Il testo è stato trascritto dalla viva voce dell'autore e non è stato da lui rivisto. I titoli dei capitoli sono redazionali.
L'Areopago
Parto da una breve citazione di Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio:
“Poiché il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia riguarda l'uomo e la donna nella concretezza della loro esistenza quotidiana in determinate situazioni sociali e culturali, la Chiesa per compiere il suo servizio deve applicarsi a conoscere le situazioni entro le quali il matrimonio e la famiglia oggi si realizzano. Questa conoscenza è dunque una imprescindibile esigenza dell'opera evangelizzatrice” (FC 4).
“Una imprescindibile esigenza dell'opera evangelizzatrice”: questo testo ci provoca nella nostra pastorale e nella nostra catechesi a riflettere in primo luogo su quello che è il contesto all'interno del quale oggi noi poniamo la dimensione della famiglia e del matrimonio, perché certamente questa tematica è inserita all'interno di un faticoso processo che ci impegna tutti, nessuno escluso, ad un'attenzione vigile sui cambiamenti in atto.
I cambiamenti in atto non vanno sottovalutati! Penso in modo particolare a quelle che sono le diverse proposte legislative, in cantiere presso i diversi paesi, o che sono già diventate legge nei diversi paesi. Sono sempre più convinto che quando si fanno le leggi si crea anche cultura. Sembra che le leggi possano non interessarci, mentre invece nel momento in cui prendono piede, dopo dieci, venti anni, sono già diventate patrimonio di generazioni. Così diventano cultura, mentalità, nei differenti paesi, così sono diventate cultura anche nel nostro paese. A me sembra che, soltanto guardando sotto questo aspetto le proposte che arrivano nel nostro paese riguardo a questa prospettiva, ci si trovi di fronte ad alcuni fraintendimenti e ad alcune contraddizioni palesi. Infatti, da una parte si assiste ad un profondo cambiamento culturale che viviamo ormai da decenni; dall'altra parte, c'è però anche una volontà di imporre un progetto che voglia rinnegare alla base l'identità della famiglia, così come si è sviluppata a partire dalla concezione cristiana. Vi posso citare testualmente un intervento fatto un paio di anni fa alla Camera dei Deputati, dove una deputata diceva: “Dobbiamo arrivare a distruggere il modello classico di famiglia così come è concepito dai cattolici”. Questi due aspetti sono certamente correlati l'uno con l'altro, però richiedono un'analisi peculiare che sia in grado di verificare le istanze. Non è sufficiente dire che c'è il momento del cambiamento! Quali sono le istanze che sono sottese a questo cambiamento?
Certamente c'è questa rapida trasformazione culturale che è
frutto di un lungo processo, che vede ormai la conclusione della modernità e l'inizio di
un qualche cosa che non sappiamo ancora che cosa sarà. Ne vediamo alcuni germi ed in
maniera a mio avviso un po' obsoleta, con poca fantasia, usiamo l'espressione
“post-modernità”. Certamente noi portiamo le grandi conquiste che hanno
segnato il progresso di questo periodo, insieme alle profonde contraddizioni che hanno segnato
la fine di questo processo culturale. Quello che avverrà è ancora vacillante. Non
sappiamo di preciso che cosa ci porta. Sappiamo che viviamo in una tensione tra il progresso
che abbiamo raggiunto e l'incertezza del futuro, all'interno della quale c'è anche
l'identità della famiglia. Questa famiglia che è profondamente inserita
all'interno del tessuto sociale, di cui forma l'istanza fondamentale, vive essa stessa queste
trasformazioni culturali, i cui segni più evidenti sono appunto nelle relazioni
generazionali all'interno dei vari componenti del nucleo familiare. Guai se noi ci fermassimo
nel vedere le relazioni all'interno della famiglia all'analisi che abbiamo fatto quando eravamo
giovani sacerdoti. Tutto questo è profondamente cambiato! Non possiamo vivere questo
momento solo a livello emotivo!
