Mettiamo a disposizione on-line il testo della riflessione che S.E.mons.Rino Fisichella ha svolto per i sacerdoti del Settore Sud della Diocesi di Roma nell’incontro del 15 dicembre 2005, invitato da S.E.mons.Paolo Schiavon, vescovo ausiliare del settore.
L’Areopago
"I Presbiteri… non potrebbero essere ministri di Cristo se non fossero
testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; d'altra parte, non potrebbero
nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro ambiente. Per il loro
stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi con il secolo presente; ma
allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere bene
– come buoni pastori - le proprie pecorelle… si applichino (quindi) ad esaminare i
problemi del loro tempo alla luce di Cristo… Ai nostri giorni la cultura umana e anche le
scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto; è bene, quindi, che i presbiteri si
preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria
cultura in modo da essere in condizione di poter sostenere con buoni risultati il dialogo con
gli uomini del loro tempo"[1].
Le citazioni del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri sono solo un pallido
esempio di quanto il Concilio Vaticano II, a più riprese, ha insegnato circa la
necessità e l'urgenza di conoscere il mondo a noi contemporaneo, con le sue sfide e
progetti, con le sue aspirazioni e contraddizioni, perché sempre e dovunque si sia in
grado di annunciare con coerenza il Vangelo di Gesù Cristo. I cristiani vivono nel mondo
e sono inseriti all'interno dello stesso processo culturale che accomuna le altre persone e le
società. Da sempre, la nostra presenza è stata caratterizzata da un'attenzione
peculiare perché i diversi movimenti culturali all'interno dei quali siamo inseriti
fossero letti e interpretati alla luce di Cristo[2]. Non potrebbe essere altrimenti. Sulla parola del Signore,
siamo inviati nel mondo per portare un annuncio di salvezza che sia in grado di dare risposta
definitiva alla domanda ultima sul senso della vita.
Se questo ha valore per ogni singolo credente, acquista maggior obbligatorietà nei
confronti del sacerdote per le responsabilità proprie che possiede e il ministero che
svolge. La dialettica che lo pone all'interno del vivere sociale e civile, ben sapendo di non
poter esserne pienamente parte, non lo esonera dall'abbracciare queste situazioni per essere
capace di pronunciare una parola significativa nella sua azione pastorale. Ciò che,
primariamente, è chiamato a compiere perché il suo ministero possa essere
coerente e fecondo è la conoscenza dei fenomeni culturali che sono alla base dei
comportamenti delle persone e delle società. Solo in questo modo, infatti, la sua azione
pastorale sarà coerente e in grado di sviluppare una predicazione e una catechesi che
siano non solo comunicabili, ma efficaci presso il suo interlocutore. Corriamo il grave rischio
di utilizzare linguaggi che non sono più adeguati alle categorie di pensiero del nostro
contemporaneo e questo porta alla inefficacia nella comunicazione del contenuto della nostra
pastorale. Superare la barriera della non comunicabilità è possibile solo nella
misura in cui i nostri linguaggi saranno costruiti in modo tale da raggiungere l'interlocutore
là dove egli pensa e costruisce la sua vita con modelli e stili di comportamento che
sono il frutto più evidente della cultura. Per essere propositivi, quindi, è
importante che il contenuto della nostra azione pastorale passi per un'accurata analisi del
fenomeno culturale per poter incidere in esso con un orientamento capace di esprimere nuovi
stili di vita coerenti con la Parola di Dio e nello stesso tempo capaci di essere compresi nel
fluttuare della dinamica culturale.
Già nel 1974, Paolo VI denunciava che uno dei drammi della nostra epoca era costituito
dalla rottura tra la cultura e la fede[3]. Ne è derivato che la cultura si è indebolita e
frammentata, mentre la fede si è rifugiata nell'esperienza individuale. Ambedue le
condizioni non hanno permesso un rinnovato rapporto di responsabilità nei confronti
della costruzione di nuovi modelli culturali, soprattutto da parte di quanti hanno il compito
della formazione. Sorge, pertanto, l'urgenza di presentare in "termini culturali moderni il
frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del
cattolicesimo"[4] anche per
evitare il rischio di una diaspora culturale che per ciò stesso avrebbe poca
incidenza per la sua connaturale debolezza. Il rispetto che nutriamo per le diverse culture
a cui apparteniamo non impedisce di avere tra i credenti un'unità basilare ancora
più profonda. D'altronde, ogni cultura, per sua stessa natura, è capace di
immettere in sé e sviluppare con i linguaggi suoi propri la verità della fede.
