Ripresentiamo on-line la relazione dal titolo “Comunicare Cristo ai giovani” che S.Ecc.mons.Fisichella ha tenuto nella Basilica di S.Giovanni in Laterano, il 2 ottobre 2006, in occasione dell’incontro del clero di Roma con il cardinal vicario S.Em.il card.Camillo Ruini, per introdurre il nuovo anno pastorale che ha per tema “La gioia della fede e l’educazione delle nuove generazioni”. La prospettiva dell’incontro della fede con gli adolescenti ed i giovani attraversa così le parole dell’intervento. Alle parole della relazione così come è stata distribuita in forma scritta, abbiamo voluto aggiungere alcune espressioni pronunciate verbalmente da mons.Fisichella durante il suo intervento ed in risposta alle domande dei sacerdoti presenti, poiché permettono – ci sembra - ancor più di entrare nella ricchezza della sua riflessione. Le abbiamo riportate, secondo i nostri appunti, in corsivo. Anche i neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più leggibile il testo on line.
Il Centro culturale Gli scritti (05.10.2006)
"Cosa dobbiamo fare?" La domanda è presente almeno due
volte nel Nuovo Testamento.
La prima, nel discorso eucaristico, là dove Gesù dopo aver compiuto la
moltiplicazione dei pani rimprovera la folla che era andata a cercarlo non perché
avevano colto il segno compiuto, ma perché si erano fermati al pane che avevano mangiato
(cfr. Gv6,26). Di fronte alle parole di Gesù: "Procuratevi non il cibo che perisce, ma
quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà" (Gv6,27), la folla
chiede, appunto, "cosa dobbiamo fare?". La risposta appare tanto semplice quanto radicale e
impegnativa: "Credere in colui che il Padre ha mandato" (Gv6,29).
La seconda volta, la stessa domanda la si ritrova negli Atti degli Apostoli; dopo il
discorso di Pietro all'indomani di Pentecoste, molti si "sentirono trafiggere il cuore" e
chiesero ai Dodici: "Cosa dobbiamo fare?". La risposta di Pietro era diversa da quella del
Maestro solamente nei termini non nel contenuto: "Pentitevi e ciascuno di voi si faccia
battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei peccati" (At2,38).
Nell'uno come nell'altro caso, alla domanda sul "fare" viene risposto con un richiamo
all' "essere"; al primato dell'agire dell'uomo, viene anticipato il primato della
grazia che permette di compiere atti altrimenti impossibili.
La stessa domanda, paradossalmente, la rivolgiamo anche noi oggi. Dopo tanti discorsi
sull'importanza dell'evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dopo ripetute iniziative che
hanno visto impegnate le nostre comunità, sembra che molto si debba ancora fare; anzi,
si accresce il lavoro avanzando nuove pretese. Vale, dunque, anche per noi la domanda: "Cosa
dobbiamo fare?". Essa diventa ancora più impellente nel momento in cui oggetto del
nostro discorso sono i giovani che sembrano vivere, particolarmente in questi anni, con una
svogliatezza e indifferenza non solo nei confronti della fede, ma soprattutto nei confronti
dell'amore di cui si ricerca il senso profondo o la nostalgia per averlo perso, mentre in
maniera contraddittoria lo si riduce a frammento del sentimento e dell'emotività. Cosa
dobbiamo fare, dunque?
Se la risposta fosse quella di trovare immediatamente delle tecniche o delle iniziative
concrete andremmo incontro al fallimento. Non perché non siano importanti, ma
perché non sono il primo punto della questione sul tappeto. Se desideriamo "fare"
qualcosa di efficace è necessario, in primo luogo, avere un'intelligenza del fenomeno.
Non è qui il caso di riproporre analisi sociologiche o statistiche che tutti bene o male
conosciamo. Il Santo Padre, nel suo discorso ci ha chiesto ben altro: di saper rispondere a
chi vorrebbe ridurre l'intelligenza a "semplice ragione calcolatrice e funzionale che tende a
soffocare il senso religioso", con un progetto che sia carico di senso e prodromo per la
realizzazione della propria vita. Un progetto, quindi, che possa essere a fondamento di alcune
certezze e non sottoposto al dubbio dello scetticismo. I nostri giovani, dobbiamo confessarlo,
sono sottoposti loro malgrado a una serie di proposte effimere, senza radice, costruite solo su
ipotesi che spesso si risolvono in delusioni profonde, dopo un brevissimo istante di fascino
passeggero.
