I sapori del Congo al pranzo domenicale di San Saturnino, di Christian Giorgio 7/ L'accoglienza dei profughi nelle parrocchie romane
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Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo di Christian Giorgio pubblicato il 27/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione. Vedi anche gli articoli
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Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Le orate alla griglia con il limone e le spezie, le foglie di manioca con il pollo e il riso con il sugo di arachidi. Il pranzo domenicale a San Saturnino ha i sapori del Congo. Antiche ricette della tradizione che Rachel e i suoi due piccolini, Daniel e Christ, hanno portato con sé da una terra sconvolta dai conflitti. Secondo le Nazioni Unite, circa 1,4 milioni di persone nel corso dell’ultimo anno sono state costrette ad abbandonare le proprie case, sia a causa della guerra che per le infestazioni di colera e morbillo. Questa piccola famiglia ha trovato rifugio nella Casa della carità Carlo Javazzo, che la comunità di San Saturnino mette a disposizione per la seconda accoglienza. Domenica 26, in occasione dei festeggiamenti parrocchiali, Rachel e altre famiglie di rifugiati (seguiti dal progetto di accoglienza della Caritas diocesana Rafforzare #Integrazione. Costruire #Ospitalità grazie al fondo Fami) hanno partecipato alla festa della comunità.
In mattinata la maratonina dei bambini, durante la quale Christ ha vinto la coppa del primo premio per la categoria “piccoli”, a mezzogiorno la Messa con il vicario di Roma, Angelo De Donatis, e poi il pranzo comunitario nel teatro parrocchiale. Per l’arcivescovo si è trattato di un ritorno «in un luogo del cuore». A San Saturnino fu viceparroco dal 1980 al 1988. Commentando il Vangelo del giorno ha sottolineato l’importanza di spendere bene il tempo che ci è dato. Esso è «fatto per curvarci sui poveri, i bisognosi, gli stranieri». Dio regna «chiamandoci a condividere la sua regalità attraverso gli ultimi. Nel Figlio viene – da povero, come il più piccolo dei nostri fratelli – a vincere la solitudine dei nostri smarrimenti». Infine, l’appello alla comunità di San Saturnino: «Dio ha bisogno di braccia, mani e piedi per potersi fare vicino alla nostra realtà. Continuiamo a piegarci su chi ha bisogno. Solo così arriva la vita vera, quella che nessun altro all’infuori di Dio può dare».
L’esperienza di accoglienza, a San Saturnino, è iniziata nel 2015 quando – ha raccontato il parroco, don Marco Valenti – «abbiamo ospitato tre giovani richiedenti asilo: Babakar e Mountaga del Senegal e Salif del Mali». Si trattava della cosiddetta prima accoglienza; nei locali parrocchiali della casa della carità intitolata a Carlo Iavazzo i volontari di San Saturnino hanno aiutato i tre ragazzi a superare lo stato di marginalità con un lavoro di accompagnamento nella ricerca di soluzioni occupazionali ed abitative autonome. «All’inizio sembrava che mancassero mezzi, le persone, le conoscenze, sembrava che le difficoltà fossero troppe. Invece si è fatta strada una forza inaspettata capace di dare un nuovo volto alla solidarietà, fatta di fiducia, speranza e amicizia, sbriciolando ritrosie e paure».
Rochelle e i suoi due figli sono seguiti da un’assistente sociale che si sta occupando di iscrivere i bambini a scuola, mentre l’«alleanza dell’accoglienza» si è allargata sul territorio parrocchiale anche alla casa famiglia delle Suore Salesie che si è detta disposta a dare aiuto con la collaborazione di alcuni volontari e mettendo a disposizione per l’accoglienza una loro ex scuola che altrimenti sarebbe rimasta chiusa. «L’impegno caparbio e l’affetto dei nostri parrocchiani – ha chiosato il parroco – sono stati in grado di cambiare la vita dei nostri fratelli più sfortunati. Vogliamo continuare in questo cammino di uscita grazie al quale abbiamo capito che la fede non è un tesoro da custodire in un museo. Come dice il Papa, meglio far parte di una chiesa “incidentata e ferita” ma viva che di una chiesa “sicura” ma chiusa e ammalata».