La verità cristiana per la sua istanza di universalità è l'unica in
grado di assumere quanto di vero è presente nelle culture e di inserirsi in esse
permettendo uno sviluppo di progresso nella creazione di un genuino umanesimo.
Viviamo un momento importante della storia. I grandi cambiamenti che sono
sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione dei paradigmi di pensiero che
dall'antichità ai nostri giorni si sono sviluppati in maniera dinamica, ma coerente.
Assistiamo a una sostanziale modificazione dei concetti basilari della cultura quali quello di
natura-mondo, uomo-dio, spazio-infinito, tempo-eternità, libertà-verità,
diritto-giustizia… solo per fare alcuni esempi. Il pluralismo di posizioni presente nella
società impone ai credenti, di volta in volta, una riflessione che si faccia carico non
solo di chiarificare i concetti in questione, ma anche di codificare nuovi linguaggi che
esprimano con coerenza i contenuti di sempre e ne supportino i conseguenti stili di vita.
La sfida che si pone sul nostro terreno non è affatto di secondo ordine; al contrario.
Essa impone di focalizzare lo sguardo perché la mente possa cogliere in
profondità l'essenza delle problematiche in gioco e comprenda quanto sia necessaria la
nostra presenza nell'agone delle idee e dei progetti perché non avvenga che quanti hanno
non solo il diritto, ma la responsabilità di intervenire nel pubblico dibattito siano
strumentalmente confinati in un angolo con una emarginazione del tutto ingiustificata. La
ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte di duemila anni di storia e di tradizione
filosofica, letteraria e scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia
sviluppare in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si
è indirizzati. Una società che volesse escludere o solo emarginare il
cristianesimo sarebbe per ciò stesso destinata a un'inevitabile autodistruzione. Non
avrebbe in sé, infatti, la forza creatrice e propulsiva di nuove istanze sull'uomo e la
sua vita, elementi che provengono solo dalla fede e dalla sua verità. In ogni tempo, in
ogni cultura che abbia creato progresso e sia stata promotrice di ricchezza intellettuale, il
cristianesimo è sempre stato presente come stimolo per produrre una cultura capace di
esprimere un vero umanesimo e come forte strumento di coesione per la società.
La missione propria della Chiesa, in questo frangente storico, non è diversa dal
passato; è chiamata a trasmettere quanto ha ricevuto dal suo Signore (cfr. Mt 28,20).
Deve essere capace, comunque, di effettuarlo con un annuncio che giunga a tutti, senza
distinzione alcuna, perché il contenuto del suo messaggio consiste nella verità
sulla vita dell'uomo. Questa verità non è desunta, primariamente, dall'esperienza
personale, ma espressa e fatta conoscere per via di rivelazione da parte del Figlio di
Dio[5]. Nel mistero della sua
incarnazione egli porta a compimento la Rivelazione promessa e con la sua vita segna il punto
culminante per dare senso al mistero dell'uomo[6]. Questa dimensione che sembra ovvia, costituisce invece il
fondamento della missione della Chiesa. Senza la missione non c'è Chiesa, ma la missione
è annuncio di una verità che è stata consegnata con la
responsabilità di essere mantenuta dinamicamente integra fino alla fine dei tempi.
Ciò comporta l'attenzione che è dovuta a due elementi costanti. Da una parte, la
missione della Chiesa nel suo annuncio di verità; dall'altra, il destinatario
dell'annuncio: il nostro contemporaneo. Dimenticare una sola di queste due componenti o
limitarne lo spazio ad una sola comporterebbe inevitabilmente uno squilibrio che di fatto
comprometterebbe sempre la missione della comunità credente. La trasmissione della
Parola di Dio deve avvenire con la fedeltà al contenuto, ma senza dimenticare a chi
è indirizzato. Ne va non solo della comunicazione presso il contemporaneo, che ha il
diritto di ricevere il contenuto salvifico a cui aderire che lo coinvolga a tal punto da
permettergli una scelta radicale di libertà con l'atto di fede; ma anche della
vitalità con la quale il contenuto deve essere trasmesso per essere efficace presso
tutti.