Dinanzi a questa permanente domanda, pertanto, la prima reazione che mi viene spontanea
è quella di dire: puntiamo gli occhi sull'essere e non sul fare. Il concilio lo
ricordava con una buona dose di provocazione quando, riprendendo alla lettera le parole di
Paolo VI, scriveva in Gaudium et spes: "L'uomo vale più per quello che
«è» che per quello che «ha»" (GS35). In un contesto
culturale come il nostro, che vede indubbiamente un equivoco primato del "fare" e dell'
"avere", sarebbe pericoloso per noi pastori cadere in una trappola simile. Se dedicassimo le
nostre forze alla moltiplicazione delle attività e delle iniziative, dimenticando cosa
le deve sostenere e lo scopo per cui le poniamo in essere, arriveremmo alla fine della nostra
lunga giornata lavorativa con la profonda illusione di non avere prodotto molto. Facciamo ore
di catechesi, i locali delle nostre parrocchie sembrano sempre troppo pochi per la
molteplicità delle attività… eppure, cosa rimane di tutto questo se poi,
alla fine, verifichiamo che tra la prima comunione e la cresima il numero dei ragazzi si
dimezza; se dopo la cresima riusciamo ad avere un piccolo resto con cui rallegrarci per dire di
avere il "gruppo giovani" e se anche questi, figli del loro tempo, vivono poi le
contraddizioni tipiche di questo momento subendo quasi una schizofrenia che rattrista loro e
noi?
Non è ovvio ritornare su queste questioni di sempre, soprattutto alla
luce del discorso del Santo Padre e della riflessione del Cardinale Vicario nel Convegno
Diocesano di giugno. Ciò che appare come prioritario, in questo contesto, sembra
essere anzitutto il recupero della coscienza su ciò che determina i comportamenti delle
persone e, di conseguenza, quali strumenti apportare nella nostra pastorale perché
l'opera formativa che ci compete possa essere efficace e coerente. E' necessario e urgente per
noi comprendere, in primo luogo, che siamo dinanzi a un cambiamento reale di paradigmi di
pensiero e di linguaggio che non permettono più di affrontare la vita, il mondo, il
rapporto con gli altri, la fede e i grandi valori come avveniva nel passato. Questo
cambiamento, che ha tutti i tratti per essere considerato epocale, passa inevitabilmente
attraverso il linguaggio a cui tutti siamo sottoposti. Anche i concetti più semplici e
abituali e i termini a noi più familiari non sono più percepiti né
compresi alla stessa stregua del nostro pensarli. Rallegrarci perchè alcuni giovani
– nella percentuale di un prefisso telefonico internazionale - capiscono il nostro
linguaggio ci potrà illudere per qualche giorno, ma comprometterebbe la lettura
più approfondita del momento.
Se fosse possibile, nella schematizzazione che sono obbligato a mantenere, direi che il nostro
primo obiettivo dovrebbe essere quello di considerare l'importanza del linguaggio. Uso il
termine in maniera onnicomprensiva per indicare non solo le nostre parole, ma anche i nostri
gesti, le nostre espressioni e, soprattutto, gli stili di vita… insomma, tutto
ciò che è posto in essere dal nostro modo di pensare. Evitare questo
passaggio non serve e non rende più appetibile la nostra proposta pastorale, come se
questo discorso fosse un perditempo a cui devono dedicarsi i teologi.
E' necessario entrare nel sistema di pensiero che oggi appare come dominante e verificare
non solo da dove proviene, ma soprattutto a cosa tende. Siamo tutti inseriti all'interno di
un movimento culturale che trova nel nichilismo di Nietzsche il suo punto di forza. Ciò
comporta la perdita di ogni fondamento unitario per l'estremo scetticismo secondo cui non solo
non è possibile avere una sola verità, ma neppure raggiungerla. Di fatto,
tutto ruota intorno al tema dell'impossibilità per l'uomo di avere una verità;
anzi, per quanto riguarda quella che gli viene proposta dalla fede, egli deve fare di tutto per
liberarsene pena la sua mancanza di libertà e autonomia.