E' bene chiarificare subito che un cambiamento culturale per essere efficace non porta di per
sé immediatamente all'assunzione di modelli costruiti soltanto ideologicamente con
un'intenzionalità che si oppone alla fede. Esemplifichiamo. E' come se, di fatto, la
fine del progresso culturale dovesse essere in qualche modo determinata dalla conservazione del
modello di fede. “Voi cattolici – essenzialmente – non volete il
progresso!”: questa è l'istanza che normalmente viene provocata. “La fede
con il mantenimento della sua visione, della sua identità impedisce il progresso!
Impedisce che ci siano nuove forme, nuovi modelli che si immettono all'interno della cultura e
della società”. Questa è una grande trappola! Perché qualsiasi
cultura, quando corrisponde alle determinazioni che la rendono cultura, quando è tale,
è sempre, per definizione, dinamicamente aperta ad evolvere il modello che porta in
sé e non a distruggerlo. L'evoluzione non è distruzione, perché altrimenti
non siamo davanti ad un fenomeno culturale. Nelle culture esiste sempre una dura resistenza che
si pone in atto per difendere i contenuti che hanno permesso alla cultura di essere tale. Se
posso modificare un concetto di Ferdinand de Saussure – è stato un grande autore
che ha creato la semiotica, la struttura del linguaggio - lui parlava del fatto che c'è
nel linguaggio una “inerzia collettiva”! E' come se noi volessimo, ad esempio,
togliere oggi il nome alla via Cristoforo Colombo. Vedete oggi “via Cristoforo
Colombo” è nel linguaggio; se qualcuno decidesse un altro nome, noi continueremmo
per trenta, quarant'anni, a chiamarla via Cristoforo Colombo. Perché c'è una
inerzia collettiva. Cioè, una volta che si è messo insieme il significato e il
segno, cioè il modello che ne viene fuori, c'è una capacità di trattenerlo
dentro di sé; quindi la cultura non lo distrugge! Questa dimensione la accenno,
perché è nella misura in cui siamo capaci di superare le contraddizioni che noi
permettiamo di andare avanti nel progresso culturale. Ora: quando culturalmente si ha un vero
progresso nei confronti della famiglia? C'è un pensiero che sta alla base delle diverse
leggi, che sostiene “l'allargamento” del concetto della famiglia, estendendolo
oltre a quella che è la dinamica tradizionale che abbiamo sempre visto: l'uomo e la
donna, che vivono un rapporto stabile. Ebbene questa situazione dell'allargamento della
famiglia, come viene proposto, questa dimensione, di fatto, è all'opposto del concetto
di cultura e di progresso culturale. La contraddizione dell'estensione del concetto di famiglia
porta concretamente, di fatto, a distruggere la forma originaria della famiglia. Ciò che
ne consegue, quindi, è l'alterazione e non il progresso. Perché il progresso, per
paradossale che vi possa sembrare, richiede la conservazione! Vi rimando per questo, ad
esempio, ai nn. 50 e seguenti della Gaudium et Spes, dove si parla del concetto di cultura, che
è un concetto desunto dalla filosofia di Maritain. Vedete, il concetto di cultura in
Maritain, essenzialmente, è questo: cultura è l'espansione della vita
propriamente umana, che consente di condurre un'esistenza eticamente conforme alle leggi della
natura e in grado di svilupparsi in questo senso. E' un concetto filosofico, ripreso da Gaudium
et Spes.
Queste semplici considerazioni preliminari mi sembravano necessarie per non confondere i piani
su cui alcune tendenze dei nostri giorni cercano di esporre le loro opinioni, come se di fatto
la proposta che avanzano riguardo alla famiglia sia una ineludibile conseguenza del progresso
culturale e quanti non vogliono adeguarsi a questo sono da identificare come i fautori di un
movimento di conservazione, che si oppone alle leggi del progresso. A me sembra che sia questo
elemento che non funzioni e che ci debba far dire che questa dimensione di fatto arriva
all'asfissia del concetto stesso di progresso e di cultura, se non al suicidio.