E' necessario, a questo punto, che si affronti la questione nodale del nostro tema: in quale
contesto si inserisce l'annuncio della verità salvifica di Gesù Cristo che la
Chiesa compie? Questa domanda non è retorica né ovvia. Essa, al contrario,
obbliga a delineare lo spazio culturale entro cui vivono il credente e il destinatario
dell'annuncio. Misconoscere questa dimensione equivarrebbe a non comprendere le vie entro cui
la cultura si sviluppa e le forme della sua comunicazione; si vivrebbe, quindi, con l'illusione
che il nostro linguaggio sia compreso e accolto nella stessa misura di sempre, il che è
almeno da porre in discussione.
A livello di analisi dei movimenti culturali sappiamo cosa stiamo lasciando, ma non sappiamo
verso dove stiamo andando. Se il passato si lascia descrivere con qualche sicurezza, anche se
non senza difficoltà, il futuro, invece, rimane ancora avvolto nell'oscurità
dell'ipotetico. Stiamo lasciando alle spalle la modernità, che fino ad oggi,
nonostante tutto, non si riesce ancora a definire con contorni chiari e si è incamminati
verso la postmodernità, che già dal suo nascere porta con sé
l'ambiguità del concetto.
La modernità, di cui siamo figli, è ciò che ha permesso di cogliere il
valore della soggettività. Alla luce della trasformazione filosofica, che vede Kant come
fedele continuatore della scoperta cartesiana del cogito, tutto è puntato sulla
scoperta del soggetto come unica fonte di conoscenza veritativa e di libertà. In questo
processo, tuttavia, si è aperto lo spazio della secolarizzazione che ha segnato il suo
punto culminante della parabola della modernità, sconfinando nell'attuale supremazia del
soggettivismo. Questa forma estrema, attuata con passi lenti ma inesorabili, ha condotto a
forme culturali che ponevano l'autonomia dell'uomo soprattutto dalla fede nella
rivelazione.
In una parola, si è voluto creare uno iato tra Dio e l'uomo, con la convinzione che si
sarebbe finalmente raggiunta l'autonomia e la libertà di quest'ultimo. Ne è
derivato che si è esaltato l'uomo a spese di Dio e contro Dio. Questa condizione,
tuttavia, ha inesorabilmente condotto l'uomo a perdere il ruolo centrale che possedeva. Tolto
il riferimento a Dio, egli ha perso anche il ruolo che aveva nella creazione. Non è
più al centro del creato, ma costituisce solo una parte qualsiasi del mondo. Le tendenze
attuali che vedono la sperimentazione come il culmine della scienza e del progresso, non fanno
che dimostrare la tendenza di marginalizzazione che coinvolge direttamente l'uomo. Lo rilevava
con lucidità Evangelium vitae: "Del resto, una volta escluso il
riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato
e la stessa natura, non più "mater", sia ridotta a "materiale" aperto a tutte le
manipolazioni"[7]. Ciò
che ha creato maggior preoccupazione in questo frangente è il fatto che questo uomo,
teso verso la sua piena autonomia indipendente da ogni forma di autorità divina è
caduto nelle mani di potenze anonime a cui non può ribellarsi proprio perché
anonime. Il fenomeno sempre più marcato del condizionamento espresso dai modelli
televisivi non fa che rendere evidente il pericolo e la grande sfida con cui ci si incontra. In
una parola, tolto il fondamento dell'esistenza personale, si è caduti nella trappola
dell'effimero che apre a una preoccupante era del vuoto, soprattutto con la perdita del senso
di responsabilità[8].
L'ambigua concezione di libertà, il forte soggettivismo che non sa più
riconoscere il valore della verità perenne e, soprattutto, l'eclissi del senso di Dio,
dunque, hanno portato a dimenticare il valore della vita e a disinteressarsi del fratello che
vive accanto a tal punto da verificare che una società che si proclama civile ed evoluta
è sempre più barbaramente rinchiusa nel circolo della morte.
Una cultura postmoderna verso dove si muove? Ciò che crea problema
nel dover rispondere a questa domanda è che cosa sarà messo al centro delle
nostre riflessioni. Chi sarà il fortunato protagonista entro cui la postmodernità
si potrà riconoscere: l'uomo? oppure la natura? oppure Dio? I tre elementi oggi sembrano
porsi sullo stesso piano. In ogni caso, sarà necessario chiedersi: quale sarà la
concezione di uomo? Con quale concetto di natura ragioneremo? Quale idea di Dio prenderà
posto nei prossimi decenni?
