfr. P: MACCHI, Paolo VI nella sua parola, Brescia 2001, p. 106
[44] Cfr. P. MACCHI, op. cit., p. 121. Cfr. G. SCANZI, Paolo VI. Fedele a Dio, fedele all’uomo, cit., p.109 ss.
[45] Quando viene proposto a Paolo VI un progetto per delineare la sua personalità in apposito ritratto, Paolo VI risponde a Jean Guitton: “Il suo progetto è senza oggetto. Lei vuole fare il ritratto di un essere che non esiste: Montini è scomparso, è stato sostituito da Pietro. Non è possibile fare il ritratto del papa: egli è impersonale per essenza o, almeno, deve diventarlo” (J. GUITTON, Paolo VI segreto, cit., p. 11).
[47] Cfr. Note sparse, in “Istituto Paolo VI. Notiziario”, 31, 1996, p. 11-12.
[48] Per una traccia bibliografica sui temi della contestazione, cfr. A. GIOVAGNOLI (a cura di), 1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, Roma 2000; A. ACERBI, Paul VI et la modernité dan l’Eglise, Roma 1984; M. GOZZINI, La fede più difficile, Firenze 1968; E. BALDUCCI, Diario dell’esodo 1960-1970, Firenze 1971; G. ALBERIGO (a cura di), Chiese italiane a Concilio, Genova 1988; M. GIUNTELLA, “Testimonianze” e l’ambiente cattolico fiorentino, in AA. VV., Intellettuali cattolici tra riformismo e dissenso, a cura di S: RISTUCCIA, Milano 1975, pp. 229-315; R. BERETTA, Il lungo autunno. Controstoria del sessantotto cattolico, Milano 1998.
[49] G. B. VIAN, Paolo VI, voce dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma.
[50] Tra gli episodi della contestazione ecclesiale si possono citare ancora la lettera aperta del 3 novembre 1968 inviata da una cinquantina di preti parigini con il titolo Preti provocati dal mondo d’oggi nella nostra situazione, in cui ci si chiederà: “preti di chi? Preti perché? Preti come?” con l’intento di “ridisegnare nuove figure del sacerdozio”, anche perché “è tempo di parlare con le azioni”. A dicembre dello stesso anno altri 744 fra preti e religiosi francesi inviano a “Paolo Papa” un’altra lettera aperta con il titolo Se cristo vedesse tutto questo. La contestazione di questo documento riguarda le ricchezze della Chiesa, il suo giuridicismo, trionfalismo, i tradimenti dello spirito evangelico, e coinvolgeva la stessa persona del papa. La lettera aperta raccolse raccoglie oltre 4000 firme. Però, un gruppo di personalità laiche (tra i quali Étienne Gilson, François Mauriac, Stanislas Fumet, Gabriel Marcel, André Piettre) rivolge al Papa una lettera di consenso e conforto, raccogliendo circa 160.000 firme. Cfr. Y. CHIRON, Paolo VI. Un papa nella bufera, (2012) Torino 2014, p. 339-340.
[51] Per una critica alle tesi del Card. Pellegrino, G. GLODER, Carattere ecclesiale e scientifico della teologia in Paolo VI, Milano 1994.
[52] Cfr. Enchiridion, Documenti della Chiesa latino Americana, Bologna 1995.
[53] Sull’argomento, A. MELLONI – S. SCATENA, L’America Latina fra Pio XII e Paolo VI: il cardinale Casaroli e le politiche vaticane in una chiesa che cambia, Bologna 2006.
[54] Per una prima analisi sulla psicogenesi del dissenso ecclesiale, cfr. A. PARISI, La matrice socio religiosa del dissenso cattolico in Italia, “Il Mulino” 20 (1971), p. 637-657
[55] Cfr. F. DE GIORGI, Paolo VI. Il Papa del Moderno, Brescia 2015, p. 478.
[56] Cfr. P. CHENAUX, Paul VI: le souverain éclairé, Paris 2015.
[57] Prosegue Paolo VI: “noi vorremmo invitarvi tutti a meditare questa fondamentale intenzione del Concilio: quello della nostra riforma interiore e morale: Siamo convinti che la voce del Concilio è passata sopra le nostre anime come un vento parlante, come una chiamata personale? Ad essere veramente cristiani, veramente cattolici, veramente membra vive ed operanti del Corpo mistico del Signore, ch’è la Chiesa?”
[58] Per l’amplia bibliografia sulla contestazione in ambito cattolico: A. GIOVAGNOLI (ed.), 1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, Roma 2000; G. VERRUCCI, Il ’68, il mondo cattolico italiano e la Chiesa, in AA.VV., La cultura e i luoghi del ’68, Milano 1991; P. GIUNTELLA, In cerca di una rosa bianca, Vicenza 1981; P. ORTOLEVA, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Roma 1998.
[60] Sull’argomento, V. FRAJESE, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia 2006; H. WOLF, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti, Roma 2006; G. FRANGITO, Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, Cambridge 2001; M. DISSEGNA, Italiani all’Indice. Le opere messe all’Indice dei libri proibiti dall’Unità d’Italia in poi, in A. MELLONI (a cura di). Cristiani d’Italia, società, Stato, 1861-2001, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. II, Roma 2011.
[61] Anche J. GUITTON riferisce che Paolo VI gli raccontò, il 3 dicembre 1963, che lo “aveva salvato dalle grinfie del Sant’Ufficio quando lo si voleva condannare per il libro sulla Madonna” (J. GUITTON, Paolo VI segreto, cit., p. 55.
[62] D. S. LOURDUSAMY, Paolo VI e l’incontro con le Culture, in “Euntes Docete”, XXXVI, 1983, p. 145 ss.