Un'attenta lettura dei fatti ci porta a verificare alcune cause che
risalgono in primo luogo ad un'errata concezione del rapporto dell'uomo con la natura. Mi
domando spesso quale sarà il concetto di natura nei prossimi dieci, venti anni,
perché lì si giocano molte cose. Noi, tutti noi, viviamo con il concetto di
natura che è una res immutabile. La natura è lì, con le sue leggi,
e non si modifica; ma oggi, purtroppo, non si riflette più in questi termini. Quale
sarà il concetto di natura con il quale noi ci incontreremo? Quale sarà il
rapporto uomo e natura? Perché lì c'è, come conseguenza, anche il
cambiamento dei rapporti interpersonali. Noi dobbiamo tenere in considerazione che, in maniera
quasi inconscia, c'è la pretesa di dominio dell'uomo sulla natura, senza rispettare le
leggi che sono inserite nel processo naturale. E questo ha portato ad una modifica dei costumi.
Si pensi soprattutto al campo della sperimentazione. Ad esempio: il grande dibattito sulla
procreazione assistita da cui siamo reduci. Un dibattito che è stato fazioso,
sproporzionato! Il legislatore ha cercato, a mio avviso con molta lungimiranza, di inserire un
rispetto per la natura all'interno di un contesto come quello italiano. Vi immaginate di
chiedere a qualsiasi nostro italiano se vuole avere un figlio da sua moglie, senza sapere o
sapendo che il seme che sarà “inseminato” è quello di un altro uomo?
Perché questo è l'eterologa! In Italia? Oppure la difesa che si fa nei confronti
dell'embrione. Perché si è detto solo tre embrioni? Perché la tendenza
– ne volevano sette, ne volevano quattordici! - è che gli altri embrioni
(c'è vita umana realmente, in essi!), in avanzo, debbano servire per la sperimentazione.
Ricordo che negli anni ottanta una ragazza si era fatta mettere in cinta ed aveva poi abortito
per prendere le cellule del cervello del feto per cercare di guarire il padre di questa ragazza
che era malato di Alzhaimer. E non importa neanche se questo caso sia poi così o no. E'
importante aver chiaro che questo è la sperimentazione: pensare che il materiale che si
ha davanti, che gli embrioni siano soltanto qualche cosa di neutrale… Tutto questo nei
confronti del rapporto uomo-natura modifica inevitabilmente la cultura stessa e il modo di
relazionarsi con la natura e anche tra di noi. Si pensi a quello che è il modificato
equilibrio nei rapporti uomo-donna, perché qui è scoppiata di fatto
l'identità di questi due soggetti. La donna ha certamente rafforzato la sua
personalità, indebolendo, però, in maniera drammatica, l'uomo che sembra
rinchiuso in un circuito adolescenziale, dal quale difficilmente riesce ad uscire. Sarebbe da
verificare, ma sembra risultare dalle statistiche delle cause di separazione, dopo il secondo
figlio, come, in tanti casi, l'uomo torni dalla mamma. Questi sono fenomeni culturali che
devono necessariamente essere presi in considerazione per comprendere il mutamento culturale.
Inoltre c'è una modificata visione di un benessere generale che ha imposto uno stile di
vita che fa del corpo l'unico oggetto di attrazione. Quanti problemi oggi per l'adolescente nel
rapporto con se stesso e con il proprio corpo! In alcune trasmissioni vediamo, ad esempio, dopo
aver ascoltato tutti i racconti della delusione di qualcuna che è stata lasciata per
un'altra, la conduttrice che le presenta dieci “maschietti” e le dice:
“Adesso, per consolarti, scegline uno!”. Ma la realtà, la vita, non è
questo! Ma oggi, se non sei bello, sei da mettere in un cantuccio! Questi problemi non possono
essere sottovalutati quando affrontiamo la tematica più ampia della famiglia.
Questo che ho detto, serviva solo a porre alcune domande sullo scenario e il contesto su cui
voglio porre alcune riflessioni sulla famiglia.