Quale uomo sarà quello che vuole dominare la scena del futuro: un soggetto
ancora al centro, quasi un microcosmo in cui tutto trova sintesi definitiva del suo essere
personale; oppure un individuo ormai schiacciato dal peso della tecnica? E quale natura
sarà alla base delle prossime legislazioni? Il concetto di natura immutabile con le sue
leggi oppure una materia che è sottoposta alla manipolazione genetica e, quindi, una
natura in cui tutto è possibile perché giustificato previamente dal giudizio
etico soggettivo? E se sarà Dio, in un contesto di confuso confronto con le religioni a
cui è sotteso un inevitabile sincretismo, quale idea di Dio sarà presente
nell'immediato futuro?[9].
Sullo sfondo, è necessario porre anche il tema della tecnica e il suo imporsi
nell'organizzazione della vita sociale con l'imposizione di visioni del mondo prima
inaspettate. Se, infatti, la tecnica è in grado di determinare l'esistenza personale fin
dai suoi primordi e neppure la scienza sente il bisogno di porre limiti alla sperimentazione
sulla cellula umana, scavalcando le stesse regole che si era data in precedenza, allora non si
potrà che verificare le logiche conseguenze. L'uomo, sulla scena del teatro di questo
mondo, non potrà più giocare il ruolo di protagonista a cui si era abituato per
secoli, ma deve necessariamente lasciare il posto a chi ora pretende di determinare la sua
stessa esistenza. Si riaffaccia sulla scena del mondo la tetra figura di Medea che uccide i
suoi figli; è proprio così, la tecnica creata dall'uomo per rendere più
umana la sua esistenza, sembra respingere in un angolo l'uomo stesso quasi si trattasse di un
nuovo e mai mutato complesso di Edipo. E' ormai condivisa l'analisi secondo la quale il nostro
contemporaneo ha talmente delegato la tecnica a produrgli ogni cosa, da non comprendere
più il grave pericolo in cui è caduto. La tecnica, infatti, ha assunto il ruolo
di domina non solo della natura, ma anche dell'uomo riducendolo a un oggetto della sua
sperimentazione senza curarsi più delle sue reazioni. Se cresce la tecnica, ma non
aumenta di conseguenza anche l'orizzonte spirituale dell'uomo e la persona non permane
in una dinamica di maturazione verso la trascendenza, allora si viene spogliati di ciò
che possediamo come di più prezioso: la coscienza di sé, del proprio limite e
dell'apertura infinita verso cui si è indirizzati[10]. Condizione mortale, perché in questo modo non solo
cessa il vero progresso, ma l'uomo stesso muore per asfissia. Egli, infatti, non ha più
uno spazio spirituale che gli consente di andare oltre se stesso verso quell'orizzonte di senso
ultimo che da risposta alle sue domande fondamentali. Per paradossale che possa sembrare, la
tecnica allontana anche ogni domanda sul limite, illudendo di una eternità che non
può essere data dalla produzione dell'uomo. Si dovrà guardare con occhio vigile a
come il pensiero filosofico e culturale in genere si porrà nel prossimo futuro nei
confronti della sofferenza e della morte; è qui, infatti, che ritorna la perenne domanda
di senso e le varie visioni trovano la loro barriera insormontabile.
Ritorna con prepotenza, come si nota, il tema di fondo che sta alla base di ogni processo
culturale e che provoca anche i credenti a dare il loro originale e insostituibile apporto.
Nell'areopago del mondo contemporaneo è necessario porre in primo piano il problema
della concezione della vita umana. La vera sfida che si staglia nei confronti del
pensiero in generale e della politica più direttamente, è la stessa concezione
della vita personale e le modalità della sua genesi, durata e termine ultimo. La
sacralità della vita è oscurata per la tenacia di imporre una visione tecnicista,
edonista ed effimera come se tutto dipendesse dal puro caso o dalla sperimentazione arbitraria
e dove tutto si vive, cogliendo solo il semplice frammento, senza preoccuparsi di una
progettazione personale compiuta nella libertà che aprirebbe a spazi di vero futuro. Il
mistero della vita viene frantumato per l'arroganza di voler dare a tutto una spiegazione
scientifica, partendo da teorie che non intendono limitare l'uso della scoperta al principio
etico.