[63] F. DE GIORGI, Paolo VI. Il papa del Moderno, cit., p. 627.
[64] Cfr. Lettera al Duca di Norfolk . Nella Lettera al Duca, Newman aggiunge: “la coscienza è l’originario vicario di Cristo”, e ancora che “per timore di non venire fraintesi, debbo ripetere che, quando io parlo di coscienza, intendo quella coscienza intesa nel suo vero significato. Per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema, benché non infallibile, del Papa, essa dev’essere qualcosa di ben maggiore di quell’infelice contraffazione che (…) viene ora popolarmente intesa”.
[65] Cfr. sull’argomento F. COSSIGA, Il pensiero di John Henry Newman sull’interpretazione di uno statista cristiano, in “L’Osservatore Romano” 17-18 agosto 2010. Cossiga ricorda la tradizione cattolica, che comprende tra gli altri Tommaso d’Aquino e i teologi e canonisti della Scuola Salmaticense, “secondo cui la coscienza va sempre seguita anche se erronea, e anche se l’errore sia frutto di propria colpa” (ibidem).
[66] Per alcuni commenti sull’Humanae Vitae, cfr. K. RAHNER, Riflessioni sull’enciclica “Humanae Vitae”, Roma 1968; L. CICCONE, L’enciclica “Humanae Vitae”. Analisi e orientamenti pastorali, Roma 1970; E. ELIO, Humanae Vitae e infallibilità. Il Concilio, Paolo VI e Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 1986: AA. VV. , Humanae Vitae: 20 anni dopo, Milano 1989.
[67] J. RAWLS, Liberalismo politico (1993), Torino 2012, p. 177. Rawls tenta ancora di difendere la propria concezione di giustizia, sostenendo che la neutralità può “affermare la superiorità di certi tipi di carattere morale e incoraggiare virtù morali”; infatti, “ la giustizia come equità, per esempio, è attenta a certe virtù politiche, quelle dell’equa cooperazione sociale, la civiltà, la tolleranza, la ragionevolezza, il senso di equità”. E aggiunge che “le dottrine comprensive vengono incoraggiate o scoraggiate”, perché “i modi di vivere a esse associati possono essere direttamente in conflitto con i principi di giustizia; è il caso della schiavitù nell’antica Atene, o nel Sud prima della Guerra civile” (ivi, p. 177, 179).
[68] Ch. E. LARMORE, Le strutture della complessità morale (1978), Milano 1990.
[73] Sull’argomento, M. SCHOOYANS, La profezia di Paolo VI. L’Enciclica Humanae Vitae (1968), Siena 2008.
[74] Cfr. AA. VV. , Custodi e interpreti della vita. Attualità dell’enciclica “Humanae vitae”, Atti del Convegno dell’8-10 maggio 2008, a cura di L. Scaraffia, Roma 2010.
[75] Udienza speciale ai Laureati di Azione Cattolica, Castel Gandolfo, mercoledì 28 agosto 1968, in Testi di Paolo VI. Di fronte alla contestazione, a cura di V. Levi,Milano 1970, 75.
[77] Approfondendo la riflessione Paolo VI “ai fini della rappresentazione e della presenza di Dio nella mente e nella vita dell’uomo di oggi, occorre del debito conto i condizionamenti tecnologici, le mutazioni culturali, i cambi che si producono nelle strutture psicologiche individuali e collettive” (Ivi, p. 76).
[78] Ivi, p. 76: “e neppure in un umanitarismo chiuso o in un secolarismo preclusivo: posizioni spirituali o erronee o quanto meno insufficienti, incapaci di garantire in maniera inequivoca e non effimera il conseguimento di quei beni personali e comunitari a cui l’umanità incessantemente anela, e non hanno vera garanzia se non in un verace riferimento a Dio” (ibidem).
[79] Cfr. G. NICOLINI, Paolo VI. Papa dell’umanità, Bergamo 1983.
[80] Cfr. Verso la civiltà dell’amore. Paolo VI e la costruzione della comunità umana, Colloquio Internazionale di Studio (Brescia 24-25-26 settembre 2010), a cura di R. Papetti, Istituto Paolo VI, Brescia-Roma, 2012.
[81] Udienza generale di mercoledì 28 maggio 1969, in Testi di Paolo VI di fronte alla contestazione, cit., p. 81. Prosegue il Papa: “siamo presi e compresi di questo senso d’instabilità delle cose; e se questo sentimento ci dà al principio un certo timore e qualche rimpianto, ben presto esso si risolve in senso di compiacenza, perché vediamo che questo grande e generale fenomeno di mutazione assume nomi suggestivi: evoluzione, progresso, dinamismo, scoperta, conquista, superamento, sviluppo, rinascita, novità, ecc.” (ibidem).
[84] Paolo VI invita più volte a non accettare passivamente alcune drammatizzazioni eccessive rispetto alla realtà, che seguono un itinerario sociologico ripetitivo. A chi intravede solo scenari di crisi definitiva della Chiesa, della religione, risponde: “vi diremo innanzitutto che non bisogna lasciarsi troppo impressionare, né tanto meno impaurire. Anche se i fenomeni preoccupanti assumono misure di gravità, bisogna pur rilevare che spesso nascono da minoranze numericamente piccoli e da fonti molto spesso punto autorevoli: i mezzi moderni di diffusione pubblicitaria invadono oggi con strepitosa facilità l’opinione pubblica e danno a fatti minimi effetti sproporzionati”. Questa enfatizzazione dei fatti “tende oggi a prodursi anche con un metodo che possiamo chiamare nuovo, quello dell’inchiesta sociologica. È di moda; e si presenta con la severità del metodo, che pare del tutto positivo e scientifico, e con l’autorità del numero; così che il risultato di un’inchiesta tende a diventare decisivo, non solo nell’osservazione di un fatto collettivo ma nell’indicazione di una norma da adeguare al fatto stesso. Il fatto diventa legge. Potrebbe essere un fatto negativo, e l’inchiesta tende egualmente a giustificarlo come normativo. Senza tener conto che l’oggetto di un’inchiesta è di solito parziale e quasi isolato dal contesto sociale e morale in cui è inserito, e che riguarda spesso l’aspetto soltanto soggettivo, cioè quello dell’interesse privato o psicologico, del fatto osservato; non quello dell’interesse generale e d’una legge da compiere” (Udienza generale di mercoledì 3 dicembre 1969, in Testi di Paolo VI di fronte alla contestazione, cit. p. 63-64).