Agnosticismo e relativismo sono diventati termini comuni nella nostra predicazione e nelle
riflessioni che compiamo, eppure non riusciamo a comprendere fino in fondo che i nostri
giovani vivono di queste realtà in maniera ormai inconscia, come se fossero naturali per
loro a tal punto da non comprendere affatto le obiezioni che muoviamo a questo loro modo di
pensare e di essere. L'obiezione che ci viene mossa si traduce nell'ovvietà della
domanda: "Ma tanto, cosa c'è di male?".
Ci si viene a scontrare con un fatto rilevante per cui, da una parte, noi conduciamo una
discussione teorica sul tema della vita, della verità e della fede; mentre, dall'altra,
i comportamenti che vengono assunti dipendono inconsciamente da premesse che ne negano ogni
valore fondante comune per ridurlo al solo sentimento e giudizio individuale, dove tutto
è permesso purché l'altro agisca come vuole senza intaccare la mia libertà
personale.
E' necessario per questo, che impegniamo le nostre forze perché l'opera formativa che
ci compete abbia a mirare su temi essenziali e per questo presentati con argomentazioni il
più solidamente fondate.
Entrano in gioco, a questo punto, due elementi importanti: contenuti brevi con un linguaggio
incisivo e comprensibile che non ha timore di ricorrere anche a nuove espressioni semantiche o
nuove parabole colte dal vivere quotidiano del mondo contemporaneo purché coerenti con
la verità di sempre.
Questi elementi, comunque, devono trovarci con una duplice convinzione: la
ripetitività dei contenuti nelle diverse sedi del nostro ministero; non è
sufficiente fare una bella catechesi e poi non ritornare più sull'argomento. La
ripetitività è un punto basilare per incidere sulla memoria, di cui oggi si
soffre particolarmente la mancanza.
Inoltre, la pazienza che sa attendere il momento più opportuno per verificare la
comunicazione dei contenuti e la loro efficacia. Questa, comunque, richiede da parte nostra
l'impegno a saper recuperare con forza l'incontro interpersonale e la guida dei nostri
giovani, vero strumento per la trasmissione viva della fede. Se non c’è un
incontro a tu per tu, la fede non si trasmette. Possiamo chiamarla direzione spirituale od in
altri modi, ma la tradizione della Chiesa ci consegna il fatto che è solo attraverso il
rapporto interpersonale, che coinvolge l’uomo come persona, che avviene la trasmissione
della fede.
1. In questo contesto, credo sia utile esemplificare alcune tematiche che
dovrebbero rientrare in ogni nostro discorso formativo per l'importanza che possiedono.
Penso, in primo luogo, al tema del senso della vita. Non è possibile che per
giovani tra i 15 e 20 anni il primo motivo di decesso sia il suicidio. Il fatto evidenzia una
mancanza di senso della vita che deve preoccuparci in maniera diretta.
Il tema del senso della vita non è una questione teorica, ma rientra pienamente in
quella capacità di incidere sulle scelte e sugli orientamenti che pongono, in primo
piano, la capacità personale di amare e essere amato. Senso della vita e amore non sono
che due facce della stessa medaglia. E' importante che partiamo da un presupposto positivo
per provocare a questo tema senza restare passivi dinanzi alle contraddizioni che la vita pone
ogni giorno. E' evidente che in una prospettiva simile emergono le principiali questioni che
toccano l'antropologia cristiana e che meritano da parte nostra una peculiare considerazione,
soprattutto dinanzi alle sfide della cultura tecnologica con la quale particolarmente i giovani
si confrontano.
Provocare sul senso della vita come recupero dell'amore, apre inevitabilmente la strada a
fissare lo sguardo sul volto di Cristo. In lui si risolve l'enigma dell'esistenza umana con
la sua contraddittorietà, e trova piena luce il mistero dell'uomo (cfr. GS22).
Intorno a questo tema, vengono a trovare sintesi i contenuti fondamentali della nostra fede ed
evidenziano la loro peculiarità, soprattutto nel possibile confronto con altre
religioni. Far riflettere sul mistero della propria esistenza e sulla chiamata che ognuno di
noi possiede, permetterebbe di comprendere l'urgenza per compiere il passaggio dal
"ruolo" che si riveste nella società alla "missione" che si è chiamati a
svolgere.