La prima conseguenza si manifesta nella cultura generalizzata secondo cui ciò che
differenzia le persone non è la sessualità che è stata donata con
il corpo, ma il genere che si è scelto di vivere. Il genere diventa la
costruzione sociale in alternativa al sesso, come espediente per esprimere una libertà
individuale di voler essere se stessi non in forza della natura, ma della propria
volontà[11];
espressione di libertà che si manifesta subito fragile e fittizia e che solo una
impenitente faziosità persiste nel difendere. Tolta in questo modo, la differenza tra
uomo e donna, si comprende facilmente che viene posta in crisi la prima cellula su cui la
società si fonda: la famiglia. Carichi di una visione ideologica, che vuole
relegare la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia nella sfera dell'oscurantismo
e della subordinazione della donna all'uomo, si insinua sempre più una visione
individualista ed egoista della relazionalità tra le persone che mette in crisi
l'istituzione stessa. Superfluo ricordare che la situazione di crisi che ha toccato la famiglia
non fa altro che manifestare la permanente instabilità e crisi della società
stessa. Se una società, infatti, è costretta a verificare che al suo interno lo
stile di vita che progressivamente si assume è quello del vivere soli, allora si
dovrà almeno riflettere sul senso stesso dell'essere societas. Se un Paese inizia
ad avere un quarto o un terzo della popolazione che vive solo, allora è necessario che
almeno per spirito di sopravvivenza si affronti la problematica e si trovino strumenti idonei
per porre rimedio.
Questo quadro ha bisogno di essere integrato dal tema della verità. Giovanni Paolo II
nella sua enciclica Fides et ratio ha permesso di evidenziare alcuni aspetti peculiari
della problematica. Ciò che oggi si percepisce in maniera evidente è la
frammentarietà del riferimento alla verità, preannunciata e costruita dal
nihilismo nietzschiano, e il desiderio di ritornare a una unità del sapere: "È
così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la
ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo
giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità
dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha
concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità
che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i
condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno
portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di
recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle
verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di
posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte
le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia
nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo… sono emersi
nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa
sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia
ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre
domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale" (FR
5).
Le parole dell'enciclica sembrano voler condensare il fatto secondo il quale
non esiste più alcun fondamento. L'emotività sostituisce la ragione e diventa
presso le nuove generazioni criterio di verità e principio etico! E' valore solo
ciò che è soggettivamente percepito come un bene o sentito emotivamente come
tale. Da questa prospettiva, spiace dirlo, si vive un periodo di povertà, di forte
disagio, di grave mancanza di fiducia nella possibilità stessa di ogni persona di
accedere alla comprensione di sé. Si preferisce sottacere sulle differenze, lasciare in
ombra i conflitti come se non esistessero e smussare gli spigoli. In breve, si ha paura di
misurarsi fino in fondo con il problema della verità. Il primo a farne le spese è
il cristianesimo. Bersagliato ogni giorno da una costante critica sul proprio annuncio e sul
modello di vita che propone è costretto con estrema fatica a difendere la non
assurdità della fede oppure a mostrare la stessa fede quale perfezione e compimento
dell'umano[12]. La paura per
la verità pervade spesso i nostri ragionamenti. Soprattutto chi è abilitato a un
ruolo pubblico, in forza del ruolo che riveste con il ministero, è tentato di timidezza
o, peggio, di assuefazione alla cultura dominante. Bisognerebbe riproporre con coraggio le
parole di R. Guardini: "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende.
Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere
difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la
coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che
possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi
raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né
ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione
ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda"[13]. C'è un imperativo, dunque, a
cui non si può né si deve sfuggire: attestare che la verità deve
riprendere il suo posto e la sua coerente collocazione non solo nell'organigramma delle
scienze, ma soprattutto nella vita delle persone perché possano approdare a un'esistenza
carica di senso.
Se queste parole sono valide per ogni uomo che porta in sé il desiderio della
verità, suonano con maggior carica di significato per il credente che vede nel volto di
Cristo l'immagine stessa della verità (cfr Gv 14,6). Il ministero che siamo chiamati a
svolgere noi vescovi e i sacerdoti in comunione con noi, obbliga a fare della verità la
propria compagna di vita. Il panorama che abbiamo descritto presenta i punti nodali su cui la
nostra attenzione dovrebbe concentrarsi per permettere che lo studio e la riflessione abbiano a
fornire una risposta carica di senso. Certamente il mondo in cui viviamo presenta tratti di
grandi potenzialità e aspetti positivi che appartengono ormai al tessuto della nostra
vita quotidiana. Proprio questa consapevolezza del grande bene che è presente nel mondo
e della forte maturità che è stata raggiunta consente di esprimere un giudizio
anche sugli aspetti che limitano il vero progresso dell'umanità e trattengono la corsa
verso la piena umanizzazione. Non saremmo mai sentinelle del mattino (Is 21,6) se non
restassimo vigili nella nostra azione pastorale dinanzi alle sfide che la scienza, la tecnica,
la cultura e le ideologie in genere pongono sul nostro cammino.
