Relazione tenuta sabato 6 maggio 1995 nell'Aula Magna dell'Università “La Sapienza” di Roma, da d.Rino Fisichella, allora docente di Teologia fondamentale presso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana
“Sta scritto: Ho creduto, per questo ho parlato, anche noi crediamo e per questo parliamo” (2 Cor 4, 13). Il testo di Paolo ai cittadini di Corinto, la città universitaria dell'epoca, può a buon diritto circoscrivere lo scenario di questo intervento. L'apostolo usa un tempo al presente, motivando il dovere e il diritto del credente a esprimere la sua fede e a essere annunciatore del vangelo sempre e dovunque. Per il semplice fatto di essere cristiani avanziamo la pretesa di poter parlare al mondo. Il nostro parlare, però, dipende dal credere. Il primato spetta alla fede che permette al parlare di non essere flatus vocis, voce senza contenuto, ma pienamente linguaggio che sa comunicare una realtà viva ed efficace.
Ci sono alcune prospettive, comunque, che si devono valutare perché il nostro “parlare” consequenziale al credere, produca l'efficacia necessaria all'interno dell'università. Molti, forse, si attenderanno subito delle indicazioni concrete, illudendosi che la testimonianza del vangelo possa esprimersi dietro comando. Il mio intervento non vuole entrare esplicitamente in questa questione. Non perché non si possa indicare il “come” testimoniare; anzi, per alcuni versi ci potrebbe fare guadagnare i titoli di prima pagina; soprattutto se le nostre proposte venissero confrontate con altri modelli. Ma questo sarebbe solo “notizia”, costituirebbe una strada troppo facile per pensare che il vangelo si possa testimoniare con efficacia senza poi compromettere se stessi in prima persona. Il “come” testimoniare, pertanto, potrà avere luogo sempre e soltanto dopo che si sarà data ragione del “perché” si deve testimoniare.
E' questa la prima questione che si deve affrontare. Davanti alla fede ognuno è sempre e soltanto libero. Questo è il rischio che corre il Dio dei cristiani: trovarsi di fronte una creatura capace di rispondere con tutta se stessa alle attese che le vengono rivolte. Perché, quindi, il nostro essere credenti sia coerente, è necessario che per prima cosa si sappia rispondere al perché si crede e perché si deve testimoniare. Viviamo un momento della vita di fede estremamente arduo. Mossi tra l'illusione di conoscere già tutto circa i suoi contenuti e la schizofrenia secondo cui essa tocca solo un momento dell'esistenza, siamo diventati quasi incapaci di poter rispondere alle sfide epocali che la storia ci pone innanzi. Certo, siamo figli del nostro tempo, respiriamo la stessa aria culturale del nostro contemporaneo, ma la fede ci pone in un orizzonte che non permette ovvietà alcuna. Qui siamo chiamati a prendere in seria considerazione l'esistenza non fermandosi alla frammentarietà del momento, ma pretendendo di avere nelle mani la vita intera, carica di senso. Se esiste una sfida a cui solo la fede può rispondere questa si colloca nell'orizzonte del senso dell'esistenza. E il primo compito che ci spetta è guardare alla nostra formazione personale: “In questo momento grave attraversato dal nostro Paese, noi cattolici e specialmente noi studenti abbiamo un grave dovere da compiere: la formazione di noi stessi” (Pier Giorgio Frassati il 30 ottobre 1922)
Nessuno può supporre di raggiungere un'identità personale se tralascia di porsi davanti alla domanda sul senso dell'esistenza o se la riduce al vuoto di una domanda ovvia. Il nostro “parlare” scaturisce dall'essere depositari di un senso che ci è stato dato per rivelazione. E' un messaggio talmente nuovo che nessuno pensiero avrebbe potuto far scaturire dalla sola speculazione, fosse anche la più alta possibile. Di questo noi siamo testimoni. Ognuno di noi nasce dalla testimonianza che in questi giorni abbiamo ripetutamente sentito: “Il crocifisso è risorto, noi lo abbiamo visto e ne siamo testimoni”. Non c'è altra possibilità per una fede che voglia esprimersi in modo maturo che il confronto con questa testimonianza originaria. Essa non è isolata, perché trova la sua origine e fondamento nella testimonianza stessa che Gesù di Nazareth rende al Padre e questi a lui. Il suo parlare e agire, il suo silenzio e i suoi sguardi, non sono altro che testimonianza di ciò che il Padre dice e fa. Lo ricorda con estrema chiarezza l'evangelista: “Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare al Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. Io ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni; le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Gv 5, 19.36). Di questo evento di grazia, noi diventiamo testimoni con il nostro ingresso nella Chiesa, la comunità dei credenti.