[85] Cfr. Dialoghi con Guitton, Roma 1967, p. 185.
1/ Nascite in Italia, la paura del futuro in un Paese dove non ci sono più fratelli, di Antonio Polito
Riprendiamo dal Corriere della Sera un articolo di Antonio Polito pubblicato il 28/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Perché non facciamo più figli? Ogni volta che l’Istat ci ricorda il drammatico calo delle nascite (centomila bambini in meno in otto anni), riparte stanco il dibattito. I politici lanciano l’allarme (a chi? a se stessi?); se sono all’opposizione reclamano nuove misure di welfare per sostenere la maternità (che immaginiamo si aggiungano, chissà come, a quelle per sostenere le vecchiaia); se sono al governo si affidano al bonus bebè, in un Paese in cui le politiche sociali stanno diventano una specie di giungla di gratifiche, e l’85% per cento dei contributi assistenziali vanno agli over 65 anni.
Intendiamoci: ben vengano nuove misure, gli sconti fiscali per i pannolini o la tata, testimonierebbero quantomeno la consapevolezza dello Stato che il problema è grande anche dal punto di vista sociale, perché di questo passo non avremo più abbastanza lavoratori giovani per pagare le pensioni al numero crescente di anziani. E d’altra parte non ha senso sperare di sostituire gli italiani mancanti con una ondata di lavoratori immigrati.
Ma questa carestia di culle ha cause culturali forse anche più profonde di quelle sociali. Altrimenti non si spiegherebbe perché le donne immigrate, che di certo godono di meno aiuti pubblici, facciano 1,97 figli ciascuna, e le italiane solo 1,26. La lunga e dolorosa crisi economica ovviamente c’entra, e infatti nel 2016 si segnala finalmente un timido segno di ripresa nella propensione alla nascita dei primi figli. È evidente che molte donne hanno ritardato la maternità in attesa di tempi migliori. Ma così facendo sono arrivate al parto all’età media di 31,8 anni, due anni in più che nel 1995. In questo modo il serpente si morde la coda: si comincia a far figli più tardi, quindi aumentano i problemi di infertilità, quindi nascono meno bimbi, e tra loro meno future donne fertili.
Se si aggiunge una illimitata e spesso superficiale fede nelle risorse della tecnica, quasi che la provetta potesse sostituire del tutto e a qualunque età il ventre materno, si può giungere a paventare, come nell’omonimo libro di Lucetta Scaraffia, la «Morte della madre», intesa come figura simbolo di una società declinante. La crisi ha agito come un potente depressivo sulle famiglie italiane, e soprattutto sulle coppie più giovani. E non solo per il minor reddito disponibile, ma per l’enorme nuvola nera che ha proiettato sul futuro del Paese. Eppure già da prima si poteva avvertire che dietro il calo delle nascite si nascondeva il senso di sfiducia generalizzato, di pessimismo, che attanaglia ancora l’Italia nonostante i primi segni di ripresa, e si concentra sul timore che per i nostri figli non ci sarà più abbastanza lavoro e benessere.
Osservando la loro condizione precaria e incerta, i giovani di oggi riluttano a mettere al mondo i giovani di domani. L’altro potente fattore di freno alla maternità affonda probabilmente le sue radici nella persistente arretratezza che caratterizza da noi i rapporti tra i sessi. Colpisce il numero di donne che nella vita di ogni giorno, interrogate sul perché non abbiano ancora figli, rispondono: perché non ho ancora trovato l’uomo giusto. Dove «l’uomo giusto» sarebbe quello che non scarica addosso a loro tutto il peso della maternità, dell’allevamento, della cura, della vigilanza, della educazione dei figli.
E, diciamoci la verità, per quanto molte cose stiano cambiando, i padri italiani non sembrano ancora campioni di responsabilità parentale. Si fanno dunque meno figli per paura del futuro. Ma le famiglie meno numerose producono a loro volta un effetto sul futuro. Una generazione di figli unici sta crescendo nelle nostre case senza fratelli, con molti nonni e qualche bisnonno, con i quali convive per un tempo sempre più lungo. Gli stessi valori su cui è fondata la nostra civiltà possono essere affetti da queste mutazioni. Ha notato lo scrittore Christian Raimo, per esempio, che il concetto di fratellanza è molto più difficile da apprendere in famiglie senza fratelli. Un’inversione di tendenza potrà dunque avvenire solo quando ci sarà piena consapevolezza di queste cause culturali. Quando ricominceremo a pensarci come una comunità invece che come un agglomerato di interessi, e riprenderemo a premiare chi investe sul futuro, invece di dilaniarci per risorse sempre più limitate di spesa pubblica. Come seppero fare i nostri genitori, la cui spinta vitale generò il baby boom del dopoguerra, in un Paese dalle condizioni economiche e sociali non certo migliori di quelle di oggi.