Come primo elemento noi dovremmo essere capaci di recuperare la dimensione
del mistero. L'uomo di oggi si sente sempre più affascinato da questa categoria,
perché la vive in prima persona. Più vede la grandezza delle conquiste che
vengono fatte e più, quando riesce a pensare se stesso, si scopre inevitabilmente come
un grande mistero. Noi dovremmo, lasciatemi passare il termine, “sfruttare” questo
elemento, cioè riprendere tra le mani ciò di cui siamo esperti. Noi siamo esperti
del mistero. Allora, come possiamo usare questa categoria, nel momento in cui viviamo il
momento della così chiamata “debolezza della ragione”? Se la ragione
è debole, perché è frammentaria, la ragione si rafforza nel momento in cui
è posta davanti al mistero, perché lì è provocata dall'andare
sempre oltre, a non fermarsi mai, ad entrare all'interno del mistero. Ora vedete, l'uomo
è un mistero a se stesso! Le grandi questioni sulla propria vita, sulla propria origine,
sul proprio fine, sulla presenza del male, sulla vita oltre la morte… queste domande
permangono immutate nel cuore delle persone o vengono tenute assopite. Noi dobbiamo provocarle,
perché l'uomo le sente dentro di sé. A nulla serve rincorrere la via del
divertimento per illudersi di aver trovato la soluzione. “La sola cosa che ci consola
nelle nostre miserie è il divertimento e tuttavia è la più grande delle
nostre miserie! Perché ci impedisce principalmente di pensare a noi e ci riporta
inavvertitamente alla morte” B. Pascal). Questo succedeva nel 1600 e questo succede
immutato oggi! Perché l'uomo è sempre lo stesso! Proprio ieri parlavo con gli
studenti dell'Università, alla fine di un esame e chiedevo: “Cosa farete
ora?” Mi hanno risposto: “Prima mi riposo, poi, in seconda serata –
interessante già questo linguaggio - vado al pub a distrarmi e bere birra”. Vedete
noi non conoscevamo qualche anno fa in Italia questo fenomeno di ragazzi e ragazze che escono
alle 23.00 e che vediamo poi girare per le strade con la bottiglietta di birra in mano. Chi se
ne intende di queste cose, sa che l'assunzione in maniera abitudinaria ed esagerata della birra
non è per niente diversa o meno pericolosa dell'alcool.
Come in rapporto alla famiglia e al matrimonio possiamo ricuperare questa categoria del
mistero? La strada dell'enigmaticità dell'esistenza trova luce, come ci insegna il
Concilio in quella bellissima espressione di Gaudium et Spes 22, alla luce di un mistero
più grande. Possiamo alla luce di questo mistero più grande prendere quel mistero
naturale dell'esistenza e cercare di dare una via di soluzione?
Cerco di applicare questa prospettiva alla dimensione del matrimonio e della
famiglia e mi sembra che sia fattibile se ritorniamo alla prima pagina della Genesi, là
dove l'autore sacro narra la tristezza di Adamo dopo la sua creazione. Adamo è triste
perché vive una situazione di solitudine. A nulla serve la sua superiorità sugli
animali. Il fatto che Dio glieli conduce perché possano ricevere un nome da lui –
un nome che sarebbe rimasto per sempre! - non toglie a lui il desiderio di avere qualcuno con
cui dialogare – dia-logos, la reciprocità! Dio fa scendere il sonno su Adamo e dal
costato Dio crea Eva, la madre di tutti i viventi. Qui c'è il momento del risveglio:
“Adesso, sì! Questa è ossa delle mie ossa, carne della mia
carne!”
Di fronte a Eva Adamo capisce chi è; davanti ad Eva c'è la scoperta della
propria identità personale. E questo non è in riferimento estraneo alla sua
natura, ma è conforme a ciò che egli ha scoperto di se stesso. Eva diventa la
risposta a quel desiderio naturale, che Adamo aveva in sé, di non voler rimanere solo.