Se fossimo capaci di presentare Gesù di Nazareth come colui nella più piena
libertà ha indirizzato la sua vita in una consegna di amore per tutti, senza escludere
nessuno, in maniera del tutto gratuita e in questo ha realizzato il senso profondo della sua
esistenza, avremmo collegato cristologia e antropologia su un tema comune e percepito come
esistenziale per ognuno. Come si nota, siamo posti dinanzi solo apparentemente a un solo tema;
il senso della vita, infatti, se da una parte provoca a riflettere, dall'altra, offre una
pluralità di tematiche dalla verità alla libertà, che sono cogenti in un
momento di crescita e sui quali la sensibilità giovanile è particolarmente
attenta.
Questi temi provocano i giovani e su questi temi dobbiamo noi provocarli. Su questi temi
c’è grande attenzione da parte del mondo giovanile.
2. A me sembra, inoltre, che un'attenzione del tutto particolare la dovremmo porre sul tema
della verità. Siamo inseriti all'interno di un contesto sociale e culturale che
sembra dimenticare spesso il tema della verità; anzi, per alcuni versi sembra averne
perfino paura. Non è un caso che, come conseguenza, sia cresciuto fortemente il senso
di narcisismo che ha portato qualcuno a definire, senza allontanarsi troppo dalla
realtà, che siamo dinanzi a una "era del vuoto" (G.Lipovetsky) a causa
dell'individualismo contemporaneo.
Permane, comunque, una prima questione da risolvere: è proprio necessario, di questi
tempi, parlare di verità? Sperimentiamo un tempo di povertà e di estremo disagio,
di mancanza cioè di fiducia circa la possibilità stessa per l'uomo di accedere
alla verità. A farne le spese, in questo contesto, è per prima la religione.
Siamo provocati a difendere la non assurdità della fede, a mostrare che è
perfezione e compimento del desiderio umano; e lo dobbiamo fare in un contesto sociale e
culturale che sembra trovare grande sollievo nell'attaccare i nostri contenuti e a sbeffeggiare
le nostre istituzioni, mentre vige il più ferreo rispetto per altre forme religiose.
Da parte di molti, la reazione sembra essere spesso quella di sottacere le differenze e
smussare gli spigoli per un generico e frainteso senso di tolleranza. In breve, si ha paura
di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. La paura per la verità
pervade spesso i nostri ragionamenti, obbligandoci a una sorta di strabismo: nella sfera
privata conveniamo sulla crisi del tempo presente, mentre in pubblico si preferisce vestire gli
abiti più opportuni della tolleranza e del politically correct. Se anche noi pastori,
malauguratamente, perdessimo la passione per la verità, allora la nostra pastorale
sarebbe condannata all'insignificanza su almeno due fronti: innanzitutto, in quello personale
perché perderemmo il rapporto con la nostra identità sacerdotale; inoltre, nei
confronti del nostro interlocutore, in quanto non troverebbe mai certezza nei nostri contenuti.
In forza di questo, è necessario riproporre con parresia il valore della
veracità, cioè dell'amore per la verità. Su questo tema scriveva righe
di profonda attualità R.Guardini: "Chi parla dica ciò che è, e come lo
vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo.
Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e
pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di
incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti
piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità;
non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche
quando le situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una
domanda" (Le virtù, Brescia, 1972, 21). C'è un imperativo, dunque, a cui non
si può né si deve sfuggire: attestare che la verità deve riprendere il suo
posto e la sua coerente collocazione non solo nella nostra predicazione e catechesi, ma
soprattutto nella vita delle persone perché possano approdare a un'esistenza carica di
senso.
Con ragione Giovanni Paolo II poteva scrivere: "Bisogna non perdere la passione per la
verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi
percorsi. E' la fede che provoca la ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare
volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero" (FR56).
3. In questo contesto, si fa più forte il tema della religione. Dovremmo sviluppare
la tematica di quale religione è in grado di prospettare coerentemente la dimensione
della vita che permette all'uomo di essere pienamente libero e di scegliere l'amore come
espressione culminante a cui indirizzare se stesso. Siamo nell'analisi del fenomeno
religioso. Uso volutamente questa espressione, perché vorrei inserire non solo il fatto
della religione in sé, ma anche come essa storicamente si esprime nella storia e nelle
culture.
Cos’è la religione e perché l’uomo ne ha bisogno? Ciò che
verifichiamo è, anzitutto, la pluralità delle religioni. Il pluralismo religioso
permette di verificare dati comuni e differenze proprie alle religioni. L’inserimento
nella storia e nella cultura, pertanto, è un dato essenziale per la loro valutazione.
