Mettiamo a disposizione la trascrizione del V incontro,
dedicato alle figure di Clemente Romano e di Ignazio d’Antiochia, del
corso di formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma proposto
dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 2/2/2008,
presso la basilica di San Clemente. Appena possibile saranno on-line anche le
trascrizioni delle successive lezioni. Il calendario degli incontri con l’indicazione
dei luoghi nei quali si svolgono è on-line sul sito dell’Ufficio
catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it.
Il testo è stato sbobinato dalla viva voce degli autori e conserva uno
stile informale.
Le trascrizioni dei primi quattro incontri, dedicati alla basilica di Santa
Prisca, di Santa
Maria in Aracoeli, di San Marco e di
San Pietro in Vincoli, e rispettivamente,
agli Atti degli Apostoli, alla Lettera di san Paolo ai Romani, al vangelo di
Marco ed alle lettere di Pietro, sono già disponibili on-line. Le foto
che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella
Gallery San Clemente.
Per ulteriore materiale, cfr. la mostra L’ignoranza
delle Scritture, nella sezione sui Padri
apostolici.
Il Centro culturale Gli scritti 30/7/2008
Se, provenendo dall'atrio che con il suo colonnato e la fontana
nel mezzo ci ricorda l'impianto dell'antica casa romana, entriamo nella Chiesa
di San Clemente, lo sguardo resta subito rapito dal grandioso mosaico dell'abside,
il più splendido vanto dell'intera Basilica.
La datazione
La data esatta del mosaico è ancora in discussione. Si fa risalire l'opera
ad un periodo che oscilla tra il XII e il XIII secolo; il mosaico deve
essere stato realizzato da un gruppo di artisti sotto la guida di un maestro.
Un aiuto alla datazione ci viene dal fatto che su motivi iconografici e decorativi
protocristiani (IV e V secolo), altamente simbolici -come ad esempio
la croce come albero della vita piantato su di un colle che è il paradiso
irrigato dai suoi quattro fiumi- s'inserisce una rappresentazione più
diretta -pensiamo al Cristo sulla Croce al centro del mosaico. Gli studiosi
ipotizzano allora una sorta di riproduzione, o forse, una vera e propria
ricostruzione medioevale rielaborata del mosaico che decorava l'abside della
basilica inferiore che era, quindi, molto precedente.
Cosa rappresenta questo mosaico?
Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton ha dato una straordinaria
definizione sintetica di questo mosaico, affermando che esso rappresenta
la vitalità del cristianesimo. In un suo scritto degli anni ‘30
del secolo scorso egli dichiara: "Solo un pazzo può stare di fronte a
questo mosaico e dire che la nostra fede è senza vita o un credo di morte.
In alto c'è una nube da cui esce la mano di Dio. Sembra impugni la croce
come un'elsa e la conficchi nella terra di sotto come una spada. In realtà
però è tutt’altro che una spada, perché il suo contatto
non porta morte, ma vita. Una vita che si sprigiona e irrompe nell’aria,
in modo che il mondo abbia sì la vita, ma l’abbia in abbondanza".
Cosa rappresenta allora questo mosaico? È l'intera storia della salvezza
centrata sull'incarnazione del Figlio di Dio e sul sacrificio redentore della
Croce.
Decifriamone il messaggio
L'icona biblica di riferimento è la vite e i tralci; lo comprendiamo
anche dalla scritta posta alla base: "Ecclesiam Christi viti similabimus isti,
quam lex arentem, sed crux facit esse virentem” (la scritta è inframezzata
da un testo fra due piccole croci che fa riferimento alle reliquie conservate:
“De ligno crucis, Jacobi dens, Igantiiq. insupra scripti requiescunt corpore
Christi”); possiamo tradurre in italiano:”Paragoniamo la Chiesa
di Cristo a questa vite, che la legge fa disseccare, ma che la croce vivifica”
(il testo sulle reliuqie dice, invece, “Un frammento della vera croce,
un dente di san Giacomo ed uno di Sant'Ignazio sono conservati nel preciso luogo
dove è raffigurato Gesù Cristo sopra quest'iscrizione”.
In realtà la vite è rappresentata da questa grande pianta di
acanto che cresce rigogliosa dalla terra irrigata dal sangue di Cristo.
Nelle varie volte di questa "vite" sono racchiuse scene di vita quotidiana a
significare che tutto il genere umano e la creazione stessa nel suo esprimersi
trovano vita da questa pianta.
Questo intimo rapporto tra Cristo ed il creato si realizza per noi nel sacrificio
della Messa offerto sull'altare che è al centro della zona absidale,
esattamente sotto la scena del mosaico. Il mistero rappresentato nel mosaico
sull'altare diventa per noi realtà.
Vediamo il mosaico più in dettaglio: al centro c’è la
croce. Essa costituisce l'elemento che da significato e vita al tutto. Essa
non ci appare come un patibolo di morte ma come un trono da cui il Redentore
regna e trae a sé tutte le cose (Gv 12,32). Ai suoi lati sua Madre Maria
e san Giovanni. Sulla croce sono rappresentate dodici colombe bianche
simbolo dei dodici apostoli che hanno portato nel mondo la buona novella.
Sotto, a destra e sinistra, lungo il margine inferiore sopra la scritta, scene
di vita quotidiana: una donna dà da mangiare ai polli, alcuni pastori
pascolano il gregge, altri mungono il latte, cacciatori imbracciano armi per
la caccia. È rappresentata la vita del cristiano comune, dell’uomo
del tempo, che svolge ogni suo lavoro sotto il segno della croce, cioè
della redenzione.
Tra le scene di vita quotidiana che si snodano ai piedi della croce si notino
i pavoni che nell'iconografia cristiana sono il simbolo della risurrezione
e dell'immortalità dell'anima, nonché due cervi assetati
che si abbeverano. Essi ci ricordano il salmo: "Come la cerva anela ai corsi
d'acqua, così l'anima mia anela a te o Dio".
All’altezza della base della croce, nella ramificazione della pianta,
sono rappresentati i quattro dottori della Chiesa d'occidente ciascuno
con il nome vicino: guardando da destra Ambrogio, Gregorio, Girolamo, Agostino.
In mezzo ai quattro grandi Padri scene di vita familiare. Sia a destra
che a sinistra vediamo i benefattori dell'opera: il signore con la moglie, a
sinistra, ed i figli, a destra.
Vediamo in dettaglio anche le altre figure: guardando a destra è rappresentato
un personaggio con la tonsura che dà da mangiare ad un uccello
(si ipotizza il cappellano di famiglia) e dall'altra parte, sempre intento a
dar da mangiare ad un uccello, un altro personaggio (si ipotizza essere il maggiordomo).
All’estrema destra, invece, un uccello in gabbia, simbolo forse
dell'incarnazione.
La nostra opera è riccamente abitata da graziose nidiate di uccellini
–ed anche, nuovamente, un pavone- motivi tradizionali del IV-V secolo
per simboleggiare le anime dei salvati nella gioia del paradiso. Notiamo anche
come motivi decorativi una bella lanterna ed un traboccante cesto di frutta.
Al livello superiore del registro dei Dottori della Chiesa e dei familiari benefattori
notiamo delle figure mitologiche; guardando a destra, si riconoscono
un demone ed una divinità su di un delfino, quasi e dire che la redenzione
è arrivata fin lì, è giunta ovunque!
Ritornando al centro, all'apice della cupola, si trova il monogramma “chi-ro”
con l’alpha e l’omega, contenuto in un disco ellittico; è
simbolo di Gesù Cristo e rappresenta la vittoria che Gesù ha ottenuto
sulla morte per mezzo della croce. Sotto il monogramma, una serie di semicerchi
ondulati che rappresentano i cieli aperti con la mano del Padre onnipotente
che porge al Figlio una corona simbolo di vittoria.
Nella parte più bassa del mosaico dodici agnelli, che vanno verso
l'Agnello di Dio, che è al centro con l'aureola. Gli agnelli escono da
due città: Betlemme guardando a sinistra e Gerusalemme guardando a destra,
le città della nascita e della morte e della risurrezione di Cristo,
simboli probabilmente dell’incarnazione e degli eventi pasquali.
Sopra l'arcata della porta di Betlemme si scorge un bambino (potrebbe
essere Gesù) e sotto un secondo bambino, forse lo stesso, che scende
le scale. Sopra la porta di Gerusalemme si vede, invece, una croce e sotto
un gallo (simboli che confermano la lettura iconografica che vede nelle
due città l’incarnazione e la Pasqua, porte attraverso le quali
gli uomini, le pecore, giungono a Cristo).
Allarghiamo ora lo sguardo per cogliere cosa è rappresentato tutt'attorno
alla croce e alla vite. In alto, al centro, il mosaico presenta Gesù
maestro col libro aperto: è il Pantocratore (colui che tutto governa),
il Cristo non più martire sulla croce, ma giudice dell'umanità
assiso in gloria.
Il tondo nel quale è il Pantocratore sembra inserirsi nella scritta che
avvolge tutta l'abside: “Gloria nei cieli a Dio che siede nel trono e
pace in terra agli uomini di buona volontà”. Il Cristo Pantocratore
è adorato dai quattro evangelisti: guardando da destra il bue
(Luca), l'aquila (Giovanni), l'uomo/angelo (Matteo) ed il leone (Marco).
Ad un livello inferiore sono raffigurati ai lati i profeti ed i martiri
che danno testimonianza alla gloria di colui che siede in trono. Guardando a
sinistra san Paolo che insegna a san Lorenzo a seguire la croce di Cristo.
San Lorenzo ha in mano una croce e sotto i piedi una graticola a ricordo del
martirio (avvenuto nel 258, sotto l’imperatore Valeriano). Sotto di
loro il profeta Isaia con il rotolo della profezia: "Ho visto il Signore
che sedeva sul trono" (6,1) –“Vidi Dominum sedentem sup. solium”.
A destra vediamo, invece, san Pietro che istruisce san Clemente. Il suo
invito è messo per iscritto: "Respice promissum, Clemens, a me tibi Christum”
(“Clemente, guarda il Cristo che ti ho promesso”). San Clemente
tiene in mano un'ancora e sotto di lui si vede una barca ed attorno alcuni pesci:
si allude qui al martirio subito da Clemente, gettato nel Mar Nero legato ad
un'ancora.
Sotto di loro il profeta Geremia che tiene in mano un rotolo del suo segretario
Baruc: "Questi è il nostro Dio e nessun altro può paragonarsi
a lui" (Bar 3,36) –“Hic est Ds. noster et n. estimabitur alius absq.
illo”.
Questa citazione del profeta Baruc può essere proprio la battuta con
la quale possiamo concludere questa piccola spiegazione iconografica ma al tempo
stesso può essere la battuta d'avvio di una nostra personale riflessione
su ciò che questa opera ci vuole comunicare.
Seguendo la descrizione che abbiamo ascoltato da Andrea Coldani potete immaginare, anche visivamente, come in un
albero genealogico all’inverso, in successione, l’origine e lo sviluppo della tradizione che ci ha
generato alla fede: Cristo, poi Pietro che dice a Clemente che viene dopo di lui di guardare a Cristo, poi via
via fino ad arrivare ai nostri nonni, ai nostri genitori, al parroco che ci ha battezzato, alla nostra fede.
Clemente è uno dei primissimi anelli: l’elenco dei vescovi di Roma, dopo Pietro pone Lino, Cleto
e, subito dopo, Clemente. Come dirà sant’Ireneo, Clemente “aveva visto gli
Apostoli”, “si era incontrato con loro”, e “aveva ancora nelle orecchie la loro
predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione” (Adv. haer. 3,3,3).
La fede cristiana ci raggiunge insomma tramite la Tradizione apostolica nella quale ognuno ridona tutto
quello che ha ricevuto dalle generazioni precedenti a quelle generazioni successive. E la catechesi è uno
strumento privilegiato di questa tradizione. Noi siamo qui oggi per riflettere proprio sulla Tradizione, su come
cioè l’annuncio degli Apostoli si allarghi per arrivare a toccare in maniera viva tutte le
generazioni e tutti i tempi.
Cominciamo con una provocazione: perché Cristo non ha chiesto di scrivere il Nuovo Testamento?
Questo fatto ci deve convincere di un punto semplicissimo che deve essere chiaro: la cosa più importante
del cristianesimo non è la Bibbia, e ve lo dico io che amo e studio la Bibbia da una vita! Se questa
affermazione venisse da una persona che non ama la Scrittura e non chiede a tutti di leggerla, sarebbe da
rifiutare.
Bisogna aver chiaro che Cristo non ha mai detto ai suoi apostoli: “Scrivete i nuovi libri della
Bibbia”, ma ha detto, fondando con essi la chiesa: “Andate in tutto il mondo, annunziate il
vangelo, battezzate, predicate, guarite e fate discepole tutte le nazioni”. L’intento di Cristo
non è stato l’arrivare ad un libro, non è questa la sua finalità. Egli ha voluto
che nascesse un popolo, che prendesse vita una comunità che avesse un tale amore per lui, che vivesse
di una tale presenza del Cristo, da donarla ogni volta ad ogni nuova generazione e ad ogni uomo ateo o
appartenente ad un’altra religione che ancora non lo conoscesse. In questa ‘vite’ del
mosaico di san Clemente debbono entrare tutte le genti: chi si innesta in questa vite trova il Cristo
crocifisso, risorto e salvatore. La Tradizione è così la vita di Cristo che si sviluppa.
Questo è stato il cuore di tutta la predicazione di Gesù. Chi divide Cristo dalla chiesa
commette un errore storico e teologico indescrivibile, perché così facendo si divide Cristo dalla
sua opera più grande, la chiesa. Cristo è venuto perché ogni persona appartenesse alla
chiesa, unendosi a lui. L’opera propria di Cristo è quindi proprio la tradizione.
Pensate solo al fatto semplice, ma di estremo interesse, che la chiesa primitiva per tanti anni non ha scritto il
Nuovo Testamento, che è stato completato solo sul finire del I secolo, proprio intorno agli anni nei quali
è vissuto Clemente (la redazione finale del vangelo di Giovanni viene posta dagli esegeti intorno
all’anno 95). Perché per tanti anni i cristiani hanno potuto fare a meno del Nuovo
Testamento?