Questa memoria deve riprendere posto ai nostri giorni, non per vanagloria
né per trionfalismo alcuno, ma solo ed esclusivamente per permettere un salto
qualitativo nell'attuale momento di passaggio culturale. Vorrei solamente accennare al ruolo
determinante che l'occidente ha avuto nel momento in cui ha compreso l'originalità del
concetto cristiano di persona. Se si vuole, è intorno a questo termine che si
può rileggere la storia del progresso e della maturazione civile, culturale, sociale e
politica. Fino al IV secolo, il termine è soggetto a una lunga discussione sul suo
significato più coerente. Nell'accezione latina –che risentiva dell'origine
etrusca- il termine persona va ricondotto allo spazio del teatro; indica la maschera che
copriva il volto dell'attore. Nella semantica greca, il termine pròsopon indica
ugualmente la maschera teatrale, ma insieme ad esso anche "che cade sotto gli occhi",
"ciò che si vede". La diatriba sul termine nasce proprio nel momento in cui si vuole
esplicitare la fede nella Trinità e la presenza di tre persone con un'unica natura; alla
stessa stregua, i primi cristiani dovevano esplicitare nei confronti di Gesù Cristo, sul
fatto che la sola persona divina era presente nella natura umana e in quella divina. Si deve
alla grande intelligenza di Agostino la soluzione più adeguata che rimarrà fino
ai nostri giorni. Egli ha saputo armonizzare il termine con il concetto, mostrando che la
persona è se stessa nella relazione con l'altro. Saranno i concili, in seguito a
stabilire dogmaticamente l'esattezza della formula; ciò che importa, comunque, è
verificare che sulla base della chiarificazione trinitaria e cristologia del concetto si viene
a produrre una delle conquiste più rivoluzionarie della cultura universale. Persona
è un'identità propria che si qualifica nella sua relazione con l'altro. Per
cogliere in profondità il valore semantico, è necessario comprendere la sua
derivazione dalla sfera della fede nella Trinità. Nell'unità della natura divina,
che non è divisa, ma partecipata totalmente, le tre Persone si qualificano e
differenziano come Padre, Figlio e Spirito Santo; ognuna delle tre persone vive solo in
relazione con l'altra in una forma di donazione e accoglienza totale che permette loro di
essere identificate come Padre che tutto dona, Figlio che tutto riceve e Spirito Santo come
Frutto del tutto dare e del tutto ricevere. La persona, insomma, si qualifica per la relazione
d'amore che le permette di essere ciò che è.
E' alla luce di questa prospettiva che possiamo comprendere il valore portante della persona
nel mondo contemporaneo e lo sviluppo che essa ha avuto nelle diverse istanze scientifiche. Dal
concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo
valore universale e, quindi, l'attenzione che è dovuta per ogni persona, per tutta la
persona e per il bene di tutte le persone. Non è azzardato affermare che solo nella
misura in cui si vuole salvaguardare il concetto di persona e la sua dignità è
determinante che essa rimanga legata a Dio che ne garantisce l'esatta comprensione ed
esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica Dio si dimentica anche la persona che reca
impressa in sé la sua immagine e somiglianza; nella misura in cui si dimentica la
persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua garanzia ultima.
La crisi di identità che l'Europa vive è sotto gli occhi di tutti. Tolto il
concetto di persona si allontana quello della sua sacralità e tutto cade nell'arroganza
del più forte. Ne deriva la pretesa di imporre il diritto individuale su quello sociale
e la conseguente distruzione di modelli sui quali l'occidente è fondato. Imporre
l'esistenza del diritto individuale porta a imprimere nella società la volontà
degli individui, spezzando in questo modo il concetto stesso di persona come relazione.
