Il testo riproduce integralmente la conferenza che S.E. mons. Fisichella ha pronunciato il 3 maggio 2006 in occasione dell’incontro degli Insegnanti Cattolici del Lazio presso l’Auditorium dell’Università Cattolica. Il testo è apparso su Religione Scuola Città. Rivista per la scuola della Diocesi di Roma, 2/2006, pagg.71-78.
Il Centro culturale Gli scritti (13/09/2006)
«Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in
cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà,
tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono
mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi
in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere
nel Signore nostro Gesù… Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla
perché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore
Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio. Ecco, ora so che non
vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di
Dio. Per questo io dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a
coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta
la volontà di Dio… Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci,
che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare
dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando
che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare tra le lacrime ciascuno di voi.
E ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di
concedere l’eredità per tutti i santificati… Detto questo, si
inginocchiò con tutti loro e pregò…» (At20,17-38).
Non è senza significato che poniamo questa nostra riflessione alla luce del testamento
di Paolo. Il tema della cultura e del valore della tradizione tocca diverse problematiche
connesse che, comunque, si condensano intorno ad un aspetto del tutto peculiare: come si
può trasmettere la fede oggi e permettere che questo processo sia
inserito nella cultura e produca cultura?
Paradosso quasi insormontabile. Siamo chiamati a guardare al futuro e verificare come incidere
nel presente della Chiesa e mi introduco con un testamento di un apostolo ormai anziano, sul
punto di donare la propria vita con il martirio che strappa lacrime ai suoi uditori
perché dice loro che non lo vedranno più! Tutto questo, tuttavia, ha un suo
senso. Trasmettere la fede non è un passatempo per teologi chiamati a intrattenere il
pubblico; è un impegno di chi ha compreso seriamente il proprio battesimo. E nessuno
potrà mai dimenticare che prima di trasmettere un contenuto si deve considerare
l’atto con il quale si trasmette. Questo è il primo punto decisivo con
il quale ci introduciamo.
È sufficiente riprendere tra le mani il testamento di Paolo per verificare subito
che, stranamente, non parla di ciò che egli ha trasmesso – come ha fatto,
ad esempio in altri due casi parlando dell’eucaristia (1Cor11) e della risurrezione del
Signore (1Cor15) – ma di come egli si è comportato da apostolo e da
maestro della fede. Tutti i verbi che san Paolo usa indicano un’azione concreta, uno
stato d’animo, una decisione di vita e un impegno che egli si è assunto:
«come mi sono comportato», «ho servito», «non mi sono mai
sottratto», «predicare», «istruire», «condurre a
termine», «rendere testimonianza», «dichiarare»,
«affidare», «pregare»…; la prima impressione che si ricava
è quella dell’apostolo che nel momento in cui sa che sta trasmettendo sta
consegnando se stesso e la sua vita.
L’atto del trasmettere è, quindi, un atto mediante il quale ci si
consegna. Non si consegna primariamente un contenuto; si consegna se stessi e tutto
ciò che si è. Questo è l’impegno della fede che si raccoglie
proprio nella indissolubilità di un credere come un atto con il quale ci si abbandona
alla grazia di Dio che agisce in noi e mediante il quale si accoglie il Vangelo di Gesù
Cristo.
Trasmettere è un atto complesso, ma nello stesso semplice. È complesso
perché composto di una serie di fatti che lo compongono e accompagnano; nello stesso
tempo, è di una semplicità disarmante, perché richiama alla forma
più fondamentale e originaria che ognuno di noi possiede, quella di esercitare la
propria libertà. Trasmettere è davvero un atto di libertà
con il quale si offre la propria vita come garanzia di verità e di senso. Se per tutta
la vita dovessi rincorrere un’ipotesi senza mai arrivare a mostrare la sua
affidabilità, sarebbe difficile poter comprendere che la si lascia come
eredità. La vita richiede il rischio della libertà che sa accogliere la sfida
della verità ultima sulla propria esistenza come risposta definitiva alla domanda di
senso.
«Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano» – scriveva Giovanni
Paolo II nella Fides et ratio – ed è vero. Deve venire il
momento in cui, in forza della libertà che opera in noi e che realizza la
personalità di ognuno, si sceglie di affidare la propria vita a una verità che si
coglie come dono e offerta piena di senso. Questo sì è il momento in cui
si può anche scrivere un testamento, descrivendo il cammino di una vita che merita di
essere trasmessa perché ha portato significato all’intera esistenza personale.
Queste considerazioni, comunque, devono avere un loro fondamento, non
possono essere solamente una riflessione del teologo a commento di un passo biblico. E la
verità profonda di questo ragionamento proviene da ciò che costituisce il mistero
della nostra fede: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, viene offerto dal Padre
all’umanità per esprimere la sua presenza perenne nel mondo. La prima vera
trasmissione è l’atto con il quale il Padre dona se stesso nel proprio Figlio.
È una generazione che non conosce tramonto, perché permane come
l’espressione massima dell’amore che sa donare senza nulla chiedere in cambio.
Gesù Cristo, nelle parole di Giovanni all’inizio del suo vangelo, viene proprio
presentato come il Verbo che è nel «grembo del Padre», cioè
l’Unigenito, colui che è l’unico amato e che in questo amore, unico e
immutabile perché eterno, egli genera continuamente come espressione culminante del suo
amore. «Nessuno ha mai visto il Padre, l’Unigenito che è Dio nel grembo del
Padre, lui lo ha rivelato e interpretato» (Gv 1,18): un amore, quindi, che si dona e
offre nel generare, nel trasmettere se stesso. E l’evangelista è ancora più
esplicito, quando afferma: «Dio ha così amato il mondo da consegnare il suo unico
Figlio» (Gv 3,16).
La trasmissione entra nella storia e non rimane una pura teoria sulla vita di Dio in se
stesso; qui, al contrario, viene esplicitato il modo della consegna e ci viene detto che
è un donare tutto quanto egli possiede ed è: l’amore che si consuma e
offre fino alla fine senza nulla chiedere in cambio perché nessuno potrebbe
corrispondere pienamente all’amore di Dio. L’enciclica di Benedetto XVI acquista in
questo orizzonte tutto il suo valore programmatico non solo per la vita di fede, ma soprattutto
per l’impegno culturale che immette quando chiede di far diventare l’amore stile di
vita e contenuto proprio dell’esistenza credente. Per ritornare allo specifico del nostro
tema, comunque, l’atto della trasmissione e della consegna del Figlio da parte del Padre
è un atto che dice semplicemente amore.
E la cosa diventa ancora più impressionante nel momento in cui il Figlio stesso
è chiamato alla consegna suprema. Prima di consegnare e trasmettere qualcosa, egli
consegna se stesso al Padre in un atto che dice puro amore di obbedienza alla sua
volontà. È sempre l’evangelista Giovanni che coglie immediatamente la
portata di questo fatto quando sottolinea che nel momento della sua morte Gesù
«tradidit Spiritum» (Gv 19,30): consegna lo Spirito. Lo fa anzitutto in
riferimento al Padre portando così a compimento quella visibilità
dell’amore nella storia dell’umanità che si fa concreto e visibile nella
morte stessa assunta come forma di amore. Lo fa nei confronti della sua Chiesa e di quanti
crederanno in lui, a cui consegna lo Spirito come presenza visibile e creatrice di un cammino
che attraverserà i tempi e i mondi per restituire poi al Padre il popolo dei redenti. Da
ogni parte volgiamo lo sguardo, permane questa condizione che ci assorbe e ci avvolge
completamente.