Perché il Nuovo Testamento è straordinario, è importantissimo, è necessario, ma in
fondo non è la cosa più importante. Serve per confermare la parola orale, per dare una regola
scritta che non faccia allontanare dal Cristo verso tradizioni puramente umane, perché in esso la
Parola viva di Dio sempre risuona, ma il NT non è il cuore della rivelazione.
Nel Paradiso la Bibbia non la leggerà più nessuno, perché noi avremo direttamente il Cristo.
La Bibbia è uno strumento terreno, perché sulla terra per arrivare a Cristo abbiamo bisogno di un
punto fermo; ma nel cielo avremo direttamente Cristo e i Santi, quindi non ci sarà più
bisogno della Scrittura.
Questo ci fa comprendere la differenza che esiste fra la Bibbia ed il Corano che invece è un libro
eterno; nella visione islamica la rivelazione di Dio consiste in un libro, non nella croce, nella morte e nella
resurrezione di una persona, non nella vita e nell’amore del Figlio.
Inoltre –permettetemi ancora questa provocazione che non vuole nulla togliere al valore divino della
Scrittura, ma inserirla nel contesto della Tradizione che la scrive e le dà senso- dopo la redazione dei
vari libri della Bibbia, viene un ulteriore momento, che è ancora un evento della Tradizione della
chiesa, nella quale i diversi libri divengono una sola cosa, divengono l’unica Bibbia: è la
formazione del canone delle Scritture.
In un lungo processo vengono accolti in maniera definitiva i testi del canone ed è la stessa chiesa a
scoprire quali sono i libri conformi alla fede cristiana. La Bibbia è un’opera della chiesa.
Viene prima la chiesa che la scrive e poi, successivamente, la stessa chiesa riconosce quei libri per ciò
che sono realmente. La Bibbia è voluta dalla chiesa, come necessaria per credere. S.Girolamo
dirà: “Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est” (“l'ignoranza delle Scritture
è ignoranza di Cristo”, S.Girolamo, Commento al profeta Isaia, ripreso dalla Dei
Verbum), chi non conosce la Bibbia non conosce Cristo; ma ciò che conta è conoscere Cristo!
Quello è il punto di arrivo, il punto su cui sta o cade tutto. Dentro questa Tradizione nella quale si
trasmette vitalmente l’opera di Cristo, noi abbiamo la prima generazione, poi gli Evangelisti, poi
Clemente, poi Ignazio, gli apologisti, fino ad arrivare a noi, tramite una serie di anelli tutti collegati
tra loro.
Tempo fa mi fece molto riflettere un episodio che mi aiutò a capire il valore della Tradizione, nella sua
concretezza: un giovane si era convertito da poco, grazie alla sua fidanzata, credente, che, invece, era
sempre cresciuta in parrocchia. Questa persona, una volta trovata la fede, cominciò a volerla
approfondire, iniziò a frequentare la messa e la comunità giovanile della parrocchia, in tutte le
attività, perché per lui, che non aveva mai vissuto quelle esperienze, tutto era una scoperta
entusiasmante. Ad un certo punto andò in crisi perché, raccontando ai suoi colleghi di lavoro che
aveva trovato la fede conoscendo quella ragazza e la sua parrocchia, si sentì rispondere che la sua fede
non era vera, perché non era “sua”. Essi gli dicevano –ed era vero ciò che
dicevano- che se lui non avesse incontrato quelle persone non avrebbe mai ricevuto la fede e, da questo,
cercavano di convincerlo che quindi la sua fede non aveva valore, perché non derivava semplicemente da un
suo cammino interiore, ma dall’incontro con altri.
Venne da me molto triste, dicendo: “Hanno ragione! La fede non è mia, se io non vi avessi incontrato
non l’avrei avuta”. Gli risposi che era vero esattamente il contrario, che ciò che aveva
scoperto era semplicemente la prova che la fede non era un’idea, ma poteva nascere solo da qualcuno che
era un anello che lo legava alla storia di Gesù.
La storia di Cristo lui da solo non avrebbe mai potuto inventarla; serviva invece un altro che gliela
trasmettesse, senza nulla togliere poi all’appropriazione personale. Fino a che tu non incontri una
generazione, una comunità, un sacerdote, un papà, un amico, un collega che ti dona la fede
cristiana, tu non puoi averla. L’impossibilità di giungere alla fede da soli è
semplicemente il segno che la fede non è un’idea, non è un pensiero, non è una
elaborazione filosofica alla quale si potrebbe giungere indipendentemente dalla storia che nasce dal Cristo.
Nessuno si inventa questa storia, bensì tutti sono chiamati a riconoscersi in quella realtà che
già pre-esiste.
Questi autori, come Clemente ed Ignazio, che in questa lezione incominciamo a conoscere e che poi incontreremo in
modo più completo l’anno prossimo -che sarà appunto dedicato ai Padri della Chiesa- si
chiamano Padri della chiesa, proprio perché noi riceviamo la fede da loro che l’hanno trasmessa,
come avviene per la vita, alle generazioni successive.
In particolare Clemente ed Ignazio appartengono a quel gruppo di autori cristiani che è detto dei Padri
apostolici; essi sono autori di scritti così antichi, da essere quasi contemporanei agli scritti degli
apostoli, agli scritti neotestamentari. La lettera di Clemente della quale fra poco parleremo potrebbe essere
stata scritta prima degli ultimi scritti neotestamentari. Alcuni dei Padri apostolici hanno vissuto mentre
qualcuno degli apostoli era ancora in vita.
Pensate a quante persone ignoranti parlano sempre degli Apocrifi, che sono scritti sicuramente successivi al
NT, e non hanno mai nemmeno sentito parlare dei Padri apostolici, che sono molto più importanti per
capire la figura di Cristo.
‘Padre’ –insisto su questo- è qualcuno che ti consegna la vita che tu ricevi.
Sapete che uno dei grandi problemi odierni è quello della figura paterna (e anche materna). Siamo
nell’anniversario del Sessantotto, fenomeno che ha lati positivi, ma che non è privo di aspetti
altamente problematici, uno dei quali è esattamente la contestazione della ‘figura paterna’.
Alcuni hanno ipotizzato che il ’68 possa essere definito proprio da questo rifiuto del ‘padre’,
dall’affermazione che tutto ciò che si è ricevuto dal passato sia da rigettare.
Chiamare delle persone ’Padri apostolici’ vuol dire invece affermare il valore di chi ci ha
preceduto, vuol dire indicare che la fede la si può solo accogliere, perché se me la costruissi io
con la mia fantasia essa non sarebbe più la fede in Cristo. La paternità è quella figura
che struttura la chiesa, per cui la chiesa io la ricevo, non la faccio.
Anch’io faccio tante cose nella chiesa, anch’io ci metto tutta la mia creatività, la mia
intelligenza, la mia fantasia, ma non sono io a fare la Chiesa; essa viene essenzialmente ricevuta,
perché consiste in ciò che è nella sua realtà, consiste nella croce, nella
resurrezione, nello Spirito Santo, nel Vangelo, nella carità, nei sacramenti: tutto questo non è
semplicemente una mia costruzione.
Questa Tradizione è opera dello Spirito, che agisce dentro questo dono per cui i padri danno ai
figli la fede cristiana, perché la possano ascoltare e ricevere; è all’opera lo Spirito in
tutto questo. La fede cattolica dice che non solo lo Spirito ha permesso l’incarnazione del Cristo nel seno
della vergine Maria, ma che è lo stesso Spirito che è all’opera nella chiesa.
La fede cattolica afferma così, in maniera molto semplice, che tutto ciò che la chiesa crede non
lo trae dalla sola Scrittura. Dove è scritto, ad esempio, nella Bibbia che il papa è il vescovo
di Roma? Il Credo che diciamo a messa dove è scritto? Dove si parla delle suore? Queste cose non ci sono e
noi non ci scandalizziamo, proprio perché la Scrittura non è tutta la fede, ma è la regola
della fede. Nella Tradizione che è più grande della Scrittura e che sempre interpreta la Scrittura,
noi comprendiamo l’opera dello Spirito.
Lo Spirito agisce ed opera anche nella voce dei catechisti, nelle omelie, in particolare nei sacramenti. Noi
insegniamo che quando un sacerdote celebra, le parole “Questo è il mio corpo dato per voi”
non sono dette solo da lui, ma da Cristo stesso; allo stesso modo, veramente il battezzato viene battezzato
in Cristo perché lo Spirito Santo unisce quella persona al Cristo vivente. Il sacramento è quella
realtà che più di ogni altra ci fa capire che è tramite la chiesa che giunge a noi il
Cristo.
Voglio leggervi due testi bellissimi, uno di Vincenzo di Lérins e uno moderno di J.R.R.Tolkien,
l’autore del Signore degli Anelli, che rispondono ad una domanda che molti si sono sempre fatti:
“Come possiamo spiegare che la fede è sempre la stessa, eppure non invecchia mai, eppure sempre si
rinnova?”
Vincenzo di Lérins, un monaco che visse a Lérins, l’isola che è dinanzi a Cannes,
spiegava nel V secolo la fede facendo un paragone con l’embrione nel quale c’è in
nuce tutto ciò che sviluppandosi diventerà il bambino e poi l’adulto e
l’anziano. Sbaglierebbe chi sostenesse che l’uomo di 70 anni è altra cosa rispetto
all’embrione e al bambino. Lo stesso vale per la fede. Così come tu oggi a settanta anni sei lo
stesso individuo che eri da embrione e da bambino e sei, insieme, profondamente cresciuto, la stessa cosa vale
per la fede.
Vincenzo affema innanzitutto che la fede è sempre la stessa e che bisogna credere “ciò che
sempre, ciò che dovunque, ciò che da tutti è stato creduto” (“Quod semper,
quod ubicumque, quod ab omnibus creditum est”, Primo Commonitorio, cap. 2).
Continua poi mostrando come questo non voglia dire immobilismo e rifiuto della novità:
Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di
Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il
vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma
in un’altra.
È necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più
possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo,
quanto di tutta la chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina
stessa, il suo significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita
dei corpi [...]
Le membra del lattante sono piccole, più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse.
Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che
esistono in età più matura esistevano già nell’embrione [...] Questo è
l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni,
sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. E’ necessario però che resti sempre
assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della chiesa il seme della fede. Sarebbe
assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il
frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
È anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo
quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può ancora svilupparsi con
l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione
(Primo Commonitorio, cap. 23, PL 50, 667-668).
Il secondo testo che voglio leggervi che parla della tradizione e della sua continua novità lo prendo da
Tolkien, autore che ha vissuto in ambiente protestante, anglicano in particolare, e che si è dovuto
misurare con forti critiche che gli venivano da quell’ambiente per la sua fede cattolica. Egli,
paragonando la fede alla vita di un albero che cresce e si sviluppa da un seme cercava di mostrare che
quando uno dice che non gli interessa l’albero (la chiesa), ma solo Cristo (il seme), può arrivare
all’assurda conseguenza di abbattere l’albero per cercare di ritrovare il seme dal quale è
nata tutta la pianta, distruggendo di fatto tutto quel seme insieme a tutto ciò che da quel seme si era
sviluppato.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che,
naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio
inutile [...], perché la “primitività” non è garanzia di valore [...] Gravi
abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso (le restrizioni di San Paolo
a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!). Inoltre la “mia chiesa” non è stata
concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma
perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito
all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in
cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è
completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero
che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è
sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce
scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati
all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla
saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con
trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono
ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era
(come pensano loro) bella e incontaminata dal male (da una lettera di J.R.R.Tolkien a Michael Tolkien in
J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere, a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien,
Bompiani, Milano, 2001, pag.442).
Prima di parlare in dettaglio di Clemente, soffermiamoci sulla cronologia dei fatti, per poterli legare meglio
alla storia. Diamo per scontate le date e gli eventi di cui abbiamo già parlato negli incontri precedenti;
la scorsa volta siamo arrivati all’anno 64, cioè alla prima persecuzione voluta dall’impero
romano contro i cristiani, ad opera di Nerone. Oggi proseguiamo in questo itinerario storico aggiungendo alcune
tappe successive. Accenniamo solo, per un corretto ordine cronologico, alla data del 70 d.C., quando Tito,
figlio di Vespasiano, conclude la guerra giudaica espugnando Gerusalemme e dando alle fiamme il Tempio.
Questo è l’evento che cambierà radicalmente il volto dell’ebraismo, perché da
quel momento in poi non ci saranno più sacrifici cultuali. Il termine ‘giudaismo’ designa
l’ebraismo dopo il 70 d.C., quando esisteranno solo le sinagoghe e non più il Tempio e i
sacrifici. Questo avvenimento è importante anche per datare gli scritti del Nuovo Testamento: sono,
infatti, sicuramente precedenti all’anno 70 tutti i testi che non parlano esplicitamente della distruzione
del Tempio, perché questo evento è stato talmente importante che non poteva non essere citato se
già avvenuto. Sorvoliamo oggi su questo momento decisivo, perché ne parleremo nel prossimo
incontro a San Lorenzo in Miranda (la disponibilità delle due chiese ci ha obbligati ad invertire
l’ordine degli incontri).
La data che oggi ci interessa per inquadrare gli avvenimenti inerenti a Clemente è quella del 95
d.C. In quell’anno si verifica una seconda grande persecuzione dei cristiani ad opera
dell’imperatore Domiziano (fu imperatore dall’81 al 96 d.C.), dopo quella avvenuta nel 64 sotto
Nerone. Ne siamo certi perché tanti testi ne parlano. L’Apocalisse parla di questa persecuzione,
a causa della quale Giovanni si trova a Patmos, (“mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa
della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”, Ap 1,9; la maggior parte degli studiosi
collegano ormai Ap con il periodo di Domiziano), ma ne parlano anche la I lettera di Clemente, il Pastore di
Erma, Melitone, Egesippo e Tertulliano.