Dio, quindi, non ha creato l'uomo per la solitudine, ma per la relazione, la
relazionalità, perché nella scoperta dell'altro rinvenisse il senso più
profondo di sé. E' così si spezza il cerchio di solitudine! Adamo qui comincia a
parlare e nella sua relazione con Eva capisce finalmente chi è e nello stesso tempo
capisce che non potrà mai dominare Eva. Perché il nome lo dà Dio. Chi crea
è Dio, non è Adamo.. Il testo dice che Adamo chiama “donna”, madre di
tutti i viventi; l'uguaglianza tra i due sta nell'atto creativo di Dio, che in ambedue pone
l'immagine di se stesso, l'immagine e la somiglianza. Eva e Adamo diventano in questo momento
l'uno per l'altro dono. Per questo si capiscono. E capiscono che da quel momento la loro
esistenza sarà di un'unità tale da formare una sola carne. Perché questo
avvenga devono lasciare il padre e la madre per creare una nuova unità, una nuova forma
di vita creata esclusivamente per loro. E qui non c'è ripetizione alcuna in ciò
che dovranno essere, perché il progetto di Dio su ognuno di loro, singolarmente e
nell'unità della carne è un progetto di salvezza che li porta ad un futuro carico
di senso. E' lì in questa reciprocità. I tratti della famiglia sono qui composti
in una sintesi mirabile. Abbiamo la dimensione del dono come la forma primaria dell'amore che
emerge in maniera così forte fino a trovare poi in Giovanni 3,16 la sua forma più
espressiva. Senza questa componente della gratuità, dell'essere dono l'uno per l'altro,
è impossibile entrare all'interno della logica dell'amore, perché il rapporto
sarebbe sempre rinchiuso nell'ambito della conquista dell'uno sull'altro con alla base una
sottile forma di ricatto, che prima o poi si manifesta nel rinfacciare il sacrificio compiuto,
costruendo inevitabilmente un impervio dominio destinato a distruggere la sincerità del
rapporto. Perché normalmente se non c'è il senso della gratuità e il senso
del dono allora c'è quello della conquista. non c'è un'altra forma. Ma se
c'è quello della conquista allora c'è anche quello del sacrificio (io ho fatto un
sacrificio per te!) e quindi c'è quello del ricatto. Ma non c'è amore! Oggi
nell'ambito filosofico c'è una tendenza molto ampia a fare addirittura la filosofia del
“dono”, cosa che sembrava impossibile fino a qualche tempo fa. Oggi c'è il
recupero del dono e della gratuità.
Ma c'è anche la dimensione della vita familiare come vocazione che permette di inserire
il mistero della reciprocità in un piano di salvezza che, giorno dopo giorno, richiede
di essere conosciuto e attuato per permettere una partecipazione attiva nella realizzazione di
questo piano. La vocazione non è un tratto secondario – lo sappiamo benissimo -
nella costruzione della famiglia, ma è ciò che permette di far comprendere che,
se i due rimangono soltanto al livello del ruolo, il ruolo cambia a secondo dei contesti in cui
ci si viene a trovare. La vocazione è quella realtà per la quale uno non
può essere padre o madre soltanto quando è in casa sua e quando è in
ufficio è dirigente e così via, come se il ruolo fosse quello che abbiamo e che
la società dà a seconda degli ambienti in cui ci troviamo. No! Se ricuperiamo la
dimensione di vocazione, allora dal ruolo si passa alla missione; si scopre inevitabilmente che
c'è la partecipazione ad una missione più ampia, che è appunto quella di
condurre a realizzazione il piano di salvezza. Il mistero – la sottolineatura del
mistero! - della propria chiamata a diventare sposi e genitori trova risposta convincente,
nella misura in cui viene affidata agli sposi e ai genitori la condizione di “essere
missione”, che stanno realizzando un piano di salvezza che è segno efficace per la
comunità, lì dove loro vivono e stanno realizzando pienamente un'offerta della
loro esistenza.
A partire da questa dimensione mi sembra che si possa ricuperare un altro testo della Scrittura – Nuovo Testamento adesso; fin qui abbiamo descritto solo la dimensione naturale - che è Efesini 5. Qui Paolo dice che questo è un “mistero grande!”, perché il rapporto dell'uomo con la donna nell'amore del matrimonio viene definito un “mistero grande”. Mistero che non umilia la ragione, ma che le consente di andare appunto oltre i limiti e la debolezza che possiede. Perché non dobbiamo dimenticare che per Paolo, il mistero non è ciò che non si capisce. Il mistero è ciò che viene rivelato, è ciò che viene fatto conoscere (Rom 16, 25-26); quindi ciò che da noi stessi, dalla debolezza della nostra condizione non riusciamo a esprimere, Dio ce lo fa conoscere! Questo è il mistero: Dio entra nella nostra vita e ci consente di trovare una luce. Alla luce del mistero del Verbo incarnato (GS 22), trova vera luce il mistero dell'uomo: è la stessa cosa! E poi il termine mysterion greco viene tradotto in latino con sacramentum. Il mistero resta, ma diventa sacramento. E sacramento – per definizione – è segno visibile; quindi il mistero non viene abolito; viene mantenuto, impresso ed espresso attraverso la dimensione sacramentale. Quella realtà del dono, della vocazione, dell'incontro, della conoscenza, della reciprocità… viene adesso ripresa e portata dal mysterion al sacramentum. La famiglia quindi rimane mistero di amore, ma è sacramento, è posto dinanzi agli occhi di tutti per cogliere un amore più grande e profondo, perché è tipico del segno sacramentale rimandare oltre la forma visibile. E allora il patto di amore che i due giovani si scambiano (pensate al segno dell'anello!), questa dimensione consente allora di verificare la donazione l'uno all'altro che riguarda tutta la vita. “Io prometto di esserti fedele sempre, nella buona e nella cattiva salute, amarti e rispettarti ogni giorno della mia vita”. Ogni parola ha qui un mondo su cui fare una catechesi!