Trasmettere è un atto fecondo che si fa forte della presenza del creator
Spiritus. Domandiamoci: perché la Chiesa sente l’esigenza nei momenti
più delicati della sua vita, e soprattutto quando deve chiedere la coerente comprensione
della fede da trasmettere e spiegare in diversi momenti e a popoli differenti, di invocare il
creator Spiritus che visiti la mente dei credenti? Il digitus paternae dexterae
che tocca Adamo è segno di vita che viene creata dalla presenza di Dio e che costituisce
la sintesi di ogni vera condizione dell’uomo e del suo rapporto con Dio. La
dignità della persona sta tutta qua, nell’essere toccata dallo Spirito che crea e
per questo forma in ognuno la somiglianza e l’immagine con il creatore. A partire da qui
si trasmette la forza che permette – nonostante la disobbedienza del peccato – di
riportare al nuovo Adamo che trasmette vita nuova.
Dobbiamo considerare, da ultimo, l’espressione storica permanente del trasmettere da
parte di Gesù. Egli lo fa con i suoi discepoli nell’ultima cena, offrendo ancora
una volta se stesso. Il pane e il vino sono segno che rinviano a colui che in essi è
rappresentato e significato. Il Crocifisso e Risorto rimane veramente presente nel segno del
pane e del vivo perché lui così ha voluto imprimere nella storia il dono totale
di sé. Dove c’è vera tradizione, là vi è una
fecondità di vita che non termina e alla quale non si può rinunciare. Se
vogliamo seguire l’evangelista Giovanni anche in questo caso, allora dobbiamo comprendere
il cammino che ci invita a fare. Lui non racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma
ci lascia il testamento del Signore. I discorsi di addio di Gesù (Gv13-17) non sono
altro che l’atto della trasmissione di sé; anche qui troviamo i punti salienti
della sua esistenza: il servizio che si esprime nel lavare i piedi (13,1-15), l’amore al
più lontano che si manifesta nell’atto di donare a Giuda il boccone prelibato del
banchetto (13,26-30), la reciprocità dell’amore tra i fratelli come segno concreto
della sua presenza in mezzo a noi (13,34-35.14,14-21), l’invito a non disperderci, ma a
«rimanere in lui» in un’unità profonda e radicale come quella dei
tralci alla vite (15,1-7), il cammino verso la verità intera su di lui e su di noi che
sarà data per la presenza dello Spirito (16,13) e la sua preghiera come protezione
perenne per quanti saranno nel mondo a rendere testimonianza alla sua verità (17,1-26).
L’eucaristia è insieme atto e contenuto con il quale Cristo trasmette se stesso
alla sua Chiesa. A noi viene dato così il pegno di ciò che sarà la nostra
vita e l’impegno perché quotidianamente ci apriamo al suo amore.
Sarei poco realista se pensassi che questo atto di trasmettere non fosse
segnato anche dal pericolo del tradire. Non è un caso che proprio all’atto
di Gesù di consegnare se stesso sia presente, come un’ombra opprimente, la
consegna che Giuda fa del Maestro. Vendendo al sinedrio Gesù, egli sembra non
voler compiere un opera di trasmissione al futuro, ma intende relegare nel passato della
legge ciò che costituisce la storia, senza comprendere l’originalità e la
novità dell’amore. In ogni trasmissione che la Chiesa e il credente compiono
vi è sempre all’erta il pericolo del tradimento. Quante volte, forse senza neppure
accorgersene, lo «Spirito è tradito e consegnato alla lettera» (H.U. von
Balthasar). Ciò avviene ogni qual volta l’amore di Dio viene svuotato del suo
mistero e ridotto a pura logica; così come quando la radicalità del suo vangelo
viene annacquata per permettere di condurre una vita più tranquilla e maggiormente
comoda, illudendo di poter tenere insieme la volontà di Dio e i propri progetti.
Ciò che Dio compie e trasmette non potrà mai essere un reperto archeologico, non
potrà mai essere rinchiuso nel passato. Il suo testamento è di oggi
perché fino ad oggi, ancora oggi egli si consegna con un atto unico e supremo che non
è mai ripetitivo, ma sempre originario; l’amore non può mai essere monotono
perché diventa asfittico, privo di vitalità e incapace di generare. Sorgono
inevitabili, a questo punto, delle questioni che concernono più direttamente
l’ambito del processo culturale: quale linguaggio è possibile assumere per
trasmettere? Il linguaggio assunto che deve trovare corrispondenza dell’interlocutore
è capace di contenere in sé la verità da trasmettere? In che modo lo stile
di vita dei credenti è capace di essere veicolo di trasmissione? Forse, in tutta questa
serie di domande permane forte il rimprovero di Gesù: «Siete veramente abili
nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione… annullando
la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc7,9.13).