Soprattutto, per quel che riguarda Roma che è quello che ci interessa in questo corso, abbiamo dei dati
che non sono del tutto chiari. Sappiamo, infatti, che alcuni membri della famiglia imperiale furono condannati
per ‘ateismo’ e per ‘inerzia nella vita pubblica’. Queste due espressioni sono
ambigue, ma furono spesso sollevate come accuse contro i cristiani che furono accusati di essere
‘atei’, perché ritenevano idoli gli dei pagani, e di essere disinteressati al bene dello
stato, perché non veneravano le divinità dell’impero e si astenevano dalle cerimonie
pubbliche che implicavano il culto pagano.
Diversi testi pagani parlano di questa circostanza e da essi si evince che alcuni membri della famiglia
imperiale, il console Flavio Clemente (non è da confondere con il Clemente vescovo di Roma a cui
è dedicata questa chiesa e del quale parleremo subito) e sua moglie Flavia Domitilla, si erano
probabilmente convertiti al cristianesimo, e per questo vengono coinvolti nella persecuzione domizianea. È
Svetonio (Domit., 15, 1) ad utilizzare il termine contemptissima inertia, affermando che la condanna
avvenne rapidissima e con poche prove (repente ex tenuissima suspicione).
Similmente Dione Cassio, storico greco del III secolo, nella sua Storia romana, libro LXVII, cap.
14, scrive:
Domiziano uccise con molti altri anche Flavio Clemente mentre era console, sebbene fosse suo cugino ed avesse
in moglie una parente, Domitilla. Rinfacciava ad ambedue l’accusa di ateismo (impietas), per la quale
furono condannati anche molti; di essi, alcuni soltanto furono messi a morte, atri furono privati dei loro beni.
Domitilla fu soltanto deportata a Pandataria. Mise a morte poi Glabrione, che era stato console insieme a
Traiano, a cui furono rivolte molte accuse oltre a quelle dei molti.
Come vedete non si fa menzione esplicita di una conversione al cristianesimo, ma –come vi dicevo-
sappiamo che l’accusa di ateismo era mossa ai cristiani, perché si rifiutavano di adorare gli dei
pagani, in particolare l’imperatore; insieme erano accusati di non partecipare alla vita politica
(contemptissima inertia, un’inerzia verso la politica, una passività vergognosissima).
Per questi motivi Flavio Clemente e Acilio Glabrione vengono condannati a morte e Domitilla esiliata a
Ventotene. Più tardi vedremo in questa basilica un affresco che rappresenta questa vicenda. Sono
probabilmente dei cristiani che sono appartenenti alla famiglia imperiale, o almeno –questa è
l’ipotesi di M.Simonetti- degli ebrei che hanno delle simpatie per il cristianesimo.
È, però, dal tempo di Giulio Cesare che l’ebraismo è una religio
licita nell’impero romano: gli ebrei non sono obbligati a venerare gli imperatori o gli dei
pagani. L’accusa sembra rivolgersi direttamente a cristiani, proprio perché gli accusati sono
chiamati atei, ‘non pii’.
È molto importante capire cosa avveniva e perché si diffondevano questo tipo di accuse,
perché questo ha una valenza che riguarda anche l’oggi. Da sempre i cristiani hanno venerato il
Padre ed il Figlio, ma questo ha implicato necessariamente l’affermazione che tutti gli idoli erano falsi,
vuoti, insignificanti. Quando si parla del dialogo fra le religioni non dimentichiamo mai che il cristianesimo
coglie il bene presente in esse, ma anche la falsità che è al contempo reale in esse; i cristiani
del tempo di Clemente dicevano ai loro concittadini che Giove non era vero, che la triade capitolina non
esisteva, che l’imperatore non era Dio e così venivano criticate tutte le altre divinità
dei romani. Per questo i cristiani vengono accusati di ateismo.
Ed anche l’accusa di essere lontani dalla vita politica è legata a questo: essa era dovuta al fatto
che non potevano parteciparvi se questo implicava la venerazione di dèi pagani. Ma –questa
è una caratteristica della fede cristiana- questo non implicava il voler edificare un altro stato, non
voleva dire ribellarsi all’impero. Anzi i cristiani si sforzavano di mostrare la loro lealtà allo
stato, quando non erano implicati culti inaccettabili per loro.
Proprio nell’episodio della I guerra giudaica che culmina con la caduta di Gerusalemme nel 70 assistiamo ad
una ulteriore differenziazione dei cristiani dall’ebraismo di allora. Se una parte dell’ebraismo
decise di combattere contro l’imperatore ed i romani per l’indipendenza politica e Simone di Ghiora e
Giovanni di Ghiscala presero in mano la rivolta nel 66, i cristiani, invece, si rifiutarono di combattere
contro l’imperatore, fuggirono da Gerusalemme e si rifugiarono probabilmente a Pella, una città
Giordania.
I cristiani non volevano costituire un nuovo Stato, ma restare in quello che già c’era,
purché permettesse loro di vivere la loro fede. Si vede qui come il cristianesimo, dalle sue origini, non
lotti per l’utopia, non combatta lo Stato, ma anzi decida di entrare nella vita politica così
come si configura in quel tempo, solamente chiedendo allo Stato la possibilità di non venerare altri
dèi.
Subito dopo questi accadimenti si situa la lettera di Clemente ai Corinzi che viene datata unanimemente al 96
d.C.; essa ci permette di avere una testimonianza di prima mano sulla situazione della comunità
cristiana di Roma in quegli anni.
La lettera parla di un periodo difficile che ha impedito all’autore di scrivere a Corinto, dopo il quale
è tornata la pace. Quindi la lettera di Clemente è scritta subito dopo questa persecuzione di
Domiziano, al tempo dell’imperatore che gli succedette, Nerva (fu imperatore dal 96 al 98 d.C.).
La lettera ai Corinzi è il documento su cui ci fermeremo per conoscere la figura di Clemente Romano;
è un testo sicuramente storico, mentre, come vedremo, i dati sul suo martirio sono storicamente molto
più incerti. Clemente, il quarto nelle liste dei vescovi di Roma dopo Pietro, Lino, Cleto, scrive
questa lettera non in prima persona, ma sempre in una forma comunitaria. Lo si direbbe –dicono gli
studiosi- circondato da un collegio di presbiteri che, con lui, governano la comunità.
Il motivo della lettera è una lite che si è verificata a Corinto; la comunità romana
si sente chiamata ad intervenire tramite questo scritto del suo vescovo Clemente. La lettera vuole richiamare
questa comunità cristiana della Grecia all’unità, spiegando che è vergognosissimo che
all’interno della comunità ci siano divisioni, ci siano ‘scismi’.
Molti pensano erroneamente che la chiesa antica fosse uno splendore e rifiutano la chiesa presente, in nome di
una presunta purezza di quella delle origini. Invece, la chiesa fin dalle origini mostra di avere gli stessi
problemi che la attraverseranno nei secoli.
Una comunità che ha perso l’unità
Clemente ricorda ai Corinti che c’è stato un tempo nel quale essi vivevano l’unità:
l’umiltà era la via che li aveva tenuti insieme. Egli scrive:
Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con slancio
che ricevere. Contenti degli aiuti di Cristo nel viaggio (II. 1).
Il ‘viaggio’ è qui chiaramente la vita, la vita nella fede che i Corinti vivevano.
E meditando le sue parole, le tenevate nel profondo dell'animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri
occhi. Così una pace profonda e splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e
una effusione piena di Spirito Santo era avvenuta su tutti (II. 1-2).
Clemente ricorda ai Corinzi la situazione precedente di pace, ma immediatamente affronta le divisioni che hanno
lacerato questa pace, scusandosi di aver tardato ad intervenire per i problemi della persecuzione della quale
abbiamo parlato. Subito dopo comincia ad affrontare tutti i problemi che ci sono stati e parla di queste
eresie tristissime cui aveva accennato nel punto precedente:
Per le improvvise disgrazie e avversità capitateci l'una dietro l'altra, o fratelli, crediamo di aver
fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all'empia e disgraziata sedizione
aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l'accesero, giungendo a tal punto di
pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso (I,
1).
La divisione della Chiesa di Corinto ha fortemente compromesso la testimonianza di Cristo stesso e
Clemente sottolinea tre punti necessari per riportare all’unità.
È necessario tornare a richiamarsi alla tradizione apostolica
Clemente dice in maniera semplicissima:
Gli apostoli predicarono il Vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. Cristo fu
inviato da Dio e gli apostoli da Cristo (XLII, 1-2).
Quindi abbiamo: Dio, Cristo e gli Apostoli. Cristo fu inviato da Dio e gli Apostoli da Cristo. Dio ha
mandato Cristo, Cristo ha mandato gli Apostoli. E prosegue:
Ambedue le cose ordinatamente secondo la volontà di Dio
Subito dopo Clemente aggiunge:
Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi
nella parola di Dio con l'assicurazione dello Spirito Santo, andarono ad annunziare che il regno di Dio stava per
venire. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le primizie del loro lavoro apostolico,
provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli (XLII, 3-4).
Questa tradizione non si è fermata –afferma Clemente- con gli Apostoli, ma è continuata e
bisogna che continui. Chi vuole essere nell’unità deve essere dentro questa tradizione.
Benedetto XVI ricorda sempre che il “noi” della chiesa non è un “noi”
semplicemente orizzontale, costituito solo dai credenti di questa generazione, come se la fede scaturisse
semplicemente dal nostro metterci d’accordo in forma assembleare. “Noi” per essere chiesa
dobbiamo essere in comunione con il “noi” di tutti i cristiani che ci hanno preceduto;
così, ad esempio, non possiamo mettere ai voti il Credo, perché esso appartiene al
“noi” di tutta la chiesa nei secoli.
Se una generazione avesse una fede differente da quella della generazione che l’ha preceduta avrebbe rotto
la comunione, perché questa comunione è orizzontale, ma anche verticale. La comunione non si fa
solo tra i viventi di oggi, ma bisogna richiamarsi al passato. Ognuno deve riconoscere che la sua fede
è la stessa dei predecessori.
Le nostre chiese hanno due segni che ci ricordano questo e che possono essere sottolineati anche nella catechesi.
In ogni chiesa ci sono dodici croci, spesso sulle colonne, con delle candele che rappresentano i dodici
apostoli. Ogni chiesa viene consacrata mettendo queste dodici croci per dire che quella comunità
è stata fondata dentro la Tradizione apostolica. In alcune chiese anticamente si metteva vicino ad ogni
croce il volto di un apostolo con il cartiglio contenente un articolo del Credo, perché tutti potessero
vedere con immediatezza che ogni chiesa ha gli apostoli come sostegno, come colonne.
Un secondo segno architettonico nel quale si evidenzia la verticalità della fede che abbraccia le
generazioni è la presenza delle reliquie negli altari. Anche qui a San Clemente sotto l’altare
c’è una “confessio” nella quale sono custodite le reliquie di Clemente e di Ignazio.
Quindi chi celebra la messa su questo altare afferma anche che la messa che celebra l’ha ricevuta da
Clemente e da Ignazio, non l’ha inventata lui. Il celebrante è stato ordinato sacerdote dentro
questa trasmissione dei sacramenti di generazione in generazione che è passata anche per Clemente ed
Ignazio.
Gli apostoli e, dopo di loro, i padri apostolici e poi via via fino alla generazione che ci ha preceduto, non
sono solo coloro sui quali poggiamo, ma stanno anche sopra di noi, in cielo; dal cielo pregano perché ci
manteniamo in questa Tradizione. Coloro che ci hanno preceduto non sono solo delle pietre di fondazione, ma
anche coloro che ci accompagna. E tra questi ci sono anche i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri preti di
quando eravamo bambini. Noi abbiamo la stessa fede dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei preti che ci hanno
battezzati.
La conseguenza che Clemente trae è che i Corinti hanno sbagliato nel rimuovere quei presbiteri che
erano stati ordinati e nello staccarsi dalla comunione con loro:
Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato in maniera
irreprensibile e con onore (XLIV, 6).
La lettera ai Corinti di Clemente è anche la prima attestazione storica dell’autorità di
Roma; la lettera ai Corinzi non pone obblighi, non si presenta come un testo giuridico, ma certamente è un
documento nel quale la chiesa di Roma parla ad un’altra chiesa con autorità. È il primo
testo nel quale la chiesa di Roma interviene nella vita di un’altra Chiesa. Pensate a quanto Corinto
è lontana fisicamente da noi, ma, malgrado questo, Roma sente il dovere di intervenire ed invia una
lettera per dire ai Corinzi che stanno percorrendo una via sbagliata.
L’unità della Tradizione è unità intorno a Cristo.
Ma - prosegue Clemente - l’unità della Tradizione dipende dall’unico Cristo che ne è
all’origine:
Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? Non abbiamo un solo Dio, un solo Cristo e un
solo Spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? Perché strappiamo e laceriamo le
membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra
gli uni degli altri? (XLVI, 5-7)
L’eresia viene chiamata pazzia. È importante, per Clemente, riconoscere che la comunione che
c’è fra la generazione presente e le generazioni precedenti che hanno creduto, è comunione
con Cristo.
L’essere un corpo solo riporta al fondamento dell’unità della chiesa che è la
celebrazione dell’eucarestia. La chiesa è popolo di Dio perché si rivolge a Cristo,
nonostante i peccati di ognuno, nonostante gli errori. Tutti ricevono lo stesso Cristo nell’Eucarestia ed
è quell’Eucarestia che rende tutti un unico popolo.
Questo vale anche per noi oggi. Chi è catechista degli adolescenti o dei giovani sa benissimo per
esperienza che fino a che un gruppo giovanile non si radica nell’eucarestia, non sceglie di celebrare la
messa come fondamento dell’unità, non riuscirà mai ad essere una comunità
perché le persone si sceglieranno per simpatia, per affinità di carattere o di cultura, ma non si
accoglieranno in Cristo. Senza l’eucarestia, l’unità che ne deriva sarà una
realtà fragilissima, perché basterà un dissapore, una lite e il gruppo andrà in
crisi. La vera comunione è in Cristo.