Ma tutto questo interessa ancora noi e il nostro contemporaneo? Non è forse vero che il dramma della nostra epoca è la separazione tra vangelo e cultura come faceva osservare Paolo VI già 20 anni fa (EN 20)? In che modo è possibile ricostruire un ponte necessario che permetta un rinnovato dialogo tra la fede e il nostro contemporaneo? Un'espressione estremamente significativa la ripropone lo stesso Paolo VI: “L'uomo di oggi ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni” (EN 41); in una parola, è sullo stile di vita su cui si deve puntare per riannodare il dialogo con la cultura. Non è un caso, allora, che una delle aspettative fondamentali che sono verificabili oggi, proprio nell'ambito giovanile, sia la richiesta di coerenza nei comportamenti.
Cosa vuol dire essere testimoni ? Il significato ultimo è racchiuso nel senso originario del termine. Il testimone è µ??t?? e la testimonianza coerente giunge fino alla µa?t???a. Con la testimonianza si è davanti ad uno dei concetti basilari del cristianesimo e della fede cristiana; essa rappresenta la forma che ha saputo dare valore alla persona costituendola come tale: essenza di relazioni e apertura alla verità, capace di avere una passione per la verità e in grado di raggiungerla. La testimonianza è una tra le più alte e qualificate forme del linguaggio personale. Con essa, infatti, ognuno conosce entrando in rapporto interpersonale con un altro soggetto. A differenza di altre forme conoscitive, il modo di rapportarsi della testimonianza impegna il soggetto in ciò che egli ha di più personale: la sua credibilità. Un'analisi della testimonianza permette facilmente di ricomporre questa categoria intorno ad alcuni elementi costitutivi: il fatto stesso del dover testimoniare, il contenuto della conoscenza che si riferisce e la persona che accoglie la testimonianza. Ciò che si viene a creare, in questo caso, è una relazione interpersonale che in forza del contenuto testimoniato, permette la conoscenza tra due persone. Dando testimonianza, insomma, ognuno compie un atto mediante il quale permette la conoscenza di ciò che è stato oggetto di esperienza. Dire esperienza, equivale a riconoscere anzitutto l'incontro con una persona; poi, il nostro interrogarci e giungere ad una modifica della nostra conoscenza precedente; inoltre, avere consapevolezza del proprio limite e scoprire la presenza dell'altro, espressioni che vengono a ritrovarsi insieme in un tutt'uno inseparabile, in cui spesso è difficile poter individuare i confini tra l'uno e l'altro.
La relazionalità che si raggiunge nella testimonianza appartiene alla sfera più profonda della conoscenza interpersonale perché, sul terreno del contenuto testimoniato, due persone permettono la conoscenza del proprio essere. Il testimone, infatti, a seconda della fedeltà del suo esprimersi rivela e permette all'altro la conoscenza della veracità – o falsità – del proprio essere; il recettore, da parte sua, giudicando il grado di sincerità del testimone, esprime la capacità d'uscire da se stesso per fidarsi dell'altro. Rischio tra i più alti della sfera personale, perché impone ad ognuno di immettersi in un sentiero di relazionalità che condiziona inevitabilmente l'esistenza personale. Nell'uno come nell'altro caso, la forma di conoscenza che si attua è da inscrivere nell'orizzonte della partecipazione all'intimità di una persona; in una parola, la testimonianza si qualifica come l'unica vera conoscenza che raggiunge i gradi più alti della comunicazione interpersonale.
La testimonianza, come si vede, non può essere relegata ad una semplice comunicazione di fatti; essa diventa, al contrario, impegno definitivo – a volte fino alla morte – con il quale ognuno pretende di essere accolto come veritiero. Con questa categoria, insomma, ognuno dispone di se stesso con un atto tra i più espliciti ed estremi di libertà: la capacità di conoscere l'intimo e la radicalità dell'essere personale in ciò che ha di più prezioso: la propria credibilità. Come dice il significato tedesco: zeugnis si traduce “testimone”, ma zeugen indica anche “generare”; insomma, il vero testimone genera e crea!
