Presentiamo on-line sul nostro sito la conferenza Fede e polis che S.E.mons.Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, ha tenuto il 30 novembre 2005, nella Basilica dei SS.Ambrogio e Carlo al Corso in Roma, organizzato dal Servizio di pastorale giovanile della Diocesi di Roma, per la serie di incontri “I giovani in dialogo con i loro vescovi”.
L’Areopago (02.12.2005)
Viviamo un momento importante della storia. I grandi cambiamenti che sono
sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione dei paradigmi di pensiero che
dall'antichità ai nostri giorni si sono sviluppati in maniera dinamica, ma coerente.
Assistiamo a una sostanziale modifica dei concetti basilari della cultura quali quello di
natura-mondo, uomo-dio, spazio-infinito, tempo-eternità, libertà-verità,
diritto-giustizia… solo per fare alcuni esempi. Il pluralismo di posizioni presente nella
società impone ai credenti, di volta in volta, una riflessione che si faccia carico non
solo di chiarificare i concetti in questione, ma anche di codificare nuovi linguaggi che
esprimano con coerenza i contenuti di sempre e ne supportino i conseguenti stili di vita.
La sfida che si pone sul nostro terreno non è affatto di secondo ordine; al contrario.
Essa impone di focalizzare lo sguardo perché la mente possa cogliere in
profondità l'essenza delle problematiche in gioco e comprenda quanto sia necessaria la
nostra presenza nell'agone delle idee e dei progetti perché non avvenga che quanti hanno
non solo il diritto, ma la responsabilità di intervenire nel pubblico dibattito siano
strumentalmente confinati in un angolo con una emarginazione del tutto ingiustificata. La
ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte di duemila anni di storia e di tradizione
filosofica, letteraria e scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia
sviluppare in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si
è indirizzati. Una società che volesse escludere o solo emarginare il fenomeno
religioso sarebbe per ciò stesso destinata a una inevitabile autodistruzione. In ogni
tempo, in ogni cultura che abbia creato progresso e sia stata promotrice di ricchezza
intellettuale, la religione è sempre stata presente come forte strumento di coesione per
la società. Anche il legislatore, ieri come oggi, quando non esclude la religione dalla
sua analisi può avere garanzia di un coerente impegno per il bene di tutti.
Il dibattito tra fede e politica si ripropone spesso in modi alterni nelle diverse fasi
storiche. Oggi è di nuovo sul tappeto soprattutto per il profondo cambiamento culturale
in cui siamo inseriti. Si tratta di comprendere, quindi, il senso di una possibile relazione e
le modalità che siano in grado di salvaguardare l'autoctonia e l'autonomia
di ambedue. I due termini sono stati utilizzati in maniera intenzionale per esplicitare non
solo la sfera di indipendenza propria in cui fede e politica pensano e si regolano in forza dei
propri principi (autonomia), ma anche per evidenziare gli spazi peculiari all'interno
dei quali sono nati (autoctonia) e che permangono come criterio necessario per la
corretta valutazione del loro operare.
Un primo principio fondamentale per la fede e la politica è
certamente il mantenimento della propria sfera di autonomia. Le radici di quella sana
distinzione tra Chiesa e Stato appartiene proprio a noi. "Date a Cesare quello che è di
Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mc 12,17), permane come il criterio fondamentale a
cui Chiesa e Stato si richiamano per giustificare il proprio spazio di intervento. E'
necessario comunque, comprendere il senso profondo del testo perché non diventi
un'espressione ovvia e insignificante. La domanda posta a Gesù inizia con una
captatio benevolentiae: gli viene riconosciuto che è buono, parla con
verità e il suo insegnamento è fatto non piacere agli uomini ma a Dio. Questa
captatio benevolentiae nei nostri confronti è ancora spesso utilizzata, ma come
nel passato nasconde in sé una trappola; da ogni parte ci voltiamo sembra non esserci
via d'uscita: se parliamo di etica siamo condannati, se parliamo di pace siamo lodati. La
risposta di Gesù non può assolutamente essere fraintesa come una forma di
sudditanza alla stato. Il senso del suo rimandare a Cesare e a Dio ha una notevole differenza
che si manifesta nel valore della congiunzione. Una traduzione corretta dovrebbe dire: "Date a
Cesare quello che è di Cesare, ma date a Dio quello che è di Dio". Si
deve, dunque allo Stato ciò che gli appartiene e questo impedisce al cristianesimo di
pensare in termini di teocrazia. A Dio, però, appartiene l'uomo che è stato
creato a sua immagine. Quanto Gesù attesta è che si deve riconoscere, anzitutto,
la volontà di Dio. L'imperatore non potrà mai decidere quanto appartiene a Dio;
tenga pure la sua moneta e se la faccia restituire dai cittadini, ma sappia che tutto
ciò che tocca l'uomo e la sua vita appartengono a Dio e a lui solo.
