Il Natale non viene per i beoti, ma per chi avverte il dolore di ciò che sembra irreparabile. Dinanzi a quel Bambino solitudine e festa possono convivere, di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (22/12/2017)
Ogni festa appare dolorosa per chi è triste. Come per chi è in festa è fastidioso rivolgere lo sguardo a chi è nel dolore. Ben oltre il Natale.
Ricordo l'emozione che provai un giorno, ascoltando un giovane che diceva: "Per una donna che non riesce ad avere bambini è un grande dolore vedere giovani mamme felici con i loro neonati. E per chi ha appena partorito è faticoso stare vicino a chi ha appena perso un figlio per malattia e gli ricorda la caducità del proprio". Parlava a tanti amici che si volevano bene, ma che pure soffrivano nello stare insieme in condizioni così diverse.
Non è facile che convivano insieme chi è nel dolore e chi è nella gioia.
Ebbene il Natale è festa innanzitutto per chi è nella solitudine. Ben più del capodanno. Non solo perché al volgere di un anno pesa il ricordo di una persona che ci ha lasciato e non c’è più. Non solo perché il capodanno è troppo esagerato nell'obbligare a festeggiare un passaggio, nel pretendere che si sia felici anche se la propria vita non ha né capo, né coda.
Ma soprattutto perché il Natale non è la festa dei gaudenti, bensì dei poveri. È la festa di coloro che attendono una visita. Poiché addirittura Dio viene a visitare noi che siamo soli.
Il Natale è festa anche per chi è sconclusionato: senza quel Bambino, infatti, niente ha conclusione.
Il Natale si caratterizza per la scoperta del dono immeritato: quel Bimbo viene non per chi è meritevole, bensì viene proprio perché ogni vero dono è immeritato e dal giorno di quella nascita è iniziata sulla terra la storia della misericordia.
Un amico mi raccontava di aver spiegato il Natale ai ragazzi di una scuola media a partire dal verbo “riparare”. Diceva loro come le feste accentueranno il loro dolore se hanno genitori separati o se debbono subire situazioni false, nelle quali si recita una parte. Ma che, appunto, Cristo viene a ripararli, a proteggerli, proprio in tali situazioni. Essi hanno il diritto di dichiarare che soffrono, mentre la cultura benpensante impone loro di dire che la separazione dei genitori non ha creato in loro alcuna sofferenza. A motivo del Natale quel dolore può essere detto e vissuto proprio perché Cristo li protegge e li ripara.
Non solo – continuava. Il verbo “riparare” indica anche che qualcosa si è rotto nella vita e che non vi è chi lo riaggiusti. Cristo non viene per i beoti che ritengono che tutto vada bene, bensì proprio per chi desidera che le cose si riaggiustino. Cristo viene per “riparare”, per riaggiustare relazioni dove non vi è pace: senza di lui tutto resterebbe irrimediabilmente “frantumato”.
Ma Cristo viene anche per rinsaldare la convinzione che non è sbagliato essere felici e gioire dell’amore, dove esso invece esiste e cresce. Prima di quel Bambino l’uomo non sapeva di essere figlio. Ancora oggi gli atei non pensano che esista un padre nei cieli e ritengono di essere nati per caso, senza amore eterno. In alcune regioni italiane, come in molte religioni, di Dio c’è da diffidare, poiché egli è ritenuto invidioso della gioia degli uomini. Nel napoletano, se qualcuno è felice, si invita a non dirlo ad alta voce, poiché se lassù qualcuno lo sentisse, ecco che interverrebbe a spezzare quella gioia sentita come inopportuna: qui la divinità è un idolo, nemica della gioia degli uomini. Meglio che gli dèi non sappiano della felicità degli uomini, altrimenti la faranno cessare – pensano gli idolatri.
Nel presepe, invece, il Dio che “ripara” è anche il Dio che gioisce della felicità degli uomini. Gli uomini possono dirgli la gioia di un bambino e di un amore, sapendo che Egli ne sarà felice.
Solitudine e compagnia, necessità di riparare ciò che è rotto e libertà di gioire di ciò che è bello: nel Natale possono convivere insieme.