Non si può dimenticare, comunque, l'orizzonte nel quale questa testimonianza è inserita: l' università . Lo spazio indica da solo, il contesto e le modalità di attuazione. Il contesto, anzitutto, ci comunica l'ansia di cultura e il luogo in cui essa si produce. Ma non esiste cultura senza un riferimento all'uomo e alla dignità della sua esistenza. Dimenticare questo referente equivale a perdere di vista l'orizzonte significativo della cultura stessa. Senza questo obiettivo, si farà tutto fuorché “cultura”; forse, ci sarà anche progresso, ma destinato a durare un attimo, senza possedere in sé le note della continuità. Perché la cultura sia tale deve potersi coniugare con la vita e questo è fattibile solo nella misura in cui si umanizza l'esistenza in vista di un senso definitivo. L'incidenza nella cultura può avvenire solo nella misura in cui noi saremo capaci a saper progettare il futuro e raccogliere le sfide che esso pone; fermarsi a ciò che è già stato raggiunto potrà soddisfare, ma non potrà essere la condizione favorevole per creare cultura, che richiede la capacità di coniugare il passato con la novità del futuro.
Nei prossimi anni saremo sempre più chiamati a focalizzare lo sguardo su un progetto che ci tocca da vicino come credenti, e dovremo essere capaci di porre le premesse perché ciò che è frutto della nostra tradizione sia partecipato a chi non riesce a percepire in profondità il tesoro della nostra cultura. Noi portiamo nei nostri progetti una tradizione di 2000 anni di storia che ha inciso profondamente nella storia dell'umanità e che nessuno può pensare di cancellare senza distruggere il senso di umanità che il mondo ha raggiunto pretendendo che fosse un suo prodotto.
L'università indica inoltre, da questa prospettiva, che i confini sono spezzati. Per sua natura e definizione università dice universalità. Noi sappiamo cosa significhi universalità perché siamo appunto “cattolici” cioè universali, persone che non sono più relegate negli stretti confini delle lingue, delle nazioni, delle culture o delle ideologie; il nostro linguaggio è universale perché portiamo con noi un contenuto che è stato dato per tutta l'umanità. Con ragione scriveva l'autore della Lettera a Diogneto alla fine del I secolo: “I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Non abitano, infatti, città particolari, né usano di qualche strano linguaggio. Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, a detta di tutti, incredibile... abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività da buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per loro terra straniera... obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono superiori alle leggi stesse... in una parola, i cristiani sono nel mondo quello che l'anima è per il corpo”.
L'aver compreso il messaggio cristiano implica, dunque, l'essere diventato universale; capace, quindi, di superare spazio e tempo perché portatori di un messaggio che tocca l'uomo nella sua essenza e questi non ha patria. Oggi, siamo portatori anzitutto di una cultura di vita . E nessuno sia banale nel pensare che il nostro discorso si fermi alla sola sfera dell'interruzione di gravidanza. Cultura di vita è un progetto globale, ampio che sa riconoscere il valore dell'esistenza in ogni momento e nei confronti di ognuno – basti pensare alla ricchezza contenuta in Evangelium vitae; certo, questo senso diventa più forte quando la vita è innocente e indifesa, e ognuno di noi sa quante sono le vite innocenti e indifese che a tutti i livelli è possibile riconoscere oggi in questa nostra città, microcosmo e specchio del mondo. In questo orizzonte, si pone la proposta cristiana. Noi non siamo persone che fanno della vita una teoria; essendo nati da una testimonianza di vita noi facciamo della vita una concretezza: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile) noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza, questo lo annunciamo anche a voi” (1 Gv 1, 1–3).
Siamo testimoni e produttori di una cultura di libertà perché puntiamo all'essenziale e non ci fermiamo all'effimero né al frammentario; la libertà di cui parliamo, però, è una conquista che si raggiunge nella fatica di approdare al vero. Ben ne abbiamo coscienza oggi dove nell'orizzonte delle scienze tutto sembra muoversi solo nell'arco dell'ermeneutica come luogo originario e referente della verità. Ma la dimensione veritativa ha spazi ben più ampi; senza una riflessione che sappia coniugare l'aspirazione metafisica e l'intuizione biblica, nessuna ermeneutica potrà garantire il raggiungimento della verità che vada oltre lo spazio del proprio giudizio soggettivo. La libertà di cui parliamo è quella che consente all'uomo di trovare il suo giusto perimetro, aiutando a difenderlo e promuoverlo. Non è ponendo Dio in antitesi o in competizione con l'uomo che si difende l'uomo. Il suo essere protagonista significa recuperare lo spazio che ci è stato affidato nel giardino dell'Eden; esso è accanto all'albero della vita e della conoscenza del bene e del male. Nessuna forma di progresso scientifico potrà disturbarci; ciò di cui dobbiamo farci carico – come ormai da anni ripete con spirito profetico il vescovo di Roma il papa Giovanni Paolo II – è l'uso della scoperta e il saper porle un limite almeno in forza dei principi etici.