La carità è principio di unità
Clemente continua la sua riflessione, arrivando a parlare ai Corinti della carità. Solo vivendo la
carità, la comunità di Corinto potrà tornare all’unità. Clemente
scrive:
Chi ha la carità in Cristo pratichi i suoi comandamenti. Chi può spiegare il vincolo della
carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L'altezza ove conduce la
carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: "La carità copre la moltitudine dei
peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta (XLIX, 1-5).
Sentite l’eco della prima lettera di S.Paolo ai Corinzi? San Clemente scrive pochi anni dopo alla stessa
comunità alla quale si era rivolto Paolo, parlando della carità. Già ai tempi di Paolo a
Corinto c’era discussione e litigio. Con Clemente ritroviamo ancora i cristiani di Corinto incapaci di
vivere la carità che l’apostolo aveva loro annunciato. E Clemente, allora, riprende a suo modo
l’inno alla carità di Paolo:
Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si
ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di
Dio. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé.
Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per
noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima (XLIX, 5-6).
‘Carità’ è una parola che, come nessun altra, caratterizza ciò che è
specifico del cristianesimo. Mai nessun altra religione ha compreso che tutto il mistero di Dio e
dell’uomo trova la sua sintesi e la sua pienezza nella carità. Roberto Benigni, nel suo
spettacolo su Dante, è riuscito a dire a persone diversissime che la carità nasce proprio con
Gesù. Raccontava di Seneca che, di fronte agli spettacoli crudeli del Colosseo durante i quali morivano
tanti esseri umani, si limitava a dire che un tale spettacolo lo annoiava. La cultura precedente al cristianesimo
non sapeva indignarsi dinanzi alla dignità umana calpestata, perché ancora non era comparsa la
carità rivolta ad ogni uomo. È il cristianesimo ad introdurre nel mondo la carità, come il
valore nuovo: dove non c’è la carità tutto è morte. La carità è tutto,
perché Cristo è carità.
Il rapporto con l’ebraismo e l’Antico Testamento
Dopo questi tre punti richiamati da Clemente per richiamare all’unità, vorrei ora sottolineare altre
caratteristiche della lettera. Essa riafferma, con il suo continuo riferirsi all’Antico testamento, che
la radice ebraica appartiene all’essenza stessa del cristianesimo e che il cristianesimo non può
concepirsi senza l’Antico Testamento. Per noi, forse, sono cose ovvie, ma pensate che questi sono i
primi testi, dopo il Nuovo Testamento, della chiesa delle origini.
Per di più, come abbiamo detto, l’ebraismo aveva appena combattuto la guerra giudaica; c’era
stata inoltre la rottura definitiva con il cristianesimo, poiché nell’anno 90 circa i cristiani
erano stati espulsi dalle sinagoghe -troviamo questo in maniera chiara nel vangelo di Giovanni. Eppure questa
lettera, nonostante questo strappo appena verificatosi, è piena di riferimenti all’Antico
Testamento. Clemente afferma che per la chiesa, anche se i cristiani non sono più accolti nelle sinagoghe,
l’ebraismo è la sua radice e che il Nuovo Testamento è il compimento dell’Antico e non
si può strappare il vincolo tra l’antica e la nuova alleanza.
La teologia
Anche la teologia espressa dalla Lettera di Clemente è molto interessante: nel parlare di Dio si
trovano in Clemente sia delle chiare affermazioni binarie che parlano della divinità del Padre e del
Figlio -il Padre è il Creatore, il Figlio è il Kyrios- ma anche delle formulazioni trinitarie.
Pian piano si chiarisce il dogma perché già dall’inizio, a differenza di tutte le religioni
pagane, la Chiesa deve definire quello che crede. È evidente già in questa lettera che il
cristianesimo sente l’esigenza di una continua chiarificazione dottrinale, cosa che non era necessaria nel
paganesimo. Proprio la rivelazione di Dio in Cristo fa nascere l’esigenza di voler capire in chi si
crede.
La preghiera per l’imperatore ed i politici
Infine è importante sottolineare come già in Clemente –nel NT il tema era chiaramente
presente già nella lettera ai Romani, oltre che in testi successivi- troviamo la preghiera per le
autorità dello stato, nonostante il potere politico, per la seconda volta, avesse perseguitato i
cristiani.
Clemente, ad un anno dalla fine della persecuzione di Domiziano, invece di esortare ad odiare
l’imperatore e a combatterlo chiede di pregare per lui, perché si possa obbedirgli senza opporsi
alla volontà di Dio.
Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza, perché
noi, conoscendo la gloria e l'onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà (LXI,
1).
È una straordinaria manifestazione del fatto che i cristiani di allora volevano essere dentro lo stato,
non essere un corpo estraneo ad esso, purché questo non richiedesse loro di compiere qualcosa che
fosse contro la carità e la verità.
Cosa accade nel periodo che intercorre tra Clemente ed Ignazio? Compare il primo documento legislativo che
prescrive la persecuzione dei cristiani. Mentre con Nerone e Domiziano, le prime due persecuzioni erano state
determinate da una volontà diretta del sovrano, senza che si modificasse la legislazione vigente, tra
il 111-113 viene emanato, invece, da Traiano il primo decreto legislativo in cui si comanda la persecuzione
di tutti i cristiani.
La legge persecutoria dei cristiani è nota come Rescritto di Traiano, perché formalmente
è una legge emanata in risposta (“rescritto” appunto) ad un preciso quesito giuridico che
Plinio, governatore della Bitinia, aveva rivolto all’imperatore. Le fonti ci hanno conservato anche la
domanda di Plinio che è estremamente importante per capire molti particolari della situazione dei
cristiani del tempo. Così scrive Plinio:
È per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi
infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si
sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se
anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del
vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi
affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure
le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro
se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena
capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa
confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri
affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a
Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di
trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere
cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto
io formulavo, invocavano gli dèi e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare
assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi
da coloro che siano veramente cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma
avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche
tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima
dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non
a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non
mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto
ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo
comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo
proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due
ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla
tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una religione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere
il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per
il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di
ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora
lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche
i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa religione; credo
però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma (Epist. X,
96, 1-9).
Traiano risponde, nel suo Rescritto che ha valore di legge per tutto l’impero:
Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come cristiani,
hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale
che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e
riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e
lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato
sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione,
non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei
nostri tempi (Epist. X, 97).
Forse, più ancora che il Rescritto, è interessante la lettera di Plinio che ci fa conoscere
tanti particolari della vita delle comunità cristiane di allora. Plinio racconta che i cristiani si
vedevano prima dell’alba per cantare un inno a Cristo come Dio: evidentemente si sta parlando della
preghiera che veniva celebrata prestissimo, per poter poi subito dopo andare a lavorare. Riguardo
all’eucarestia Plinio sembra stupirsi che si usi un cibo comunissimo (evidentemente il pane). Il
governatore della Bitinia, pur manifestando un disprezzo profondo verso il cristianesimo, deve però
riconoscere che i cristiani si obbligano solo al bene, a non commettere né furti, né frodi,
né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito.
Emerge anche che la fede non è sempre salda come ci si aspetterebbe; si racconta, infatti, che alcuni
hanno già abiurato la fede, qualcuno anche da venti anni. Come nella Lettera di Clemente vediamo
così anche le magagne delle comunità primitive. Alcuni cristiani per paura di perdere la vita
avevano preferito rinnegare Cristo ed adorare gli dèi dell’impero.
Da qui nascerà l’esigenza della penitenza. La chiesa scopre subito così che non tutti
riescono a vivere con coerenza la fede. Tutti affermano di essere in grado di essere cristiani, ma poi quando si
arriva ai momenti difficili qualcuno taglia la corda. Le persone che hanno rinnegato la fede vengono chiamati i
‘lapsi’, i ‘caduti’. Che cosa si fa con loro? Cosa si fa con chi ha peccato?
Notate, infine, il giudizio dell’imperatore contro le denunce anonime: prassi di pessimo esempio,
indegna dei nostri tempi. Chi scrive una denuncia senza firmarla è indegno della civiltà
romana.
Questa basilica dedicata a San Clemente conserva anche le reliquie di Ignazio e alcuni degli affreschi che
subito vedremo ritraggono episodi della sua vita. Ignazio era vescovo di Antiochia di Siria (nell’odierna
Turchia, la terza città più grande dell’Impero Romano di allora dopo Roma e Alessandria
d’Egitto) e venne catturato probabilmente in ossequio a questa legge e condannato a morte. Mentre veniva
condotto prigioniero a Roma per subire il martirio scrisse sette lettere a diverse chiese che si sono conservate.
Il suo viaggio a Roma ed il suo martirio viene datato intorno all’anno 110/111. Non sappiamo così
con certezza se egli viene condannato a morte in base al nuovo Rescritto di Traiano o ancora
senza una specifica legge anti-cristiana, ma il carteggio fra Plinio e Traiano ci offre, comunque, il
contesto di ciò che andava maturando contro i cristiani.
Di Ignazio possiamo sottolineare solo qualche aspetto importante, in particolare dalla lettera che egli
rivolse ai Romani. In questa lettera egli chiede ai cristiani di Roma, che probabilmente sono già
vicini alla casa imperiale, di non difenderlo, di non salvarlo dalla condanna a morte, di lasciarlo morire
perché possa dare l’estrema testimonianza a Cristo:
Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi
prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali
mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane
puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo
ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo
non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi
comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo.
Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo
a non desiderare nulla (IV,1-3).
Ignazio - è evidente - si aspetta di morire sbranato dalle belve, probabilmente al Colosseo.
Un tema che ricorre nell’epistolario di Ignazio è quello dell’unità, così
come era centrale nella Lettera di Clemente. Ignazio scrive, nella sua lettera agli Efesini:
Conviene procedere d'accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbiterato ben
reputato degno di Dio è molto unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo dalla vostra
unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo. E ciascuno diventi un coro,
affinché nell'armonia del vostro accordo prendendo nell'unità il tono di Dio, cantiate ad una sola
voce per Gesù Cristo al Padre, perché vi ascolti e vi riconosca, per le buone opere, che siete le
membra di Gesù Cristo. È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere
sempre partecipi di Dio (IV, 1).
Le corde della cetra non suonano la stessa nota, ma l’armonia è data dalla sinfonia delle
corde; la vera unità non spegne la bellezza del dono di ognuno, ma li fa ‘risuonare’ in
perfetta armonia. I due grandi rischi per la chiesa saranno sempre, da un lato, la divisione, dall’altro,
l’essere monocordi, impedendo a ciascuno di portare il proprio personale dono.
Ma la chiesa è sempre stata e sempre sarà ‘una’, come diciamo nel Credo. Ogni
tanto alcuni affermano che ci sono stati alle origini vari “cristianesimi” al plurale; è
un’affermazione falsa. Nel Nuovo Testamento noi abbiamo diverse prospettive, ma è evidente che i
diversi autori, proprio come le corde di una cetra suonano in armonia, in pieno accordo sugli aspetti
essenziali. Giovanni, Marco, Matteo, Luca, Paolo, non sono esponenti di diversi cristianesimi, ma le loro
particolari prospettive producono un suono armonico.
Se Ignazio si rivolge ai fedeli per chiedere loro di essere sempre uniti al vescovo per risuonare
nell’unità, allo stesso tempo si rivolge al vescovo chiedendogli di essere realmente tale,
preoccupandosi di tutti, anche dei fedeli più difficili. Ne è testimone una lettera che Ignazio
scrisse non ad una comunità, ma a Policarpo, vescovo di Smirne:
Se ami i discepoli buoni, non hai merito; piuttosto devi vincere con la bontà i più riottosi.
Non si cura ogni ferita con uno stesso impiastro. Calma le esacerbazioni (della malattia) con bevande infuse. In
ogni cosa sii prudente come un serpente e semplice come la colomba. Per questo sei di carne e di spirito,
perché tratti con amabilità quanto appare al tuo sguardo; per ciò che è invisibile
prega che ti sia rivelato, perché non manchi di nulla e abbondi di ogni grazia (II, 1-2).
Così tutti devono lavorare per l’unità, per primi ne sono responsabili i vescovi.
L’ultimo punto che vorrei sottolineare riguarda Roma. Come la Lettera di Clemente ci dice già la
coscienza che aveva la chiesa di Roma che si rivolgeva alla chiesa di Corino per richiamarla
all’unità, così anche nella lettera di Ignazio ai Romani troviamo un’attestazione
chiara del ruolo particolare che Roma aveva già nel cristianesimo delle origini:
Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù
Cristo suo unico figlio, la Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che
esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma,
degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la
legge di Cristo e il nome del Padre.
Di questo indirizzo della lettera ai Romani, l’espressione più
caratteristica è in greco προκαθημένη
τής άγάπης, che traduciamo in italiano con “chiesa
che presiede nella carità”. Si noti bene che qui ’carità’
non indica l’atteggiamento caritatevole del cuore, ma è l’espressione
tecnica con la quale si designa la ‘comunione dei cristiani’. La
chiesa intera è chiamata ‘agape’, ‘carità’;
i cristiani sono l’agape e la chiesa di Roma presiede a tutta la
chiesa cattolica sparsa nel mondo, designata come carità. Questa ‘agape’,
questo amore che unisce i cristiani nella comunione, ha una chiesa che presiede,
che ha una paternità, che ha un ruolo particolare nei confronti di tutti.
Ignazio, che viene da Antiochia a morire qui a Roma, nel Colosseo, scrive mentre
è in viaggio verso l’urbe, salutando la chiesa di Roma con questo
titolo.
Noi siamo oggi in una chiesa particolarissima prima di tutto per la collocazione; ci troviamo, infatti, in una
piccola valle tra il Celio e l’Oppio, tra il Colosseo e S.Giovanni in Laterano. Dobbiamo tener presente che
la via passava allora davanti all’ingresso principale, quello su piazza S.Clemente; l’attuale
strada che collega con percorso rettilineo S.Giovanni in Laterano con il Colosseo l’ha fatta Sisto V,
quindi è abbastanza recente. Prima non esisteva e dunque tutte le processioni che faceva il Papa da
S.Pietro per andare al Laterano inevitabilmente passavano dal Colosseo per via Labicana, giravano a destra,
passando per la facciata di S.Clemente e poi riprendevano a sinistra per via dei SS.Quattro Coronati e giungevano
a S.Giovanni.