Una religione, per esempio, che rimanesse ferma al suo passato senza accettare lo sviluppo
che, creando tradizione permette anche il suo progresso, sarebbe facilmente destinata a
scomparire presto o tardi dalla faccia della terra.
Dall’altra parte, il declino sarebbe inarrestabile se una religione si trasformasse a
tal punto da perdere il riferimento alla dimensione spirituale ed etica propria
dell’uomo, o creando una forma di schizofrenia tra il contenuto religioso e la norma
etica. Pur tra gli aspetti comuni e le differenze particolari, ogni religione presenta una
duplice qualificazione: far prendere coscienza all’uomo della sua finitezza, con le
contraddizioni che la contraddistinguono, ma accrescendo in lui il senso di infinito.
Si tratta, quindi, di motivare l’accettazione di sé e dei propri limiti, di creare
lo spazio per incidere sul mondo senza cadere nella pretesa di possederlo, di vivere
relazioni interpersonali alla luce del non fare agli altri ciò che non si vorrebbe che
questi facciano a noi, di abbandonarsi al mistero nella fiducia di avere una risposta di senso
che possa appagare.
In una parola, questi elementi permettono di “definire” la religione come la
relazione che orienta l’uomo a Dio. Ciò implica un duplice aspetto: che
l’uomo è veramente se stesso quando si relaziona con Dio; che il dio con cui entra
in relazione sia veramente Dio. Il primo aspetto, infatti, coglie l’uomo come
spiritualmente capace del trascendente; anzi, come pienamente uomo in quanto si apre a questa
relazione che lo configura nello spazio dell’infinito. Il secondo aspetto, però,
deve assicurare che l’assoluto a cui egli si rivolge sia veramente Dio e non una
proiezione di sé o fantasia del mondo.
La religione, insomma, è veramente tale, quando garantisce all’uomo che la
risposta definitiva alla domanda di senso che egli pone lo conduce alla verità su se
stesso perché lo relaziona con il Dio vero. Giunti a questo punto, comunque, dovremo
considerare la pretesa di verità che possediamo, coniugata con la pretesa di essere la
vera religione.
Certo, rimane una pretesa che è sostenuta anche da altre religioni, ma nessuno
può toglierci questa dimensione che è peculiare della nostra identità.
Il problema che si pone non è quello di abolire la pretesa, perché si
distruggerebbe la realtà, ma di saperne dare ragione presentando gli elementi oggettivi
che fanno del cristianesimo l’espressione culminate del fenomeno religioso.
Il tema della verità per ogni religione è essenziale. Senza di essa si
arriverebbe a un equivoco rapporto con la divinità, senza avere mai la certezza della
sua esistenza e dell’efficacia della preghiera. La relazione tra religione e
verità, insomma, è una questione vitale sia per la religione sia per l’uomo
che ad essa si affida. E' necessario domandarsi, quindi, in che misura le diverse religioni
corrispondono a questa esigenza di senso e in che modo danno la risposta che risulta più
coerente non tanto sulle aspettative personali di ognuno, ma sull’oggettiva risposta
definitiva di senso che l’uomo in quanto tale, da sempre e in qualsiasi parte della terra
attende di ricevere.
Una religione vera, pertanto, pur entrando e parlando del mistero, dovrà poter
rispondere alla richiesta di sicurezza che l’uomo si attende circa l’orientamento
della sua vita. E’ qui che la religione deve saper illuminare sulla questione del
“da dove vengo?” e deve indicare la via e gli strumenti per rispondere al
“dove vado?”. Questa religione dovrà essere capace di far rientrare il
credente in se stesso per accettare il proprio limite e le proprie contraddizioni,
perché il Dio a cui si affida lo apre alla speranza del perdono e non gli consente di
rimanere sotto il ricatto della colpa.
Questa religione dovrà aiutare a trovare i motivi per cui merita impegnarsi nel
mondo, assumendo in sé la responsabilità di cambiarlo e trasformarlo secondo un
disegno che ha Dio per autore senza, però, rimanere legato nell’immanenza del
mondo. Una religione che porta all’uomo la salvezza come offerta definitiva di vita
che va oltre la morte, senza annientarlo nel nulla o nella disintegrazione di sé, ma
anzi permettendogli di essere pienamente se stesso nella sua libertà. Una religione,
insomma, che sa dare risposta globalmente al senso della vita, senza fermarsi ai singoli
frammenti che producono verità individuali e per questo incapaci di tenere insieme la
globalità dell’esistenza personale, degli uomini e del mondo.
