La casa editrice Rubbettino ha da poco (2003) pubblicato il volume del
filosofo Dario Antiseri, ordinario di Metodologia delle scienze sociali alla Luiss,
«Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano»; il
volume contiene una replica di S.E.mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia
Università Lateranense.
Avvenire del 18 ottobre 2003 ha pubblicato due brani sintetici delle rispettive posizioni
dei due autori, presentate più ampiamente nel volume.
Nel dibattito fra i due pensatori è in gioco il ruolo della ragione umana nell'atto
di fede, nella decisione di credere in Cristo. E' evidente, nei due scritti, la diversa
valutazione di ciò che viene chiamato il “pensiero debole”.
Mettiamo anche noi a disposizione on-line i due brevi testi di Avvenire,
per la grande importanza che hanno in ordine alle motivazioni del credere. Siamo
disponibili per l'immediata rimozione, se la presenza di questi due testi non
fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L'Areopago
Molto è stato scritto e detto contro il pensiero debole. Ma quanto mi
sta a cuore qui ribadire è che c'è un pensiero debole compatibile con la fede e
che apre alla fede. È questo il pensiero di quanti si rendono conto che l'uomo non
è capace di costruire sensi assoluti del cammino della storia umana; che l'uomo non
è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili; che l'umana
conoscenza è sempre parziale, fallibile e incompleta. E tale rimarrà. Questo
pensiero debole non canta «la vittoria del nulla»: esso è un pensiero che
scruta sino in fondo, senza illusioni e senza rimpianti, l'impotenza dell'uomo a trasformarsi
in Dio, l'umana incapacità di indicare una via tutta umana di salvezza,
l'impossibilità di proporre valori e ordinamenti sociali presunti razionalmente
assoluti.
Il pensiero che qui viene proposto e difeso non è un pensiero che abdica all'uso della
ragione. Esso intende piuttosto colpire l'abuso della ragione, di una ragione che si erge a
dea-ragione negando lo spazio della trascendenza; e che si atteggia a dea-ragione anche quando,
per esempio, afferma che senza i suoi costrutti metafisici la Rivelazione cristiana o sarebbe
impossibile o una favola. In quest'ultimo caso, la ragione filosofica non è affatto
ancilla, è domina, di nuovo dea. È essa che concederebbe a Dio il permesso di
rivelarsi. È stato di recente scritto che, priva dei risultati della metafisica
trascendentista cognitiva, la fede cristiana «si presenterebbe come una specie di puro
impegno emotivo o come una fabulazione più o meno vaga e mitica» (E.Agazzi,
Scienza e fede, Massimo, Milano, 1983, p. 157). E qualcun altro ha affermato che senza una
certa metafisica «la parola della rivelazione e della promessa resta in sospeso»
(G. Santiniello, Immagini e idee dell'uomo, Maggioli ed., Rimini, 1984, p. 279). Un momento
significativo della controversia tra pensiero debole e pensiero forte, in relazione alla fede,
si è avuto nello scontro tra Pierre Daniel Huet e Lodovico Antonio Muratori. Nel 1745, a
Venezia, esce il libro del Muratori in cui si impegna a fondo nel dimostrare che i pirronisti
sbagliano quando asseriscono che non esiste un criterio di verità, che è
illusorio pensare che il sistema dei pirronisti «prepari l'uomo a ricevere la fede di
Cristo».
Muratori scrive questo libro contro Pierre-Daniel Huet, il vescovo di Avranches: in precedenza
fervente cartesiano (e quindi metafisico fondazionista) scrisse un'opera che, appena dopo la
sua morte, venne pubblicata a Padova nel 1724 in edizione italiana. Stiamo parlando del
Trattato filosofico della debolezza dello spirito umano. È questa appunto l'operazione
presa di mira dal Muratori. La filosofia è «ricerca della verità». Ma
– si chiede Huet – può l'uomo raggiungere verità certe? No, egli
risponde. E quello che davvero conta è ammettere che «l'huomo non può
conoscere la verità con una perfetta certezza, mediante l'aiuto della sua
Ragione».
Due, sottolinea Huet, sono i fini che la consapevolezza della debolezza della ragione umana
permette di raggiungere: 1) «il fine primario è di schivare l'errore,
l'ostinazione e l'arroganza»; 2) ma ben più importante è «il fine
lontano», il quale consiste nel «preparare lo spirito a ricevere la
fede».