Qui prende forma non solo la misura dell'amore che viene versato nell'altro,
ma la sua stessa fecondità, perché l'amore è fecondo.
Ma qui devo inserire il tema della pericòresi trinitaria. Qui noi dobbiamo scoprire che
questo amore deve arrivare fino alla fine e che quest'amore che si dona è generativo di
una forma di un amore pienamente personale, autonoma e libera. Mi piace riprendere qui una
bella espressione di S.Bonaventura, quando egli dice che l'amore tra il Padre e il Figlio
è certo un amore totale e pieno, perché il Padre dà tutto al Figlio e il
Figlio riceve tutto dal Padre, ma “insieme” non hanno dato ancora tutto. Quindi non
è sufficiente che il Padre e il Figlio diano tutto, ma il tutto lo devono dare insieme.
Ecco perché l'icona - diciamo così - della Trinità non è più
soltanto una dimensione da contemplare, ma diventa per la famiglia una immagine reale da
vivere, perché gli sposi danno tutto se stessi e si dà tutto se stessi nella
reciprocità. Ma “insieme” devono dare ancora tutto se stessi e qui
c'è la fecondità dell'amore. In questo orizzonte è possibile capire quello
che dice Paolo in Efesini 5,25: “donare se stesso per lei”. Qui c'è
il programma di amore che è posto dinanzi alla coppia come vocazione specifica nella
chiesa. La famiglia diventa segno non soltanto per i credenti, ma anche chi non crede deve
essere provocato a capire qual è il fondamento e l'origine di questa concezione
dell'amore. Come mai si amano fino a donare tutto se stessi l'uno all'altro e si amano insieme
da donare insieme una carne sola, tutto loro stessi? Questo non è un segno solo per noi,
ma un segno che si apre, una provocazione che va al di là e deve essere tale. Come mai
si amano per sempre? Cosa sta alla base di questo? L'impronta del Dio-Trino non solo nella
singola creatura, ma anche nella relazionalità della coppia: è lì che
consente di verificare l'impegno che i due giovani hanno assunto nell'esprimere la loro vita
come donazione piena e totale. Lì c'è il frutto dell'amore.
Qui viene scoperta – per quanto possa sembrare paradossale,
soprattutto nel contesto in cui viviamo oggi - anche l'espressione più alta della
libertà! Guai se noi non ponessimo anche nella nostra catechesi la concezione profonda
della libertà come dono totale del dare tutto se stessi. Vedete Giovanni Paolo II,
sempre in Familiaris Consortio, al numero 6, dice:
“Alla radice di questi fenomeni negativi sta spesso una corruzione dell'idea e della
esperienza della libertà, concepita non come la capacità di realizzare la
verità del progetto di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, ma come autonoma forma
di affermazione non di rado contro gli altri per il proprio egoistico
interesse”.
Dobbiamo essere capaci di formulare una catechesi su come si è veramente liberi nel momento in cui si ama in maniera genuina. Qui viene fuori tutto il tema della capacità e della responsabilità per l'altro e quindi la capacità della scoperta della scelta della fedeltà.