Una religione che permette di vivere il mistero del rivolgersi a Dio con una preghiera che dia
certezza di non vivere di segni vuoti o riti astratti, ma pienamente inseriti nel tessuto
quotidiano della propria esistenza. Si pensi, ad esempio, al valore che l'eucaristia
possiede nel sostenere e promuovere una cultura fatta di valori portanti del vivere personale e
sociale.
4. Un'attenzione particolare, di conseguenza, spetta al tema della natura, che per molti
giovani è ancora uno spazio importante che alimenta la loro sensibilità. Se
la tecnica entra direttamente nella natura, tanto da determinare la vita e la riproduzione
personale, quale visione dell'uomo e della natura ne conseguiranno? Nel contesto contemporaneo
siamo posti dinanzi a una duplice tendenza in proposito: da una parte, si pensa che l'uomo
non abbia alcuna essenza naturale; esiste evidentemente una dimensione naturale dell'uomo
motivo per cui il biologo studia alcuni dati della natura, ma questo non costituisce la sua
identità, ciò che interessa è solo l'intenzionalità e la
libertà personale che costituiscono la sua natura e la sua persona. Dall'altra
parte, si sostiene che l'uomo deve essere inserito sempre di più all'interno della
stessa natura e quindi egli risulta il prodotto di un processo biologico evoluzionista in grado
di dare spiegazione a ogni possibile modifica inserita nella natura. Queste due prospettive
sono rinvenibili facilmente nel dibattito odierno e in tutte le scienze che se ne occupano;
è sufficiente uno sguardo a quanto avviene in tante classi delle scuole medie e
superiori per verificare la cultura che si inserisce progressivamente in molti.
E' chiaro che una simile divisione di comprensione porta anche a una concezione antropologica
differente con le inevitabili conseguenze nel vivere sociale e culturale. Si deve ritornare,
a nostro avviso, alla tanto vituperata legge impressa nella natura che permane come regola
suprema di vita e principio etico, nonostante lo slittamento che si è creato con i
"diritti fondamentali dell'uomo". Il problema è come tornare a parlare oggi di
“legge naturale” e non solo di “diritti”, come ricostruire il tessuto
di una responsabilità che mi obbliga, di una responsabilità che mi lega ad un
contesto interpersonale, non riducendo così l’uomo ad un soggetto isolato che ha
come unico limite e prospettiva il rispetto dell’altrui libertà. E’ la
grande questione: su cosa si fondano i diritti umani, se non c’è un primato
dell’etica? Questa legge non è una coercizione perché andrebbe contro
la stessa natura dell'uomo; essa, al contrario, è una perenne sfida che si pone all'uomo
perché in essa possa scoprire come esercitare la sua libertà e la sua
progettualità. L'uomo non potrebbe mai porsi dinanzi alla natura in maniera passiva,
quasi da essere asservito dalla natura.
Conforme alla sua stessa natura, invece, è chiamato a far emergere dalla natura tutte
le potenzialità che la spingono ad essere ciò per cui è. Solo in
questa reciproca relazionalità, si può pensare di creare progresso coerente tra
lo sviluppo della natura mediante l'intelligenza dell'uomo e la realizzazione dell'uomo stesso.
La natura, pertanto, ha bisogno dell'uomo per manifestare ciò che è; la cosa
straordinaria è che in questa conoscenza, l'uomo scopre di essere uscito lui pure da
questa natura e che quindi è il fine verso cui essa tende.
Ciò non significa che l'uomo possa fare con la natura tutto ciò che desidera o
che vuole. Qui viene a porsi il primato dell'etica nei confronti di ogni potenzialità
che l'uomo scopre nella natura. L'uomo non può creare progresso distruggendo se stesso o
sperimentando nella natura umana; questo non è conforme né alla natura che
appunto tesa verso l'uomo né alla natura umana che è tesa alla rigenerazione di
sé in conformità con ciò che essa naturalmente produce.
In questo contesto entra, inevitabilmente, il tema della dignità della natura umana.