2/ I dati ISTAT. La demografa: «Questione culturale, la maternità è un obiettivo tra tanti». Farina e il calo delle nascite: «Non è vero che non si fanno figli per problemi economici». Un’intervista di Alessandra Arachi alla demografa Patrizia Farina
Riprendiamo dal Corriere della Sera un’intervista di Alessandra Arachi a Patrizia Farina pubblicata il 28/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Patrizia Farina, lei che è una demografa dell’università Bicocca di Milano, e anche membro del Sistan, il sistema statistico nazionale, ha visto i dati forniti oggi dell’Istat? Continuano a certificare un calo delle nascite nel nostro Paese... «Un calo inevitabile». Perché? «Intanto per come è fatta la struttura della nostra popolazione, ci sono sempre meno donne e quindi sempre meno donne in età fertile. E poi esiste una importante questione culturale che non possiamo ignorare». Non ignoriamola. Cosa vogliamo dire? «Fino a 50 anni fa essere madri, e anche madri di molti figli, era in pratica l’unico desiderio di una donna sposata». Adesso non è più così... «Ora diventare madre è uno dei tanti possibili obiettivi di una donna, sposata o non». Per questo abbiamo un tasso di natalità così basso? «Siamo scesi a 1,26 figli per donna da 1,34 che avevamo ed era già piuttosto basso». Come mai secondo lei? «Perché le alternative alla maternità sono tante». La carriera, ad esempio? «Ad esempio, certo. Ma il ventaglio di alternative è talmente ampio, e suona come una cosa un po’ paradossale rispetto alla nostra tradizione religiosa». Abbiamo abbandonato la tradizione e la religione? «È successo anche questo. Ma il problema è che noi donne qui in Italia non siamo capaci a trovare un compromesso fra essere madri o essere un’altra cosa». Quindi o facciamo l’uno o facciamo l’altra? «Non sempre, ma tendenzialmente questo è l’atteggiamento. E lo si può vedere bene analizzando i numeri». Quali numeri? «Quelli dove l’Istat ci fa vedere che la riduzione del numero dei primi figli è responsabile al 57 per cento del calo complessivo della fecondità». Come legge questo dato, professoressa? «È un numero che abbatte in maniera evidente l’idea che non si fanno figli per problemi economici». Perché? «I problemi economici — che pure esistono — frenano l’idea di fare un secondo o un terzo figlio. Ma quando non si mette al mondo il primo figlio lo si fa principalmente per tanti altri motivi. Però non è giusto fermarsi qui». Cosa intende? «Sarebbe interessante indagare le aspettative dei percorsi della vita, ma non fermarsi soltanto a quelli delle donne». Quindi dobbiamo occuparci degli uomini? «Non dovrei dirlo perché sono un membro del Sistan, ma quando la statistica parla di fecondità dovrebbe indagare anche gli aspetti relativi agli uomini, la loro fertilità, i loro desideri, le loro aspettative». E cosa si scoprirebbe? «Si riuscirebbe a capire finalmente perché stiamo marcendo su questo 1,3 di figli per donna». Ci vuole quindi anche un contributo statistico degli uomini per indagare nel profondo la nostra denatalità? «Mi sembra logico. I figli si fanno in due. E le coppie in Italia dimostrano di non avere la voglia o la capacità di guardare avanti». Ovvero? «Non hanno voglia di vedere che l’orizzonte prevede il prolungamento attraverso i figli».
Riprendiamo dal Corriere della Sera un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato il 20/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
«Cara bimba rifiutata, i tuoi genitori desideravano di più un maschio perciò non hai potuto nascere. Perdonaci». Il messaggio, intenerito dalla sagoma rosa di una ragazzina con le trecce dentro la cornice nera degli annunci mortuari, inonda in Montenegro le pagine di necrologie sui giornali, i pali della luce dove il manifesto viene incollato, gli alberi e le bacheche sui quali è affisso. Un pugno in faccia. Ben dato a tutti quei genitori della repubblica balcanica che, nel solco di barbariche tradizioni patriarcali, sempre più spesso decidono di scegliere il sesso dei figli liberandosi subito, con un aborto selettivo, delle femmine. Un aborto che non c’entra nulla con le scelte tormentate e strazianti di tante donne che rivendicano quel sofferto diritto di decidere, ma ha a che fare piuttosto con lo shopping («prendiamo il corredino azzurro o quello rosa?») e con la «cultura dello scarto» su cui martella papa Francesco.
Certo, l’allarme per la diffusione dell’aborto selettivo che scarta le future bambine non è una novità. C’è chi lo chiama «gendercidio» e chi, forse più correttamente, «ginecidio». Quel che è sicuro è che si tratta di un eccidio di proporzioni spaventose. Dice tutto la denuncia nel 1990 dell’economista e filosofo indiano Amartya Sen, che due anni prima aveva ricevuto il premio Nobel per l’economia: «Mancano, nel mondo, almeno 100 milioni di donne». Un numero spropositato, avrebbe annotato la biologa e giornalista scientifica Anna Meldolesi nel libro «Mai nate», pari a quello delle donne che vivono in Francia, Germania e Italia messe insieme: «Una perdita numericamente superiore alle vittime delle guerre mondiali, o delle carestie del XX secolo, o delle grandi epidemie». Un numero che continua a crescere, crescere, crescere. Basti dire che il dossier dell’Onu sulle popolazioni asiatiche presentato a Bangkok cinque anni fa stimava già in 117 milioni le donne che mancavano all’appello.