Alcuni autori sembrano godere chissà quale vittoria nel dover esprimere la condizione attuale come quella di una società post-cristiana. Nessuno di noi cada nella trappola di un linguaggio che vuole essere adottato solo in forza di un'imposizione estrinseca e mediale. Finché ci sarà un cristiano non si sarà nessuna società postcristiana e, in ogni caso, non saremo noi a pronunciare il de profundis sulla nostra fede e sulla sua presenza nel mondo. Ci si rimprovera di voler riportare il mondo al Medioevo. Quanto spesso l'ignoranza non conosca limiti è facile dimostrarlo. Se c'è un periodo di ricchezza culturale che ha visto il nascere delle università, se c'è un periodo che ha conosciuto l'allargamento dei confini e il rapporto fraterno tra i popoli, questo è stato proprio il medioevo. Almeno ci fosse un rinnovato medioevo! Ne guadagnerebbe in profondità il pensiero, la cultura e una umanizzazione dell'esistenza personale e sociale.
Noi possiamo costruire una cultura di speranza. Spesso il nostro dialogo se non può esprimersi con i contenuti della fede potrebbe evolversi su quello della speranza. Per noi, essa è sinonimo di fede, ma per chi è lontano o indifferente la “speranza” può segnare un punto di contatto favorevole. Essa ci spinge a saper guardare al futuro con la certezza che sarà carico della promessa di un “cielo nuovo e di una terra nuova” in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Non è un caso che nella letteratura contemporanea sia stato proprio Ignazio Silone a sottolineare questa componente. Nel suo romanzo autobiografico – Severina – le ultime parole che vengono pronunciate sono: “Non credo ma spero”. E di quanto forte sia il senso di speranza oggi, ognuno di noi può farsene carico già pensando a cosa sarà il domani, fuori da queste mura, in cui i sogni ancora hanno spazio, ma dovranno cedere il passo alla responsabilità dei compiti e del lavoro a cui saremo chiamati.
E' interessante che uno come Ayrton Senna portasse nella sua “ventiquattrore” la Bibbia e il passo che era stato da lui sottolineato – frutto di una lettura attenta della Scrittura – fosse: “Anche i giovani faticano e si stancano, ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi e camminano senza stancarsi” (Is 40, 31).
In un periodo in cui domina il soggettivismo noi prospettiamo, infine, una cultura che si esprime nella dimensione comunitaria. Il soggettivismo – inutile negarlo – ha portato ad una cultura del sospetto e alla distruzione di ogni forma di vivere interpersonale; ne è venuto meno, per primo, ogni senso e capacità di amore. E non si pensi che i cristiani parlano dell'amore come fosse un surrogato dell'esistenza o come un capriccio che cambia col nascere delle stagioni e tramonta con esse. Noi parliamo e viviamo in un amore originario, che ha conosciuto l'esistenza personale perché rivelato. Il nostro esprimere l'amore è capacità di andare verso l'altro solo ed esclusivamente perché amare, per noi, è donazione totale, gratuita, in quanto lo abbiamo sperimentato in prima persona. Il nostro amare è in forza della certezza della risurrezione. Noi non teorizziamo la sofferenza né l'apatia davanti a essa né tanto meno una forma di rassegnazione. Se le parole dell'apostolo hanno un senso: “Né morte né vita né angeli, niente e nessuno potranno mai separarci dall'amore”! E' in forza della risurrezione che noi portiamo nel mondo una testimonianza di vittoria sul male, sulla malattia e sulla morte; purché tutto questo avvenga nell'alveo di un rispetto della dignità della persona, scevri da forme di sensazionalismo che eccita ma non appaga, lontani da ogni forma di mistificazione che inganna perché illude. Il realismo della fede obbliga a vedere la concretezza del nostro amore che sa dare certezze che nessuno può garantire se non Colui che per primo ci ha amati.
Da queste provocazioni, si può allora concludere: non è affatto vero che la fede inizia dove termina la ragione. Non è giustificato l'auspicarsi una ragione debole per far emergere le ragioni della fede. La fede non ha mai avuto timore di una ragione forte, per la costituzione di una ragione che si aprisse agli spazi del trascendente. Per ognuno di noi, comunque, soprattutto quando il testimoniare diventa difficile, potrebbe valere l'indicazione seguente: quando non puoi parlare di Dio al fratello allora parla a Dio del tuo fratello. La preghiera per noi non è un optional , è, invece, la forma che plasma l'esistenza avendo scoperto la forza di saper chiudere la porta della nostra stanza e parlare con Dio nel segreto del cuore. “E Dio, che conosce il segreto del cuore, ti ascolterà” (Mt 6, 6).
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