Perché la legge sul biotestamento è problematica, ben al di là della problematicità dei suoi singoli punti, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Del morire.
Il Centro culturale Gli scritti (30/12/2017)
Qual è il grande problema della nuova legge sul biotestamento? Consiste innanzitutto nella sua prospettiva pragmatica, contraria al patrimonio ideale comunista, cattolico e liberale, improntato a forti ideali, che ha dato origine all'Italia come democrazia.
La nazione ha sempre condiviso la necessità di esaltare i grandi valori, avendo però al contempo compassione per chi non fosse in grado di tenervi fede. Mai compassione senza la contemporanea proposta dei grandi ideali.
Ad esempio dinanzi al suicidio l'atteggiamento tipico è sempre stato quello di ritenerlo una scelta triste e sbagliata, avendo però comprensione per chi compiva quel passo (io stesso posso testimoniare di tanti funerali di suicidi in cui ci siamo stretti insieme non a difendere un presunto diritto a togliersi la vita, bensì per ritrovare coraggio nel riaffermare il valore della vita e per pregare per l'amico disperato).
Questo atteggiamento era ancora presente sia nella popolazione, sia nella mente del legislatore, dinanzi alle grandi questioni del divorzio (il referendum in merito è del 1974) e dell'aborto (il referendum in merito è del 1981).
Molti ritennero che quelle leggi non intendevano proporre – probabilmente senza comprendere invece la mens dei fautori che intendeva proprio questo - un presunto “diritto” a tradire o ad indebolire la famiglia, così come pensavano che non si trattasse di dichiarare un diritto ad abortire.
Lo Stato - in teoria - continuava a proporre la “bontà” sociale dell'amore fedele e indissolubile dell’uomo e della donna, unitamente però ad uno sguardo di compassione per chi falliva nell’ideale di costruire una famiglia. Lo Stato - in teoria - continuava a proporre la “bontà” sociale della maternità e paternità, unitamente pero ad uno sguardo di compassione per chi abortiva. Indicativo in tal senso è il primo articolo della legge 194 che si apre dichiarando il primato della vita del concepito - l’Art. 1 recita infatti: «Lo Stato… tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite».
Negli slogan di allora erano presenti, ad esempio, espressioni come “L’aborto non è un reato”, non identiche a “L’aborto è un diritto”. Pur in una visione problematica, l’accento era comunque posto più sulla non punibilità che sul presunto diritto ad una libertà di abortire: si intendeva in qualche modo non negare il fatto che l’aborto fosse comunque un male e che la morte del bambino fosse una questione gravissima. Tutto doveva però essere coperto da comprensione verso le persone che così decidevano (la responsabilità nel tempo, a partire da quegli anni e a differenza del passato, venne in maniera assurda scaricata sempre più sulla donna, al punto che oggi un maschio quasi non se ne sente responsabile, come ha recentemente sottolineato la Hargot[1]).
Con queste esemplificazioni non si intende difendere tale sguardo tipicamente italiano. Si vuole, invece, sottolineare come tanti italiani, ben al di là dell’ideologia già chiara di chi propugnava tali leggi, le interpretarono alla luce di una visione vera e giusta, quella che ha sempre cercato di condannare il "peccato", ma mai il "peccatore".
Tale visione non è solo cristiana e cattolica, ma era allora condivisa dal pensiero comunista e da quello liberale.
Da tempo, invece, si e fatta strada una nuova e alternativa visione della vita, totalmente pragmatica e attenta unicamente a pretesi diritti del singolo e mancante di una riflessione sui suoi doveri e sul coinvolgimento della comunità nelle scelte del singolo.
L'idea di uomo che ne emerge è quella di un essere caratterizzato da ogni “libertà” di scelta, senza responsabilità alcuna cui egli sia "chiamato" dalla comunità cui appartiene, senza “doveri” verso un dato che lo supera, come il fatto stesso di aver ricevuto la vita senza averla chiesta.
Quella che intendeva essere nella mente di molti una comprensione verso il fallimento matrimoniale si è cosi mutata nella pretesa che ognuno abbia il diritto di modificare o interrompere ogni relazione quando più gli piaccia e che la stessa “promessa” di fedeltà, lo stesso “per sempre”, sia un elemento estraneo alla famiglia. Allo stesso modo l'aborto viene oggi da taluni rivendicato come un diritto assoluto, rifiutando che si provi addirittura a prendere in considerazione l'idea che la società possa fare di tutto perché il bambino possa nascere comunque dalla madre per essere poi affidato ad altri (ciò avveniva nei secoli passati con il sistema delle “ruote” che, alla fine dei conti, si rivelava ben più umanizzante delle prospettive moderne).
Questo atteggiamento è ancora più evidente nel caso delle DAT che, per definizione, sono decisioni prese in anticipo, a prescindere dalle loro possibili concretizzazioni tutte da verificare – come dice il termine stesso, appunto, Dichiarazione “Anticipata” di Trattamento.