Qualche speranza, va detto, c’è. Viene dalla Corea del Sud, il primo Paese che, stando a una recente inchiesta dell’Economist ripresa da Internazionale ha invertito da qualche anno un andazzo simile a quello dei due Paesi più colpiti dal «ginecidio», Cina e India. La svolta sarebbe dovuta a un cambiamento culturale: «Il maggiore grado di istruzione delle ragazze e le denunce contro le discriminazioni hanno cominciato a far apparire la preferenza per i maschi inutile. Ma le cose sono cambiate solo quando la Corea del Sud è diventata ricca. La Cina e l’India, dove il reddito medio è rispettivamente un quarto e un decimo di quello sudcoreano, dovranno aspettare molte generazioni». Ma le donne cinesi e indiane, o meglio ancora tutte intere le loro società, possono permettersi di aspettare così a lungo? Rispondono i dati: in natura, concordano tutti i demografi, nascono mediamente 105 maschi ogni 100 femmine, un rapporto che nel corso della vita si riequilibra.
Nel caso dei due grandi Paesi asiatici e di altri nell’area, però, non accade da tempo. Anzi. Come ricordava l’Avvenire già nel 2011, in Cina «secondo l’Accademia cinese delle scienze sociali nascono 124 maschi ogni 100 femmine». In India da 115 a 120 maschi, con punte terrificanti in alcuni Stati come il Punjab e l’Haryana. «Nel 1991 c’era un solo distretto con un rapporto superiore a 125 ogni 100, nel 2001 erano 46», spiega ancora la rivista. Peggio: «I medici indiani hanno iniziato a pubblicizzare l’ecografia con lo slogan: “Paghi cinquemila rupie oggi ma ne risparmi 50 mila domani”. Il risparmio, ovviamente, è sulla dote di un’eventuale figlia. Milioni di coppie che volevano un maschio ma non avevano il coraggio di uccidere le bambine, hanno scelto l’aborto». In India quello selettivo è vietato dal 1994, in Cina dal 1995. «È illegale in quasi tutti i Paesi», accusa il settimanale britannico, «ma resta molto diffuso perché è praticamente impossibile dimostrare che un aborto è stato deciso per motivi di selezione sessuale. Un’ecografia è alla portata di quasi tutte le famiglie cinesi e indiane, visto che costa in media 12 dollari. In un ospedale del Punjab, nel nord dell’India, le uniche bambine nate dopo una serie di ecografie sono state quelle scambiate per bambini o che avevano un gemello maschio».
In India, spiega l’inchiesta di Mara Accettura su «D», il premier indiano Narendra Modi, che due anni fa aveva lanciato la campagna «Beti Bachao Bet Padhao» (Salva una bambina, educa una bambina), «ha denunciato il feticidio femminile, esortando a non discriminare più tra i sessi. «Che siano scolarizzate o ignoranti, povere o ricche, cittadine o di campagna, indù o musulmane, sikh, cristiane o buddhiste...». Si son mossi anche l’immenso pianeta cinematografico di «Bollywood» e le tivù che «trasmettono seguitissime soap opera, come Na Aana Is Des Laado (“Cara figlia non venire su questa terra”), 870 episodi incentrati sugli orrori dell’infanticidio femminile e l’oppressione dell’India rurale». Ma quando si vedranno i frutti della semina? Certo è che, come già i demografi avevano denunciato da tempo, la cultura dello «scarto delle bambine» si è via via diffusa nei Paesi balcanici. Come spiega Stefano Giantin, che per primo ha raccontato sul Piccolo di Trieste della straordinaria campagna lanciata dalla Ong montenegrina «Centro per i diritti delle donne» e intitolata «Nezeljena» (non voluta), in Montenegro «nel 2009, sono nati 113 maschi ogni 100 femmine». Folle.
Eppure, come dicevamo, non è l’unico Paese afflitto dal fenomeno degli aborti selettivi. I dati del think tank Population Research Institute (Pri), basati su numeri del Census Bureau americano, parlano di oltre 15 mila aborti selettivi in Albania dal 2000 al 2014, 2.700 in Bosnia, 7.500 in Kosovo, 3.100 in Macedonia, 746 in Montenegro, 2.140 in Serbia… Tutte bambine di domani. Tutte figliolette di un Dio minore.
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo presi ascoltando una relazione di don Michele Falabretti, responsabile della Pastorale giovanile presso la CEI, al Consiglio dei prefetti della diocesi di Roma, il 4/12/2017. Per approfondimenti, cfr. la sezione Adolescenti e giovani.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
N.B. de Gli scritti Gli appunti che seguono non intendono fornire un resoconto preciso dell’incontro, bensì intendono essere solo una memoria personale di quanto ascoltato. Ovviamente non sono stati rivisti dal relatore e possono esprimere la reazione dell’ascoltatore a quanto detto e non il pensiero espresso univocamente dal relatore.
1/ Una lettura dell’Iniziazione cristiana come percorso inadeguato non corrisponde alla realtà
Attenti a dichiarare inadeguato il percorso di IC! Il percorso invece è ritenuto significativoda chi lo accoglie, se li ascoltiamo, se ascoltiamo ciò che avviene.
Dalle indagini risulta che il 95,2% bambini nati in Italia vengono battezzati.
Non si può dichiarare un cammino fallimentare solo perché non ci si vede subito la domenica a messa. I ragazzi, infatti, si dichiarano cristiani, ma non ritengono l’eucarestia necessaria per la fede. Non possiamo dire che non hanno una certa fede, solo perché non vanno a messa. [Si pensi, ad esempio, a quanti ragazzi divengono animatori dell'estate ragazzi e degli oratori estivi: è un segnale da leggere, di tono diverso dalla loro mancata frequentazione alla messa: qui i dati di una ricerca sugli animatori degli oratori estivi in Lombardia]
Tra i 10 e i 20 anni si sviluppa la persona, la coscienza, la libertà. Non abbiamo forse elaborato una prospettiva chiara sull’educazione degli adolescenti. Noi intercettiamo i più vicini a noi, ma noi non intercettiamo le persone più lontane
2/ La questione dell’individualismo, come emerge dai questionari
I dati che emergono dal questionario non portano sorprese eccessive, ricalcano cose conosciute.