Ci troviamo in una basilica medievale, anche se nel corso dei secoli sono stati fatti diversi lavori che
l’hanno in parte modificata; l’ultimo grande ritocco è stato fatto in epoca
tardo-barocca e noi la vediamo nell’ultima veste che le ha dato Carlo Stefano Fontana, negli anni
1713-1719.
Sotto la basilica medioevale abbiamo, però, una basilica paleocristiana. Potete vedere già
vicino alla porta della ex-sagrestia, attraverso la quale scenderemo ai livelli inferiori, gli archi della
basilica paleocristiana.
Ad un livello ancora inferiore, sono stati riportati alla luce alcuni edifici di epoca romana. Tra il
livello attuale e quello in cui sono situati gli edifici del tempo romano ci sono circa dieci metri. Duemila anni
fa il livello stradale era molto più basso rispetto ad oggi. Le piogge, le alluvioni, i crolli di edifici,
hanno fatto sì che lentamente il livello stradale si sia innalzato.
Il professor Federico Guidobaldi è colui che, dagli anni Ottanta fino ad oggi, ha curato gli scavi.
La scoperta più recente degli scavi è il battistero, che non è ancora visitabile.
Abbiamo dunque tre livelli; c’erano, quindi, prima gli edifici romani, poi questi vengono ricoperti
di terra e sopra di essi viene costruita la chiesa paleocristiana. Nell’ XI secolo questa chiesa era
fatiscente ed allora, agli inizi del XII viene anch’essa interrata e sopra di essa viene costruita la
basilica attuale.
Quando alla metà dell’Ottocento si scopre che sotto questa chiesa ce n’è un’altra
per poter scavare senza far crollare gli edifici superiori, si rende necessario erigere nel livello inferiore
altri archi e sostegni che disorientano un po’ il visitatore. Bisogna quindi tenere conto che per
problemi statici sono state costruite nel tempo diverse strutture.
Dunque, a livello zero sono stati portati alla luce due grandi edifici che sono divisi da uno stretto
passaggio che si vede ancora bene.
Il primo di questi due edifici su cui insiste topograficamente l’attuale basilica è un edificio
di tipo horreario, forse parte della Moneta. L’altro è una domus
di II secolo, con un impianto mitraico successivo che alcuni studiosi mettono in relazione con gli annessi
dell’Anfiteatro Flavio.
La prima costruzione ha un recinto di muri a grandi blocchi di tufo, probabilmente di età flavia (fine del
I secolo d.C.), che nel II secolo ebbe numerose suddivisioni interne in opus mixtum. In alcuni di questi
ambienti si notano delle scale che conducevano ai piani superiori. Probabilmente l’edificio era o un
grande magazzino o la Zecca Imperiale (Moneta).
Ad ovest di questa costruzione si nota una struttura, probabilmente un’insula,
della fine del I/inizi del II secolo d.C., all’interno della quale, un secolo dopo, fu installato un
mitreo (con tanto di grotta, vestibolo e scuola mitraica). Il mitreo, dunque, è costruito a cavallo
fra i II ed il III secolo e fu utilizzato fino alla fine del IV, cioè fino alla costruzione della basilica
paleocristiana edificata sopra il recinto di muri a blocchi di tufo, sull’aula di culto mitraico e sugli
ambienti ad essa connessi.
Al livello intermedio, tra il livello romano antico e l’attuale basilica, i lavori di scavo hanno
portato alla luce la chiesa paleocristiana che era in uso dalla fine del IV fino alla fine dell’XI.
Non è da escludere che già negli edifici romani potesse esserci un luogo di culto cristiano
precedente. Si ha notizia, infatti, di un titulus Clementis. Il titulus potrebbe essere
consistito originariamente in una parte del precedente palazzo adibito a luogo di culto. C’è anche
chi lo ha voluto collegare al Fabio Clemente fatto uccidere da Domiziano, ma siamo solo nell’ambito delle
ipotesi.
Certo è che la chiesa paleocristiana utilizzò i muri perimetrali dell’edificio di
età flavia, mentre l’abside fu ricavata sfondando al centro il primo piano della casa che aveva al
livello inferiore il mitreo. L’abside della basilica paleocristiana poggia proprio sulla prima stanza
del santuario dedicato a Mitra, dove si fermavano le persone che volevano entrare a far parte di questa
comunità religiosa; il santuario vero e proprio resta al di fuori del perimetro dell’antica chiesa.
Probabilmente la domus fu acquistata dalla comunità cristiana di Roma che la utilizzò per la
costruzione di questa chiesa. La basilica paleocristiana fu consacrata durante il pontificato di papa Siricio
e, dunque, tra il 384 ed il 399.
In alto, lungo la navata centrale della basilica attuale,
è possibile vedere i quattro grandi affreschi per lato con le storie
di San Clemente e di sant’Ignazio di Antiochia. Ne facciamo menzione
non per la loro qualità pittorica, quanto perché ci riportano,
fra la storia e la leggenda, alle due figure delle quali la basilica custodisce
le reliquie.
Sul lato sinistro, partendo dal fondo, vediamo San Clemente che porge il
velo a Flavia Domitilla, moglie del console Flavio Clemente del quale abbiamo
parlato, che morirà martire sotto Domiziano. Il pittore ha qui voluto
collegare i due Clemente, considerando anche il primo, il console, come
un cristiano. Il secondo affresco rappresenta San Clemente che opera un miracolo
in Crimea, dove, secondo la tradizione, venne esiliato. Il terzo mostra
il martirio di San Clemente, che avvenne, secondo la tradizione sicuramente
romanzata, gettando nel Mar Nero San Clemente legato ad un’ancora. Il
quarto affresco rappresenta la traslazione delle reliquie dal Mar Nero a San
Clemente.
A destra, invece, vediamo la morte di San Servolo, un mendicante che era solito questuare dinanzi alla basilica di San Clemente di cui parla San Gregorio Magno in una sua omelia, poi la condanna di Sant’Ignazio, poi il saluto di San Policarpo di Smirne a Sant’Ignazio, infine il martirio di Sant’Ignazio al Colosseo. Gli affreschi sono stati realizzati durante il pontificato di Clemente XI (1700-1721).
Nella navata sinistra, vicino all’ingresso, c’è
la cappella di Santa Caterina affrescata da Masolino da Panicale su commissione
del cardinale Branda Castiglioni, che fu cardinale titolare della basilica di
S.Clemente tra il 1411 ed il 1431. Masolino la affrescò tra il 1428
e il 1431, forse con la collaborazione di Masaccio (si notino le ombre di alcuni
personaggi raffigurati; come è noto, Masaccio fu il primo a rappresentare
le ombre in pittura; cfr su questo Masaccio
o dell'uso cristiano dell'ombra).
Sulla parete destra sono affrescate storie di sant’Ambrogio, sulla sinistra
storie di santa Caterina d’Alessandria, e nella parete di fondo la Crocifissione.
Prima di analizzare in dettaglio le diverse scene è utile richiamare
il fatto che a quel tempo la basilica era officiata da monaci ambrosiani
di regola agostiniana e questo spiega la presenza della figura di Sant’Ambrogio;
la raffigurazione dello studiolo di sant’Ambrogio ben si collega alla
figura di Santa Caterina d’Alessandria che è la patrona dei filosofi.
Il cardinal Branda Castiglioni fu un grande umanista. Nel 1388-89 fu
inviato a Roma dall’allora signore di Pavia, Filippo Maria Visconti, per
ottenere dal papa l’approvazione della Bolla di Fondazione dell’Università
di Pavia, incarico che portò a termine con successo. Più tardi
dotò la stessa università di un collegio per 24 studenti bisognosi
che avessero voluto studiare in quella prestigiosa università. Fu più
volte inviato del pontefice, particolarmente in Ungheria; partecipò
al Concilio di Costanza ed accompagnò il neo eletto papa Martino V nel
suo viaggio di ingresso in Roma. Nel paese d’origine della sua famiglia,
Castiglione Olona, in provincia di Como, mise a disposizione i suoi beni
perché fosse realizzata una scuola ed una biblioteca di grammatica e
di musica, oltre a far affrescare proprio da Masolino la Collegiata e lo straordinario
battistero che conserva integralmente gli affreschi del maestro di Panicale.
L’intera cappella di Santa Caterina vuole evidentemente essere un richiamo
alla capacità della fede di divenire cultura ed un richiamo al rapporto
fra il sapere umanistico e la teologia. L’umanesimo, oltre ad essere
un fenomeno tipicamente cristiano, ebbe fra i suoi centri più attivi
e propulsivi proprio Roma (cfr. su questo l’articolo di Antonio Paolucci
Il Quattrocento a Roma
e la grande rinascita culturale nella città dei papi).
A sinistra, nella prima scena, santa Caterina spiega quanto
siano vuoti e falsi gli idoli, mentre la tromba di un pagano li adora. Nella
seconda scena Caterina viene chiamata dall’imperatore a discutere con
i filosofi pagani e, secondo la tradizione, li convince ed essi si convertono
al cristianesimo. Sul lato della scena, come in una finestra si vede Caterina
che assiste al rogo al quale sono condannati dall’imperatore i filosofi
divenuti cristiani.
Nella terza scena Caterina è in prigione e riceve la visita dell’imperatrice
che le domanda della fede cristiana; a destra della scena viene rappresentato
il martirio dell’imperatrice che, avendo ascoltato la santa ed essendosi
fatta anch’essa cristiana, viene per questo condannata a morte dal
marito imperatore.
Nella terza scena viene rappresentato il primo tentativo di martirizzare
la santa, facendola squarciare da due ruote che girano in senso inverso.
Un angelo interviene a salvare la santa.
Nell’ultima scena la santa viene decapitata da alcuni soldati.
Sullo sfondo si vedono alcuni angeli che trasportano il corpo della santa al
monte Sinai (secondo la tradizione il corpo della santa è venerato nel
monastero di santa Caterina al monte Sinai), mentre la sua anima viene portata
in cielo.
Sull’altro lato della cappella, a destra, vediamo la storia di Sant’Ambrogio.
In alto verso il fondo vedete un bambino con sua madre: è Ambrogio
ancora infante. Secondo la tradizione, la madre vide delle api che gli ronzavano
sulla bocca, un segno premonitore del fatto che la sua parola sarebbe stata
come il miele, avrebbe convinto della fede, conquistando le menti e i cuori.
Già da bambino si vede, insomma, la dolcezza del suo modo di parlare.
Pensate, per una piccola attualizzazione di questa immagine, quando un catechista
sa parlare ‘con dolcezza’, cioè non in modo melenso, ma con
una capacità di spiegare, di far capire, di convincere. È l’idea
della parola come luogo di comunicazione della verità di Dio.
A destra abbiamo un altro bambino. Qui è affrescato
l’episodio che vuole che Ambrogio, quando era insignito della carica civile
di governatore di Milano, mentre era solo catecumeno e non ancora battezzato,
fu acclamato vescovo –era appena morto il vescovo precedente- quando
un bambino gridò: “Ambrogio vescovo” e tutti, convinti che
quella era la scelta migliore e la volontà di Dio cominciano a chiedere
in coro: “Sì, Ambrogio vescovo!”.
A quei tempi i vescovi venivano talvolta scelti per acclamazione popolare; sono
attestati vari casi di questa prassi. Avvenne lo stesso anche per sant’Agostino:
egli non voleva entrare nelle chiese per paura che lo acclamassero prete e poi
vescovo, perché voleva vivere una vita monastica. Ambrogio, comunque,
nell’arco di due settimane venne battezzato, ordinato prete e subito dopo
vescovo.
Il terzo episodio rappresentato riguarda Roma. Ambrogio si reca a visitare un
giovane che afferma di sentirsi tranquillo e sicuro, senza bisogno di Dio, perché
non gli è mai accaduto niente di male; il santo esce dalla sua compagnia
ed il giorno dopo la casa crolla ed il giovane muore. Vale la pena ricordare
che Ambrogio, pur essendo nato a Treviri, proveniva da una famiglia di origine
romana e si è recò a Roma anche per questo; secondo la tradizione
la casa nella quale abitò è stata trasformata nel tempo nel monastero
di Sant’Ambrogio alla Massima, vicino all’antico Ghetto.
Negli affreschi abbiamo poi la morte di Ambrogio: si vede il letto in cui
è in fin di vita e davanti a lui lo studio, con il leggio e molti libri,
un modo di dire l’importanza dello studio.
Il cardinale Branda Castiglioni voleva così significare che la vita
di un vescovo è anche studio ed insegnamento. Lo studiolo rappresentato
è vuoto, mentre ci sono quattro diaconi che assistono Ambrogio che muore;
nella Vita di Ambrogio si racconta che sentì che i diaconi parlavano
del successore, facendo il nome di Simpliciano. Ambrogio li udì e
disse che Simpliciano era vecchio, ma era buono e quindi era la persona adatta
ad essere ordinato nuovo vescovo di Milano.
All’esterno della cappella Masolino ha dipinto l’Annunciazione:
Dio Padre, al centro, guarda la Vergine Maria, quasi attendendo il suo assenso.
Maria, a sua volta, sembra guardare verso l’affresco che è in fondo
alla cappella, la Crocifissione.
Nella volta abbiamo poi i quattro evangelisti, i quattro dottori della Chiesa
e i dodici apostoli, sempre a dire questa successione tra Cristo, la Chiesa
e l’oggi che si sviluppa nel tempo.
A fianco dell’ingresso potete vedere due pannelli con le sinopie di
Masolino. Per affrescare una parete l’artista prima dipingeva il disegno
di massima con un carboncino per avere una traccia per la posa dei colori. Quando
fu restaurata la cappella, sotto gli affreschi furono trovate le sinopie; qui
vedete il disegno della decapitazione di santa Caterina, sulla destra si vede
il monte Sinai.
Nell’ultima cappella della navata di destra, troviamo la cappella delle reliquie di S.Cirillo, che
sono custodite nell’altare della cappella stessa. Cirillo e Metodio sono i due santi evangelizzatori
degli Slavi, patroni d’Europa, coloro che hanno aperto la strada perché la fede giungesse anche
in Russia.