Il cristianesimo, a differenza di altre religioni, non si è mai voluto proporre come
religione di Stato, ma ha sempre cercato di distinguersi dallo Stato. Siamo disposti a pregare
per quanti ci governano, ma non ad offrire loro sacrifici. E' necessario, pertanto, rivendicare
più che mai la nostra identità; questo impone di affermare che il cristianesimo
non potrà mai essere un semplice sentimento soggettivo, ma una verità che siamo
chiamati a rendere manifesta, in modo palese e nei luoghi pubblici. Siamo consapevoli che
questa verità non appartiene agli uomini, ma è frutto di rivelazione; in forza di
questo chiediamo che anche chi non crede si confronti con essa per verificare le ragioni delle
proprie posizioni. Non si comprende perché un simile intervento debba essere
interpretato come un'ingerenza nella vita politica di un Paese. Illuminare la coscienza di ogni
credente e provocare chiunque a riflettere dovrebbe essere giudicato, piuttosto, come un
esercizio di libertà e acquisizione di responsabilità. Siamo stati sempre in
prima linea nel promuovere e difendere i principi basilari del vivere comune e civile. La
stessa concezione di democrazia che si è imposta nella modernità, d'altronde, non
avrebbe potuto neppure essere concepita se il cristianesimo non avesse posto le premesse
fondamentali per la sua genesi e il suo sviluppo. La democrazia, per l’intera coscienza
dell’Occidente, è una conquista tale che si pone come uno dei valori
irrinunciabili su cui costruire un sistema politico e su cui giudicare non solo la sua
legittimità, ma la stessa forma dei rapporti sociali. In un sistema democratico, quindi,
anche la fede è chiamata in questione. I suoi contenuti, tuttavia, non possono essere
assunti come surrogati in un momento storico di crisi valoriale per essere poi gettati al vento
in un momento successivo. Una vera democrazia, quando si incontra con la fede, è
obbligata a confrontarsi con il concetto stesso di verità da cui non può
prescindere perché porta in sé un’autorità tale che supera ogni
sistema politico e ogni posizione personale.
Nel 1974, Paolo VI denunciava che uno dei drammi della nostra epoca era costituito dalla
rottura tra la cultura e la fede. Ne è derivato che la cultura si è indebolita e
frammentata mentre la fede si è rifugiata nell'esperienza individuale. Ambedue le
condizioni non hanno permesso un rinnovato rapporto di responsabilità nei confronti
della costruzione della società, soprattutto da parte di quanti hanno il compito della
rappresentanza politica. Sorge, pertanto, l'urgenza di presentare in "termini culturali moderni
il frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo" anche per
evitare il rischio di una diaspora culturale che poca incidenza avrebbe nella vita
politica.