Non è il caso oggi di rifarsi a questa tradizione e dichiarare con tutta franchezza e
onestà che la tradizione fondazionistica, nonostante i suoi meriti, appare in tutta la
sua debolezza, estenuata, distratta, assente? Ha torto Karl Rahner quando scrive che «la
filosofia e teologia neoscolastica, pur avendo al proprio attivo tante benemerenze, oggi sembra
in qualche modo giunta alla fine» (K.Rahner, La fatica di credere, Ed. Paoline, Milano,
1986, p. 98)? Ha torto quando asserisce che il Concilio Vaticano II «ha posto fine al
periodo neoscolastico della teologia»(K.Rahner, La fatica di credere, Ed. Paoline,
Milano, 1986, p. 100)? E, dopo Rahner, Joseph Ratzinger: «Ritengo che il razionalismo
neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Preambula fidei con una
ragione del tutto indipendente dalla fede, con una certezza puramente razionale; tutti gli
altri tentativi che procedono su questa medesima strada, otterranno alla fine gli stessi
risultati. Su questo punto aveva ragione Karl Barth, nel rifiutare la filosofia come fondamento
della fede, indipendentemente da quest'ultima; la nostra fede si fonderebbe allora, in fondo,
su mutevoli teorie filosofiche» (J. Ratzinger, La fede e la teologia ai giorni nostri, in
La Civiltà Cattolica, 1966, IV, p.490).
La conclusione a cui giunge Antiseri in questo saggio sembra
sposare la tesi di un indebolimento della ragione per favorire la gratuità
della fede. Perché? È questo l'interrogativo che mi pongo. Che
senso ha voler indebolire la ragione? Forse che l'assoluto della fede si ricava
dal relativizzare la ragione? La tradizione cattolica non indebolisce la ragione.
Se seguissi Antiseri su questa strada, cadrei nella trappola in cui era caduta
la teologia preconciliare. Essa aveva rincorso il razionalismo dove questo voleva
che lei giungesse per dimostrare che solo la ragione pensa, mentre la fede crede.
Ne scaturì una teologia sterile che relegò il mistero alla spiritualità
e l'amore alla mistica; insomma, elementi marginali e appendici del sapere teologico.
Io non posso seguire questa strada e non ritengo che la ragione debba essere
l'unico interlocutore della fede, anche quando la ragione è scoperta
come debole e contingente! Certo, in un periodo come il nostro in cui si teorizza
il «pensiero debole», la fede potrebbe prendersi facilmente una
rivincita sul passato; finalmente, una ragione contingente che fa emergere e
giungere a una fede forte! A onor del vero, alla fede questa rivincita non le
serve; in ogni caso, saremmo e soltanto dinanzi alla sola fede e alla sola ragione.
Probabilmente, Antiseri potrebbe seguire con me Pascal per far emergere le raisons
du coeur. Nella fede, anche il cuore ha le sue ragioni che sono pur sempre ragioni
anche se di cuore! La ricerca di tali ragioni solo della ragione, ma non obbligano
a venire meno alla logica del cuore!
C'è una trappola che viene tesa in questa teoria, dalla quale io vorrei
sfuggire. Io seguo volentieri Antiseri su gran parte del suo sentiero. Vado
volentieri su questo terreno che verifica la contingenza, ma non mi posso fermare
a fare della ragione, una ragione debole per fortificare la fede. Se così
fosse, la fede sarebbe sempre sottoposta e una determinazione della ragione;
questo, in ogni caso, la limiterebbe e relegherebbe in un ruolo secondario.
Certo, forse si potrebbe avere una fede forte (cosa di cui dubito), ma sarebbe
sempre in posizione marginale, perché la ragione debole avrebbe sempre
la palla dalla sua parte e, come se non bastasse, avrebbe sempre l'ultimo giudizio
veritativo su di sé, sul mondo e forse, sulla stessa fede. Preferisco
seguire Fides et ratio là dove affronta la nostra questione: «sia
la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte
all'altra. La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri
laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede,
privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo
il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio
pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività;
essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione.
Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è
provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell'essere”
(Fides et ratio 48).
Per paradossale che possa sembrare, proprio quando la ragione diventa debole,
è la fede che le chiede di rafforzarsi e di uscire dall'isolamento per
ricercare con passione la verità.
Dario Antiseri mi ha chiesto di rispondere alle considerazioni di questo suo
scritto. Mi ha provocato a pensare e, di fatto, ha chiesto alla mia ragione
credente di dare risposta a una domanda, frutto della ragione critica. Ho dialogato
con lui perché la ragione ci ha consentito di farlo, anche se condividiamo
la stessa fede, che insieme vogliamo non solo salvaguardare e difendere, ma
anche esprimere e partecipare a quanti sono in ricerca della via della verità.
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