Contraddizione insanabile, frutto dell'individualismo che regna sovrano, avendo distrutto ogni
possibile tensione verso il bene comune. La prima conseguenza di questo stato di crisi è
la solitudine in cui è caduto l'uomo contemporaneo. Privo di una relazione salda
che gli consente di comprendere se stesso, è diventato ormai estraneo a se stesso;
incapace a doversi collocare e comprendere tende a rinchiudersi in sé con la conseguente
mancanza di amore e donazione gratuita. I rapporti diventano soggetti all'interesse individuale
e la violenza dell'uno sull'altro ha la meglio. In questo contesto è necessario porre
anche la crisi del matrimonio e della famiglia. Incapace a essere se stesso e colto dalla paura
di una incapacità stabile alla relazionalità e all'amore, si apre la strada a
modelli che contraddicono e distruggono ogni relazione sociale. Il tentativo di minare alla
base anche lo stesso concetto di matrimonio monogamico e tra persone di sesso diverso non
è che espressione dell’attacco ad uno degli ultimi bastioni che una cultura in
crisi intende abbattere per l'imposizione di un progetto, estraneo al mondo, alla natura e alla
stessa cultura e che ha il solo intento di eliminare l'uomo.
La Chiesa ha una profonda responsabilità in questo momento. Senza alcuna forma di
presunzione, a me sembra che sia rimasta solo lei a far sentire la sua voce per fermare questo
insano desiderio di autodistruzione. E' importante, quindi, che la Chiesa provochi a una
riflessione che prendendo la recta ratio come compagna di strada, illumini anche i molti
non credenti, che sparsi per le diverse strade del mondo hanno compreso i gravi rischi a cui
l'Occidente è esposto. Si tratta, in ultima analisi, di riprendere a cercare con maggior
vigore e insistenza il bene dell'uomo, a quanto egli produce con sapienza e a farlo diventare
responsabile del suo futuro. Tolta la parentesi in cui tutto gli viene concesso in forza di un
diritto soggettivo che lo ha viziato facendolo sentire come figlio unico, è determinante
recuperare il senso della relazionalità in quanto parte di un'unica famiglia.
L'assunzione del principio di responsabilità è una delle priorità
che vediamo all'orizzonte; esso impegna a una fatica che sa rimettere alla base i veri diritti
iscritti nel cuore di ogni uomo e per ciò stesso garanti dell'uguaglianza e della
libertà a cui il legislatore deve ispirare la sua opera. Come credenti nella vittoria
del bene sul male sempre e dovunque, noi lavoriamo perché la crisi che stiamo vivendo
possa trasformarsi in un reale momento di confronto e di progresso per tutti.
Sono convinto che solo mediante un recupero forte del concetto di tradizione questo
sarà possibile. La tradizione, infatti, è forma di una trasmissione che inserisce
in un processo più ampio e che genera conoscenza; a nostro avviso, esprime una risorsa
di cui i credenti anzitutto dovrebbero farsi carico. La tradizione per noi non significa
soltanto il riferimento a una storia bimillenaria che, nel bene e nel male ci appartiene,
indica, piuttosto, la partecipazione diretta a una viva trasmissione della fede che ispira e
genera cultura. I cristiani dovrebbero ricuperare, in questo frangente, la memoria perenne
dell'evento salvifico di cui sono responsabili nel mondo e, all'interno di questo momento,
ripensare il ruolo della loro partecipazione alla missione evangelizzatrice della Chiesa in
Europa. Ogni azione credente, infatti, anche quella sociale, politica e culturale porta con
sé la peculiarità di essere annuncio del vangelo che salva. Il recupero del senso
della tradizione e del suo valore per la costruzione dell'Europa è una strada da
percorrere. Essa non è semplice; richiede, infatti, uno sforzo di originalità e
un recupero di spessore speculativo. Per alcuni versi, comunque, la strada viene spianata per
l'apporto di alcune scuole filosofiche che hanno posto come tema centrale della loro ricerca la
tradizione. Avendo a fondamento una seria riflessione filosofica e la ricchezza teologica della
concezione cattolica sulla tradizione, è possibile identificare l'apporto peculiare che
si è chiamati a portare nel sorgere della nuova Europa. Se i credenti perderanno il
senso e il peso della tradizione, il rischio per aver costruito un'Europa sulle fragili
fondamenta di un interesse puramente economico sarà irreversibile ed essi ne saranno in
parte responsabili. Se, invece, il recupero della coscienza storica farà da sostegno,
allora anche le obiezioni e gli scetticismi di oggi potranno essere risolti e svanire alla
vista della ricchezza che la tradizione ha saputo mantenere.