Una breve panoramica sul contesto odierno permette di verificare alcuni
punti nodali che meritano una riflessione comune tra fede e politica. Sorge, in primo piano, la
questione su quanto stiamo preparando per le generazioni future e su ciò che lasceremo
loro in eredità. Se i cattolici non provocassero la politica a questa analisi verrebbero
meno nella loro stessa fede che fa dello sguardo verso il futuro il pieno compimento della
promessa antica e della conoscenza stessa della verità (cfr Gv 16,13). Situazione non
facile quella di far riflettere sul futuro mentre da diverse parti è pressante il canto
di nuove sirene che impongono di gestire solo il presente puntando su diverse forme di effimero
che producono solo illusione. A differenza dei compagni di Ulisse, nessuno oggi sembra sentire
il bisogno di avvisare i compagni di viaggio, tanta è la presunzione di essere autonomi
e maturi da reggere lo scontro e superare il richiamo insidioso. Pia illusione che non trova
riscontro. Avere distrutto nel recente passato il fondamento su cui costruire la propria
esistenza, non ha coinciso con l'offerta di un solido paradigma della verità e il nostro
contemporaneo si ritrova in una pozzanghera da cui non riesce a venire fuori. Non è
azzardato affermare che si stanno bruciando intere generazioni che precipitano verso un abisso
di debolezza solo perché non si ha il coraggio di prospettare loro un impegno serio e
duraturo su cui costruire la loro vita, la società e il loro stesso futuro. Accade
così che mentre, da una parte, si accentua la provocazione per prendere coscienza della
responsabilità che compete, dall'altra, cresce l'arroganza perché il vuoto e il
nulla abbiano il sopravvento.
In un contesto come questo, diventa perfino più difficile trovare la mediazione,
vero strumento dell'azione politica. Spesso il modo di pensare che alberga in molti è
fondato sull'imposizione del diritto individuale a scapito di ogni interesse per la convivenza
sociale. Quando si orienta la cultura all'esasperazione del diritto soggettivo senza più
alcun riferimento al vivere sociale e alla responsabilità comune, allora è ovvio
che si rende necessaria e urgente una svolta culturale che sappia di nuovo rimettere al centro
la persona e la sua relazionalità. Se le scelte sono compiute non più in base a
un principio etico, ma si fa diventare etico tutto ciò che proviene dal desiderio
individuale e si spalanca la porta all'emotività per farla dominare sulla
razionalità, allora è necessario domandarsi se queste premesse su cui si vuole
indirizzare la società potranno reggere allo scontro inevitabile con il valore oggettivo
del diritto e il mantenimento della democrazia. Se ognuno ha il diritto di creare un'unione
matrimoniale come desidera, se vuole avere figli come vuole, se intende porre fine alla sua
vita quando e come ha deciso e impone al legislatore di dare corpo a questo "diritto", allora
bisogna ribadire con forza che il diritto individuale non è solo una questione di
coscienza singola, ma è primariamente un atto pubblico che deve essere regolato e
limitato dalla forza della ragione, della giustizia e della convivenza reciproca. Se il singolo
cittadino, pertanto, richiede al legislatore di riconoscere il suo diritto, è obbligo
del legislatore ricordare al singolo cittadino che appartiene a una società.
Sorgono, a questo punto, alcuni interrogativi che evidenziano lo stato di reale
problematicità a cui non ci si può sottrarre: quale limite si deve porre nel
vivere sociale? Chi ha l'autorità per stabilirlo? Sulla base di quali principi
può farlo? Andremo verso una sorta di Stato etico di venerata memoria hegeliana? Come si
nota, permane un problema di fondo: chi stabilisce i principi a cui tutti sono sottomessi? Lo
Stato, la religione, la scienza e la singola coscienza sono chiamati a riconoscere, rispettare
ed osservare il primo principio del vivere personale e sociale: fare il bene ed evitare il
male. Questa è un'intuizione fondamentale che caratterizza l'agire di ogni persona. Ora,
chi stabilisce il confine tra i due e dove si situa il bene e il male? Domanda perenne che
rimarrà tale anche per i secoli futuri e che, comunque, deve non solo essere posta, ma
anche trovare adeguata risposta.
E se queste domande potrebbero sembrare ovvie, rimane pur sempre aperta un'altra questione di
carattere più politico: tutto deve cambiare ogni volta per l'alternanza dei governi o
per le nuove ipotesi che la scienza avanza o in forza dei nuovi desideri che sorgono con il
cambiare delle stagioni? Come si nota, queste domande e l'incapacità a voler dare
risposta creano un'inevitabile situazione di debolezza culturale, di conflittualità dei
diritti e di confusione valoriale che sfocia nella paura del futuro. Si crea, insomma,
una sorta di vortice di incertezza che trascina inconsciamente ognuno in una indecisione
costante, in un profondo senso di impotenza e in una chiusura in se stessi a scapito del vivere
interpersonale.