L’uomo riuscito è quello che si è fatto da solo – così si pensa. Invece questo è esattamente diverso dalla proposta cristiana. Vengono cresciuti da un brodo che gli dice che sei cresciuto se fai da solo, se sgomiti. Emerge l’elemento della fatica della Chiesa a spiegarsi.
Anche dinanzi al lavoro i dati ci dicono che il lavoro è certamente un problema in Italia, ma anche da un punto di vista particolare. I ragazzi - afferma il questionario - fanno il manifatturiero, l’alberghiero e il commercio. Mi ha colpito che solo il 6% dei giovani fanno un lavoro con il sociale. I ragazzi vedono un futuro luminoso nel friggere patatine a Londra, ma lavorare a fianco di un anziano non è ritenuto degno
3/ I giovani sono già “chiesa”. Ascoltarli vuol dire non cercare di “catturarli”, ma scoprire il loro modo di vivere la fede
A Roma esiste un’espressione che viene ripetuta come dappertutto: la Chiesa in uscita. Molti questionari riportano tale espressione. C‘è un bisogno di cambiare. Ma l’espressione la “chiesa in uscita” non è ancora una risposta, non ci dice cosa dobbiamo fare. Cosa dobbiamo fare è oggetto di ricerca, è oggetto di conversione, un cambio di atteggiamento, più ancora che di cose da fare. Con i ragazzi si tratta di rimetterci in dialogo, di rimetterci in ascolto.
Mi è tornata in mente una frase di Martini nel 2008: “Nella gioventù ho trovato la più valida conferma di tale principio pastorale. Nella chiesa nessuno è un caso da curare. Non ha senso cercare come conquistarli. Sono soggetti che stanno davanti a noi. Essi sono chiesa a prescindere dal fatto che concordino con noi. Questo dialogo alla pari garantisce dinamismo alla chiesa”-
È sbagliato pensare che l’IC non sia servita, che non abbiano camminato, che noi dobbiamo come cominciare da zero conquistandoli.
Il papa incontrerà a marzo 300 giovani per mostrare che il sinodo ascolta i giovani. Questo è già stato fatto nel 1981, ma certamente i giornali diranno che non è mai stato fatto. Ovviamente sarà un gesto simbolico, ma intende indicare una strada.
4/ Da cosa partire? Cosa esiste già? Eventi e esperienze locali
Il questionario ci dice che non partiamo da zero. Per questo elenco le cose che ci sono e che andrebbero riprese e valorizzate.
Intanto noi abbiamo vissuto una grande stagione di eventi. Ma, dopo un po’, abbiamo compreso che gli eventi se vissuti solo come eventi non lasciano un’eredità alla vita della comunità, perché l’evento non mantiene le promesse che contiene, se non c’è continuità. Il dispositivo dell’ evento rischia di essere deludente. L’evento non va buttato via con facilità. Per noi bambini l’evento era la messa domenicale, era la messa, era il fermarsi dopo la messa con le persone care.
Oggi il rischio è che la fede soffra di una delle grandi malattie moderne, dell’individualismo. L’evento è importante in questa prospettiva: ha la forza di scaldare il cuore, di mostrare che la fede è condivi a anche da altri, che è comunitaria. D’altro canto c’è bisogno di mostrare che la fede è un fatto quotidiano.
Che cosa abbiamo allora, da cui partire?
Innanzitutto le esperienze estive, il fare gli animatori dell’estate ragazzi, gli fa capire che la vita può essere offerta.
I ragazzi dicono dopo essere stati animatori all’“estate ragazzi”: “Vado per le strade del quartiere e i bambini e i genitori mi salutano”. Questa frase dice molto.
Ci sono viaggi missionari, itinerari culturale, percorsi di residenzialità, ritiri, convivenze.
Ci sono poi percorsi di interiorità.
5/ 3 questioni per il futuro
3 cose che dovremmo rileggere sono:
1/ La vita del territorio. È un vantaggio avere poche parrocchie, rispetto a una diocesi come Bergamo che ne ha molte di più.
Sarà utile domandarsi cosa chiedere al centro diocesi.
2/ C’è tutto il tema dell’alleanza educativa che è tutta da riscoprire.
Forse non ci siamo ancora convinti che non siamo l’unica agenzia educativa come parrocchia.
3/ Il rapporto con la famiglia. Vivono certamente una grande fatica, ma la famiglia ancora c’è ed è il primo e più importante riferimento. I giovani continuano ad uscire di casa tardi. I romani non sono fuori sede, ma restano in casa a lungo.
Questo Sinodo intende mantenersi in continuità con quello della famiglia. La discussione su Amoris laetitia si è concentrata sui temi dogmatici e canonici, ma in AL c’è molto altro di cui bisognerebbe parlare.
6/ La questione delle relazioni
Esiste la questione delle relazioni. Se pensiamo alla famiglia, si sta poco insieme, perché gran parte del tempo è fuori casa, ma esiste realmente un’atmosfera familiare dove la qualità dei rapporti fa sì che esistano relazioni reali.
7/ Nel dibattito un intervento
Afferma un componente del consiglio con acutezza.
Il tema dei giovani può essere affrontato dal punto di vista dell’opzione fondamentale o dell’opzione vitale. Ci si può preoccupare della loro fede o anche del discernimento della loro vita futura, delle scelte di vita che potranno fare.
Il Sinodo invita alla logica del discernimento che interseca le 2 realtà. I giovani chiedono di essere aiutati a capire la vita, a scegliere, a orientarsi.
Per questo dovremmo fare un servizio ai giovani, indipendentemente dal fatto che abbiano la fede.