Giovanni Paolo II li ha voluti patroni d’Europa, per dire che l’Europa è una unità che
comprende l’occidente e l’oriente europeo. Cirillo e Metodio furono inviati da Costantinopoli, ma
vollero venire a Roma per avere anche l’approvazione papale.
Tradussero la Sacra Scrittura e la liturgia nella lingua di quei popoli,
che non aveva ancora un alfabeto. Si semplifica la questione dicendo che
inventarono l’alfabeto cirillico (da Cirillo, appunto). In realtà
Cirillo non è l’inventore dell’alfabeto cirillico, ma dell’alfabeto
glagolitico. Solo in seguito il glagolitico evolse nel cirillico, grazie all’opera,
probabilmente, di uno degli allievi di Cirillo e Metodio, San Clemente d'Ocrida.
Il nuovo alfabeto fu chiamato cirillico in onore di S. Cirillo.
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Alfabeto glagolitico
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Alfabeto cirillico
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Il papa dette la sua approvazione all’uso della nuova lingua in ambito liturgico e per la traduzione del
vangelo. Ci fu quindi questo rapporto strettissimo con Roma. Possiamo vedere qui come la fedeltà alla
tradizione non significhi fissismo, ma implichi il rinnovamento, lo sviluppo, come dicevamo. L’opera di
Cirillo e Metodio fu quella di portare a quei popoli la fede e la liturgia, ma in una lingua nuova, ma sempre in
comunione con Roma (e con Costantinopoli; siamo prima della divisione del 1054).
Furono proprio Cirillo e Metodio, nell’anno 867, a portare le reliquie di san Clemente a Roma, dalle
regioni del Mar Nero, dove Clemente, secondo la tradizione, era stato esiliato e martirizzato, come abbiamo
già visto.
Cirillo morì a Roma e fu sepolto qui a S.Clemente. La sua tomba originaria doveva essere in fondo alla
navata destra della chiesa inferiore, come vedremo, dove è ora un resto di affresco che lo ritrae.
Dopo gli scavi, fu invece eretto un altare al fondo della navata sinistra dove oggi ci si reca per venerare il
luogo della sepoltura. Le reliquie sono comunque ora state portate, dopo varie peripezie, in questa cappella.
Gli ortodossi slavi che vengono in pellegrinaggio a Roma, hanno sempre una tappa del loro itinerario qui a San
Clemente, perché Cirillo è il loro grande patrono. Celebrano la liturgia in questa cappella e
poi scendono in processione all’altare della chiesa inferiore.
La schola cantorum ha come idea quella del giardino del paradiso terrestre, dal quale siamo stati
allontanati a causa del peccato, ma nel quale ora, dopo la venuta di Cristo, possiamo incontrare Gesù
risorto come Maria Maddalena. Questa struttura ha certamente una funzione pratica, ma conserva sempre la funzione
simbolica di giardino come luogo chiuso.
Sulle lastre in marmo della schola cantorum troviamo il monogramma di Johannes (il sacerdote Mercurio,
diventato papa nel 533 con il nome di Giovanni II, il primo papa a cambiare nome, poiché Mercurio era il
nome di una divinità pagana). Sono pannelli probabilmente ordinati a Costantinopoli, lavorati
lì e rifiniti qui a Roma. Questa schola cantorum era nella basilica paleocristiana, la chiesa
inferiore.
Quando si decise di costruire la nuova chiesa, dopo il 1099 -perché in questa basilica paleocristiana
è stato eletto papa Pasquale II- tra il 1118 e il 1125 (sulla sede c’è la scritta relativa
ad Anastasio) sono stati trasportati nella chiesa superiore, l’attuale basilica, per essere
riutilizzati. Le lastre sono state allora ritoccate secondo lo stile dei maestri cosmateschi.
Sempre i maestri cosmateschi hanno riutilizzato dei resti di marmo per realizzare il pavimenti con mosaici di
vari colori. In particolare furono tagliate a dischi sottili alcune colonne e con questi cerchi marmorei fu
creato il tappeto processionale che porta fino all’altare, fino alle reliquie di S.Clemente e di
S.Ignazio.
La porta principale di accesso alla basilica è del 1700; a destra ed a sinistra potete vedere lo stemma di
Clemente XI. Sopra la porta d’ingresso c’è un frammento di un architrave romano che reca
l’iscrizione di Traiano, figlio di Nerva; è stato scoperto recentemente.
L’ingresso alla basilica del IV secolo che è stato approntato dopo gli scavi si trova sul lato
destro dell’attuale basilica. Da qui si entra nel vestibolo della sagrestia e da lì si scende nella
basilica inferiore scendendo una scala costruita nel 1866. Sulla sinistra trovate la ricostruzione
dell’iscrizione dedicatoria della basilica primitiva. Gli scavi sono stati iniziati dai padri
domenicani irlandesi che tuttora reggono la chiesa. La loro presenza qui data dal 1667, quando dovettero
fuggire dall’Inghilterra per le persecuzioni anglicane contro i cattolici ed il papa affidò loro
la basilica.
In fondo alla scala si entra nell’antico nartece della chiesa del IV secolo. Vi corrisponde, al
livello superiore, l’atrio della basilica attuale. Probabilmente anche la basilica paleocristiana aveva un
quadriportico, ma non possiamo esserne sicuri, perché in quella direzione non si è potuto
scavare.
Il nartece è il portico posto prima della chiesa vera e propria. La sua funzione era di segnare il
trapasso fra l’esterno dell’edificio e l’aula sacra vera e propria, oltre ad offrire un
riparo dalle intemperie. Spesso era collegato architettonicamente ad un quadriportico che poteva accoglieva i
catecumeni che potevano partecipare solo alla prima parte della liturgia domenicale.
Immaginate in questo spazio dietro di noi il quadriportico, come c’è tuttora nella chiesa
superiore; attraversate queste porte si accedeva alla chiesa. Vi era chiaramente un portone centrale, con una
porta a sinistra ed una a destra. Sono superstiti ancora alcune colonne attraverso le quali si poteva vedere
l’interno della chiesa che era aperta.
Nel nartece della chiesa inferiore, come potete vedere, sono state esposte alcune lastre tombali che sono
state rimosse per approfondire gli scavi. La maggior parte delle tombe erano di terracotta, alcune, forse
quelle delle persone benestanti, di marmo. In una di queste tombe la lastra di marmo è stata evidentemente
riutilizzata. In origine riportava un epitaffio pagano, ma sull’altro lato della lastra è presente
un’iscrizione che dimostra che questa è stata successivamente usata per una tomba cristiana.
La chiesa paleocristiana di S.Clemente aveva un ingresso a pentafora, come abbiamo già visto in
S.Pietro in Vincoli, era cioè completamente aperta e dall’esterno si poteva vedere l’interno
della chiesa. Questa soluzione architettonica fu adottata solo alla fine del IV e nel V secolo e poi
abbandonata perché presentava notevoli problemi pratici. L’ingresso principale è fuori asse
rispetto all’ingresso principale della basilica superiore. Questo significa che la basilica
paleocristiana era più grande di quella superiore. In fondo intravedete già da qui
l’abside che era, però, molto più grande di quella attuale; quella che vediamo è
un’abside più piccola eretta per sostenere l’abside della chiesa medievale. Quando giungeremo
dietro l’altare, saranno ben visibili le due absidi, quella più grande che poggia sul locale
d’ingresso del mitreo e quella più piccola che serve a sostenere l’abside superiore.
Tutto questo è riemerso a seguito degli scavi intrapresi da Padre Mullooly, frate domenicano, nel
1857. Oggi non possiamo percepire più la bellezza dell’antico edificio, perché la chiesa
superiore ne ha tagliato la sommità Se voi vedete le colonne e gli archi, vi accorgete che esse spiccavano
più in alto, mentre oggi ci ritroviamo con un soffitto ribassato, a causa dell’attuale
basilica. Anche gli affreschi che vedremo sono tagliati in alto.
Vediamo i primi due affreschi che sono nel nartece. Essi furono
dipinti sul muro che fu innalzato fra le colonne per ragioni statiche, poiché
evidentemente non erano più sufficienti a reggere da sole la facciata,
durante il pontificato di papa Leone IV (847-855), che è dipinto con
l’aureola quadrata, quindi come vivente a quel momento, nella controfacciata,
nell’affresco dell’Ascensione (o Assunzione). Leone IV è
il papa che fece le mura Leonine, cioè le mura che circondano S.Pietro,
che sono le mura costruite dopo che gli arabi attaccarono Roma e saccheggiarono
le due basiliche di S.Pietro e di S.Paolo nell’846.
I due affreschi superstiti nel nartece sono della fine dell’XI secolo
e rappresentano l’ultima opera realizzata in questa chiesa, poco prima
che venisse interrata. L’affresco a destra dell’entrata principale
ha due registri. In basso è ritratta la famiglia donatrice, sulla
sinistra un uomo con la spada, con l’iscrizione del suo nome, Beno, Benone
di Rapiza, gentiluomo del tempo, con la moglie Maria Macellaria e i due
figli, Clemente e Altilia.
Questo affresco viene fatto, come dice l’iscrizione sulla destra, per
chiedere l’intercessione di S.Clemente e ringraziarlo. Pensate alle
litanie dei santi o alle preghiere che si rivolgono a Dio tramite un santo.
È la chiesa del cielo che cammina con noi. Benone di Rapiza credeva,
come crediamo noi, che san Clemente intercedeva per lui e per la sua famiglia.
Nel registro superiore l’affresco raffigura un miracolo leggendario
compiuto da san Clemente. Secondo la tradizione Clemente, come abbiamo visto,
era stato martirizzato gettandolo in mare con un’ancora legata al collo
e qualche tempo dopo le acque si erano ritratte scoprendo una tomba costruita
dagli angeli. Da allora una volta l’anno la marea defluiva e la tomba
di san Clemente poteva essere vista. In una di queste occasioni la donna
che è qui raffigurata si era recata alla tomba per venerare il santo,
ma, al sopraggiungere della marea, era tornata sulla terra ferma dimenticando
il suo bambino addormentato presso la tomba. L’anno dopo, al tempo
del pellegrinaggio, era tornata e, nel momento in cui le acque defluiscono,
aveva ritrovato il bambino vivo vicino alla tomba di san Clemente. Si vedono
chiaramente, nell’affresco, i pesci che nuotano intorno alla tomba
che aveva miracolosamente protetto il bambino per l’intercessione di san
Clemente.
Nell’affresco di sinistra è rappresentata
la traslazione delle reliquie di san Clemente nella basilica. Si distinguono
chiaramente due figure vestite in abiti monastici bianchi e neri –sono
Cirillo e Metodio- ed in mezzo a loro il papa; al centro del dipinto il
reliquiario con il corpo di san Clemente viene portato nella basilica (l’artista
ha commesso qui un errore perché indica il papa come Nicolò, ma
in realtà fu Adriano II a ricevere le reliquie dai due fratelli).
Sulla destra è di nuovo raffigurato il papa che attesta l’avvenuta
traslazione delle reliquie.
Quindi entrando nella chiesa le persone vedevano gli affreschi della traslazione
del corpo di san Clemente ed, insieme, erano invitate a rendersi conto che la
sua opera continuava nella chiesa attraverso la sua protezione celeste.
Dal nartece si passa alla navata centrale. Nella controfacciata abbiamo,
come è stato già detto, l’affresco della Ascensione di Gesù
(o dell’Assunzione; la cosa è discussa) con il ritratto di Leone
IV e, vicino, la crocifissione, le pie donne al sepolcro, le nozze di Cana
e la discesa al limbo. Questi affreschi sono precedenti a quelli del nartece
ed a quelli che vedremo fra poco, con le storie di sant’Alessio e di san
Clemente: sono infatti del tempo di papa Leone IV, cioè della metà
del IX secolo.
Avanzando nella navata vediamo a sinistra l’affresco
con la storia di sant’Alessio che è della fine dell’XI secolo
ed è probabilmente della mano di un discepolo del pittore degli affreschi
del nartece. L’affresco ritrae gli episodi romani della vita del santo
che fu pellegrino ed eremita in oriente. Alessio era un giovane di una nobile
famiglia che aveva acconsentito a sposare una ragazza, decidendo però
in accordo con lei di vivere in continenza. La moglie accettò di lasciarlo
partire come monaco ad Edessa in Siria. Dopo tanti anni Alessio decise –racconta
la tradizione- per evitare la fama che ormai lo circondava in oriente, di tornare
a Roma.
Tornato nell’urbe si mise a chiedere l’elemosina sotto la scala
che dava accesso alla casa della sua famiglia e nessuno lo riconobbe. L’affresco
mostra proprio questo momento: vedete la figura di Alessio con di fronte il
padre a cavallo e, alla finestra, sua moglie o sua madre. Alessio saluta la
sua famiglia, ma nessuno lo riconosce, perché magro e segnato dalle tante
penitenze. Lui decide di non rivelare la sua vera identità e chiede solamente
di essere ospitato dinanzi alla sua casa per vivere di elemosina.
Gli viene concesso ed Alessio rimane per diciassette anni
a vivere vicino alla famiglia, ma fuori dalla sua casa, finché non muore.
Questo episodio è affrescato, invece, a sinistra. Vedete Alessio disteso
dentro una mandorla. Secondo la tradizione stringe nel pugno un documento che
nessuno riesce a strappargli dalle mani. Solo all’arrivo del papa si aprono
le mani del santo e si trova scritto sulla pergamena che quell’uomo era
Alessio. Vedete il papa che legge il documento e tutti che si abbandonano
a scene di dolore per non aver riconosciuto in quel povero mendicante il loro
parente. Sebbene la storia abbia ovviamente tratti leggendari, ci mostra alcuni
aspetti della testimonianza della povertà della vita monastica.
Avanzando ancora nella navata, sempre a sinistra, giungiamo dinanzi all’affresco
più famoso che ci racconta un episodio della vita di san Clemente.