Bisogna ugualmente riconoscere che spesso si ricava l'impressione di una poca stima che la
politica ha per se stessa e per ciò che produce. Quando personalità che hanno la
rappresentanza pubblica utilizzano nei confronti della legge termini quali: "infame",
"indegna", "assurda", "talebana"… allora si rende evidente la disistima per ciò
che un sistema democratico produce e la mancanza di responsabilità per il vivere civile
e sociale del Paese. Questo stato di cose non esprime primariamente una dissonanza tra laici e
cattolici, ma ben altro. Si è dinanzi a un vero conflitto tra il richiamo ai principi
etici – che come tali non hanno coloritura confessionale, perché si appellano a
quanto è inscritto nella natura e nella ragione e sono quindi universali- e
l'imposizione di teorie relativiste, che non hanno neppure il supporto della scienza, tese a
impoverire ulteriormente la già debole ragione in forza del richiamo a una perentoria
libertà di coscienza. Certo, la coscienza permane come l'intangibile richiamo ultimo a
cui ognuno deve riferirsi e sul quale nessuno può interferire. Deve essere, però,
la coscienza, non un surrogato di essa. La coscienza, tuttavia, non è mai neutrale.
Quando la coscienza è assopita perché non è posta dinanzi ai contenuti
etici o è assordata per lo strepito di chi grida più forte, difficilmente
può rinchiudersi nel suo silenzio ed emettere un giudizio. Ciò che emerge,
purtroppo, è una coscienza imbrigliata nelle secche stagnanti di slogans pedanti,
incapace di formare una consapevolezza che abbia come suo primo fondamento la
verità. Ne deriva che il giudizio è stabilito non sul bene e sul male, ma
su ciò che individualmente si ritiene bene o male e spesso determinato da
un'emotività che erige a valore ciò che ha percepito come proprio interesse
privato. Merita, pertanto, ricordare quanto sia importante e non procrastinabile farsi
promotori di un pensiero che chiarifichi la base stessa del diritto.
Nel contesto contemporaneo, i cattolici sono provocati a prendere in maggior
considerazione alcune tematiche che sono in primo piano nell'agone politico. In primo luogo,
è necessario porre il tema della concezione della vita umana. La vera sfida che
si staglia nei confronti del pensiero in generale e della politica più direttamente,
è la stessa concezione della vita personale e le modalità della sua genesi,
durata e termine ultimo. La sacralità della vita è oscurata per la tenacia di
imporre una visione tecnicista, edonista ed effimera come se tutto dipendesse dal puro caso o
dalla sperimentazione arbitraria e dove tutto si vive, cogliendo solo il semplice frammento
senza preoccuparsi di una progettazione personale compiuta nella libertà che aprirebbe a
spazi di vero futuro. Il mistero della vita viene frantumato per l'arroganza di voler dare a
tutto una spiegazione scientifica, partendo da teorie che non intendono limitare l'uso della
scoperta al principio etico.
La prima conseguenza si manifesta nella cultura generalizzata secondo cui ciò che
differenzia le persone non è la sessualità che è stata donata con
il corpo, ma il genere che si è scelto di vivere. Il genere diventa la
costruzione sociale in alternativa al sesso, come espediente per esprimere una libertà
individuale di voler essere se stessi non in forza della natura, ma della propria
volontà; espressione di libertà che si manifesta subito fragile e fittizia e che
solo una impenitente faziosità persiste nel difendere. Tolta in questo modo, la
differenza tra uomo e donna, si comprende facilmente che viene posta in crisi la prima cellula
su cui la società si fonda: la famiglia. Carichi di una visione ideologica, che
vuole relegare la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia nella sfera
dell'oscurantismo e della subordinazione della donna all'uomo, si insinua sempre più una
visione individualista ed egoista della relazionalità tra le persone che mette in crisi
l'istituzione stessa. Superfluo ricordare che la situazione di crisi che ha toccato la famiglia
non fa altro che manifestare la permanente instabilità e crisi della società
stessa. Se una società, infatti, è costretta a verificare che al suo interno lo
stile di vita che progressivamente si assume è quello del vivere soli, allora la
politica dovrà almeno riflettere sul senso stesso dell'essere societas. Se un
Paese inizia ad avere un quarto o un terzo della popolazione che vive solo, allora è
necessario che almeno per spirito di sopravvivenza il legislatore si impegni a porre
rimedio.