Quanto abbiamo cercato di dire finora ci riporta a uno dei temi centrali
della nostra riflessione: la persona. È necessario che si riparta dal valore e dal senso
della persona per ricostruire un tessuto culturale lacerato da opinioni che non riescono a
cogliere la profondità del mistero contenuto. La memoria di ciò che
«persona» significa deve riprendere posto nelle nostre lezioni, catechesi e gli
strumenti propri che la Chiesa possiede, non per vanagloria né per trionfalismo alcuno,
ma solo ed esclusivamente per permettere un salto qualitativo nell’attuale momento di
passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo determinante che
l’occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l’originalità del
concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si
può rileggere la storia del progresso e della maturazione civile, culturale, sociale e
politica.
Fino al IV secolo, il termine è soggetto a una lunga discussione sul suo significato
più coerente. Nell’accezione latina – che risentiva dell’origine
etrusca – il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica infatti
la maschera che copriva il volto dell’attore. Nella semantica greca, il termine
pròsopon indica ugualmente la maschera teatrale, ma insieme ad esso anche
«ciò che cade sotto gli occhi», «ciò che si vede».
La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole esplicitare la fede nella
Trinità e la presenza di tre persone con un’unica natura; alla stessa stregua, i
primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di Gesù Cristo, il fatto che la sola
persona divina era presente nella natura umana e in quella divina. Si deve alla grande
intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino ai nostri
giorni. Egli ha saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la persona
è se stessa nella relazione con l’altro.
Saranno i concili, in seguito a stabilire dogmaticamente l’esattezza della formula;
ciò che importa, comunque, è verificare che sulla base della chiarificazione
trinitaria e cristologia del concetto si viene a produrre una delle conquiste più
rivoluzionarie della cultura universale. Persona è un’identità propria che
si qualifica nella sua relazione con l’altro. Per cogliere in profondità il
valore semantico, è necessario comprendere la sua derivazione dalla sfera della fede
nella Trinità. Nell’unità della natura divina, che non è divisa, ma
partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e differenziano come Padre, Figlio e
Spirito Santo; ognuna delle tre persone vive solo in relazione con l’altra in una forma
di donazione e accoglienza totale che permette loro di essere identificate come Padre che tutto
dona, Figlio che tutto riceve e Spirito Santo come Frutto del tutto dare e del tutto ricevere.
La persona, insomma, si qualifica per la relazione d’amore che le permette di essere
ciò che è.
È alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della
persona nel mondo contemporaneo e lo sviluppo che essa ha avuto nelle diverse istanze
scientifiche. Dal concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua
dignità e del suo valore universale e, quindi, l’attenzione che è dovuta ad
ogni persona, a tutta la persona e al bene di tutte le persone. Non è azzardato
affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua
dignità è determinante che essa rimanga legata a Dio che ne garantisce
l’esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si
dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella
misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia
ultima.
La conseguenza inevitabile che sembra proiettarsi all’orizzonte è quella di
un’ulteriore Wende; questa svolta, tuttavia, non pone più al
centro l’uomo, ridotto ormai a un ruolo marginale nei confronti della stessa natura, ma
la tecnica. Se, d’altronde, la tecnica è in grado di determinare
l’esistenza personale fin dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di
porre limiti alla sperimentazione sulla cellula umana scavalcando le stesse regole che si era
data in precedenza, allora non si potrà evitare il verificarsi delle logiche
conseguenze. L’uomo, sulla scena del teatro di questo mondo, non potrà più
giocare il ruolo di protagonista a cui si era abituato per secoli, ma deve necessariamente
lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la sua stessa esistenza.