Anche questo è della fine dell’XI secolo ed è dello stesso
autore dei due affreschi che sono nel nartece. Anche qui è difficile
dire quanto ci sia di storico, ma l’episodio è comunque uno specchio
dei problemi della società del tempo.
Sulla sinistra dell’affresco si vede nuovamente la famiglia di Benone
di Rapiza, evidentemente i committenti dell’intero ciclo. Osservano
la figura rappresentata al centro che è san Clemente che sta celebrando;
si vede l’altare di forma quadrata, il messale, il pane ed il vino. Sulla
destra si vede una donna: è la moglie di Sisinnio che è l’uomo
che viene condotto da un altro perché diventato cieco. La storia
rappresentata racconta che Sisinnio era pagano e sua moglie si convertì
al cristianesimo e cominciò ad andare in chiesa, senza rivelarlo per
paura. Sisinnio, geloso, non capiva dove si recava la moglie e cominciò
a spiarla. È un problema che si poneva evidentemente nella chiesa antica,
ma che vale anche oggi. Cosa succede quando di due coniugi uno è credente
e l’altro ignora la fede?
Sisinnio decide allora di punire la moglie e di prelevarla
di forza dalla chiesa nella quale celebra Clemente, ma accade un miracolo
e, giunto in chiesa, diviene cieco e non può portare a termine il suo
disegno di impedire la fede alla moglie. Viene perciò accompagnato fuori
da questo servo che lo riporta a casa.
Ma la storia non si ferma qui. Ne vediamo la continuazione nel registro inferiore.
Clemente accetta di andare a casa di Sisinnio –la Chiesa si preoccupa
del marito, non lo isola dalla moglie - e lo guarisce. Ma Sisinnio è
ancora più adirato ed ordina di legare Clemente e trascinarlo via. E
qui si verifica un secondo prodigio che vediamo rappresentato. Clemente
esce dicendo: “Duritiam cordis v(est)ris saxa traere meruistis”
(“per la durezza del vostro cuore meritaste di trainare un sasso”).
Succede infatti che invece di catturare Clemente, i dipendenti di Sisinnio legano
una colonna e cercano di trainarla. Nuovamente l’accecamento impedisce
di operare il male ed essi scambiano una colonna per il nostro Clemente.
Un particolare interessante è che qui troviamo dipinte alcune iscrizioni
che sono la seconda attestazione del volgare italiano. Dopo le Carte di Capua,
questo è il documento più antico che ne attesta l’uso.
Sisinnio grida: “Fili dele pute, traite, Gosmari, Albertel, traite.
Falite dereto colo palo, Carvoncelle” (“Avanti, figli di male femmine,
tirate. Su, Gosmari e Albertello, tirate. Tu, Carvoncello, fatti sotto con la
leva”). Pensate a come il medioevo era più libero di quanto noi
comunemente pensiamo: siamo in una chiesa, vicino all’altare, e sul muro
abbiamo una scritta contenente espressioni non proprio consone all’ambiente.
Secondo la leggenda, comunque, Sisinnio infine si convertì per le preghiere
della moglie e di san Clemente e morì martire per la fede.
Se guardate in alto, nell’affresco, si vede un altro registro che è
stato tagliato. Si capisce però che le figure delle quali vediamo
solo i piedi erano i vescovi di Roma prima di Clemente; si leggono ancora i
loro nomi, Pietro, Lino, Cleto.
Se si percorre la navata centrale si arriva fino all’abside di sostegno
e, dietro questo, all’abside originale. A destra di questa si trova un
frammento di un affresco molto bello con la discesa agli inferi di Cristo;
c’è Adamo che viene preso per il polso e tirato fuori dal limbo,
mentre Gesù cammina sopra il diavolo. Cristo toglie al diavolo il potere
sulla morte, la sua resurrezione libera l’uomo dal potere del male e a
quel punto Adamo può essere tratto fuori. In Dante è evidente
che almeno quelli vissuti prima di Cristo vengono tratti fuori dal limbo (sul
recente documento della Congregazione per la dottrina della fede sul Limbo,
cfr. Il limbo oltre il IV canto
dell’Inferno di Dante).
Nell’angolo sinistro di questo frammento di affresco, è possibile
vedere una figura vestita con panneggio orientale: probabilmente è
l’antica raffigurazione di san Cirillo. Gli studiosi pensano che sia
questo il luogo dell’antica sepoltura di Cirillo nella basilica inferiore
di S.Clemente.
Scendiamo ora al terzo livello o -possiamo dire- al livello zero, al livello degli edifici romani. In
realtà è stato studiato anche un quarto livello sottostante, che è quello degli edifici che
furono rasi al suolo dopo il grande incendio dell’anno 64 d.C. sotto Nerone.
La parte più interessante è quella dell’antico mitreo, costituito certamente da un vestibolo
e dalla sala cultuale vera e propria o triclinio. L’abside insiste su di una parte del vestibolo, ma non
sulla sala cultuale. È stato ritrovato un altare mitraico perfettamente conservato, ma gli studiosi
discutono su quale fosse la sua collocazione originaria.
Cosa era un mitreo? I mitrei erano piccolissimi edifici dove entravano forse venti-trenta persone.
All’interno c’erano dei banchi dove ci si stendeva (triclini) e si venerava Mitra. Mitra è
una divinità solare legata ad Apollo, dio del Sole, che per portare la vita al mondo deve uccidere un
toro. Vedete sull’altare il toro che viene sgozzato e sotto il toro ci sono sempre tre animali: un cane,
un serpente e uno scorpione che morde i testicoli del toro cercando di fare uscire del liquido seminale. Non
sappiamo se questi animali abbiano un significato negativo o positivo. A destra e a sinistra ci sono Caute (con
la fiaccola alzata che simboleggia l’acclività del sole) e Cautopate (con la fiaccola abbassata che
simboleggia il sole in fase discendente).
Ciò che possiamo chiarire sul culto di Mitra è innanzitutto la
sua collocazione cronologica; il mitraismo emerge nel II secolo d.C..
Sebbene le sue origini si perdano nell’antichità iranica, la sua
versione misterica che si diffuse nel Mediterraneo nacque nell’epoca sincretista
dell’impero romano unificato. Venne portato a Roma dai militari delle
legioni dove giunge verso la metà o la fine del II secolo d.C. Tutti
i mitrei sono successivi al I secolo e, conseguentemente, al secolo delle origini
cristiane ed al Nuovo Testamento. C’è stata una scuola di studiosi,
legata a R.Reitzenstein, che sosteneva che il cristianesimo fosse dipendente
dal mitraismo, ma a livello storico questa tesi non ha nessun fondamento, perché
appunto il culto mitraico, così come lo conosciamo, è posteriore
(su questo vedi l’articolo La
scelta del 25 dicembre per celebrare il Natale cristiano).
Il mitraismo è un culto esclusivamente maschile, le donne non sono ammesse, ed è un culto
misterico, sono ammesse pochissime persone (lo vediamo anche dalla grandezza delle sale cultuali).
‘Mistero’ nel senso dei culti misterici, è qualcosa di privato, di nascosto, di riservato ad
eletti che accettano le tappe previste dell’iniziazione.
Per coglierne questa peculiarità essenziale possiamo confrontarlo con il cristianesimo che si è
sempre concepito per tutti, comprese le donne; la fede cristiana ha un Credo ed un culto che sono pubblici.
La chiesa si è sempre pensata così fin dalle origini, come una realtà non esoterica, non
riservata a pochi, ad una élite, ma per tutti; chiunque può entrare, in una assemblea cristiana,
può ascoltare e chiedere. Proprio questa segretezza è ciò che rende oggi difficile
precisare i contorni della fede mitraica, poiché non venivano pubblicati documenti rivolti a
tutti.
Nel culto mitraico c’era un’ascesa progressiva, con sette gradi e sette riti
d’iniziazione, fino a che si arrivava al supremo grado di questa iniziazione, alla piena appartenenza
ai ‘misteri’ di Mitra. Sempre per un confronto con il cristianesimo, pensate al battesimo con il
quale si entra nella piena comunione con tutti.
Comunque le due realtà del cristianesimo e del mitraismo, nate separatamente ed in due secoli differenti,
dal II secolo in poi si sono dovute confrontare.
I padri della chiesa, in alcuni testi, hanno cercato un
confronto tra il ‘mistero’ cristiano ed i ‘misteri’ pagani. Ad esempio, Clemente
Alessandrino dirà nel suo Protrettico (XII, 119, 1): “Vieni, ti voglio mostrare
il Logos e i misteri del Logos, e te li voglio spiegare mediante immagini che ti sono già
familiari”.
E passa poi ad utilizzare alcuni elementi dei culti misterici perché coloro che avevano familiarità
con questi concetti potessero meglio capire per similitudine o per opposizione alcuni aspetti del cristianesimo.
I padri della chiesa avranno una visione sempre attenta agli altri culti. Da un lato, ne vedevano le
ambiguità e le negatività, dall’altra si sforzavano di cogliere in essi come delle
prefigurazioni di Cristo date da Dio a chi ancora non aveva avuto la fortuna di ricevere la pienezza della
rivelazione cristiana.
L’ultimo fondamentale elemento da considerare è che il culto misterico è mitologico, non
ha età. Quando Mitra ha sgozzato il toro? In che epoca è avvenuto? Non solo non possiamo saperlo,
ma ancor più la domanda non ha senso, perché si tratta di un mito, non di un evento storico.
Nel cristianesimo invece la storia è determinante. “Cristo patì sotto Ponzio Pilato”,
cioè in un determinato anno, dinanzi a figure storiche che hanno portato un nome ed un volto. Nel mito, la
domanda storica non ha senso perché la lotta raffigurata è una lotta eterna, che è da sempre
e che sempre si ripete. La religione mitriaca è una religione del cosmo e delle stagioni, non della
storia. Già da questi pochi elementi ci rendiamo conto che il contesto è quello di un ripetersi di
un evento ciclico, a differenza del cristianesimo il quale si basa invece su un avvenimento puntuale che si
verifica una volta e dal quale nasce la tradizione che trasmette quell’evento di generazione in
generazione.
Si potrebbe, infine, aprire una lunga discussione per la quale non abbiamo tempo e che cercheremo di sviluppare
l’anno prossimo. Cosa successe con le leggi contro i pagani che furono emanate da Teodosio? Senza
poter entrare per ora nel dettaglio possiamo dire che il fatto che l’altare sia interamente conservato e
che la basilica non occupi l’intera area mitraica, ma solo la sua parte esterna, fa dubitare di quelle
teorie secondo le quali i cristiani avrebbero distrutto i luoghi di culto pagani ed, in particolare, i mitrei.
Una parte della chiesa copre il vestibolo del mitreo, ma la cella cultica non viene toccata.
- gli imperatori della dinastia giulio-claudia
segue un anno di crisi nel 69 con 4 imperatori (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano)
- gli imperatori della dinastia flavia
- il cosiddetto “principato elettivo”
- gli eventi cristiani in relazione a Roma
- Colosseo e terme di Traiano, le prime delle tre grandi terme pubbliche imperiali, che sostituiscono la Domus
Aurea
- concordano l’Apocalisse (“mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e
della testimonianza resa a Gesù”, Ap 1,9 ) la I lettera di Clemente, il Pastore di Erma, Melitone,
Egesippo e Tertulliano
- concordano le fonti romane: Domiziano (81-96) fa uccidere Fabio Clemente, suo cugino, ed Acilio Glabrione ed
esilia Domitilla, anch’essa sua cugina e sposa di Fabio Clemente, accusati di “astenersi dalla vita
pubblica” e di ateismo
Dione (storico greco del III secolo): libro 76, cap. 14
Domiziano uccise con molti altri anche Flavio Clemente mentre era console, sebbene fosse suo cugino ed avesse in
moglie una parente, Domitilla. Rinfacciava ad ambedue l’accusa di ateismo (impietas), per la quale
furono condannati anche molti ; di essi, alcuni soltanto furono messi a morte, atri furono privati dei loro beni.
Domitilla fu soltanto deportata a Pandataria. Mise a morte poi Glabrione, che era stato console insieme a
Traiano, a cui furono rivolte molte accuse oltre a quelle dei molti...
Dione nell’epitome di Xifilino (68, 1, 2) dice che Nerva, successore di Domiziano, lasciò liberi
coloro che erano accusati di asebeia
Svetonio, Vita di Domiziano, cap. XV
la condanna di Flavio Clemente avvenne repente ex tenuissima suspicione, ma biasima la contemptissima
inertia (cioè l’astensione dalla vita politica) di Fabio Clemente)
Dal Primo Commonitorio di Vincenzo di Lérins, sacerdote, cap. 2
Ciò che sempre, ciò che dovunque, ciò che da tutti è stato creduto (“Quod
semper, quod ubicumque, quod ab omnibus creditum est”, Primo Commonitorio, cap. 2).
Dal Primo Commonitorio di Vincenzo di Lérins, sacerdote, cap. 23 (PL 50, 667-668)
Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di
Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il
vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma
in un’altra.
E’ necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile
la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di
tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo
significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei
corpi...
Le membra del lattante sono piccole, più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse.
Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che
esistono in età più matura esistevano già nell’embrione... Questo è
l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni,
sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. E’ necessario però che resti sempre
assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe
assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il
frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
E’ anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello
stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può ancora svilupparsi con
l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.
Da una lettera di J.R.R.Tolkien a Michael Tolkien in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza.
Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.442.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che,
naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio
inutile [...], perché la “primitività” non è garanzia di valore [...] Gravi
abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso (le restrizioni di San
Paolo a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!). Inoltre la “mia chiesa” non è
stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza;
ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in
seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze
del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero
quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è
l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa
divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare
di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri
ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo,
in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via.
(Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono
ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era
(come pensano loro) bella e incontaminata dal male.
1/ La questione sull’autorità
Sant’Ireneo: Clemente “aveva visto gli Apostoli”, “si era incontrato con loro”, e
“aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione” (Adv.
haer. 3,3,3).
Sant’Ireneo: “Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la
Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la
loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli” (Adv.
haer. 3,3,3).
Eusebio di Cesarea: “E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile.
Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto... Sappiamo che da molto tempo, e ancora
ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli” (Hist. Eccl.