La rincorsa a voler accontentare ogni tipo di simili manifestazioni, invece, sembra spingere il
legislatore ad assumere politiche pubbliche in netto contrasto con i principi etici
fondamentali pur di non scontentare il singolo cittadino e pur di ripararsi dall'obbligo di
assumere delle responsabilità. Sarà bene ricordare che una legge composta sulla
base del relativismo etico, avrebbe fondamenta talmente fragili da non poter neppure pretendere
di essere assunta a norma dell'agire universale dei cittadini, perché offende la
dignità stessa della legge prima ancora che la dignità del cittadino. Se non
esistesse un'autorità morale capace di andare oltre la sfera dello Stato, allora
sì, la libertà sarebbe realmente distrutta, perché di fatto un qualsiasi
potere politico diventerebbe fondamento dell'istanza etica. Nel qual caso, la caduta in una
strumentalizzazione del potere a proprio vantaggio, non sarebbe più solo un rischio e la
porta al totalitarismo sarebbe spalancata. Pensare che la qualità della vita migliori,
solamente perché si qualificano alcuni servizi di benessere, è illusorio e
deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata all'arbitrio
individuale.
Si deve ritornare, a nostro avviso, alla legge impressa nella natura che permane come
regola suprema di vita e principio etico, nonostante lo slittamento che si è creato con
i "diritti fondamentali dell'uomo". Questa legge non è una coercizione perché
andrebbe contro la stessa natura dell'uomo; essa, al contrario, è una perenne sfida che
si pone all'uomo perché in essa possa scoprire come esercitare la sua libertà e
la sua progettualità. L'uomo non potrebbe mai porsi dinanzi alla natura in maniera
passiva, quasi da essere asservito dalla natura. Conforme alla sua stessa natura, invece,
è chiamato a far emergere dalla natura tutte le potenzialità che la spingono ad
essere ciò per cui è. Solo in questa reciproca relazionalità, si
può pensare di creare progresso coerente tra lo sviluppo della natura mediante
l'intelligenza dell'uomo e la realizzazione dell'uomo stesso. Quando ambedue, ciascuno conformi
a se stessi, tendono verso la finalità impressa in loro, allora siamo dinanzi a una
reale conquista per il progresso della specie e a un'applicazione coerente del principio etico.
La natura, pertanto, ha bisogno dell'uomo per manifestare ciò che è; la cosa
straordinaria è che in questa conoscenza, l'uomo scopre di essere uscito lui pure da
questa natura e che quindi è il fine verso cui essa tende. Ciò non significa che
l'uomo possa fare con la natura tutto ciò che desidera o che vuole. Qui viene ad
inserirsi il primato dell'etica nei confronti di ogni potenzialità che l'uomo scopre
nella natura. Quando il legislatore pone al centro del proprio agire il diritto e ne scopre i
fondamenti là dove persona e natura si ritrovano in un sano equilibrio, egli potenzia la
legge e la rende norma stabile per l'agire dei cittadini nella società.