Si riaffaccia sulla scena del mondo la tetra figura di Medea che uccide i suoi figli
(O.Fallaci); è proprio così, la tecnica creata dall’uomo per rendere
più umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l’uomo stesso quasi si
trattasse di un nuovo e mai mutato complesso di Edipo. È ormai condivisa l’analisi
secondo la quale il nostro contemporaneo ha talmente delegato la tecnica a produrgli ogni cosa,
da non comprendere più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha
assunto il ruolo di domina non solo della natura, ma anche dell’uomo riducendolo a
un oggetto della sua sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni.
Se cresce la tecnica, ma non aumenta di conseguenza anche l’orizzonte
spirituale dell’uomo e la persona non permane in una dinamica di maturazione verso
la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò che possediamo come di più
prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e dell’apertura infinita verso
cui si è indirizzati. Condizione mortale, perché in questo modo non solo
cessa il vero progresso, ma l’uomo stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non ha
più uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso
quell’orizzonte di senso ultimo che dà risposta alle sue domande fondamentali.
Per paradossale che possa sembrare, la tecnica allontana anche ogni domanda sul limite,
illudendo di una eternità che non può essere data dalla produzione
dell’uomo. Si dovrà guardare con occhio vigile a come il pensiero maturato in
Europa si porrà nel prossimo futuro nei confronti della sofferenza e della morte. Le
tesi di M.Heidegger, solo per fare un esempio, diventeranno archeologia filosofica; la morte
non sarà più l’ultimo baluardo da affrontare nella libertà propria
della decisione di vita, ma un evento da scongiurare per l’illusione
dell’immortalità. La morte non sarà più interpretata come un
accadimento naturale e inevitabile della vita, piuttosto una sciagura da evitare come qualsiasi
altra malattia. Come si porrà l’uomo davanti alla morte dopo l’illusione
della tecnica di allontanarla per sempre da lui? Con la dignità propria della
libertà cosciente o come una stupida conclusione che non si è potuto evitare? E
se la vita sarà più o meno indefinita, ci sarà ancora qualcuno disposto a
offrire la propria vita per gli altri? Le biotecnologie favoriranno un attaccamento alla vita
oppure la renderanno insopportabile? Interrogativi non affatto ovvi e tanto meno inattuali;
saranno sul tappeto nello sviluppo del pensiero a partire già da domani e provocheranno
la fede dei credenti.
La crisi di identità che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti. Tolto il
concetto di persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade
nell’arroganza del più forte. Ne deriva la pretesa di imporre il diritto
individuale su quello sociale e la conseguente distruzione di modelli sui quali
l’occidente è fondato. Imporre l’esistenza del diritto individuale porta a
imprimere nella società la volontà degli individui, spezzando in questo modo il
concetto stesso di persona come relazione. Contraddizione insanabile, frutto
dell’individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni possibile tensione verso il
bene comune.
La prima conseguenza di questo stato di crisi è la solitudine in cui
è caduto l’uomo contemporaneo. Privo di una relazione salda che gli consente di
comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso; incapace di collocarsi e
di comprendersi, tende a rinchiudersi in se stesso con la conseguente mancanza di amore e
donazione gratuita. I rapporti diventano soggetti all’interesse individuale e la violenza
dell’uno sull’altro ha la meglio.
In questo contesto è necessario porre anche la crisi del matrimonio e della
famiglia. Colto dalla paura di una incapacità stabile alla relazionalità e
all’amore, si apre la strada a modelli che contraddicono e distruggono ogni relazione
sociale. Il tentativo di minare alla base anche lo stesso concetto di matrimonio monogamico e
tra persone di sesso diverso non è che uno degli ultimi bastioni che una cultura in
crisi intende abbattere per l’imposizione di un progetto, estraneo al mondo, alla natura
e alla stessa cultura che ha il solo intento di eliminare l’uomo.
Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo
sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce
in un processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa
di cui i credenti anzitutto dovrebbero farsi carico. La tradizione per noi non significa
soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene,
indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una viva trasmissione della fede che ispira e
genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la memoria perenne
dell’evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e, all’interno di questo
momento, ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione evangelizzatrice della
Chiesa. Ogni azione credente, infatti, anche quella sociale, politica e culturale porta con
sé la peculiarità di essere annuncio del vangelo che salva. Il recupero del senso
della tradizione e del suo valore per il futuro è una strada da percorrere. Essa non
è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e un recupero di
spessore speculativo, ma soprattutto un atto con il quale si prende coscienza della sua
validità e una decisione di riproporla come carica di senso per il futuro.
Giungiamo, così, al termine della nostra riflessione considerando la
fede che deve essere trasmessa. È ancora papa Benedetto che ci ricordava a Köln:
«Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di lui. Una grande gioia non si
può tenere per sé. Bisogna trasmetterla» (Omelia del 21 agosto 2006).
Vorrei solo lasciare quasi a commento di queste parole, due testi in proposito che
risalgono entrambi a s.Agostino, mediante i quali possiamo cogliere un insegnamento
più profondo e attuale per la nostra stessa opera di trasmissione. Non entrerò
nelle tecniche o nei particolari di come trasmettere; quanto ho detto all’inizio è
lo scenario significativo che consente di cogliere il mio pensiero in proposito e ha già
in sé – per chi vuole coglierle – le concrete applicazioni. Ciò che a
me preme maggiormente è consegnare strumenti di riflessione perché la vostra
intelligenza si provocata e la vostra libertà trovi esplicitazione concreta.
Il primo testo presenta un fatto interessante: l’obbligo di imparare a memoria
il credo. A più riprese, il santo vescovo sollecita i catecumeni a imparare a
memoria il simbolo, spiegando loro il significato della sua consegna (traditio) e della
sua riconsegna (redditio): «Ecco dunque: vi ho proposto questo breve discorso su
tutto il simbolo, come vi dovevo. Mentre il simbolo lo udrete tutto di seguito, vi ritroverete
tutto quanto è stato brevemente sintetizzato in questo discorso. Le parole del simbolo
non dovete assolutamente scriverle per impararle a memoria, ma dovete mettervele in testa solo
ascoltando; e neanche scriverle dopo che le avrete imparate, ma dovete conservarle sempre nella
memoria e così riportarle alla mente. D’altronde tutto ciò che ora
sentirete nel simbolo è contenuto nei testi divini delle Sacre Scritture e tutto vi
capita di ascoltarlo, or qua or là, secondo l’opportunità. Ma quel che,
raccolto così e redatto in una forma particolare, non è consentito scrivere,
richiama alla mente quella promessa di Dio quando, annunciando per mezzo del profeta la nuova
alleanza, disse: “Questa è l’alleanza che io concluderò con loro dopo
quei giorni, dice il Signore: porrò la mia legge nel loro animo e la scriverò nel
loro cuore”. Per realizzare questa cosa, quando si sente il simbolo, lo si deve scrivere
non su tavolette o su qualunque altra materia, ma nei cuori. Ed egli che vi ha chiamati al suo
regno e alla sua gloria, quando sarete stati rigenerati con la sua grazia, vi concederà
che sia scritto nei vostri cuori anche per mezzo dello Spirito Santo, perché possiate
amare quello che credete e la fede operi in voi per mezzo della carità, e così
possiate piacere al Signore Dio dispensatore di ogni bene non come servi che temono la pena, ma
come uomini liberi che amano la giustizia. Ed ecco ora il Simbolo che, già catecumeni,
vi è stato istillato per mezzo delle Scritture e dei discorsi della Chiesa, ma che dai
fedeli deve essere confessato e professato sotto questa breve formula»[1].
Nell’unico testo che possediamo sulla redditio, il vescovo di Ippona introduce
così il suo discorso ai catecumeni nella V domenica di quaresima: «Il simbolo del
santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le
parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento
stabile che è Cristo Signore. Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel
cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle
piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in
esso con il cuore»[2].
