1/ Nascite in Italia, la paura del futuro in un Paese dove non ci sono più fratelli, di Antonio Polito 2/ I dati ISTAT. La demografa: «Questione culturale, la maternità è un obiettivo tra tanti». Farina e il calo delle nascite: «Non è vero che non si fanno figli per problemi economici». Un’intervista di Alessandra Arachi alla demografa Patrizia Farina
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1/ Nascite in Italia, la paura del futuro in un Paese dove non ci sono più fratelli, di Antonio Polito
Riprendiamo dal Corriere della Sera un articolo di Antonio Polito pubblicato il 28/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Perché non facciamo più figli? Ogni volta che l’Istat ci ricorda il drammatico calo delle nascite (centomila bambini in meno in otto anni), riparte stanco il dibattito. I politici lanciano l’allarme (a chi? a se stessi?); se sono all’opposizione reclamano nuove misure di welfare per sostenere la maternità (che immaginiamo si aggiungano, chissà come, a quelle per sostenere le vecchiaia); se sono al governo si affidano al bonus bebè, in un Paese in cui le politiche sociali stanno diventano una specie di giungla di gratifiche, e l’85% per cento dei contributi assistenziali vanno agli over 65 anni.
Intendiamoci: ben vengano nuove misure, gli sconti fiscali per i pannolini o la tata, testimonierebbero quantomeno la consapevolezza dello Stato che il problema è grande anche dal punto di vista sociale, perché di questo passo non avremo più abbastanza lavoratori giovani per pagare le pensioni al numero crescente di anziani. E d’altra parte non ha senso sperare di sostituire gli italiani mancanti con una ondata di lavoratori immigrati.
Ma questa carestia di culle ha cause culturali forse anche più profonde di quelle sociali. Altrimenti non si spiegherebbe perché le donne immigrate, che di certo godono di meno aiuti pubblici, facciano 1,97 figli ciascuna, e le italiane solo 1,26. La lunga e dolorosa crisi economica ovviamente c’entra, e infatti nel 2016 si segnala finalmente un timido segno di ripresa nella propensione alla nascita dei primi figli. È evidente che molte donne hanno ritardato la maternità in attesa di tempi migliori. Ma così facendo sono arrivate al parto all’età media di 31,8 anni, due anni in più che nel 1995. In questo modo il serpente si morde la coda: si comincia a far figli più tardi, quindi aumentano i problemi di infertilità, quindi nascono meno bimbi, e tra loro meno future donne fertili.
Se si aggiunge una illimitata e spesso superficiale fede nelle risorse della tecnica, quasi che la provetta potesse sostituire del tutto e a qualunque età il ventre materno, si può giungere a paventare, come nell’omonimo libro di Lucetta Scaraffia, la «Morte della madre», intesa come figura simbolo di una società declinante. La crisi ha agito come un potente depressivo sulle famiglie italiane, e soprattutto sulle coppie più giovani. E non solo per il minor reddito disponibile, ma per l’enorme nuvola nera che ha proiettato sul futuro del Paese. Eppure già da prima si poteva avvertire che dietro il calo delle nascite si nascondeva il senso di sfiducia generalizzato, di pessimismo, che attanaglia ancora l’Italia nonostante i primi segni di ripresa, e si concentra sul timore che per i nostri figli non ci sarà più abbastanza lavoro e benessere.
Osservando la loro condizione precaria e incerta, i giovani di oggi riluttano a mettere al mondo i giovani di domani. L’altro potente fattore di freno alla maternità affonda probabilmente le sue radici nella persistente arretratezza che caratterizza da noi i rapporti tra i sessi. Colpisce il numero di donne che nella vita di ogni giorno, interrogate sul perché non abbiano ancora figli, rispondono: perché non ho ancora trovato l’uomo giusto. Dove «l’uomo giusto» sarebbe quello che non scarica addosso a loro tutto il peso della maternità, dell’allevamento, della cura, della vigilanza, della educazione dei figli.