Il richiamo perché in politica si ponga in primo luogo al centro la dignità
della persona, unitamente al bene comune non sono contenuti nuovi; anzi, sono
i principi che da sempre sostengono l'insegnamento sociale della Chiesa. Ciò
che oggi è necessario considerare è, piuttosto, la concreta condizione
storica in cui ci si trova per verificare quali sono le condizioni per la dignità
della persona e il raggiungimento del bene comune. Alcune problematiche devono
essere considerate proprio perché attestano "esigenze etiche fondamentali
e irrinunciabili" per un credente sia che si impegni in politica sia quando
è chiamato a valutare un programma per decidere del suo voto. Su alcune
questioni è in gioco l'essenza stessa dell'ordine morale che tocca la
totalità della persona. Si pensi, ad esempio a leggi in materia di aborto
e di eutanasia –che non deve essere confuso con la rinuncia all'accanimento
terapeutico - il rispetto e la protezione dell'embrione umano; la salvaguardia,
la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico e
tra persone di sesso diverso; la libertà di educazione dei genitori per
i propri figli; la tutela sociale dei minori; la liberazione dalle nuove forme
di schiavitù: droga, prostituzione…; la libertà religiosa;
lo sviluppo per un'economia che sia al servizio della persona e del bene comune
in base ai principi di solidarietà e sussidiarietà; la pace tra
i popoli che non sia irenica o strumentale. Su questi temi si gioca la concezione
stessa della vita, della natura e dell'uomo che apparterranno alle prossime
generazioni. Pensare che la qualità della vita migliori, solamente perché
si qualificano alcuni servizi di comodità, è illusorio e deludente
se poi la concezione stessa della vita è lasciata all'arbitrio individuale.
In una fase in cui sembra che la politica viva spesso solo di numeri e di programmazioni
economiche, non è male che qualcuno richiami a volare più alto
e riproponga una dimensione progettuale che sappia preparare il futuro. Questo
tipo di far politica è vincente ed è capace di dissipare i sospetti
e il velo di indifferenza, steso particolarmente sulle giovani generazioni,
che non riescono ad afferrare la passione per l'impegno politico.
Su questi impegni concreti è necessario evitare la diaspora dei cattolici in politica.
Ciò non coincide necessariamente con la formazione di nuove identità. Pericoloso,
o forse comodo, cadere in una lettura riduzionistica che spinge tutto a classificare di destra,
di centro e di sinistra. Le strategie che vengono assunte per approdare a ipotetiche nuove
formazioni non toccano la competenza del Magistero della Chiesa. Le sfide a cui la politica
deve guardare sono ben altre. Ciò che per noi acquista importanza decisiva è,
piuttosto, la capacità di creare il consenso più ampio, perché ciò
che viene perseguito abbia un fondamento etico nel diritto naturale.
In questo contesto, è importante esplicitare il senso di "laicità" che si erge
non poche volte a dogma nella vita del nostro Paese. In una società veramente
democratica l'ascolto delle diverse istanze presenti non è un optional, ma un
obbligo che ognuno deve avere perché non avvenga che chi fa riferimento al proprio credo
sia confessionale e chi invece dipende dall'ideologia sia uomo libero. Nessuno potrà
dimenticare, tra l'altro, che il principio di autonomia come quello di "laicità" sono
espressione dell'originalità del cristianesimo e sua preziosa eredità per le
diverse democrazie. Laicità, comunque, non si contrappone a fede. Essa indica,
piuttosto, un modo di riflettere, di analizzare e di produrre idee e contenuti che
indipendentemente dalla fede fanno leva sulla forza di una ragione libera di ricercare la
verità e di proporla quando l'ha trovata.
Un'ultima considerazione mi sembra necessaria, soprattutto in risposta a
quanti ritengono che su diverse questioni i vescovi debbano tacere. Ritorna in questi giorni
con una forte carica di arroganza il comando laicista: sileant catholici in campo
alieno. I cattolici non prendano la parola su questioni che non li riguardano. Sorge
spontanea la domanda: ci sono questioni che non devono interessare il mondo cattolico? Potrebbe
essere, ma vorremmo essere noi a deciderlo. Quando, tuttavia, si parla di problematiche che
toccano in primo piano la natura umana, i principi su cui si è costruita e sviluppata la
civiltà a cui apparteniamo e le leggi a cui dovrei obbedire io e il popolo cristiano che
ha sempre manifestato lealtà nei confronti dell'autorità costituita (cfr Rm
13,1-7; 1 Tm 2,2; 1 Pt 2,13-17), allora l'imposizione del silenzio diventa una violenza. I
cattolici hanno acquisito una maturità tale nei duemila anni di storia che li ha portati
a condividere una responsabilità civile e sociale da cui non possono esonerarsi neppure
se lo volessero. Verrebbero meno nel loro stesso compito di credenti che li obbliga a
impegnarsi nel mondo per trasformarlo a servizio dell'uomo.