8/ Risposte di don Falabretti alle domande dell’assemblea
Il Sinodo è internazionale. La questione dell’età è stata dibattuta. Gli africano dissero: ai 12 anni le ragazze si sposano. Quelli dell’America Latina hanno detto: ai 16 anni abbiamo già dei ragazzi del narco-traffico che hanno ucciso.
Definire l’età del “giovane” al Sinodo non è stato facile. C’è stato però accordo totale sui 29 come età di uscita dall’età giovanile, per dire che a 30 anni sei adulto, sei uomo. 29 era proprio per dire che attorno ai 30 anni la maturità è raggiunta e non puoi sforare oltre i 30 anni! Oltre quell’età non sono più giovani.
Non un uscire per riportare dentro, bensì un uscire per abitare dentro il mondo. I vostri interventi vertevano sempre sul riportare dentro. Pensiamo ai livelli dei genitori dei ragazzi dell’IC: i vicini, gli orbitanti, quelli che hanno fastidio e 1000 altre possibilità. Ma il problema è pensare un cuore pulsante della comunità e insieme l’amore a tutte le persone, perché tutti in realtà cercano un legame.
I 2 giorni con il papa ad agosto, saranno preceduti da un cammino di pellegrinaggio. Fare un esperienza di pellegrinaggio è fare un cammino dove il tempo si ferma, dove si riallacciano le relazioni.
L’ora di religione ha una sua tenuta, non è in un momento di tracollo. Mi domando quanto gli insegnanti siano ascoltati dai consigli parrocchiali o di prefetture, per capire quali sono i problemi del mondo giovanile.
Il volontariato è invece una nota dolente in età giovanile. Il rischio del rapporto con le missioni è l’esotismo, che si pensi cioè che solo in alcune città o luoghi si può vivere la fede. Invece il servizio negli oratori estivi è certamente decisivo oggi nel cammino dei ragazzi.
Tra i giovani il processo di integrazione dei migranti avviene più facilmente che con gli adulti.
9/ Informazioni tecniche
Il pellegrinaggio dei giovani romani prima dell’incontro con il papa ad agosto sarà da Pozzuoli a Roma, sui passi dell’apostolo Paolo. Sarà dal 4 al 9 di agosto, per essere poi pronti ad accogliere chi arriverà da tutta Italia già il 10 di agosto. Sarà chiesto ai parroci di accogliere già per la sera del 10 i gruppi che vengono dalle regioni italiane più lontane.
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catecumenato.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Il catecumenato ha avuto il grande merito di fare emergere le dimensioni portanti di ogni vera catechesi di Iniziazione cristiana.
L'esigenza di accompagnare chi chiedeva il Battesimo ha, infatti, insegnato esperienzialmente che la maturazione della fede implica quattro dimensioni: - l’adesione convinta ed appassionata alla fede della Chiesa professata nel Credo, - la celebrazione liturgica dei Misteri, - la conversione di vita a partire dai Dieci comandamenti e dal Comandamento nuovo dell’amore, - la preghiera personale a partire dalla scoperta del Padre nostro.
La scoperta di queste quattro dimensioni portanti non è nata a tavolino, bensì dall'esperienza viva del cammino catecumenale.
Questa struttura così semplice è in realtà estremamente profonda, perché essere cristiani significa credere, significa ricevere la grazia nella vita sacramentale, significa vivere la vita nuova in Cristo, significa rendere viva la comunione con Dio nella preghiera personale.
Le sintesi catechetiche che corrispondono a queste quattro dimensioni - i 12 articoli del Credo, i 7 Sacramenti, i 10 Comandamenti e le 7 richieste del Padre nostro - sono emerse spontaneamente nell'esperienza catecumenale: in esse il catecumenato ha individuato gli elementi di base per una formazione capace di offrire una visione di sintesi ed al tempo stesso esistenziale alla persona che desidera diventare cristiana.
È per questo che queste quattro dimensioni sono gli elementi che l'esperienza catecumenale consegna alla Chiesa come chiave per ogni vero rinnovamento dell'Iniziazione cristiana.
Quando si parla di “ispirazione catecumenale” della catechesi è a questa quadridimensionalità della catechesi che si deve anzitutto pensare e non alla scansione cronologica di queste “colonne” portanti, che invece è quella più spesso ricordata (la consegna del Credo prima del Padre nostro o viceversa? prima la cresima o la comunione? ecc.ecc.). Infatti è evidente che un bambino battezzato apprende la fede innanzitutto partecipando alla messa e all’anno liturgico, anche se ancora non “mangia” la Comunione, e certamente scopre le preghiere prima di conoscere il Credo: non è dunque importante la scansione.
Ciò che è decisivo è piuttosto che le quattro dimensioni maturino insieme, perché non sia zoppa l’andatura mancando di qualche elemento decisivo.
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 2/12/2017 un articolo di Beppe Severgnini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Vedi anche la sezione Cinema.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
«Se qualcuno ti assicura che l’adolescenza di tuo figlio sarà una passeggiata, schiaffeggialo subito». Mi è tornata in mente questa frase un po’ brutale, proveniente un libro o da un film che non ricordo, mentre guardavo Gli sdraiati di Francesca Archibugi, tratto - anzi, ispirato - dal racconto di Michele Serra.
È la storia di un ragazzo che sa rendersi irritante e di un padre che non si rende conto d’essere confuso. Il primo ha diciassette anni; il secondo, un’età tra i cinquanta e i sessanta. Il figlio Tito è interpretato da un esordiente, Gaddo Bacchini, studente del liceo classico Manzoni di Milano. Il padre Giorgio, conduttore televisivo, da Claudio Bisio, meno scherzoso del solito (quindi, più credibile). C’è anche un nonno, taxista di grande cuore e poca cultura, intepretato da un ispirato Cochi Ponzoni, che si muove nella Milano notturna come Berlusconi nelle convention e Salvini in televisione.