La Chiesa, in questo frangente, forte della sua storia di maestri e di santi che hanno reso
queste terre fermento continuo di cultura e di civiltà, si sente interpellata
direttamente ad assumersi le sue responsabilità. Essa dovrà instancabilmente
riproporre la fede in Gesù Cristo morto e risorto come premessa per il riconoscimento
pieno della persona, della sua dignità e dell'inviolabilità dei suoi diritti
fondamentali che sono patrimonio di tutti. Senza illusioni, se mi è dato di guardare con
serenità al futuro, io intravedo l'opera dei credenti come un'azione convinta che
saprà produrre nuova cultura sulla forza della fede di sempre. Non perderemo la nostra
identità, perché non potremmo comprendere le nostre città senza un
campanile che richiami a rientrare in noi stessi; non potremo mai assuefarci a un mondo dove
non esiste l'amore che porta la nostra impronta. Il rispetto che abbiamo verso tutti e verso
chi non condivide la nostra scelta di fede, ci impone di qualificare sempre meglio la nostra
identità per evitare di diventare erranti senza più una meta e cittadini senza
più una patria.
I Padri conciliari nel Decreto sul ministero e la vita sacerdotale scrivevano: "I ministri
della Chiesa, e talvolta gli stessi fedeli, si sentono quasi estranei nei confronti del mondo
di oggi e si domandano angosciosamente quali sono i mezzi e le parole adatte per poter
comunicare con esso. E non c'è dubbio che i nuovi ostacoli per la fede, l'apparente
inutilità degli sforzi che si sono fatti finora e il crudo isolamento con cui vengono a
trovarsi, possono costituire un serio pericolo di scoraggiamento" (PO 22). La forza che
proviene dal Vangelo e la grazia che sostiene il nostro ministero se sono uniti a una coerente
conoscenza dei fenomeni e pongono con lucidità una critica intelligente permettono di
guardare al futuro con maggior realismo. Il cambiamento culturale è dinamico e sempre
aperto a nuovi sviluppi; ad esso, comunque, non può mancare l'intelligenza e l'impegno
dei ministri sacri che con la loro opera di formazione ed educazione alla fede danno la genuina
e più coerente risposta alla perenne domanda di senso che alberga nel cuore di ogni
persona. Questa risposta di senso è la vera strada da percorrere perché il
cambiamento culturale in atto sia ancora una volta rivolto all'uomo nella sua integrità
e non contro di lui.
Il ruolo della ragione
nella decisione di credere in Cristo
Solo nel mistero del Verbo incarnato
trova luce il mistero dell'uomo
Il matrimonio come sacramento e il
suo rapporto con la realtà naturale del matrimonio
La fede e la preghiera
Lettera sulla "teologia biblica
del deserto"
Testimoniare il Vangelo nell'Università
Gesù Cristo via della speranza
Trasmettere la fede, il consegnare
se stessi di Dio e dell’uomo
Fede e politica
La cultura cattolica: identità
e forza educativa di una tradizione
Il compito della catechesi oggi
ed i suoi problemi
Comunicare Cristo ai giovani
[1] Presbyterorum ordinis, nn. 3.4.19.
[2] Da questa prospettiva è significativo il continuo richiamo del concilio Vaticano II al tema dei "segni dei tempi"; cfr. GS 4.11.44; cf. pure PO 9; UR 4; AA 14.
[3] Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 70.
[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 4.
[5] E' il tema trattato specialmente in Fides et ratio nn. 7-14.
[6] E' importante riprendere in questo contesto l'insegnamento che proviene da Dei Verbum 4 e Gaudium et spes 22.
[7] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, nn 22.
[8] Cfr. G. Lipovetsky, L'ere du vide. Essai sur l'individualisme contemperain, Paris 1993, 49-69.
[9] Un testo di una canzone, cantata dai bambini di una scuola elementare, può essere un segno di come questi inizino a pensare a Dio fin da bambini: "C'è chi prega Dio dicendo Visnù, Budda, Krishna, Allah o Jahvè, noi lo chiamiamo con Maria e Gesù, ma un solo Signore poi c'è. Padre nostro che nel cielo stai, sono tanti i nomi che hai, ma uno solo in fondo tu sei, uno soltanto per tutti noi".
[10] Si confrontino i ripetuti interventi di J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1979, 32-37; Id., Fede verità Tolleranza, Siena 2003, 74-82.
[11] Significativo in proposito l'intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, nn. 7.13-14.
[12] Cfr. A. Milano, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999, 12.
[13] R. Guardini, Le virtù, Brescia, 1972, 21.