Pur nella genericità del titolo, fede e polis presentano una serie di
problematiche di ordine culturale, etico, morale, politico e legislativo. Ognuno, a secondo
della competenza che possiede, esprime la sua visione del mondo sapendo che l'obiettivo
primario rimane la partecipazione diretta alla crescita della società in cui vive. Non
possiamo dimenticare, d'altronde, che il sistema democratico in cui viviamo è costituito
primariamente dalla forma della rappresentanza non della delega. Non posso delegare
nessuno su questioni che toccano la mia coscienza, ma posso essere rappresentato nelle
istituzioni competenti perché ciò che costituisce la mia visione del mondo abbia
la sua voce diretta nelle sedi legislative. In un sistema democratico dove sono presenti
istanze culturali differenti non chi grida di più ha ragione, ma chi presenta le
ragioni che possono aggregare il massimo del consenso. Certo, la verità non
è data dal consenso –oggi, tra l'altro, troppo facile da essere acquistato- ma
dalla oggettività delle ragioni che permettono di raggiungere l'essenza stessa della
realtà di cui si discute.
Difficile pensare che quando si ha una debolezza generale allora cresce la forza della Chiesa;
come se la nostra forza fosse conseguenza della debolezza altrui. La forza della Chiesa
è forza del Vangelo che viene annunciato e percepito come vero senso della vita oltre le
ipotesi che si formulano e si vogliono accreditare. Solo nella misura in cui siamo forti del
Vangelo che portiamo allora diventiamo anche un segno visibile e concreto presente nella
società come espressione di libertà, di fiducia nell'intelligenza dell'uomo e
come rimando perenne verso una Presenza che dà pieno significato alla vita dell'uomo e
di ogni uomo. Se venissimo meno a questa nostra missione allora sì saremmo deboli e
insignificanti; come il sale di cui parla il Signore che diventato insipido non solo viene
gettato, ma calpestato con disprezzo dagli uomini (Mt 5,13). Fino a quando saremo capaci di
vivere la nostra fede con coerenza, nonostante le nostre contraddizioni, saremo anche capaci di
raccogliere intorno alla forza delle nostre argomentazioni un consenso che va oltre gli
schieramenti di partito, perché si fa forte della ragione e del rispetto verso una
legge, inscritta nel cuore di ognuno, che non ha bisogno di essere emanata dagli uomini, ma
solo riconosciuta. Essa acquisisce la sua legittimità da Colui che sta all'origine di
ogni bontà e verità. Solo nella misura in cui il legislatore sarà capace
di comprendere la genuinità di questa legge sarà capace di formulare leggi che
ricevono il pieno rispetto dei cittadini e si pongono come fattore di autentico progresso per
tutti.
Perché questo avvenga è necessario che laici e cattolici riscoprano la nostalgia
per la verità e ne facciano di nuovo la loro inseparabile compagna di vita. Si diceva un
tempo: amicus Plato, sed magis amica veritas! Quanto la saggezza del tempo antico sia
attuale non ha bisogno di dimostrazione. Per noi credenti, l'amicizia di Platone non ci mai
disturbato né allontanato dalla verità; al contrario, la nostra sapienza ci ha
fatto dire con Tommaso d'Aquino che: "omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est". Se
lo sguardo, pertanto, è fisso sulla verità non ci sarà conflitto alcuno.
L'impegno nella politica potrà essere solo fecondo e il riconoscimento delle differenze
sarà percepito e vissuto come ricchezza da condividere e non come limite per la
libertà.
Il ruolo della ragione
nella decisione di credere in Cristo
Solo nel mistero del Verbo incarnato
trova luce il mistero dell'uomo
Il matrimonio come sacramento e il
suo rapporto con la realtà naturale del matrimonio
La fede e la preghiera
Lettera sulla "teologia biblica
del deserto"
Testimoniare il Vangelo nell'Università
Gesù Cristo via della speranza
Trasmettere la fede, il consegnare
se stessi di Dio e dell’uomo
Educare ai valori per sconfiggere
il relativismo
La cultura cattolica: identità
e forza educativa di una tradizione
Il compito della catechesi oggi
ed i suoi problemi
Comunicare Cristo ai giovani