Non si afferma più allora, come sarebbe preferibile: "Poveretto, non ce la fa a scegliere di continuare a vivere perché soffre troppo fisicamente o psichicamente". Il senso di espressioni del genere consiste nel conservare come punto di riferimento la "preferibilità" del non togliersi la vita e, con essa, l’attestazione che non si è padroni della vita, ma che essa chiede un impegno a cui si deve tenere fede: ma nel senso di frasi come queste rientra anche la comprensione della comunità per la persona che non “riuscisse” a tenere fede a quella vita ricevuta in dono.
Non, quindi, una comunità che si limita a dichiarare la possibilità di due scelte, bensì che afferma chiaramente la non equivalenza delle due possibilità, pur avendo poi comprensione ed affetto nei confronti di chi optasse per ciò che è meno vero e bello.
Con la nuova legge, invece, si innalza, il cartello di un pretesa “diritto” al punto che non si permette nemmeno l'obiezione di coscienza: “Ha deciso in anticipo, quando era lucido, di non voler prolungare la vita e ne ha diritto. La vita appartiene solo a lui ed egli ne decide a suo assoluto piacimento e la comunità è lì solo per prendere atto delle sue decisioni”.
Si noti bene che il tratto eutanasiaco del dispositivo legale emerge non nei critici della legge quanto nelle dichiarazioni degli stessi fautori della legge e, ancor più, nella foto che è stata scelta “dagli intellettuali” dei media a simbolo della “vittoria legale” con i volti commossi di parenti di pazienti sostenitori del trattamento eutanasiaco.
Qual è allora la prospettiva problematica che è evidente nella legge e nei commentatori, nel dispositivo messo in atto così come negli “intellettuali” che la esaltano?
È proprio quella di vedere le DAT non come una concessione, bensì come un diritto, come un diritto a decidere se, come e quando morire. La legge si basa su questa visione, sena dichiararla appieno: ritiene che la comunità non abbia da offrire nessuna indicazione sul valore della vita. Alla comunità sociale è dato solo di registrare il dato stabilito dal singolo. Manca ogni prospettiva di senso e ogni visione comunitaria, tradendo ciò che è proprio della migliore tradizione comunista, cattolica e in fondo anche liberale. La legge è “liberista” e basta. Solo il singolo ha voce e, al contempo, è lasciato spaventosamente solo nella sua “libertà”.
La comunità - dello stato, del mondo medico, della società - cessa di dire alla persona che è preziosa anche quando è gravemente malata, cessa di incoraggiarla sul fatto che la sua vita ha una dignità a prescindere dalle condizioni fisiche. Non dichiara più la fiducia che esista un valore della testimonianza della debolezza che può essere più preziosa dell’efficienza di qualcuno che è giovane e sano. La comunità si limita a dire: “Decidi tu. Quello che decidi per me è equivalente”.
Fino ad oggi, tutta la comunità, con i suoi messaggi educativi e con il suo apparato legislativo, dichiarava di preferire che chi era nella debolezza della malattia continuasse a vivere ed incoraggiava i suoi parenti a sostenere questa decisione come sensata: proclamava che la vita ha una sua dignità incomparabile anche dove non è più cosciente. Certo, essendo laica, la comunità non giungeva, come crede la fede, a dire che in una persona debolissima è presente Cristo stesso: però incoraggiava il malato e i suoi cari a ritenere che valesse la pena vivere fino all’ultimo respiro, ritenendo la vita inviolabile. Per la comunità come nessuno poteva decidere di darsi la vita, così nessuno poteva decidere di togliersela.
Si noti bene che esiste un concetto di “vocazione” anche laico (lo ha utilizzato per esempio Max Weber nei suoi scritti), dove la vita non è semplicemente “mia”, bensì è qualcosa che io sono tenuto ad onorare, anche se non è possibile definire esattamente da chi venga e chi è precisamente colui che la “chiama” a continuare ad essere.
Questa visione, ovviamente, sosteneva anche i cari del malato, mostrando loro che l’intera comunità riteneva che il loro prodigarsi per lui fosse meritevole e degno, prezioso e vero, anche se il sofferente non avesse alcuna seria possibilità di riprendersi. Come egli li aveva amati, così era bello che ora lui fosse amato da loro fino a che una morte naturale non ne avesse determinasse una “vocazione” ad uscire dal mondo. Quell’amore apparentemente senza senso era più sensato dell’efficienza di tanti corpi sani. Il debole, il gravemente malato, addirittura l’incosciente, davano un diverso ritmo al mondo, conferivano un diverso peso alle cose.
La comunità fino ad oggi diceva: la vita ha un senso, sempre e comunque, anche se non è possibile definirlo precisamente. Poiché ha un senso, ecco che un malato grave o un anziano cronico, può avere una vita più sensata di un giovane rampante: il senso non è determinato dalle condizioni di salute, ma è legato alla vita stessa della persona. Un disabile incapace di comunicare secondo i criteri della maggioranza delle persone, può essere invece testimone di una diversa visione della vita ed è prezioso almeno quanto un grande comunicatore.