Proprio perché non è mai un semplice complesso di tessuti, organi e funzioni, ma
sempre unità inscindibile di corpo e spirito, la natura umana non potrà mai
essere sottoposta alla sola legge biologica senza attentare alla propria salvaguardia. La
scienza e la tecnica dinanzi alla natura umana hanno non solo la responsabilità, ma
l'obbligo etico di porsi al servizio della persona e dei suoi diritti inalienabili. Dal
concetto di persona scaturisce come conseguenza quello della sua dignità e del suo
valore universale e, quindi, l'attenzione che è dovuto per ogni persona, per tutta la
persona e per il bene di tutte le persone.
Non è azzardato affermare che solo nella misura in cui si vuole salvaguardare il
concetto di persona e la sua dignità è determinante che essa rimanga legata a Dio
che ne garantisce l'esatta comprensione ed esplicitazione. Nella misura in cui si dimentica
Dio si dimentica anche la persona che reca impressa in sé la sua immagine e somiglianza;
nella misura in cui si dimentica la persona, si dimentica anche Dio che ne è la sua
garanzia ultima.
E' inevitabile che questioni come queste si coniugano con il
senso di responsabilità che deve crescere e far sentire ognuno coinvolto
in prima persona nelle scelte che impegnano non solo il singolo, ma ognuno nella
propria relazione interpersonale. Questo tocca in prima persona il nostro essere
sacerdoti. Il ministero che svolgiamo ci pone, in primo luogo, dinanzi alla
trasmissione della fede. Questa, lo sappiamo, non è primariamente
un contenuto astratto, ma uno stile di vita che scaturisce dalla scelta di porsi
alla sequela di Cristo e di assumere in noi la sua parola come promessa e realizzazione
di sé.
In questo contesto, emerge la testimonianza come categoria privilegiata per
una coerente ed efficace trasmissione della fede. Non per piaggeria, ma
per verificare ancora una volta come il linguaggio derivi dalla concettualità
e se preso seriamente incida nella formazione del pensiero e dello stile di
vita. Nella lingua tedesca, testimonianza si dice zeugnis; ma il verbo zeugen
indica in primo istanza "generare". Il senso semantico porta alla considerazione
esistenziale: testimoniare è un generare e non c'è vera e piena
testimonianza se non si ha generazione. Abbiamo dinanzi a noi un criterio
di credibilità e veracità del nostro essere sacerdoti: se siamo
capaci di generare in ciò a cui noi crediamo e a cui abbiamo dato la
nostra vita.
Questa prospettiva, permette di raccogliere ancora alcuni termini carichi di
senso a cui possiamo solo accennare. I nostri giovani vivono una profonda solitudine.
Nasce spesso da non sentirsi accolti, accettati per ciò che si è
o rifiutati; le diverse forme di tradimento che la vita impone, dall'amicizia
all'amore, in famiglia o con i coetanei, fanno emergere in maniera evidente
il profondo senso di solitudine in cui molti sono immersi.
Diventare noi, per primi, promotori di una cultura che parla di gratuità
e perdono non dovrebbe esserci estraneo. Nessuno, tuttavia, potrà essere
testimone fedele e, quindi, capace di generare se non avrà lui stesso
sperimentato di essere stato gratuitamente amato e perdonato. Sono convinto
che i nostri giovani desiderano da noi una testimonianza di gratuità
piena e di perdono sincero. Vogliono essere amati per ciò che sono, ma
non per questo dobbiamo dimenticare che per noi amare è ricercare senza
sosta e con estrema pazienza il loro bene. Davanti alla domanda iniziale: "Cosa
dobbiamo fare?", pertanto, trovo solo in maniera disarmante le parole cariche
di significato e di impegno di s.Teresa del Bambin Gesù: "Capii che solo
l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore
gli apostoli non avrebbero più annunciato il Vangelo e i martiri non
avrebbero più versato il loro sangue".
"I Presbiteri… non potrebbero essere ministri di Cristo se non
fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena; d'altra parte, non
potrebbero nemmeno servire gli uomini se si estraniassero dalla loro vita e dal loro
ambiente. Per il loro stesso ministero sono tenuti con speciale motivo a non conformarsi
con il secolo presente; ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo
agli uomini, a conoscere bene –come buoni pastori- le proprie pecorelle… si
applichino (quindi) ad esaminare i problemi del loro tempo alla luce di Cristo… Ai
nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto
è bene, quindi, che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la
propria scienza teologica e la propria cultura in modo da essere in condizione di poter
sostenere con buoni risultati il dialogo con gli uomini del loro tempo" (PO3.4.19).