Da ultimo: c'è una particolarità del testo di Paolo in Efesini, che mi piace evidenziare. Mentre al marito viene chiesto di “amare la propria moglie come se stesso”, alla donna l'Apostolo chiede di “rispettare il marito”. A prima vista potrebbe sembrare una umiliazione della sposa, mentre nulla è più distante dal pensiero dell'Apostolo. “Rispettare” ha una valenza semantica fortemente qualificante. Rispettare significa: guardare in profondità! E' il “respicere”! Alla sposa è chiesto di saper guardare in profondità, perché possa compiere sempre ciò che è il bene del proprio sposo. L'amore vive del voler bene e del voler il bene dell'altro. Alla sposa non si chiede qualcosa di diverso dallo sposo; viene esplicitata la forma con cui si deve amare.
Lasciatemi qui inserire il tema della fecondità della vita e del concetto della vita. Nella concezione del mistero permane quella dimensione profonda della vita che si è fatta visibile. Perché noi sappiamo che la vita si è fatta visibile e “noi ne siamo testimoni” (1 Gv 1,2). Dove si dà il segno che questa vita si è fatta visibile? E' lì in questa capacità appunto di esprimere l'amore senza rinchiuderlo in se stessi e senza volerlo a tutti i costi. Dobbiamo insistere anche su questo! E' propositivo di una cultura! Penso alle scempiaggini che sono state dette nel dibattito su questa legge. Il figlio non è un giocattolo che si deve avere a tutti i costi! “Io voglio un figlio!” Non esiste un diritto assoluto per nessuno! Ci può essere una fecondità che è ferita, ma una fecondità ferita può esprimersi in una pluralità di forme che sono vere espressioni di maternità e di paternità responsabile; perché l'esperienza del proprio limite, il mistero del proprio limite, diventa la forza per debordare in forme di donazione dinanzi alla povertà e alla solitudine, che spesso l'egoismo del mondo impone nella nostra cultura. Questa fecondità prende il volto di una procreazione diversa, ma non per questo meno amorosa; e si trasforma in strumento di salvezza per tanti che non avrebbero possibilità alcuna di sperimentare l'amore di una famiglia. Questa maturità non si può imporre, ma deve crescere nei coniugi, ma non si può dire che questa sia una fecondità meno efficace di quella fecondità che è capacità di procreare a partire dal proprio corpo.
Vera sposa e vera madre, Maria da al mondo l'autore della vita. Come sarebbe
bello riprendere quel testo di Paolo VI: “La casa di Nazaret è la scuola dove si
è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. Qui
tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia.
Nazaret ci ricordi cos'è la comunione di amore, la bellezza austera, il semplice, il suo
carattere sacro e inviolabile”. E davanti al mistero, al mistero della famiglia rimane il
silenzio come la forma privilegiata per poter contemplare il segno che ci è stato dato.
Ci deve essere sempre lo stupore; lo stupore ci da la forza di entrare sempre più nel
mistero e, perciò, di trovare sempre nuove immagini, nuovi linguaggi, nuove forme
espressive.
Lasciatemi concludere con una espressione che è tipica dell'evangelista Giovanni:
“I suoi discepoli credettero in Lui”. Sapete che nella teologia della fede ci sono
i diversi modi attraverso i quali si esprime la fede: si crede a Dio, a Gesù, si crede
che Gesù è il Figlio di Dio. E c'è questa bella espressione, tipica di
Giovanni: si crede in Gesù. Il “credere in” indica una dinamica, una
crescita continua nella relazionalità. Ecco io penso che se poniamo il tema della
famiglia e della responsabilità che la famiglia possiede oggi – per cui possiamo
ripetere con Giovanni Paolo II: “Famiglia diventa ciò che sei!” - lo
possiamo fare nella misura in cui c'è questo “credere in”, questa
capacità di poter andare sempre, sempre, al di là. E' sempre una crescita
continua nell'individuazione dell'identità della famiglia, ma soprattutto in quel
rapporto con Cristo che è un rapporto di crescita continua.
Il ruolo della ragione nella decisione
di credere in Cristo
Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero
dell'uomo
Il compito della catechesi oggi ed i suoi problemi
La fede e la preghiera
Lettera sulla "teologia biblica del deserto"
Testimoniare il Vangelo nell'Università
Gesù Cristo via della speranza
Trasmettere la fede, il consegnare
se stessi di Dio e dell’uomo
Fede e politica
Educare ai valori per sconfiggere
il relativismo
La cultura cattolica: identità
e forza educativa di una tradizione
Comunicare Cristo ai giovani