Queste ultime espressioni fanno comprendere un ulteriore elemento della prassi primitiva: il
credo non veniva recitato in primo luogo durante l’eucaristia, ma nella preghiera
quotidiana. Non è un dato importante per noi oggi? Recitare ogni giorno il credo in
cui sono stato battezzato; recarmi sulla tomba di Pietro e fare lì la mia rinnovata
professione di fede come lui la fede davanti al martirio… allora sì che la
domenica risulterà più comprensibile professare insieme a tutta la Chiesa la
stessa, unica fede.
Un ultimo tratto emerge dagli scritti di s.Agostino ed è la professione
pubblica della fede; nessuno di noi cada nella trappola che siamo uomini privati nei nostri
impegni e privati in chiesa la domenica. Il cristiano è sempre, per sua stesa
natura, un uomo pubblico e attesta pubblicamente chi è. Nelle Confessioni un
brano attira la nostra attenzione in proposito. Agostino racconta delle sue frequentazioni con
Simpliciano, durante il periodo milanese, a cui aveva confidato delle sue letture dei filosofi
platonici tradotte dal retore Vittorino. Alla gioia di Simpliciano per questa notizia, si
aggiunse una confidenza: la conversione del grande retore. «Evocò i suoi ricordi
di Vittorino da lui conosciuto intimamente durante il suo soggiorno a Roma. Quanto mi
narrò dell’amico non tacerò, poiché offre l’occasione di
rendere grande lode alla tua grazia. Quel vecchio possedeva vasta dottrina ed esperienza di
tutte le discipline liberali, aveva letto e ponderato un numero straordinario di filosofi, era
stato maestro di moltissimi nobili senatori; così meritò e ottenne, per lo
splendore del suo altissimo insegnamento, un onore ritenuto insigne dai cittadini di questo
mondo: una statua nel Foro romano. Fino a quell’età aveva venerato gli idoli e
partecipato ai sacrifici sacrileghi, da cui la nobiltà romana di allora quasi tutta
invasata, delirava per la dea del popolino di Pelusio e per mostri divini di ogni genere e per
Anubi l’abbaiatore, i quali un giorno contro Nettuno e Venere e Minerva presero le
armi. Roma supplicava ora questi dèi dopo averli vinti, e il vecchio Vittorino li aveva
difesi per lunghi anni con eloquenza terrificante. Eppure non arrossì di farsi garzone
del tuo Cristo e infante alla tua fonte, di sottoporre il collo al giogo
dell’umiltà, di chinare la fronte al disonore della croce… A detta di
Simpliciano, leggeva la Sacra Scrittura, e tutti i testi cristiani ricercava con la massima
diligenza e studiava. Diceva a Simpliciano, non in pubblico, ma in gran segreto e
confidenzialmente: “Devi sapere che sono ormai cristiano”. L’altro replicava:
“Non lo crederò né ti considererò nel numero dei cristiani
finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo”. Egli chiedeva sorridendo:
“Sono dunque i muri a fare i cristiani?”. E lo affermava sovente, di essere ormai
cristiano, e Simpliciano replicava sempre a quel modo, ed egli sempre ripeteva quel suo motto
sui muri della chiesa… Perso il rispetto verso il suo errore, e preso da rossore verso
la verità, all’improvviso e di sorpresa, come narrava Simpliciano, disse
all’amico: “Andiamo in chiesa, voglio divenire cristiano”. Simpliciano,
che non capiva più in sé per la gioia, ve lo accompagnò senz’altro.
Là ricevette i primi rudimenti dei sacri misteri; non molto dopo diede anche il suo nome
per ottenere la rigenerazione del battesimo, tra lo stupore di Roma e il gaudio della Chiesa.