Buon film, senza cedimenti. Soltanto lontano parente del libro, però. Nel racconto di Michele Serra l’irritazione quotidiana sfocia nella catarsi finale (la passeggiata al Colle della Nasca). Nel film entrano nuovi personaggi, elementi, incidenti. Ma così dev’essere: regista e sceneggiatori (la stessa Archibugi con Francesco Piccolo) devono sentirsi liberi di essere fedeli o infedeli. La trasposizione cinematografica è un incontro, non un matrimonio.
Conta il risultato, e con Gli sdraiati è stato raggiunto. C’è Milano, bella e sensuale qual è. C’è la fatica dei giovanissimi. E c’è la confusione della mia generazione, nata negli anni ‘50 del Novecento. Vorremmo essere buoni padri, buoni figli, bravi colleghi, giovani eterni. Ma non è possibile. I nostri ragazzi hanno bisogno della nostra vecchiaia. Ecco perché la figura del nonno materno, nel film, è formidabile. Va d’accordo con gli adolescenti perché sa dargli forza offrendo la propria debolezza.
P.S. Alla fine della proiezione, al cinema Ducale di Milano, c’è stato il dibattito tra il pubblico. Era quarant’anni che non partecipavo a un momento del genere. Negli anni ‘70 spesso mi dileguavo durante i titoli di coda, approfittando del buio. Venerdì sera sono rimasto, insieme a venti persone che non conoscevo, commosso dalla motivazione degli improvvisati organizzatori: «Vorremmo discuterne, ma non su Facebook». Torna l’antiquariato verbale, ed è una buona notizia.
Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo di Christian Giorgio pubblicato il 27/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione. Vedi anche gli articoli
Le orate alla griglia con il limone e le spezie, le foglie di manioca con il pollo e il riso con il sugo di arachidi. Il pranzo domenicale a San Saturnino ha i sapori del Congo. Antiche ricette della tradizione che Rachel e i suoi due piccolini, Daniel e Christ, hanno portato con sé da una terra sconvolta dai conflitti. Secondo le Nazioni Unite, circa 1,4 milioni di persone nel corso dell’ultimo anno sono state costrette ad abbandonare le proprie case, sia a causa della guerra che per le infestazioni di colera e morbillo. Questa piccola famiglia ha trovato rifugio nella Casa della carità Carlo Javazzo, che la comunità di San Saturnino mette a disposizione per la seconda accoglienza. Domenica 26, in occasione dei festeggiamenti parrocchiali, Rachel e altre famiglie di rifugiati (seguiti dal progetto di accoglienza della Caritas diocesana Rafforzare #Integrazione. Costruire #Ospitalità grazie al fondo Fami) hanno partecipato alla festa della comunità.
In mattinata la maratonina dei bambini, durante la quale Christ ha vinto la coppa del primo premio per la categoria “piccoli”, a mezzogiorno la Messa con il vicario di Roma, Angelo De Donatis, e poi il pranzo comunitario nel teatro parrocchiale. Per l’arcivescovo si è trattato di un ritorno «in un luogo del cuore». A San Saturnino fu viceparroco dal 1980 al 1988. Commentando il Vangelo del giorno ha sottolineato l’importanza di spendere bene il tempo che ci è dato. Esso è «fatto per curvarci sui poveri, i bisognosi, gli stranieri». Dio regna «chiamandoci a condividere la sua regalità attraverso gli ultimi. Nel Figlio viene – da povero, come il più piccolo dei nostri fratelli – a vincere la solitudine dei nostri smarrimenti». Infine, l’appello alla comunità di San Saturnino: «Dio ha bisogno di braccia, mani e piedi per potersi fare vicino alla nostra realtà. Continuiamo a piegarci su chi ha bisogno. Solo così arriva la vita vera, quella che nessun altro all’infuori di Dio può dare».
L’esperienza di accoglienza, a San Saturnino, è iniziata nel 2015 quando – ha raccontato il parroco, don Marco Valenti – «abbiamo ospitato tre giovani richiedenti asilo: Babakar e Mountaga del Senegal e Salif del Mali». Si trattava della cosiddetta prima accoglienza; nei locali parrocchiali della casa della carità intitolata a Carlo Iavazzo i volontari di San Saturnino hanno aiutato i tre ragazzi a superare lo stato di marginalità con un lavoro di accompagnamento nella ricerca di soluzioni occupazionali ed abitative autonome. «All’inizio sembrava che mancassero mezzi, le persone, le conoscenze, sembrava che le difficoltà fossero troppe. Invece si è fatta strada una forza inaspettata capace di dare un nuovo volto alla solidarietà, fatta di fiducia, speranza e amicizia, sbriciolando ritrosie e paure».
Rochelle e i suoi due figli sono seguiti da un’assistente sociale che si sta occupando di iscrivere i bambini a scuola, mentre l’«alleanza dell’accoglienza» si è allargata sul territorio parrocchiale anche alla casa famiglia delle Suore Salesie che si è detta disposta a dare aiuto con la collaborazione di alcuni volontari e mettendo a disposizione per l’accoglienza una loro ex scuola che altrimenti sarebbe rimasta chiusa. «L’impegno caparbio e l’affetto dei nostri parrocchiani – ha chiosato il parroco – sono stati in grado di cambiare la vita dei nostri fratelli più sfortunati. Vogliamo continuare in questo cammino di uscita grazie al quale abbiamo capito che la fede non è un tesoro da custodire in un museo. Come dice il Papa, meglio far parte di una chiesa “incidentata e ferita” ma viva che di una chiesa “sicura” ma chiusa e ammalata».