Le citazioni del Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri sono solo un pallido esempio
di quanto il concilio Vaticano II, a più riprese, ha insegnato circa la necessità
e l'urgenza di conoscere il mondo a noi contemporaneo con le sue sfide e progetti, con le
sue aspirazioni e contraddizioni, perché sempre e dovunque si sia in grado di annunciare
con coerenza il Vangelo di Gesù Cristo.
Non possiamo lasciarci prendere dalla stanchezza né dallo sconforto. Lo ribadivano
sempre i Padri conciliari: "I ministri della Chiesa, e talvolta gli stessi fedeli, si sentono
quasi estranei nei confronti del mondo di oggi e si domandano angosciosamente quali sono i
mezzi e le parole adatte per poter comunicare con esso. E non c'è dubbio che i nuovi
ostacoli per la fede, l'apparente inutilità degli sforzi che si sono fatti finora e il
crudo isolamento con cui vengono a trovarsi, possono costituire un serio pericolo di
scoraggiamento" (PO22). Dobbiamo convincerci che la forza che proviene dal Vangelo e la
grazia che sostiene il nostro ministero se sono uniti a una coerente conoscenza dei fenomeni e
pongono con lucidità una critica intelligente permettono di guardare al futuro con
maggior realismo.
Il cambiamento culturale è dinamico e sempre aperto a nuovi sviluppi; ad esso, comunque,
non può mancare la nostra intelligenza e il nostro impegno perché l'opera di
formazione ed educazione alla fede possano sempre dare la genuina e più coerente
risposta alla perenne domanda di senso che alberga nel cuore di ogni persona. Questa risposta
di senso è la vera strada da percorrere perché il cambiamento culturale in atto
sia ancora una volta rivolto all'uomo nella sua integrità e non contro di lui.
Certo Gesù stava solo con il Padre e, tuttavia, stava poi in mezzo
agli uomini. Non dobbiamo mai dimenticare il fatto che il primato della preghiera non debba poi
oscurare il primato dell’evangelizzazione. Abbiamo bisogno della preghiera, ma al
contempo del rapporto con gli uomini. C’è una vera circolarità continua nel
rapporto che il sacerdote ha con Dio e con gli uomini. Noi siamo chiamati al ministero –
a differenza dei certosini o, anche, dei benedettini. Questo implica che il ministero debba
essere sostenuto dalla preghiera. Ma che questo non oscuri l’altra esigenza. Potremmo
ricordare come espressioni che indicano il contenuto del nostro ministero, quella di S.Paolo:
“Guai a me se non evangelizzo”. O, ancora: “Mi ha mandato ad evangelizzare i
poveri”.
Certo lo sport, la musica, ecc ecc. hanno la loro importanza. Potremmo usare per queste
realtà l’espressione teologica dei “praeambula fidei”. Ma resta vera
la domanda successiva: quando si entra nei contenuti della fede, ci capiscono davvero? Mi trovo
ad insegnare teologia nei due corsi di teologia degli studenti del diritto civile della nostra
Università Lateranense. Mi accorgo che c’è una forza di cultura effimera
nella quale vivono che è più forte dei mezzi della proposta che noi facciamo.
Dobbiamo essere ben consapevoli di questo.
Noi non facciamo una proposta “nostra”. Noi annunciamo ciò che dice la
Chiesa. Noi abbiamo la responsabilità di parlare a nome della chiesa. Chi ti ha posto a
giudice di ciò che dice la Chiesa? Ma certo la proposta della Chiesa è un ideale
di vita – non dobbiamo mai dimenticarlo. Non che io riesca a viverla pienamente! Io sono
pienamente configurato a Cristo buon pastore? Ma per carità! Per esempio, nel rapporto
uomo-donna, dare tutto – questo è l’amore – è la proposta della
Chiesa. Dare tutto insieme, l’uomo e la donna insieme, questa è l’apertura
alla generazione dei figli. Questo è l’ideale.
Noi abbiamo il compito di essere presenti nella vita dei giovani, ma come dobbiamo essere
presenti? Questo è il problema. Abbiamo parlato della direzione spirituale. Ma come
possiamo farla, se, insieme, noi la rifiutiamo per noi stessi? E’ la direzione spirituale
che smussa in noi i nostri spigoli caratteriali, perché possiamo aiutare sempre
più l’altro.
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