Se i superbi s’irritavano a quella vista, digrignavano i denti e si maceravano, il tuo
servo aveva il Signore Dio sua speranza e non volgeva lo sguardo alle vanità e
ai fallaci furori… Infine, venne il momento della professione di fede. A Roma chi
si accosta alla tua grazia recita da un luogo elevato, al cospetto della massa dei fedeli una
formula fissa imparata a memoria. Però i preti, narrava l’amico, proposero a
Vittorino di emettere la sua professione in forma privata, licenza che si usava accordare a chi
faceva pensare che si sarebbe emozionato per la vergogna. Ma Vittorino amò meglio di
professare la sua salvezza al cospetto della santa moltitudine. Da retore non insegnava la
salvezza, eppure aveva professato la retorica pubblicamente; dunque tanto meno doveva
vergognarsi del tuo gregge mansueto pronunciando la tua parola chi proferiva le sue parole
senza vergognarsi delle turbe insane. Così, quando salì a recitare la formula,
tutti gli astanti scandirono fragorosamente in segno di approvazione il suo nome, facendo eco
gli uni agli altri, secondo che lo conoscevano. Ma chi era là, che non lo conosceva?
Risuonò dunque di bocca in bocca nella letizia generale un grido contenuto:
“Vittorino, Vittorino”; e come subito gridarono festosi al vederlo, così
tosto tacquero sospesi per udirlo. Egli recitò la sua professione della vera fede con
sicurezza straordinaria. Tutti avrebbero voluto portarselo via dentro al proprio cuore, e
ognuno invero se lo portò via con le mani rapaci dell’amore e del
gaudio»[3].
La commozione della narrazione non deve far perdere di vista le importanti notizie che
riguardano il nostro tema: «A Roma chi si accosta alla tua grazia recita da un luogo
elevato, al cospetto della massa dei fedeli una formula fissa imparata a memoria».
La fede ci mette dinanzi alla visione dell’uomo più impegnativa
che possa esistere. Dobbiamo ricordarci di questa nostra pretesa; essa si scontra con tutte le
parvenze di libertà che vengono proposte e che, di fatto, limitano la formazione della
persona perché ne impediscono il suo vero sviluppo. È per questo che stiamo sotto
il fuoco incrociato perché ciò che proponiamo è scomodo, controcorrente e
impedisce di ridurre l’uomo a un puro oggetto di mercato e l’amore a un puro fatto
transeunte di un fine settimana. Nessuno di noi, tuttavia, potrebbe prendere sul serio la
consegna di Cristo se non comprendesse che questa comporta l’essere trascinati con lui in
un’offerta di amore che sa consegnarsi a ciò che agli occhi del mondo appare come
sconfitta e fallimento. Possiamo esser emarginati, ma questo può essere anche la nostra
forza.
Certamente ci saranno molti che comprenderanno che dinanzi all’ideologia della
banalità e dell’effimero che sa solo offrire concerti dell’ultima ora o
divertimento sfrenato senza più regole, è necessaria un’opposizione
profetica, tipica delle sentinelle che siamo chiamati ad essere e che ci rende non solo davvero
moderni dinanzi al decadimento attuale, ma lungimiranti nel saper rispondere agli interrogativi
che sorgono in tanti coetanei al termine di un lugubre fine settimana (cfr J.Ratzinger, Sale
della terra, 271). Saremo veramente «sentinelle del mattino» se avremo in noi
il coraggio per la Verità, l’unica che può realmente puntare gli occhi
sulla bellezza dell’amore senza rimane folgorata.
Il ruolo della ragione
nella decisione di credere in Cristo
Solo nel mistero del Verbo incarnato
trova luce il mistero dell'uomo
Il matrimonio come sacramento e il
suo rapporto con la realtà naturale del matrimonio
La fede e la preghiera
Lettera sulla "teologia biblica
del deserto"
Testimoniare il Vangelo nell'Università
Gesù Cristo via della speranza
Trasmettere la fede, il consegnare
se stessi di Dio e dell’uomo
Fede e politica
Educare ai valori per sconfiggere
il relativismo
Il compito della catechesi
oggi ed i suoi problemi
Comunicare Cristo ai giovani
[1] S. Agostino, Sermo 212,2.
[2] Id., Sermo 215,1.
[3] Id., Confessiones, VIII, 2,2-5.