Il tirarsi indietro di una persona con il suicidio, ma anche l’abbandonare alla morte una persona non più cosciente, era qualcosa di avvertito come triste e disdicevole, anche se si aveva poi sempre comprensione per chi si fosse trovato in queste condizioni e non avesse retto alla pressione. Il morire non era insomma visto come qualcosa di “individualistico”, come un diritto “individuale”, bensì ognuno era “chiamato” a lottare per la vita fino all’estremo e il suo tirarsi indietro avrebbe in qualche modo ferito la società stessa, gli altri, poiché avrebbe privato tutti dell’apporto di una persona e di una testimonianza, anche silenziosa, a ricordare che la vita non è solo dei sani.
Si potrebbe dire in una parola così: era chiaro che non si era padroni della vita e che per un misterioso disegno era bene accogliere la vita così come essa era.
Ora tutto questo è come messo da parte. È il singolo a decidere e la vita non è più una “vocazione”, nemmeno laica.
In conseguenza di questo, non si può tacere il fatto che questo nuovo orientamento di pensiero avrà senza alcun dubbio conseguenze prevedibilissime - ma anche imprevedibili - nei decenni a venire anche sulle persone che, di per sé, vorrebbero continuare a vivere anche se gravemente malate, si pensi ancora ai disabili o agli anziani cronici. La legge introduce come un tarlo: se la comunità riconosce che è un bene che alcuni si privino dell’alimentazione o dell’idratazione, perché non privare di tali trattamenti altri che sono parimenti malati da molto tempo o addirittura incoscienti?
Conosco una famiglia amica che ha avuto una figlia, Sabina, che nei primi anni di vita, essendo cieca, sorda ed incapace di qualsiasi comunicazione, sembrava non avere una vita propria. L’amore dei genitori, l’amicizia di tanti e l’aiuto di medici competenti l’hanno fatta maturare al punto che essa comunica ora, ma solo con il contatto, riconoscendo le persone che le prendono la mano. Cosa dire di una vita come questa? Per i suoi amici Sabina è preziosissima, anche se lei non potrà mai dire ad altri cosa pensi di se stessa. Senza aiuto, immobile com’è, non potrebbe vivere da sola nemmeno per un nuovo giorno: eppure non è la sua presenza ricca e preziosa, un dono per tanti? Lo stato deve incoraggiare gli amici di Sabina a sostenerla in vita o si deve limitare a dire: “Decidete voi se valga la pena o meno che viva, perché per la comunità questo è indifferente”?
Riassumiamo: la principale problematicità della nuova legge consiste a nostro avviso nel fatto che per la prima volta viene concesso alla persona il presunto “diritto” di decidere anticipatamente se ha senso continuare a vivere o meno. Si lascia intendere che sia un diritto, che sia qualcosa di naturale, pensare di farla finita una volta che la malattia indebolisce seriamente la lucidità di una persona. La legge si astiene dal proporre argomenti e gesti favorevoli al sostenere la vita di chi è in estrema difficoltà: se ha deciso, ha deciso e non se ne parli più.
In questa maniera, però, la comunità si tiene fuori dalla storia di chi è gravemente malato e non riafferma la grandezza della vita anche se fosse debolissima: la comunità si auto-esonera da una qualsivoglia testimonianza in merito.
Tutto è risolto pragmaticamente. Della vita si tace.
Primo N.B.
La prospettiva a cui la legge sulle DAT conferisce una significativa accelerazione è quella già intravista dai romanzi distopici del secolo scorso e dei primi anni del secolo presente. Si pensi solo a La morte moderna di Carl-Henning Wijkmark, sul quale vedi la recensione E se giungesse il giorno nel quale vite diverse hanno diverso valore? Una recensione di Tommaso Spinelli a La morte moderna di Carl-Henning Wijkmark.
Secondo N.B.
È importante sottolineare con tristezza che la linea dei partiti di centro-sinistra e di centro-destra è parimenti confusiva sui temi su indicati. Premettiamo che non si intende dare qui indicazioni partitiche – qualsiasi lettore a noi affezionato sa che tale è la nostra linea, da sempre, quella di astenersi da ogni ingerenza partitica.
Da un punto di vista, invece, di una visione antropologica ed etica non si può non rilevare la coincidenza dell’approvazione della legge sulle DAT da parte del governo guidato da una certa parte politica, mentre dall’altra parte Berlusconi prometteva ai suoi elettori una vita di 125 anni (con le pensioni conseguenti).
Dal punto di vista antropologico la legge sulle DAT e la promessa berlusconiana di un prolungamento dell’esistenza dell’età anziana appaiono come due visioni complementari egualmente mistificanti che negano la realtà della vita umana così come essa è e si modifica chiedendo di essere accettata e non di essere negata decretandone la fine anticipata o un prolungamento impossibile. Lasciate la vita così com’è, non siete dei demiurghi, né in aggiungere, né in levare.
Note al testo
[1] Cfr. «La rivoluzione sessuale non ci ha liberati, la chiesa sì. parola di femminista». Un’intervista a Thérèse Hargot di Antonio Sanfrancesco.