E, diciamoci la verità, per quanto molte cose stiano cambiando, i padri italiani non sembrano ancora campioni di responsabilità parentale. Si fanno dunque meno figli per paura del futuro. Ma le famiglie meno numerose producono a loro volta un effetto sul futuro. Una generazione di figli unici sta crescendo nelle nostre case senza fratelli, con molti nonni e qualche bisnonno, con i quali convive per un tempo sempre più lungo. Gli stessi valori su cui è fondata la nostra civiltà possono essere affetti da queste mutazioni. Ha notato lo scrittore Christian Raimo, per esempio, che il concetto di fratellanza è molto più difficile da apprendere in famiglie senza fratelli. Un’inversione di tendenza potrà dunque avvenire solo quando ci sarà piena consapevolezza di queste cause culturali. Quando ricominceremo a pensarci come una comunità invece che come un agglomerato di interessi, e riprenderemo a premiare chi investe sul futuro, invece di dilaniarci per risorse sempre più limitate di spesa pubblica. Come seppero fare i nostri genitori, la cui spinta vitale generò il baby boom del dopoguerra, in un Paese dalle condizioni economiche e sociali non certo migliori di quelle di oggi.
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2/ I dati ISTAT. La demografa: «Questione culturale, la maternità è un obiettivo tra tanti». Farina e il calo delle nascite: «Non è vero che non si fanno figli per problemi economici». Un’intervista di Alessandra Arachi alla demografa Patrizia Farina
Riprendiamo dal Corriere della Sera un’intervista di Alessandra Arachi a Patrizia Farina pubblicata il 28/11/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Vita.
Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2017)
Patrizia Farina, lei che è una demografa dell’università Bicocca di Milano, e anche membro del Sistan, il sistema statistico nazionale, ha visto i dati forniti oggi dell’Istat? Continuano a certificare un calo delle nascite nel nostro Paese...
«Un calo inevitabile».
Perché?
«Intanto per come è fatta la struttura della nostra popolazione, ci sono sempre meno donne e quindi sempre meno donne in età fertile. E poi esiste una importante questione culturale che non possiamo ignorare».
Non ignoriamola. Cosa vogliamo dire?
«Fino a 50 anni fa essere madri, e anche madri di molti figli, era in pratica l’unico desiderio di una donna sposata».
Adesso non è più così...
«Ora diventare madre è uno dei tanti possibili obiettivi di una donna, sposata o non».
Per questo abbiamo un tasso di natalità così basso?
«Siamo scesi a 1,26 figli per donna da 1,34 che avevamo ed era già piuttosto basso».
Come mai secondo lei?
«Perché le alternative alla maternità sono tante».
La carriera, ad esempio?
«Ad esempio, certo. Ma il ventaglio di alternative è talmente ampio, e suona come una cosa un po’ paradossale rispetto alla nostra tradizione religiosa».
Abbiamo abbandonato la tradizione e la religione?
«È successo anche questo. Ma il problema è che noi donne qui in Italia non siamo capaci a trovare un compromesso fra essere madri o essere un’altra cosa».
Quindi o facciamo l’uno o facciamo l’altra?
«Non sempre, ma tendenzialmente questo è l’atteggiamento. E lo si può vedere bene analizzando i numeri».
Quali numeri?
«Quelli dove l’Istat ci fa vedere che la riduzione del numero dei primi figli è responsabile al 57 per cento del calo complessivo della fecondità».
Come legge questo dato, professoressa?
«È un numero che abbatte in maniera evidente l’idea che non si fanno figli per problemi economici».
Perché?
«I problemi economici — che pure esistono — frenano l’idea di fare un secondo o un terzo figlio. Ma quando non si mette al mondo il primo figlio lo si fa principalmente per tanti altri motivi. Però non è giusto fermarsi qui».
Cosa intende?
«Sarebbe interessante indagare le aspettative dei percorsi della vita, ma non fermarsi soltanto a quelli delle donne».
Quindi dobbiamo occuparci degli uomini?
«Non dovrei dirlo perché sono un membro del Sistan, ma quando la statistica parla di fecondità dovrebbe indagare anche gli aspetti relativi agli uomini, la loro fertilità, i loro desideri, le loro aspettative».
E cosa si scoprirebbe?
«Si riuscirebbe a capire finalmente perché stiamo marcendo su questo 1,3 di figli per donna».
Ci vuole quindi anche un contributo statistico degli uomini per indagare nel profondo la nostra denatalità?
«Mi sembra logico. I figli si fanno in due. E le coppie in Italia dimostrano di non avere la voglia o la capacità di guardare avanti».
Ovvero?
«Non hanno voglia di vedere che l’orizzonte prevede il prolungamento attraverso i figli».
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