3,16) e Hist. Eccl. 4, 32, 1 dove si afferma che secondo Dionigi, vescovo di Corinto, era letta nella
liturgia domenicale (in Eusebio,)
Dalla Lettera di Clemente
I, 1. Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l'una dietro l'altra, o fratelli, crediamo di
aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all'empia e disgraziata
sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l'accesero, giungendo a tal
punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente
compromesso.
II, 1. Tutti eravate umili e senza vanagloria, volendo più ubbidire che comandare, più dare con
slancio che ricevere. Contenti degli aiuti di Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel
profondo dell'animo, e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi. 2. Così una pace profonda e
splendida era data a tutti e un desiderio senza fine di operare il bene e una effusione piena di Spirito Santo
era avvenuta su tutti. 3. Colmi di volontà santa nel sano desiderio e con pietà fiduciosa,
tendevate le mani verso Dio onnipotente, supplicandolo di essere misericordioso se in qualche cosa, senza
volerlo, avevate peccato. 4. Giorno e notte per tutta la vostra comunità vi adoperavate a salvare con
pietà e coscienza il numero dei suoi eletti. 5. Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza
rancori. 6. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile. Vi affliggevate per le disgrazie del prossimo e
ritenevate le sue mancanze come vostre. 7. Senza pentirvi mai di ogni buona azione, eravate pronti ad ogni opera
di bene. 8. Ornati di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i comandamenti e i
precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro cuore.
XLII, 1. Gli apostoli predicarono il Vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. 2.
Cristo fu inviato da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente secondo la volontà di
Dio. 3. Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e
fiduciosi nella parola di Dio con l'assicurazione dello Spirito Santo, andarono ad annunziare che il regno di Dio
stava per venire. 4. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le primizie del loro lavoro
apostolico, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. 5. E questo non era nuovo; da
molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti, dice la Scrittura: "Stabilirono
i loro vescovi nella giustizia e i loro diaconi nella fede".
cfr. lezione del prof.Knapinski con l’esemplificazione delle 12 croci di consacrazione e la
verticalità della confessio e delle reliquie negli altari
XLVI, 5. Perché tra voi contese, ire, dissensi, scismi e guerra? 6. Non abbiamo un solo Dio, un solo
Cristo e un solo spirito di grazia effuso su di noi e una sola vocazione in Cristo? 7. Perché strappiamo e
laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che
siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore. 8. Disse,
infatti: "Guai a quell'uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei
eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che
pervertire uno del miei eletti". Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti
nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo.
XLVII, 1. Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. 2. Che cosa vi scrisse all'inizio della sua
evangelizzazione? 3. Sotto l'ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi
allora formato dei partiti. 4. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli
che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo (Apollo) stimato da loro. 5. Ora, invece, considerate chi vi ha
pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna...
XLIX, 1. Chi ha la carità in Cristo pratichi i suoi comandamenti. 2. Chi può spiegare il
vincolo della carità di Dio? 3. Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? 4.
L'altezza ove conduce la carità è ineffabile. 5. La carità ci unisce a Dio: "La
carità copre la moltitudine dei peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale,
nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la
carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza
carità nulla è accetto a Dio. 6. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la
carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il
suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima.
L, 1. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa la carità, e della sua perfezione non
c'è commento. 2. Chi è capace di trovarsi in essa se non quelli che Dio ha reso degni? Preghiamo
dunque e chiediamo alla sua misericordia perché siamo riconosciuti nella carità, senza
sollecitazione umana, irreprensibili. 3. Sono passate tutte le generazioni da Adamo sino ad oggi, ma quelli
che con la grazia di Dio sono perfetti nella carità raggiungono la schiera dei più, che saranno
visti nel novero del regno di Cristo. 4. Infatti è scritto: "Entrate nelle vostre stanze per pochissimo,
finché passa la mia ira e il mio furore; mi ricorderò del giorno buono e vi risusciterò dai
vostri sepolcri". 5. Siamo beati, carissimi, se eseguiamo i comandamenti di Dio nella concordia della
carità, perché ci siano rimessi i peccati per la carità. 6. E' scritto: "Beati quelli cui
furono rimesse le malvagità e i cui peccati sono stati coperti; beato l'uomo del quale il Signore non
considererà il peccato, né l'inganno è sulla sua bocca". 7. Questa beatitudine è per
quelli scelti da Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. A lui la gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
continua la polemica di 1 e 2 Cor!
XL, 1. Sono per noi evidenti queste cose e siamo scesi nelle profondità della conoscenza divina.
Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci comanda di compiere nei tempi fissati. 2. Egli ci
prescrisse di fare le offerte e le liturgie, e non a caso o senz'ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. 3.
Egli stesso con la sua sovrana volontà determina dove e da chi vuole siano compiute, perché ogni
cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua volontà. 4. Coloro che fanno le
loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati. Seguono le leggi del Signore e non errano. 5. Al gran
sacerdote sono conferiti particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico
specifico e ai leviti incombono propri servizi. Il laico è legato ai precetti laici.
intervento su Corinto nei termini di una invocazione, non di un ordine, ma lo stesso intervento
2/ Il rapporto con l’ebraismo e l’Antico Testamento
3/ La teologia
- è eccezionale che nel mondo antico una religione abbia una teologia: è per la personalità
di Gesù che nasce questo problema (il che non vuol dire che il paganesimo non fosse lo stesso
intollerante)
4/ La preghiera per l’imperatore ed i politici
LX, 4. Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come la desti ai padri nostri quando ti
invocavano santamente nella fede e nella verità; rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di
virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.
LXI, 1. Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza,
perché noi, conoscendo la gloria e l'onore loro dati, ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua
volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza, per esercitare al sicuro la
sovranità data da te. 2. Tu, Signore, re celeste dei secoli, concedi ai figli degli uomini gloria, onore e
potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere, secondo ciò che è buono e
gradito alla tua presenza, per esercitare con pietà, nella pace e nella dolcezza, il potere che tu hai
loro dato e ti trovino misericordioso.
VII/ Lettera di Plinio il giovane e Rescritto di Traiano (111-113)
Lettera di Plinio, governatore della Bitinia e del Ponto
E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi
infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si
sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se
anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del
vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi
affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure
le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se
fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale;
quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero,
dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla
medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben
presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali
questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere
cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto
io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme
ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da
coloro che siano veramente cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma
avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni.
Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima
dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con
giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi,
né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora
ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per
prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale,
secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni
necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di
verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una
superstizione balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti
cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte
persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in
questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di
questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma (Epist. X, 96,
1-9).
Rescritto (lettera di risposta) dell’imperatore Traiano
Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come cristiani,
hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola
generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano
denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di
essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei,
quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli
anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è
prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi (Epist. X, 97).
Antiochia: lì “per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (At
11,26); lì successivamente fu primo vescovo, secondo la tradizione, l'apostolo Pietro
Dalla catechesi di Benedetto XVI su Ignazio, durante l’udienza generale:
La prima tappa del viaggio di Ignazio verso il martirio fu la città di Smirne, dove era Vescovo san
Policarpo, discepolo di san Giovanni. Qui Ignazio scrisse quattro lettere, rispettivamente alle Chiese di Efeso,
di Magnesia, di Tralli e di Roma. “Partito da Smirne”, prosegue Eusebio, “Ignazio venne a
Troade, e di là spedì nuove lettere”: due alle Chiese di Filadelfia e di Smirne, e una al
Vescovo Policarpo. Eusebio completa così l'elenco delle lettere, che sono venute a noi dalla Chiesa del
primo secolo come un prezioso tesoro
1/ La teologia
Dalla "Lettera ai cristiani di Smirne" di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
I- IV Ho visto che siete fondati su una fede incrollabile, come se foste inchiodati, carne e spirito, alla
croce del Signore Gesù Cristo, e che siete pieni di carità nel sangue di Cristo. Voi credete
fermamente nel Signore nostro Gesù, credete che egli discende veramente "dalla stirpe" di Davide
secondo la carne" (Rm 1, 3) ed è figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio; che nacque
veramente da una vergine; che fu battezzato da Giovanni per adempiere ogni giustizia (cfr. Mt 3, 15); che
fu veramente inchiodato in croce per noi nella carne sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode. Noi siamo
infatti il frutto della sua croce e della sua beata passione. Avete ferma fede inoltre che con la sua
risurrezione ha innalzato nei secoli il suo vessillo per riunire i suoi santi e i suoi fedeli, sia Giudei che
Gentili, nell'unico corpo della sua Chiesa. Egli ha sofferto la sua passione per noi, perché fossimo
salvi; e ha sofferto realmente, come realmente ha risuscitato se stesso. Io so e credo fermamente che
anche dopo la risurrezione egli è nella sua carne. E quando si mostrò a Pietro e ai suoi
compagni, disse loro: Toccatemi, palpatemi e vedete che non sono uno spirito senza corpo (cfr. Lc 24, 39). E
subito lo toccarono e credettero alla realtà della sua carne e del suo spirito. Per questo disprezzarono
la morte e trionfarono di essa. Dopo la sua risurrezione, poi, Cristo mangiò e bevve con loro proprio come
un uomo in carne ed ossa, sebbene spiritualmente fosse unito al Padre. Vi ricordo queste cose, o carissimi,
quantunque sappia bene che voi vi gloriate della stessa fede mia... Se è un’apparenza quanto
è stato fatto al Signore, anch’io sono in apparenza incatenato.
2/ L’unità
Dalla "Lettera ai cristiani di Efeso" di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
IV. Conviene procedere d'accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbiterato ben
reputato degno di Dio è molto unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo dalla vostra
unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo. E ciascuno diventi un coro,
affinché nell'armonia del vostro accordo prendendo nell'unità il tono di Dio, cantiate ad una
sola voce per Gesù Cristo al Padre, perché vi ascolti e vi riconosca, per le buone opere, che siete
le membra di Gesù Cristo. È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere
sempre partecipi di Dio.
Dalla "Lettera a san Policarpo, vescovo di Smirne" di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e
martire
II, 1. Se ami i discepoli buoni, non hai merito; piuttosto devi vincere con la bontà i più
riottosi. Non si cura ogni ferita con uno stesso impiastro. Calma le esacerbazioni (della malattia) con bevande
infuse. 2. In ogni cosa sii prudente come un serpente e semplice come la colomba. Per questo sei di carne
e di spirito, perché tratti con amabilità quanto appare al tuo sguardo; per ciò che
è invisibile prega che ti sia rivelato, perché non manchi di nulla e abbondi di ogni grazia.
Dalla catechesi su Ignazio di Antiochia di papa Benedetto XVI
L'irresistibile tensione di Ignazio verso l'unione con Cristo fonda una vera e propria “mistica
dell'unità”. Egli stesso si definisce “un uomo al quale è affidato il compito
dell'unità” (Filadelfiesi 8,1). Per Ignazio l'unità è anzitutto una prerogativa
di Dio, che esistendo in tre Persone è Uno in assoluta unità. Egli ripete spesso che Dio è
unità, e che solo in Dio essa si trova allo stato puro e originario. L'unità da realizzare su
questa terra da parte dei cristiani non è altro che un'imitazione, il più possibile conforme
all'archétipo divino.
Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l'aggettivo “cattolica”,
cioè “universale”: “Dove è Gesù Cristo", egli afferma, “lì
è la Chiesa cattolica” (Smirnesi 8,2). E proprio nel servizio di unità alla Chiesa
cattolica, la comunità cristiana di Roma esercita una sorta di primato nell’amore: “In Roma
essa presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata... Presiede alla carità, che ha la
legge di Cristo e porta il nome del Padre” (Romani, prologo).
In definitiva, il “realismo” di Ignazio invita i fedeli di ieri e di oggi, invita noi tutti a una
sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (unione con Lui, vita in Lui) e dedizione alla sua
Chiesa (unità con il Vescovo, servizio generoso alla comunità e al mondo). Insomma, occorre
pervenire a una sintesi tra comunione della Chiesa all’interno di sèe missione
proclamazione del Vangelo per gli altri, fino a che attraverso una dimensione parli l'altra, e i credenti
siano sempre più “nel possesso di quello spirito indiviso, che è Gesù Cristo
stesso” (Magnesi 15).
3/ Roma
Dalla "Lettera ai cristiani di Roma" di sant'Ignazio di Antiochia, vescovo e martire
Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesù
Cristo suo unico figlio, la Chiesa amata e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che
esistono, nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede nella terra di Roma,
degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità, che porta la
legge di Cristo e il nome del Padre.
I,1. Dopo aver pregato Dio ho potuto vedere i vostri santi volti ed ottenere più di quanto avevo chiesto.
Incatenato in Gesù Cristo spero di salutarvi, se è volontà di Dio che io sia degno sino alla
fine. 2. L'inizio è facile a compiersi, ma vorrei ottenere la mia eredità senza ostacoli. Temo
però che il vostro amore mi sia nocivo. A voi è facile fare ciò che volete, a me è
difficile raggiungere Dio se non mi risparmiate.
II,1. Non voglio che voi siate accetti agli uomini, ma a Dio come siete accetti. Io non avrò più
un'occasione come questa di raggiungere Dio, né voi, pur a tacere, avreste a sottoscrivere un'opera
migliore. Se voi tacerete per me, io diventerò di Dio, se amate la mia carne di nuovo sarò a
correre. 2. Non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando è pronto l'altare,
per cantare uniti in coro nella carità al Padre in Gesù Cristo, poiché Iddio si è
degnato che il vescovo di Siria, si sia trovato qui facendolo venire dall'oriente all'occidente. È bello
tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui.
IV,1. Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo
impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per
mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere
per diventare pane puro di Cristo. 2. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla
lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù
Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia
vittima per Dio. 3. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi
io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in
lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla.
V,1. Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci
leopardi, il manipolo dei soldati. Beneficati diventano peggiori. Per le loro malvagità mi alleno di
più «ma non per questo sono giustificato». 2. Potessi gioire delle bestie per me preparate e
m'auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per
alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello
che mi conviene. 3. Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia
perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le
slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo
vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo.