Mettiamo a disposizione la trascrizione del III incontro, dedicato al vangelo di Marco, del corso di
formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico e Servizio
per il catecumenato della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 1/12/2007, presso la chiesa di San Marco in
Campidoglio. Appena possibile saranno on-line anche le trascrizioni delle successive lezioni. Il calendario degli
incontri con l’indicazione dei luoghi nei quali si svolgono è on-line sul sito dell’Ufficio
catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it.
Il testo è stato sbobinato dalla viva voce degli autori e conserva uno stile informale.
Le trascrizioni del primo e del secondo incontro del corso, dedicati alla
basilica di Santa Prisca
e di Santa Maria in
Aracoeli e, rispettivamente, agli Atti degli Apostoli ed alla Lettera di
san Paolo ai Romani, sono già disponibile on-line. Le foto che illustrano
l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery San
Marco in Campidoglio.
Per ulteriore materiale, cfr. la mostra L’ignoranza
delle Scritture, la pagina tematica Sacra
Scrittura in riferimento al vangelo di Marco e l’Antologia di testi
di Benedetto XVI, Perché
Cristo ha voluto la Chiesa?
Il Centro culturale Gli scritti 2/4/2008
Benvenuti per questo terzo incontro che ci aiuterà a leggere il vangelo di Marco e, attraverso di esso, ad
approfondire il tema “Gesù è il Signore”. Il programma di oggi prevede una introduzione
di don Marco Valenti che servirà a spiegarci perché siamo qui, in questa basilica: ci
parlerà di papa Marco, eletto nel 336, che ha vissuto il suo pontificato nel penultimo anno
dell’impero di Costantino (che muore nel 337), e ci introdurrà alla tradizione che vuole che
l’evangelista Marco abbia vissuto qui e qui abbia scritto il suo vangelo. Come sempre in questi nostri
incontri non ci scandalizzeremo se questa notizia tradizionale si rivelerà incerta, perché a noi
interessa non tanto individuare i luoghi precisi, quanto piuttosto, se questo non è possibile, renderci
conto che i personaggi del Nuovo Testamento debbono essere passati comunque per le strade e le case di Roma.
Se è vera la notizia più importante che collega il vangelo di Marco alla città di Roma,
confermata dai latinismi del suo vangelo che ci rimandano ad un ambiente legato alla cultura romana,
l’autore del vangelo più antico deve comunque aver abitato in una casa romana, se non
precisamente qui almeno in qualche altro luogo della città. E, abitando a Roma, avrà comunque
passeggiato e parlato del vangelo nelle vie di questa città, forse proprio qui vicino.
Alla breve introduzione sulla basilica seguirà una introduzione al vangelo di Marco secondo lo schema dei
fogli che vi sono stati distribuiti. Seguirà poi, come sempre, la visita: scenderemo tutti nella cripta
per visitarla, mentre non potremo entrare negli scavi sotterranei della domus sottostante; saliremo poi
sul presbiterio per vedere gli affreschi dell’abside, quindi ci concentreremo sulla parte barocca della
chiesa, subito dopo ci sposteremo verso l’ingresso per vedere la parte rinascimentale. L’incontro si
concluderà con la visita della Colonna Traiana.
Iniziamo con alcuni elementi che ci servono per spiegare l’ambientazione scelta per questo incontro. Noi
siamo in una chiesa situata nella zona centrale di Roma, legata al nome di san Marco, vuoi l’evangelista,
vuoi il papa del tempo di Costantino, oggi vicino Piazza Venezia, quindi con un legame simbolico che si è
rafforzato nel tempo con questa città lagunare. Noi romani abbiamo dedicato a Venezia la piazza principale
di Roma. C’è un legame allora con Venezia -vedremo perché; vedete già qui
nell’affresco centrale dell’abside raffigurato san Marco che scrive il suo vangelo, avendo sullo
sfondo Venezia. Soprattutto c’è un legame con il centro storico di Roma, con i suoi monumenti
più importanti.
Dico questo perché noi ci troviamo in una chiesa che vediamo riadattata nel XVI-XVII secolo, ma, se si
guarda con più attenzione, ci si accorge di elementi precedenti all’età barocca: guardate le
bifore, che sono gotiche, guardate le navate laterali che hanno i costoloni che sono anch’essi gotici,
guardate soprattutto questo splendido mosaico absidale che è di epoca carolingia. L’impatto è
comunque con una chiesa barocca; qui a Roma siamo abituati a questo. Dobbiamo pensare che questa chiesa
però è di epoca carolingia e con il tempo è stata abbellita, risistemata.
L’attuale chiesa è allora un rifacimento della chiesa che a sua volta Papa Adriano I aveva
risistemato, poiché la chiesa carolingia ha a sua volta le sue fondazioni che poggiano su di un luogo di
culto del tempo di Costantino, eretto da Papa Marco, che utilizza a sua volta due muri probabilmente appartenenti
ad una domus, una casa romana.
La tradizione vuole che in questa casa san Marco abbia predicato, se poi è proprio questa o
un’altra, non è così importante. Nella zona centrale di Roma, la più ricca di
monumenti, ad un passo dai Fori imperiali, confinante con i Septa Iulia, che erano sette portici dove venivano
eletti i magistrati, vicino al Porticus Divorum, che Diocleziano aveva costruito per il padre che aveva
divinizzato, sorge questa basilica di San Marco Evangelista costruita nel 336 da Papa Marco che è
sepolto sotto l’altare. Vedete l’altare a sarcofago che contiene le reliquie di questo Papa.
Ne abbiamo la certezza perché, oltre a diverse testimonianze, abbiamo il Liber Pontificalis, un
testo antichissimo che racconta la storia, la biografia, le opere dei papi, dall’inizio fino al Basso
Medioevo. Questo testo ci dice che negli otto/nove mesi nei quali Papa Marco è stato vescovo di Roma
–è l’immediato successore di papa Silvestro- egli ha costruito una basilica
sull’Ardeatina che forse oggi è stata ritrovata dagli archeologi, dove aveva costruito la sua
sepoltura e dove è stato effettivamente sepolto. Vedete in alto in uno degli affreschi della navata
centrale la rappresentazione della traslazione delle sue spoglie che vengono portate qui.
Poi si dice nel Liber: Hic fecit basilicam iuxta Pallacinis. Quindi
costruisce qui un luogo di culto, una chiesa. Come hanno dimostrato gli scavi degli anni ’40, la chiesa
primitiva fu costruita e poi ricostruita una seconda volta, sempre sui resti degli edifici precedenti.
Perché queste continue risistemazioni dell’edificio? La basilica di San Marco si trova in una
posizione infelice -è ora sotto il livello stradale, quindi potete immaginare l’umidità ed i
problemi relativi. Proprio per effettuare dei lavori di bonifica dall’umidità, negli anni 1947-1949,
il Genio Civile fece smantellare tutto il pavimento e gli studiosi poterono così rendersi conto che sotto
c’era un altro pavimento con delle basi di colonne, quindi c’era una chiesa precedente. Hanno scavato
ancora ed hanno trovato un’altra chiesa che utilizzava questi muri di una domus del II secolo, con
dei mosaici. Si sono resi conto così che questa chiesa ha avuto una evoluzione.
La cosa interessante è che tre campagne di scavi condotte tra l'ottobre 1988 e il febbraio 1990 hanno
permesso di delineare una nuova storia delle fasi di questa basilica. Tutti pensavano che le chiese preesistenti
localizzate sotto a questa avessero lo stesso orientamento, però negli anni ’40 non erano riusciti a
trovare né la facciata, né l’abside della chiesa primitiva. Negli anni ’80,
soprattutto grazie al lavoro di Margherita Cecchelli, è stato possibile rendersi conto che
l’orientamento della chiesa era stato spostato nei secoli di 180° rispetto a quello iniziale. Sotto
l’atrio c’è, infatti, l’abside della primitiva chiesa, quella fatta erigere da san Marco
Papa; la sua facciata guardava verso il Corso.
Secondo il Liber Pontificalis nel 792 Adriano I restaurò questa chiesa. Papa Adriano fece eseguire
durante il suo pontificato molti restauri di chiese e acquedotti. È questo il primo rifacimento della
chiesa. Nel IX secolo, probabilmente nell’833, papa Gregorio IV ristrutturò la chiesa rialzandola
e cambiando orientamento per un motivo importante: fu allagata durante l’inondazione del 791, quando il
Tevere invase la città all’altezza di ponte Milvio, invase tutta la via Lata, fino a giungere fin
qui. Il centro di Roma fu allagato per una settimana intera. L’onda del Tevere entrò così in
San Marco proprio dalla porta principale. Per questo probabilmente si decise di invertirne l’orientamento,
perché una nuova inondazione trovasse sul suo percorso l’abside, piuttosto che l’apertura
anteriore.
Come che stiano le cose, negli scavi compiuti negli anni ’80 è emerso che la primitiva abside si
trovava sotto l’attuale atrio e, sempre durante questi scavi, è stato trovato un vicolo, il
Vicus Pallacinus. Il Liber Pontificalis diceva appunto che Papa Marco aveva costruito la
chiesa iuxta Pallacinis, ed è questa la zona pallacina.
Voi immaginate a destra della chiesa la via Lata, l’odierna via del Corso, che passava fiancheggiando
questa domus sulla quale Papa Marco costruì la prima chiesa. C’erano già due pareti
pronte, occorreva solo fare una nuova facciata e costruire l’abside. Gli scavi hanno messo in evidenza che
questa abside va a finire su una strada; il primitivo semicerchio absidale poggia, infatti, su un basolato che
è via Pallacina del tempo, cioè una traversa di via Lata. Insisto su questo particolare per dire
che Papa Marco costruisce questa chiesa riadattando e utilizzando strutture preesistenti, ma per fare
l’abside (in direzione opposta all’attuale) invade una strada. Questo significa che
c’è stato bisogno di un intervento dell’autorità, delle magistrature della
città. L’abuso edilizio è stato possibile perché Papa Marco ha avuto
l’appoggio dell’imperatore. Occupare una strada per costruire un luogo di culto era possibile
perché l’autorità pubblica era d’accordo, anzi incoraggiava e sosteneva il
cristianesimo. Ci sono altri esempi a Roma di chiese che occupano spazi pubblici e questo era possibile solo
con la collaborazione delle autorità costituite. È un segno che siamo già, appunto, in
età costantiniana.
Immaginiamo questo luogo prima di Papa Marco come una casa, e immaginiamo san Marco che ha abitato qui con san
Pietro. Come si è già detto all’inizio -e vale sempre nei casi in cui faremo riferimento a
queste tradizioni non verificabili- è importante sottolineare che, per il nostro corso, non è
fondamentale accertare che questo sia il luogo esatto. Quello che preme piuttosto è riconquistare la
consapevolezza che Marco è stato a Roma e che quando noi leggiamo il suo vangelo, leggiamo quasi
sicuramente un vangelo romano, leggiamo il vangelo di Gesù, ma in quella precisa forma scritta o almeno
preparata in una casa della nostra città. Ricorderete che quando il vangelo di Marco è stato
portato a tutti i romani, nel corso della missione cittadina in preparazione al Giubileo, la lettera
introduttoria del Papa Giovanni Paolo II richiamava proprio questa origine romana tradizionale del vangelo di
Marco.
È utile ricostruire l’itinerario svolto fin qui, nei primi due incontri, per capire la tappa
odierna. Il primo itinerario teologico lo abbiamo svolto a Santa Prisca, dove abbiamo visto come “la Chiesa
è madre”, cioè come la fede che abbiamo ci è stata donata da duemila anni di
generazioni che l’hanno trasmessa. Noi crediamo perché una serie ininterrotta di preti, laici,
famiglie, papi, suore, monaci, diaconi, martiri, ha tramandata di generazione in generazione la fede cristiana.
Noi siamo generati dalla Chiesa madre che nasce da Cristo e dagli apostoli. Potremmo tracciare una linea
retta che da Pietro e dal Collegio apostolico arriva fino a noi e ai bambini ai quali noi doniamo a nostra volta
la fede e i sacramenti. Gli Atti degli Apostoli e le figure di Aquila e Priscilla ci hanno ricordato
questo.
Successivamente abbiamo visto, visitando la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli “il primato di
Dio”. La Chiesa è madre perché ci rimanda continuamente a riconoscere che in Dio noi
troviamo ogni bene, ogni pace, ogni felicità. Ieri il Papa Benedetto XVI ha pubblicato la sua seconda
enciclica, la Spe Salvi. Il Papa richiama una realtà di una essenzialità straordinaria,
sulla quale si incentra tutta l’enciclica: l’uomo trova speranza solo in Dio, la speranza ha un nome
che è il nome di Dio. Perché se Dio non esiste, se l’unica realtà è la natura,
se l’unica speranza è nel progresso o nella politica, allora, nonostante ogni lodevole sforzo, tutto
finirà nel nulla; facciamo nascere dei bambini che moriranno e tutto sarà dimenticato. La speranza
porta il nome di Dio e non possiamo sostituire a quel nome nessun’altra speranza immanente, terrena,
storica, naturalistica, perché solo in Dio ha senso tutto ciò che l’uomo fa. In questa
riflessione sul primato di Dio ci siamo lasciati guidare in cima al Colle Capitolino dalla lettera di san Paolo
apostolo ai Romani.
Dopo queste riflessioni dei primi due incontri, il terzo tema che affronteremo oggi è il riconoscimento
che il vero volto di Dio noi lo troviamo in Gesù. Che cos’è il vangelo? Che
cos’è il vangelo di Marco? Cosa dice essenzialmente l’esistenza stessa del testo evangelico?
Dice che questo Dio di cui l’uomo ha bisogno è possibile trovarlo, incontrarlo, dentro la storia di
Gesù. Conoscendo Gesù noi incontriamo Dio. Non è un Dio che sta chissà dove, ma
è presente, ama e salva nella persona di Gesù. È il tema che quest’anno è stato
scelto dalla nostra Diocesi nel suo programma pastorale: “Gesù è il Signore”.
Oltre ai temi teologici che ho sintetizzato abbiamo cominciato a familiarizzarci con le date importanti per la
storia del cristianesimo in Roma. Il primo dato storico certo –ricorderete- è che nel 49 d.C.
l’imperatore Claudio caccia gli Ebrei da Roma perché il cristianesimo fa già tanto scalpore
che nelle sinagoghe si litiga a motivo del vangelo; tra gli Ebrei espulsi ci sono Aquila e Priscilla.
Il secondo dato storico lo abbiamo individuato tra il 57 e il 58 quando san Paolo scrive la Lettera ai
Romani, probabilmente da Corinto. La terza data certa è quella che riguarda l’arrivo di Paolo
a Roma, tra il 59 e il 60; secondo gli Atti degli Apostoli Paolo giunge nell’Urbe accompagnato
dall’autore stesso degli Atti, cioè insieme a Luca.
Oggi aggiungiamo altre date che sarà utile ricordare. Il 64 d.C. è l’anno della prima
persecuzione dei cristiani fatta per mano imperiale, ad opera di Nerone, nella quale moriranno coloro che sono
detti i Protomartiri romani e, fra questi, Pietro e probabilmente Paolo. Marco è legato alla figura di
Pietro ed è stato a Roma probabilmente negli anni fra il 60 e il 64. Nella prima lettera di Pietro che
leggeremo la prossima volta nella chiesa di San Pietro in Vincoli, si dice proprio di Marco che è
presente insieme a Pietro a Babilonia, che è il nome con il quale, in questa lettera di Pietro, si designa
Roma.
L’ultima data importante per l’incontro di oggi è l’anno 70, l’anno in cui
Gerusalemme viene distrutta dai Romani, ad opera di Tito che conclude la I guerra giudaica durante l’impero
del padre Vespasiano: è l’anno nel quale Tito distrugge il Tempio. Il vangelo di Marco è
stato sicuramente scritto prima dell’anno 70. Egli ricorda la profezia che Gesù ha fatto della
fine del Tempio (Mc 13,1-2):
Mentre usciva dal tempio, un discepolo gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!».
Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra, che non
sia distrutta».
Marco però non aggiunge alcun commento a questo come di un fatto realizzatosi, come invece fa, per
esempio, Lc 19,43:
Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da
ogni parte.
Da questo gli esegeti deducono che all’epoca della composizione del vangelo di Marco Gerusalemme non fosse
ancora stata distrutta. Il vangelo è così anteriore all’anno 70 e successivo alla venuta
di Pietro a Roma; si indica generalmente una data intorno all’anno 68 d.C.
Il 70, anno è l’anno nel quale si verifica questo importantissimo evento, la distruzione del Tempio,
a seguito del quale l’ebraismo si modifica radicalmente. Non si faranno più sacrifici di animali
perché non ci sarà più il Tempio. È l’inizio di quello che viene chiamato
il giudaismo. Al Tempio si andrà solo per “piangere” la sua distruzione; ricorderete
l’espressione “Muro del Pianto”, il muro di fondazione del Tempio, vicino al quale ci si reca a
ricordare questo drammatico evento. Dopo la fondazione dello Stato d’Israele si preferisce chiamarlo,
invece, “Muro occidentale”.
È costante, in tutti i documenti antichi, il legame tra Marco e Pietro. È interessante
perché Marco non è un personaggio importante; secondo la tradizione non ha conosciuto direttamente
Gesù. Attribuire un vangelo a Marco fa pensare che questo sia il vero nome dell’autore, anche se i
vangeli non riportano mai il nome di chi li ha scritti, perché non ci sarebbe stato nessun motivo di
inventarselo, visto appunto che non si tratta di un nome importante.
Un personaggio di nome Marco, detto anche Giovanni, è citato in alcuni passaggi del Nuovo
Testamento[1].
Il testo più antico che parla del vangelo di Marco è un frammento di Papia, vescovo di
Gerapoli in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice:
Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con esattezza, ciò che ricordava
delle cose dette e fatte da Gesù. Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva seguito,
più tardi seguì Pietro.
Questa affermazione è concorde in tutti i Padri della Chiesa: leggendo il vangelo di Marco noi risaliamo
alla predicazione di Pietro. Marco è legato, sempre secondo la tradizione, a due luoghi: Roma ed
Alessandria d’Egitto si contendono la sua presenza.
Veniamo al testo stesso. Noi sappiamo che i destinatari del vangelo di Marco sono sicuramente pagani.
È evidente se leggiamo, per esempio, Mc 7,3-4:
I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla
tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte
altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame.
Marco spiega le usanze dei farisei a persone che non sanno cos’è l’ebraismo, che non hanno
idea di cosa facciano gli ebrei. Marco spiega in cosa Gesù si differenzia dall’ebraismo. I
cristiani non si lavano più le mani, non ritengono più cose come queste impure. C’è un
altro testo veramente bello che dice (Mc 7,18-19):
E disse loro: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò
che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre
e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli alimenti.
È il cuore che rende impuro l’uomo, non ciò che l’uomo mangia. È bello
ricordarlo sempre: noi cristiani possiamo mangiare e bere tutto, non c’è nessun cibo che ci è
vietato come accade in altre religioni, proprio perché Gesù ha annunziato che è dal cuore
che viene il male. La cattiveria nasce dal peccato che è dentro di noi. Per guarire la cattiveria
l’uomo deve trovare Dio, deve trovare la conversione del cuore. Il cristianesimo è l’unica
religione nella quale non ci sono alimenti o bevande proibite in assoluto, perché questo contrasterebbe
con l’affermazione che Dio creatore ha fatto tutto come cosa buona.
Nel vangelo di Marco troviamo dei latinismi, alcuni sono comuni agli altri vangeli, ma altri sono propri.
Ci fanno capire che Marco frequentava il mondo latino; secondo molti studiosi è questo l’indizio
decisivo del fatto che Marco è stato veramente a Roma.
Nei fogli che sono stati distribuiti potete vedere tutti i latinismi, quelli comuni agli altri vangeli e quelli
propri di Marco. Gli studiosi sottolineano in particolare l’evidente latinismo
dell’espressione hikanon poiein (letteralmente “dare soddisfazione”) che
non esiste in greco. Per chi non conosce bene il greco è evidente l’esempio di
kodrantes, che vuol dire spicciolo, in latino
quadrante, che è la moneta che la vedova mette nel tesoro del Tempio; il testo greco
dice che la donna possiede solo un “quadrante”, ed utilizza così una parola latina. Marco non
utilizza il termine di una moneta ebraica o greca; l’unica moneta che la vedova che non ha nulla dona per
onorare Dio è una moneta romana. È probabile che Marco scrivendo a dei Romani, a delle
persone di ambiente italico, usasse parole che i Romani conoscevano bene.
Marco ha inventato il genere letterario “vangelo”. Prima di lui non esisteva alcun vangelo
come stesura continuata della vita di Gesù: Marco ha avuto l’intuizione che bisognasse scrivere la
storia di Gesù. Marco è il vangelo più antico; sappiamo con certezza, infatti, attraverso i
moderni studi storico-critici, che Marco è il primo evangelista.
Il fatto che presto –siamo prima del 70- si arrivi a scrivere un vangelo ci fa capire subito cosa
è il cristianesimo. Marco ha ricevuto l’annunzio che il cristianesimo è la storia di
Gesù e decide di metterla per iscritto. Se si vuole raccontare ad un’altra persona cosa vuol dire
essere cristiani, bisogna raccontare la vita di Gesù. Marco non fa un trattato filosofico, non scrive un
romanzo, ma incentra tutto su questa storia. L’essenza del cristianesimo è Gesù
stesso; noi cristiani non crediamo semplicemente in Dio, ma crediamo che Gesù è il Cristo, il
Signore. Marco capisce che intorno a questa affermazione si radica e si sviluppa tutta la fede.
All’epoca esistevano romanzi, biografie, trattati filosofici, libri storici. Marco non si rifà a
nessuno di questi generi letterari, sebbene autori moderni sostengano con buone ragioni che il vangelo conserva
dei tratti delle cosiddette “vite”, in greco bioi, di uomini illustri. Il vangelo è
l’unico libro che, raccontandoci la storia di una persona, Gesù, ci dice al contempo che bisogna
seguirlo per avere la salvezza, la vita, la felicità: tutte queste cose si raggiungono solo nel diventare
suoi discepoli. Il vangelo nella sua forma scritta è così un’invenzione di Marco, ma egli
mette per iscritto quella che è la fede degli apostoli che annunciavano fin dall’inizio che solo in
Gesù, nella sua persona, si trova la salvezza.
L’inizio del vangelo di Marco, il primo versetto, è importantissimo (Mc 1,1):
Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
Qui abbiamo un genitivo epesegetico. Cerco di spiegare cosa vuol dire questo. Quando diciamo vangelo di
Gesù, bisogna capire cosa vuol dire questo genitivo: “di Gesù”.
La prima possibilità grammaticale è che si tratti di un genitivo soggettivo; per esempio
“l’amore di Dio”, può voler dire che il soggetto di questo amore è Dio. L’
“amore di Dio” vuol dire, in questo caso, che Dio mi ama, ed io credo nell’amore di Dio,
credo cioè che Dio mi vuole bene.
La seconda possibilità grammaticale è che si tratti di un genitivo oggettivo, cioè
che il genitivo indichi l’oggetto dell’azione; l’ “amore di Dio”, vuol dire in
questo caso che io amo Dio, che è importante amare Dio. In questo caso parlare dell’ “amore di
Dio” vuole dire che qui si sta trattando dell’amore che si rivolge all’oggetto espresso in
forma genitivale, si sta parlando cioè dell’amore verso Dio.
Esiste poi il genitivo epesegetico in cui c’è un’identità dei due termini: il primo
precisa l’identità del secondo. Ed è questo il caso –dicono gli esegeti- del
vangelo di Marco: ”Inizio del vangelo che è Gesù Cristo”. Possiamo capirlo
più facilmente con un esempio: pensate a quando in una famiglia si aspetta la nascita di un bambino e i
genitori hanno deciso che quel bambino si chiamerà Andrea. Allora tutti i parenti sono in attesa,
improvvisamente squilla il telefono e ti dicono: “Ti do la buona notizia di Andrea”. Vuol dire che
Andrea è lui stesso la buona notizia, è nato finalmente Andrea!
Marco ci dice: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”. Cosa ci racconta? Che il
vangelo, la grande notizia, la speranza, il cambiamento della vita, la libertà dal male, dalla
schiavitù del peccato, il senso di quello che facciamo è Gesù, la sua vita, la sua persona.
Già in questo versetto si descrive tutto ciò che si svilupperà poi nel corso del testo. Il
vangelo sarà tutto uno sviluppo di questo fatto semplicissimo; la grande notizia, la grande novità,
la cosa che cambia lo sguardo sul mondo è questa persona. L’uomo aveva bisogno di Dio, perché
senza Dio non c’è speranza, senza Dio l’uomo non sa a cosa serva vivere. Il vangelo è
che ora in Gesù Cristo, nella sua persona e nella sua vita, tutto ci è donato. È lui in
persona il vangelo, la notizia nuova e bella e lieta.
Nell’enciclica Spe salvi il papa dice: “Solamente una grande meta rende sensata la fatica
del cammino”. Io posso camminare, accettare la fatica della vita, per qualcosa per cui vale la pena
faticare. Marco ci dice con il suo vangelo –rifacendosi a tutta la predicazione orale di Pietro e degli
altri apostoli che a loro volta riferiscono quello che Gesù è stato ed ha annunziato- che
Gesù è il lieto annunzio per la vita degli uomini.
Possiamo dividere il vangelo di Marco in tre grandi blocchi e possiamo, per orientarci, indicare tre grandi
questioni che le tre parti affrontano. Il primo blocco affronta la domanda: “Chi è
Gesù?”. Il secondo si chiede: “Come si fa a seguirlo?”. Il terzo ci porta a questo
grande problema: “È impossibile in realtà seguire Cristo con le sole forze umane; solamente
la morte e la resurrezione di Gesù ci aprono la strada”.
La prima parte del vangelo di Marco va dall’inizio fino a Mc 8,27-30. Quest’ultima pericope
consiste nei versetti nei quali Gesù domanda: “Voi chi dite che io sia?”. In tutto sono
otto capitoli nei quali qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa Gesù dica, si giunge sempre ad una domanda
fatta dai differenti interlocutori -i diavoli, gli uomini, gli apostoli- finché è Gesù
stesso a porla: “Chi è costui?”. Chi è quest’uomo che può rimettere i
peccati? Chi è quest’uomo che seda la tempesta? Chi è quest’uomo che guarisce il
paralitico? Perché dice delle cose che nessuno ha mai detto?
I primi otto capitoli ci fanno capire che la grande domanda è “Chi è
Gesù?”. Capiamo subito che qui è in gioco un primo aspetto fondamentale della fede,
quello che potremmo chiamare il contenuto della fede -in latino, a partire dal medioevo, si utilizza
l’espressione fides quae creditur, cioè la fede che io credo.
La fede cioè non consiste semplicemente nel dire che si crede, ma piuttosto nel dire che cosa si
crede. Non è qui sufficiente dire “Io credo”, ma è necessario dire “Io credo
che Gesù è il Signore”. Dopo la parola “credo”, devo mettere qualcos’altro,
altrimenti non so a chi credo, sono un uomo che, pur dicendo di credere, vaga nelle tenebre perché non sa
chi è colui a cui crede, sono cioè un cieco che guida altri ciechi. Per avere la luce bisogna
sapere chi si sta seguendo.
Un immagine chiarissima che mi piace utilizzare per mostrarvi cosa questo vuol dire lo possiamo trarre
dall’esperienza dell’amore. Quando una ragazza dice: “Io mi fido di questo ragazzo,
perché lo amo”, ma questo ragazzo è inaffidabile, sbaglia a fidarsi di lui! Ci sono donne che
amano solo uomini inaffidabili. Più sono traditori, meno hanno voglia di lavorare e più piacciono.
Poi, deluse, concludono che “tutti gli uomini sono mentitori e scansafatiche”. In realtà il
problema è loro. Prima di fidarsi di qualcuno lo si deve conoscere, non ci si può sposare con
qualcuno che è inaffidabile. Mettere la propria vita nelle mani dell’altro dipende
necessariamente dal fatto che quell’uomo sia affidabile. Io mi fido, ti conosco, so chi sei, per questo
dico che ti amo e mi metto nelle tue braccia.
Questo è ancora più vero per Dio. Io non posso dire: “Io credo, sia fatta la sua
volontà”, se io non so che Dio è affidabile. Per questo noi dobbiamo sapere chi è
Dio per fidarci di Lui. Come l’amore, la fede sarebbe altrimenti cieca, pazza, sarebbe follia.
L’amore di Dio passa dal fatto che Dio si è rivelato, ci ha amato.
Marco ci mostra così l’importanza della questione dell’identità di Gesù. Vuole
farci comprendere che per seguirlo, bisogna avere ben chiaro chi è e perché lo seguiamo. Nei primi
otto capitoli leggiamo di questo travaglio per cui gli apostoli camminando per la Galilea o in Samaria,
continuano a porsi questa domanda: “Ma chi è quest’uomo? Noi lo stiamo seguendo; ma
stiamo facendo bene? Perché lo seguiamo, perché ci conquista, perché le sue parole sono
straordinarie? Perché perdona? Solo Dio perdona, perché questo Gesù perdona? Come fa a
perdonare? Come fa a guarire? Come fa a dire che il Regno è vicino se la storia sta andando avanti come
sempre? Perché lui è il Regno?”
Ad un certo punto, in Marco, alle domande seguono anche le risposte: le domande non restano irrisolte. In
particolare ci sono tre parole enormi, che dicono la risposta che il vangelo di Marco ci dà. La prima
affermazione segna proprio il culmine di questa prima parte, in Mc 8, 27-30, la seconda e la terza sono
già nella seconda parte nella quale si parla della sequela, di modo che la prima e la seconda parte del
vangelo si intrecciano insieme.
La prima risposta alla domanda chi sia Gesù è questa: “Tu sei il Cristo”.
Sarà pronunciata da Pietro in Mc 8,27-30 –ma già l’abbiamo vista nel primo versetto del
vangelo. Cosa vuol dire “il Cristo”? Gesù Cristo non sono nome e cognome di questa persona, ma
Cristo dal greco χριστὸς, christòs, che significa letteralmente
"unto", è la traduzione greca della parola ebraica mashìach, messia. Pietro riconosce che
quel Gesù, quell’uomo che gli sta dinanzi, è realmente l’ “atteso” di
Israele. Israele ha atteso un Salvatore e ora costui è presente, è finalmente giunto.
In Israele ci sono delle comunità ebraiche cristiane nelle quali si celebra la messa in ebraico. Sono
composte da ebrei che hanno riconosciuto che in Gesù è arrivato il Messia di Israele, si sono
battezzati e sono divenuti cattolici. Quando ho abitato in Israele per studi, ogni tanto celebravo la messa per
loro ed in ogni liturgia mi colpiva quell’espressione a noi così abituale ed invece così
parlante in quel contesto: “Te lo chiediamo per mezzo di Gesù Cristo”. Nella messa in
ebraico questa espressione suona precisamente “derek yeshuah hammashiach”, cioè “per
mezzo di Gesù che è il Messia”. Pensate cosa vuol dire per un ebreo che attende da secoli il
Messia -da secoli lo hanno atteso suo padre, i suoi nonni, i suoi bisnonni e così via- arrivare a dire:
“È lui, è arrivato!”.
Ma la fede ci fa capire che questa attesa non è stata solo l’attesa di Israele, è stata
anche l’attesa del mondo. Gesù è veramente Colui che l’umanità attende. Dire
che Gesù è il Messia è proprio dire la scoperta che questa attesa, che fin lì si era
sempre arrestata come di fronte ad un muro senza spiragli, si è ora conclusa. Noi sappiamo che
l’uomo attende sempre qualcosa, poiché niente di ciò che esiste lo soddisfa pienamente, fino
a quando arriva a comprendere che è il Cristo quello che cerca, è Lui lo sposo che manca, è
Lui l’atteso, il Messia, colui che manca al suo cuore. E questo atteso è Gesù. Questa
è la professione di fede di Pietro.
Se io sono sempre in ansia, se non ho speranza, non ho pace, sono depresso, quello che mi manca è Lui. Mi
manca il senso della vita. Io non sono depresso perché mi hanno criticato, perché mi è
andato male il lavoro -certo queste cose mi fanno male e sono problemi che devo affrontare- ma quello che
radicalmente mi manca è il senso di quello che faccio, il perché della mia fatica, della mia vita.
Marco ci ricorda che quel senso della vita si trova in quella persona. Pietro, dicendo “Tu sei il
Cristo”, afferma questo.
La seconda grande risposta del vangelo di Marco alla domanda chi sia Gesù viene solo un versetto
dopo, in Mc 8, 31. Questa volta è Gesù stesso a pronunciarla ed a dire di sé che è
“il Figlio dell’Uomo”. Questa è l’espressione che Gesù userà
continuamente nel vangelo, spesso alla terza persona singolare: “Il Figlio dell’uomo dovrà
soffrire”, “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà”, ecc. Il Figlio dell’Uomo
è Lui stesso.
Questa espressione Gesù la riprende dal profeta Daniele. Tutti i moderni studi storici riconoscono,
fra l’altro, come indubitabile che qui si sia dinanzi ad una espressione che Gesù sicuramente ha
utilizzato, uno di quei punti certi del modo con cui Gesù amava auto-definirsi. Daniele aveva raccontato
che sarebbe venuto dall’Antico di giorni, cioè da Dio stesso, un Figlio dell’Uomo, che sarebbe
disceso sulle nubi del cielo (Dn 7, 13).
Gesù comincia a dire che colui che viene dal cielo, da Dio, da queste nubi, dalla presenza stessa di Dio,
dovrà soffrire e morire e offrirà la sua vita per il perdono dei peccati. La seconda grande
realtà che il vangelo di Marco annunzia è che veramente Gesù è colui che viene da
Dio, proprio come aveva profetizzato Daniele. Gesù si riconosce in quelle parole, afferma che la sua
venuta è il compimento di quell’annunzio. Ma vi inserisce subito una grandissima
novità. Mentre in Daniele questo Figlio dell’Uomo sarebbe disceso da Dio come trionfatore,
Gesù comincia subito a spiegare che egli viene da Dio per perdere se stesso, per morire sulla
croce. È il mistero del crocifisso. Colui che viene da Dio, colui che realmente viene da queste nubi,
colui che realmente è il Signore glorioso, è anche colui che paga soffrendo per tutti gli uomini
sulla croce. E gli apostoli, da subito, cominciano ad aver paura di questo. Gesù parla di se stesso come
di colui che realizza la profezia di Daniele ed, insieme, quelle dei canti del servo sofferente.
Pochi versetti dopo troviamo la terza affermazione sull’identità
di Gesù nel vangelo di Marco. Questa volta è il Padre stesso a
pronunciarla, nel contesto della Trasfigurazione: “Questi è
il mio Figlio prediletto” (Mc 9,7). Gesù è il Figlio:
questa è la terza grande affermazione del vangelo, già presente
in Mc 1,1 ed anche nell’episodio del battesimo.
Non è, però, solo il Padre ad indicarlo come Figlio. È Gesù stesso che
continuamente parla di se stesso come colui che conosce il Padre e che nel nome del Padre opera e parla e
compie tutto ciò che viene raccontato nel vangelo.
In Marco l’episodio nel quale questo viene affermato più chiaramente è nella predicazione di
Gesù a Gerusalemme, quando, entrato nel Tempio, racconta la parabola degli inviati della vigna (Mc
12,1-12). Parla di questa vigna, che è Israele, che è il popolo, che è il mondo. Dio ha
affidata tutto ai vignaioli, perché fosse una vigna carica di buoni frutti. Dio chiede i frutti,
poiché questa vigna non è fatta per morirci dentro, ma perché da essa tutti potessero
ricavare il vino, potessero gioirne, perché era loro data la vita. E manda degli operai a chiedere questi
frutti, ma uno viene bastonato, uno viene picchiato, altri vengono uccisi. Gesù dice allora, in Mc
12,6-8:
Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio
figlio! Ma quei vignaioli dissero tra di loro: Questi è l'erede; su, uccidiamolo e l'eredità
sarà nostra. E afferratolo, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Che cosa farà dunque il
padrone della vigna?
Gesù non sta raccontando una storiella. Gli ascoltatori sentono del padrone che aveva ancora
un’ultima possibilità, aveva un “unico” che gli era rimasto, aveva ancora il suo
figlio prediletto. Egli è l’ultimo inviato per convincere il cuore di quelli che abitavano nella
vigna: mandò allora il figlio. Non è una fiaba che inizia con “C’era una volta”!
Gesù sta dicendo che questo figlio è lui, che lui è veramente l’ultimo
l’inviato di Dio, che è il figlio del padrone della vigna, che è veramente il figlio
prediletto.
Nella Bibbia l’espressione “il figlio prediletto” viene usata anche per Isacco: il figlio
prediletto è quel figlio che Abramo ha ricevuto dopo averlo atteso per infiniti giorni e che gli viene
chiesto di sacrificare. Dio gli dice:
Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in
olocausto su di un monte che io ti indicherò (Gen 22,2).
Gesù è questo figlio, è l’unico figlio di Dio, il figlio che Dio ama, il figlio
prediletto. Non è uno dei tanti servi, dei tanti profeti, che Dio ha inviato. Egli è di una
qualità diversa. E Gesù nel vangelo di Marco è chiaramente “il Figlio”,
colui che è stato mandato dal Padre, che dice le parole del Padre, che porta il perdono del Padre al
mondo.
Dopo Mc 8,27-30, nella seconda parte del vangelo ci si comincia a domandare: ma come si fa ad essere cristiani?
Nei primi otto capitoli del vangelo di Marco non si spiega ancora come debbano vivere i discepoli,
perché ancora non è stato detto che Gesù è il Messia, che Gesù è il
Figlio dell’Uomo che deve morire e che è il Figlio. Quello è il cuore del discepolato,
l’amore e la conoscenza di quel Gesù. Certo alcuni demoni cominciano a dire chi è Gesù
nella prima parte di Marco, ma per tutti gli altri questo non è ancora evidente, anzi è la grande
questione.
Dopo Mc 8,27-30 Gesù comincia a parlare della sua passione: “Il Figlio dell’Uomo
dovrà molto soffrire”. E subito aggiungerà: “Perché chi vorrà salvare la
propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la
salverà” (Mc 8,35). Parla della sua passione, ma comincia parlare della vita dei discepoli.
Nella Trasfigurazione Dio, oltre ad annunciare che Gesù è il Figlio prediletto, aggiungerà
il comando: “Ascoltatelo!” (Mc 9,7). Nuovamente entra in gioco la sequela, questa volta per la voce
stessa di Dio.
Gesù, insomma, comincia a spiegare cosa voglia dire camminare con Lui. La domanda degli apostoli
comincia ad essere questa: “Ma noi come facciamo a seguirti? Come è possibile camminare con
te?”. Per utilizzare la terminologia medioevale, molto pregnante, alla quale abbiamo già accennato,
potremmo dire che qui si tratta della fides qua creditur, cioè della fede con la quale si crede,
della fede che chiede un abbandono alla volontà del Signore. Credere vuol dire certamente credere che
Gesù è il Cristo, che è il Figlio, che è il Figlio dell’Uomo, ma credere
è, allora, anche seguirlo e camminare con Lui.
Nei capitoli successivi si trovano così gli insegnamenti di Gesù sulla vita cristiana. Si ripete il
grande tema del perdere la vita. Lo troviamo nell’episodio della domanda dei figli di Zebedeo:
E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo
che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per
voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua
sinistra» (Mc 10,35-37).
Domanda alla quale Gesù risponde annunziando di essere venuto per servire:
Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi
delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è
così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra
voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
C’è una sola via per avere la vera autorità. La vera via è quella di porsi a
servizio di tutti quanti.
Un altro tema che emerge, fra le caratteristiche della sequela, è quello
dell’indissolubilità del matrimonio. Solo dopo averci detto che Gesù è il
Signore, solo allora, quando questo è chiaro, viene detto che il matrimonio è indissolubile. In Mc
10,7-9 Gesù dice:
L'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono
più due, ma una sola carne. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto.
Anche questa esigenza è espressione di quel “perdere la vita”, tipico
dell’ascolto del Signore e della sua sequela. La Mishnah ci informa che nell’ebraismo
dell’epoca era vivo il dibattito sul matrimonio. Troviamo, infatti, due rabbini contemporanei di
Gesù che ne discutevano. R.Shammai, più rigorista, affermava che la donna poteva essere mandata
via solo se colta in flagrante adulterio. R.Hillel, più lassista, ammetteva il ripudio per cause molto
più banali. Era sufficiente che la donna cucinasse male (nella Mishnah si fa riferimento
all’arrosto bruciato) per concludere che non era capace di aiutare la famiglia e quindi poteva essere
mandata via dal marito. Gesù, evidentemente a conoscenza di queste discussioni, assume un punto di vista
totalmente diverso, richiamandosi al disegno originario di Dio che, nel creare, aveva voluto che l’amore
fosse per sempre.
In questo brano, fra l’altro, un piccolo particolare ci aiuta a capire come il vangelo di Marco sia
quasi sicuramente romano. Marco, infatti, è l’unico dei sinottici nel quale non si parla solo
dell’uomo che può ripudiare la moglie, ma anche della possibilità contraria. Nel mondo
ebraico era solamente l’uomo a poter divorziare, con i diversi motivi che abbiamo visto. Marco aggiunge,
invece, anche: “Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc
10,12). Solo nel diritto romano erano previsti casi in cui era la donna a poter divorziare dal marito;
l’ambientazione di Marco si presenta così, ulteriormente, latina.
Non è possibile entrare qui nella discussione che il tema del matrimonio e del divorzio meriterebbe. Mi
interessava solo sottolineare che è affrontato proprio nel contesto del cammino della sequela e della
croce e non prima. Leggendo di seguito il vangelo di Marco, potrete voi stessi notare tutte le altre esigenze
del discepolato di Gesù che si susseguono dopo il capitolo ottavo. Sono tutte nell’ottica della
sequela che giunge fino alla croce.
Mentre Marco ci racconta chi è il Cristo e quali siano le condizioni della sequela, non trascura,
però, di sottolineare che questo Cristo, questo Figlio dell’Uomo, questo Figlio è, allo
stesso tempo, veramente e profondamente uomo. In queste due parti del vangelo di Marco di cui abbiamo
parlato, un tratto bellissimo è che proprio questo Gesù è, insieme, profondamente uomo.
Ci sono dei tratti che Marco, unico fra i vangeli, ci ricorda –fra l’altro, questi tratti ci
riconciliano anche con tanti aspetti della nostra vita!
Ve ne sottolineo quattro, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo.
In Mc 4,38, nell’episodio della tempesta sedata, si dice che Gesù “se ne stava a poppa, sul
cuscino, e dormiva”. Il cuscino è un particolare ricordato solo da Marco. Quando noi
dormiamo non stiamo perdendo tempo, ma stiamo facendo ciò che ha fatto il Figlio di Dio! Marco ci insegna
che anche il dormire è così bello, se può essere riempito di Dio. Gesù, infatti, ha
dormito. C’era la tempesta, c’era confusione perché gli altri erano agitati per la
situazione... e Gesù dormiva. Pensate quanto a volte nelle nostre famiglie abbiamo problemi,
drammi, cose da affrontare e ci sentiamo in colpa se non riusciamo a fare tutto. Gesù tranquillamente,
durante la tempesta, dormiva e dormiva con la testa su un cuscino. Non è indegno del Dio fatto uomo
dormire, non è indegno del cristiano dormire perché questo Gesù è veramente uomo.
Un secondo tratto che sottolinea l’umanità di Gesù è ciò che Marco ci dice sul
suo lavoro. Gesù era tekton, cioè carpentiere (Mc 6,3 “Non è
costui il carpentiere”). Marco è l’unico vangelo che afferma esplicitamente che
Gesù ha lavorato con le proprie mani. Mentre gli altri evangelisti ci dicono che Giuseppe era
tekton e che Gesù era “il figlio del carpentiere”, dal vangelo di Marco apprendiamo che
anche Gesù stesso ha adoperato le mani per costruire delle cose (riconosciamo questo termine nel nostro
“architetto”, archi-tekton).
Mio fratello Giovanni che è liutaio e falegname, sostiene che un uomo che non lavora con le proprie mani
non è un vero uomo. Una persona che non fa qualcosa di concreto è uno spiritualoide che non sa cosa
sia la vita. È una non troppo velata critica che fa anche a me, perché talvolta i preti si occupano
solo di cose astratte e non fanno in genere lavori manuali! Al di là di queste battute, Gesù
realmente ha vissuto il lavoro, ha lavorato probabilmente per lunghi anni. Non è indegno di Dio che noi
lavoriamo. Qualche settimana fa ero in Puglia e ho incontrato una signora anziana che mi raccontava una
bellissima espressione popolare: “Il lavoro è il monte dell’adorazione di Dio”,
cioè “Chi lavora con le sue mani sta adorando il Signore”.
Un altro passo del vangelo di Marco che ci aiuta a comprendere la profonda realtà
dell’umanità di Gesù è Mc 8,12:
Ma egli, traendo un profondo sospiro, disse: «Perché questa generazione chiede un segno? In
verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione».
Gesù è seccato, non riesce a capire perché non credono; è colpito
dall’incredulità perché le persone continuano a chiedere un segno dal quale far dipendere la
loro fede in lui. “Trarre un profondo sospiro” vuol dire sbuffare, manifestare il proprio
disappunto non con odio, ma facendo capire all’altro che la deve smettere, che deve cambiare atteggiamento,
che è il momento di una svolta. Gesù, proprio lui che è Figlio e Messia, è al
contempo talmente uomo da esprimere la sua parola di giudizio e di salvezza, traendo profondi sospiri,
sbuffando.
L’ultima sottolineatura tipicamente marciana che voglio presentarvi, fra le tante che mostrano la piena
umanità del Cristo, la troviamo in Mc 10,21. Marco è l’unico evangelista che, raccontando del
famoso incontro con l’uomo che ha osservato tutti i comandamenti e al quale Gesù chiede di lasciare
tutto e seguirlo, usa questa espressione: “Allora Gesù, fissatolo, lo
amò”.
Marco ricorda che questo dialogo tra Gesù e quest’uomo è passato tramite lo sguardo.
Gesù lo guardò negli occhi, lo fissò, mise i suoi occhi in quelli dell’altro, lo
amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dàllo ai
poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Pensate quando un padre parla con un figlio,
una donna con il fidanzato, e lo guarda negli occhi; pensate a questo dire delle cose non solo attraverso le
parole, ma anche attraverso degli sguardi che si incontrano.
Gesù in Marco è così profondamente uomo, ma, insieme, è colui che viene da
Dio. È realmente il Cristo, il Figlio, il Figlio dell’Uomo, ma è anche totalmente uomo.
In Gesù –ed in Marco che ce ne parla- la compresenza di questi due aspetti non è
impossibile;per la prima volta nella storia dell’uomo, stanno insieme.
La terza e ultima parte del vangelo di Marco ci racconta il processo, la morte e la resurrezione. Qui
troviamo un episodio, caratteristico di Marco, che possiamo prendere ad emblema di questa terza parte. Siamo
nell’orto del Getsemani quando, mentre gli apostoli scappano al sopraggiungere di Giuda con le guardie,
l’ultimo ad allontanarsi è un fanciullo avvolto solo da un lenzuolo. Questo lenzuolo gli
viene tolto ed anche lui fugge via nudo.
Un recente studio[2] dice che
in questo fanciullo siamo rappresentati tutti noi; perché, in realtà, nessuno di noi riesce
veramente a seguire Gesù. Quando Gesù ci dice che è arrivato il momento di morire, il
momento in cui non si parla più solamente del dare la vita, ma la si deve dare veramente, quando si tratta
di morire per amore di Dio, di avere una fiducia ed un amore che arrivano fino alla croce, tutti tagliano la
corda, si fanno togliere anche l’ultima cosa che hanno indosso, ma scappano via, abbandonando Gesù.
Gesù sulla croce e noi da un’altra parte; noi sulla croce non ci andiamo, non ce la facciamo.
Il vangelo di Marco fa capire che la sequela è apparentemente impossibile; nessun uomo riesce da
solo a fidarsi talmente di Cristo da seguirlo.
La passione comincia con Giuda e con il Sinedrio; si decide di uccidere Gesù, ma si decide di non farlo
subito, di aspettare che sia solo, di scegliere con furbizia il momento propizio:
Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di
impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non
succeda un tumulto di popolo» (Mc 14,1-2).
C’è qui un male che è un male studiato, pensato, preparato. Se rapportiamo questo alla
nostra vita ci rendiamo subito conto di come riusciamo ad accettare più facilmente, forse, un male
improvviso, non voluto, un incidente. Ma se scopriamo che un parente ha tramato per rovinarci, che nostro marito
o nostra moglie ci sta scavando lentamente la terra sotto i piedi, se scopriamo il tradimento, il dolore è
molto più grande. Pensate a Bin Laden che ha mandato degli uomini ad imparare a pilotare degli aerei per
anni, per progettare qualcosa come l’11 settembre. Ha preso dei ragazzi e li ha fatti studiare, li ha fatti
preparare per tanto tempo perché questi alla fine usassero le nozioni apprese solo per uccidersi,
uccidendo contemporaneamente tante persone. Una lunga preparazione al male. Mentre la catechesi prepara il bene,
il volontariato prepara le persone ad aiutare, ad accogliere gli stranieri, c’è qualcuno, anche
adesso che sta imparando ad usare le bombe, che studia i percorsi da compiere. Pensate agli attentati delle
Brigate rosse, al tempo impiegato per esempio per studiare dove sarebbe passato l’On.Aldo Moro per
rapirlo.
Giuda e il Sinedrio preparano il male; il loro è un male studiato, pianificato a tavolino, progettato, non
l’emozione di un momento. Ma è Gesù, invece, nell’ultima cena che offre la vita. Il
mistero che Marco ci annunzia è che Gesù veramente ha offerto la vita. Gli altri preparavano la sua
morte, mentre Gesù preparava il suo dono di amore. Certo è stato Giuda a farlo morire, certo la
responsabilità è del Sinedrio, ecc. ecc. Ma la responsabilità ultima si manifesta nel vero
protagonista della croce, che è Gesù stesso. Lui dice: “Questo è il mio corpo,
prendetelo... questo è il mio sangue che è dato per voi”.
Il vangelo indica chiaramente che Gesù è il Signore, che solo lui è veramente il padrone
della sua vita, è lui che la offre. Il libro Gesù di Nazaret che il papa ha scritto
richiama un aspetto fondamentale della fede cristiana che è la sua verità storica, almeno nei suoi
lineamenti fondamentali. Se Gesù non avesse scelto liberamente di morire per noi, il vangelo sarebbe da
abbandonare. Se fossero stati gli apostoli ad inventarsi tutto questo, se Gesù fosse morto in
realtà come qualunque altro malvivente, come un perseguitato politico, noi saremmo dei folli a credergli.
Noi crediamo in Gesù e nella sua misericordia, nel suo perdono dei peccati, perché egli ha
coscientemente saputo di dare la vita per noi, perché l’ultima cena l’ha fatta veramente.
Se il racconto dell’ultima cena fosse una invenzione, il cristianesimo sarebbe una grande menzogna,
sarebbe un’illusione, e l’uomo non sarebbe salvato.
Marco ci restituisce alla realtà storica: veramente Gesù, in piena coscienza, ha offerto la propria
vita, veramente ha donato tutto se stesso, anticipando nell’eucarestia il dono che si sarebbe compiuto
sulla croce.
Nella passione di Marco c’è il racconto straordinario di una donna che usa un unguento profumato
per ungere il corpo di Gesù:
Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino
di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l'unguento sul suo capo (Mc 14,3).
Gesù risponde a coloro che criticano questo gesto:
Essa ha fatto ciò ch'era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In
verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà
pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto (Mc 14,8-9).
Gesù sta già annunziando che la sua morte non è la fine di tutto, ma sarà seguita
da un “vangelo” che sarà annunziato a tutti. C’è un “vangelo”
nascosto in quella morte, prefigurata dall’unzione della donna. La morte non vince Dio, la morte non
vince Cristo. Si racconterà, dopo la croce e la resurrezione, di Cristo e dell’amore che quella
donna ha avuto nell’accompagnarlo al dono di sé fino alla morte.
Allora la sequela sarà possibile solo quando Gesù morirà e risorgerà. Solo
allora la chiesa riprenderà la sequela. La riprenderanno Pietro e tutti gli altri che erano scappati. Essi
sono già discepoli, hanno già compreso chi è il Cristo, nella prima parte del vangelo di
Marco, hanno già compreso le esigenze della sequela, nella seconda parte di Marco, ma ora scapperanno e si
disperderanno. La sequela diverrà possibile e reale in pienezza solo dopo la morte e la resurrezione di
Cristo, solo quando sarà accolta in pieno la grazia che nasce dalla Pasqua.
Come si dice negli ultimi versetti di Marco, prima della finale che per ispirazione divina è stata
poi aggiunta da una mano differente da quella dello stesso evangelista:
Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete,
come vi ha detto (Mc 16,7).
Mons.Ermenegildo Manicardi, esegeta e studioso di Marco, spiega come questo “vi precede in Galilea”
significa che per la sequela è necessario che Gesù torni a precedere gli apostoli, perché
la sequela è possibile solo se egli cammina davanti. Tutti sono scappati, la sequela si è
interrotta. Ora, per grazia, può riprendere, perché il cristiano è colui che segue un altro,
colui che segue il Cristo. Sequela vuol dire che Gesù cammina avanti a noi. Tutti sono scappati, ma quando
Gesù avrà attraversato la morte e la resurrezione, ricomincerà la sequela.
I versetti della cosiddetta “finale lunga”, Mc 16,9-20, sono canonici, ma non sono della stessa
mano di Marco. Sono stati aggiunti al suo racconto, come una sintesi di tutti i racconti della resurrezione
presenti negli altri tre vangeli. Alla fine di questi versetti Gesù dice:
Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato
sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno
quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i
serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi
guariranno (Mc 16,15-18).
Dall’annunzio e dal sacramento nasce la possibilità per il mondo intero di diventare discepoli.
Noi siamo in questa chiesa di San Marco proprio a ricordare che Pietro e Marco sono venuti qui a Roma. E tutto
questo è avvenuto proprio in forza delle parole dette da Gesù: “Andate in tutto il mondo,
raccontate tutto ciò che vi ho insegnato, battezzate”, perché la salvezza è donata da
me, Gesù, vero uomo, Figlio dell’Uomo, Figlio, Cristo.
In conclusione, vorrei dire una parola sull’origine dei vangeli, anche per darvi una chiave di
lettura per capire ciò che abbiamo appena detto sulla finale di Marco che è stata aggiunta al
vangelo da una mano diversa da quella di Marco, ma che è la finale accolta dal Canone come ispirata da
Dio.
La Chiesa quando afferma la sua convinzione sull’affidabilità storica dei vangeli, si serve di
una espressione semplicissima, che è stata indicata dal Concilio Vaticano II: “l’origine
apostolica dei vangeli”. Cosa si vuol dire con questa espressione? Affermando l’origine
apostolica dei vangeli non si vuole dire che i singoli autori dei vangeli sono gli apostoli e, quindi, che Matteo
e Giovanni sono necessariamente due degli apostoli e così via. Le domande sulla paternità degli
scritti neotestamentari, infatti, restano aperte, come ci insegna la critica storica sui vangeli.
Noi non possiamo dire con certezza chi ha scritto i quattro vangeli e le singole parti di essi. La finale di
Marco l’ha scritta lui o un discepolo? E chi è questo discepolo? Il vangelo di Giovanni da chi
è stato veramente scritto? Chi è l’autore dell’ultima redazione e quali sono i passaggi
che hanno portato a questa? Ci sono posizioni diverse tra gli studiosi e ognuno è libero di aderire
alla versione che gli sembra più credibile. La Chiesa chiede però di credere che i vangeli
hanno origine dagli apostoli.
Forse Marco è scritto poco prima del 70, quando Pietro era già morto. Ma quello che Marco ha
scritto è veramente quello che gli apostoli hanno detto ed il suo vangelo è comunque stato
scritto quando la comunità cristiana, che si ricordava quello che gli apostoli avevano detto, avrebbe
subito corretto un racconto dissonante essenzialmente dal Gesù predicato dagli apostoli. La Chiesa ha
subito riconosciuto che le parole scritte nel vangelo erano in piena consonanza con quelle che gli apostoli
avevano pronunciato oralmente e che la sostanza del racconto marciano, così come del racconto degli altri
evangelisti, coincideva con ciò che da sempre avevano conosciuto della storia di Gesù, tramite la
predicazione apostolica. I vangeli, insomma, derivavano da quella predicazione in maniera fedele e questo
è estremamente significativo prima di discutere chi sia precisamente l’autore di un particolare
racconto sulla vita di Gesù.
Così si esprime precisamente la Dei Verbum:
La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica.
Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito
Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede,
cioè l’Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni (DV 18).
I vangeli sono affidabili perché la loro origine è nella predicazione apostolica. Nel
capitolo successivo, la DV racconta i tre stadi della formazione dei vangeli: prima Cristo, poi gli apostoli ed
infine la redazione dei vangeli ad opera degli apostoli o dei discepoli o di uomini della loro cerchia.
Qui il Concilio accetta tutta la riflessione storica che vede questi passaggi fra Gesù ed i testi
evangelici. Ed è importantissimo notare che, anche qui, il Concilio non vede questo triplice
passaggio come una possibile ombra sulla affidabilità storica dei vangeli. Fu Paolo VI in persona a
volere, attraverso una lettera che scrisse il 17 ottobre 1965, l’inserimento di una frase che
affermasse esplicitamente la fiducia che la Chiesa ha nella serietà storica dei vangeli. I Padri
conciliari accolsero la sua richiesta e si giunse alla formulazione di DV 19 dove si dice che la Chiesa
“afferma senza esitazione la storicità” dei vangeli.
Di modo che il Concilio Vaticano II, all’unanimità, afferma che questo triplice passaggio non ci fa
perdere, nella sostanza, la realtà certa degli eventi e delle parole fondamentali che Gesù ha
donato a tutti quanti noi. Questo è il testo della Dei Verbum, per esteso:
La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro
suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto
Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per
la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo
l’Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con
quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e
illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo
alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre,
o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre
però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri
ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri
della parola», scrissero con l’intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc
1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto (DV 19).
Cominciamo ora, con l’aiuto di Varco Valenti, la visita alla basilica di San Marco.
Marco Valenti
Probabilmente questa è stata la prima parrocchia di Roma; io sono d’accordo con la tesi della
prof.ssa Margherita Cecchelli che lo afferma, mentre alcuni altri studiosi sostengono che la prima parrocchia
sarebbe stata quella di San Crisogono a Trastevere.
Voglio insistere su questo aspetto del sostegno che l’imperatore dà alla comunità cristiana
di Roma. Avevamo già parlato a S.Prisca e a S.Sabina di queste domus ecclesiae che si
trasformano in tituli e quindi da luoghi di culto nascosti passano ad essere delle chiese
visibili. C’è così un’evoluzione di queste sale adattate per il servizio liturgico
e quindi arredate in modo semplice; nelle domus ecclesiae gli altari erano dei mobili e così anche
l’ambone era un mobile che si poteva spostare.
Invece, grazie a Costantino, l’edificio di culto diventa sempre più qualcosa di fisso e si
trasforma in dimora di Dio, nel tempio di Dio. Vorrei insistere su questo aspetto: un luogo semplice,
improvvisato, adattato, pian piano diventa un luogo preciso. Non più semplicemente un luogo funzionale per
la liturgia, ma la casa di Dio. L’idea è che Dio è presente in un modo particolare, nel luogo
di culto della comunità cristiana.
Se quindi all’inizio i luoghi di culto erano arredati molto semplicemente e venivano adattati, ad un certo
punto la comunità cristiana ha bisogno di luoghi di culto arredati specificamente per le sue
esigenze. La chiesa deve essere orientata verso est, la pianta deve essere allungata, deve esserci
l’abside, deve esserci un pulpito elevato perché il lettore deve essere visto e perché sia
possibile dare importanza alla Parola di Dio. C’è bisogno di spazi che segnalino la distinzione
degli uomini e delle donne, come dei catecumeni e dei già battezzati.
Gli architetti della comunità cristiana di Roma o gli architetti che l’imperatore mette a
disposizione per costruire le dimore cristiane di Dio non utilizzano il modello del tempio romano
classico, perché il tempio romano era uno scrigno che conteneva la statua della divinità e poco
altro, ma la cosa importante, la bellezza, l’importanza del tempio classico era tutta esterna.
Perché la gente stava fuori, solo i sacerdoti entravano dentro; l’altare dove si bruciavano
gli incensi o si facevano i sacrifici stava davanti al tempio e le persone stavano intorno, nel recinto sacro, ma
comunque fuori dal tempio.
La comunità cristiana ha bisogno di un luogo nel quale la parte più importante è
l’interno, perché è nell’interno che la comunità cristiana celebra i sacri
misteri e incontra Dio. L’architettura cristiana prende allora le mosse non dai templi, ma dalle
basiliche, che erano i luoghi dove l’imperatore riceveva, amministrava la giustizia, dove ci si
incontrava; le basiliche pagane avevano l’abside.
Basta andare su via dei Fori imperiali per vedere la basilica di Massenzio. L’abside era posto di lato.
La chiesa cristiana la utilizza, invece, nel lato corto per dare senso di profondità. Insisto ancora
su questo: i cristiani avvertono l’esigenza di avere un luogo di culto stabile ed in questo luogo di culto
si dà la priorità all’interno, parallelamente a quanto avviene per i culti misterici.
Andrea Lonardo
Costantino sostiene e agevola la comunità cristiana; la prima cosa che fa è riconsegnarle i beni
che Diocleziano aveva confiscato. Qual era il motivo? La leggenda narra che Costantino, alla vigilia della
battaglia decisiva contro Massenzio, aveva sognato una croce e aveva udito una voce che diceva: “In hoc
signo vinces”. Dopo la preannunciata vittoria Costantino avrebbe allora deciso di dare un segno di omaggio
ai cristiani.
In realtà il discorso è molto più complesso. Lo analizzeremo meglio l’anno
prossimo quando ci dedicheremo al periodo dei padri. Per ora bastino solo alcune notazioni. La scelta di
Costantino si pone in un momento di grande trasformazione. I cristiani sono ancora minoranza, ma Costantino
sembra scommettere su di loro. Probabilmente avrà giocato in lui anche la preoccupazione di una
religione che unificasse l’impero e si accorgeva che questa non poteva più essere la religione
pagana. Anche i suoi predecessori avevano provato a trovare una nuova identità che consolidasse
l’unità dell’impero che si stava sfaldando. C’era bisogno di una credenza religiosa che
desse questo cemento per amalgamare un impero tanto vasto. I valori della religione tradizionale erano
finiti, nessuno credeva più a Giove, Giunone ecc.
Questo, d’altro canto, non esclude anche una convinzione personale. Il padre di Costantino credeva
in un’unica divinità, simbolizzata dalla potenza solare e potrebbe aver comunicato al figlio questa
scelta, almeno in germe, monoteistica. Sull’Arco di Costantino non si fa esplicita menzione del
cristianesimo, ma si preferisce parlare di instinctu divinitatis, della “mozione di una
(unica) divinità”. Gli studi recenti indicano che Costantino si rifiutò, primo in questa
scelta, di salire per il trionfo al Tempio di Giove Capitolino, ma d’altro canto egli lasciò
libertà di culto, pur favorendo il cristianesimo. Si battezzò solo in punto di morte.
Sarà poi progressivamente, con la discendenza di Costantino, che il cristianesimo diventerà
religione di Stato; la fede cristiana darà allora solidità all’impero e a sua volta
riceverà solidità per le sue istituzioni. A quel punto sarà un atto di lealtà verso
lo Stato essere cristiani, ed esso equivarrà anche a lavorare per il bene sociale; le conversioni non
saranno allora solo più personali, ma anche dettate da un contesto che premerà in questa
direzione.
Una cosa è certa: in questo processo si creano questi nuovi ambienti con un’architettura
specifica, sempre più grandi; c’è bisogno di luoghi che possano accogliere. E Costantino
segna il passo decisivo in questa direzione.
La basilica di San Marco appartiene a questo processo. Non è una delle grandi basiliche, ma una delle
prime parrocchie, se non la prima. La città comincia a dotarsi di chiese parrocchiali a tutti
visibili, nel tessuto urbanistico cittadino.
Pensate: nel 303-304 c’è la persecuzione ad opera di Diocleziano (secondo alcune fonti il
martirio di Abdon e Sennen venerati in questa chiesa è da porsi sotto Diocleziano, secondo altre sotto
Decio), che è l’ultima e la più grande, e solo dieci anni dopo viene emanato
l’editto di libertà religiosa di Costantino. Si passa dal martirio subìto da queste
persone alla possibilità di costruire la prima parrocchia. Addirittura l’imperatore fa costruire
S.Giovanni in Laterano, S.Pietro e, subito dopo la morte di S.Silvestro papa, ancora vivente Costantino, il
successore di Silvestro Marco fa costruire nel 336 la prima parrocchia, che si tratti di questa chiesa o della
chiesa di Trastevere, siamo comunque nella prima o seconda parrocchia edificata a Roma. Pensate al cambiamento
radicale; le persone hanno ormai la possibilità di vivere la fede alla luce del sole. Questi martiri
–scendiamo ora nella cripta a venerare le reliquie di Abdon e Sennen- ricordano il tempo delle
persecuzioni.
Marco Valenti
Successivamente, come già abbiamo detto, questa chiesa viene riadattata. Ci sono le guerre
gotiche-bizantine, ci sono i Longobardi che scendono in Italia, ci sono i bizantini che tengono Roma, per cui le
chiese sono state saccheggiate ed incendiate più volte, poi allagate dall’inondazione del Tevere.
C’è stato così bisogno in più occasioni di interventi di ristrutturazione ad opera
di diversi pontefici.
Gregorio IV (828-844) nell’833 restaura San Marco e fa fare il mosaico che ancora oggi vediamo e che
fra poco spiegheremo nel dettaglio. Le colonne della sua ristrutturazione non sono oggi più visibili
perché rinchiuse negli attuali pilastri. Sua è anche la cripta. Viene creato questo luogo dove
vengono portate le reliquie di san Marco Papa. Gregorio vi trasferisce probabilmente anche dal cimitero di
Ponziano le reliquie di due santi persiani, Abdon e Sennen, martirizzati a Roma nel III secolo o agli inizi del
IV (le reliquie potrebbero anche essere state traslate qui da pontefici successivi; è difficile
raggiungere una certezza su questo). La tradizione vuole che siano condotti a Roma sotto l’imperatore Decio
o sotto Diocleziano e che, rifiutatisi di sacrificare agli idoli, siano stati prima esposti alle belve ed,
essendosi miracolosamente salvati, siano stati successivamente decapitati
Cripta dei martiri Abdon e Sennen |
Per venerare queste reliquie, come aveva fatto già Gregorio Magno per S.Pietro, Gregorio IV crea una
cripta semianulare per cui si può svolgere la funzione nella navata principale, sul presbiterio, e i
pellegrini possono andare contemporaneamente a pregare vicino al corpo dei santi senza disturbare.
Andrea Lonardo
Come d.Marco ha spiegato, la differenza tra la chiesa e il tempio pagano è proprio nell’importanza
della parte interna, perché ormai Dio è realmente presente in mezzo al popolo. Abbiamo qui due
aspetti che vengono sottolineati. In primo luogo la direzione: si va verso Cristo. La chiesa è
orientata; abbiamo infatti l’abside che ci dice la meta verso cui camminiamo. Orientarsi vuol dire
rivolgersi ad oriente. Ma in che senso? Perché ad oriente c’è Gerusalemme? No,
perché noi non guardiamo ad un luogo santo, come la Mecca per i musulmani.
Perché le chiese allora sono “orientate”? D.Marco ci ha spiegato che le basiliche romane
avevano due absidi e le avevano sui lati lunghi, la chiesa invece si orienta, nel senso che tutti ormai guardano
a Cristo. C’è una sola abside e dovrebbe guardare nella direzione del sorgere del sole.
Orientare vuol dire allora andare ad oriente, verso la luce, il sole. L’oriente non è scelto
perché c’è Gerusalemme, ma perché è il punto cardinale in cui sorge il sole; ed
il sole per la fede cristiana è simbolo di Cristo, come si recita nel Benedictus:
“Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge”, che è Cristo.
È possibile qui istituire un parallelo simbolico con il vangelo di Marco. L’evangelista,
scrivendo di Gesù, ci dice che il Cristo è il vangelo in persona; il vangelo è Lui, si
cammina verso di Lui. Cristo non è solo la casa in cui tutti i cristiani abitano, ma è anche la
direzione, la meta.
Ma c’è anche un’altra dimensione che è la verticalità: c’è un
sotto ed un sopra. La cripta, infatti, ci fa comprendere che noi celebriamo i sacramenti sulla fede di chi
è venuto prima di noi. I corpi dei santi sono sempre sotto l’altare per dire che la nostra e la loro
fede è la stessa. Essi sono poi rappresentati nei mosaici e negli affreschi in alto, ad indicare che la
Chiesa del cielo accompagna la Chiesa della terra che è pellegrina verso il cielo.
Marco Valenti
La cosa più bella di questa abside è il catino absidale che racchiude questo mosaico. Gregorio IV,
che nel IX secolo fa fare questo lavoro, prende spunto dalla decorazione che già c’era nel mosaico
precedente e che, come abbiamo detto, era sul lato opposto e ad un livello più basso.
San Marco: mosaico absidale di Gregorio IV (ca.833 d.C.) |
Abbiamo una lettera che papa Adriano I (772-795) scrive a Carlo Magno descrivendo questo mosaico precedente che
è andato perduto e che era di soggetto apocalittico, con la presenza del Cristo poi S.Pietro e S.Paolo,
poi ancora Felicissimo ed Agapito ed, infine, i papi Marco e Sisto II.
Gregorio IV, quando fa fare questo nuovo mosaico, fa spostare S.Pietro e S.Paolo che vengono ora raffigurati
non più nell’abside, ma nell’arco trionfale, ai lati di esso. Al centro dell’arco di
Gregorio IV c’è Cristo in atteggiamento benedicente, che tiene in mano il vangelo, circondato dai
simboli dei quattro evangelisti.
Alla base del catino è possibile leggere una scritta in latino nella quale si elogia Gregorio IV che ha
ristrutturato ed abbellito la chiesa. L’iscrizione si conclude con una preghiera a S.Marco
perché interceda presso Dio perché Gregorio, per la sua fedeltà in terra, sia introdotto
nella gloria del cielo.
VASTA THOLI PRIMO SISTVNT FVNDAMINE FVLCRA
QVAE SALOMONIACO FVLGENT SVB SIDERE RITV
HAEC TIBI PROQVE QVESTO PERFECIT PRAESVL HONORE
GREGORII MARCE EXIMIO CVM NOMINE QVARTVS
TV QVOQVE POSCE DEVM VIVENDI TEMPORA LONGA
DONET ET AD CAELI POST FVNVS SYDERA DVCAT
Il nome di papa Gregorio IV compare una seconda volta, al di sopra della testa del Cristo e della mano del Padre
che lo incorona, in cima all’abside.
Lo vediamo anche raffigurato nell’ultimo personaggio a sinistra che tiene tra le mani il modellino della
chiesa di S.Marco da lui ristrutturata. Ha il nimbo quadrato, segno che la persona è vivente
nel momento in cui è stato costruito il mosaico. Quando si vede un personaggio con un modellino di un
edificio in mano, vuol dire che è lui che l’ha fatto costruire, mentre il nimbo quadrato significa
che il personaggio è vivente.
Gli altri personaggi del mosaico sono invece già nella gloria. Oltre a Gregorio IV, a sinistra del
Cristo sono raffigurati S.Marco evangelista (è quello che tiene una mano sulla spalla del papa) e
S.Felicissimo (un diacono). Alla destra del Cristo sono raffigurati S.Marco papa, S.Agapito (un altro diacono) e
S.Agnese. Possiamo immaginare che la dedicazione di questa chiesa a S.Marco evangelista nasca proprio dal fatto
che il primo a farla edificare è stato papa Marco.
Quindi abbiamo visto che nel mosaico compaiono S.Marco evangelista, il papa committente e questi due diaconi,
proprio perché nel periodo tardo antico e nell’alto medioevo, la Chiesa di Roma continua a dare
molta importanza alla figura dei diaconi, come nel periodo paleocristiano. I diaconi sono quelli che si
mettono a servizio dei poveri a nome della comunità cristiana, per cui averli raffigurati così in
evidenza serve a ricordare che, in questo periodo, la Chiesa ha un’attenzione particolare per i più
bisognosi.
Poi c’è S.Agnese con in mano la corona del martirio, perché in questo periodo molto
difficile le catacombe dove venivano conservate le ossa di molti santi martiri vengono distrutte da coloro
che cercano cose preziose, per cui anche al tempo di Gregorio IV si cercano le ossa per metterle al riparo.
C’era l’abitudine poi di essere seppelliti il più vicino possibile al martire. Pensate alla
necropoli vaticana. Nelle catacombe quando si trovano delle sepolture numerose in un determinato punto, è
perché lì c’è un martire. L’idea era che, al momento della resurrezione dei
morti, era meglio trovarsi vicino ad un santo! Così anche Gregorio IV, come altri papi, fa portare
dentro le mura di Roma le ossa dei martiri, per rispetto e per salvaguardarle. Probabilmente è lui a
portare nella cripta i corpi dei martiri Abdon e Sennen dei quali abbiamo già parlato. Come che stiano le
cose, le reliquie di questi due martiri di origine persiana, insieme a quelle di papa Marco vengono ritrovate in
epoca molto recente, nel 1948, quando si decide di riaprire la cripta che era stata chiusa nel 1474 ed una
pergamena con questa data viene rinvenuta a certificare la ricognizione di queste reliquie da parte di Sisto IV
in quell’anno.
Al centro del catino absidale è possibile vedere l’immagine Cristo. Nell’iconografia
cristiana la centralità dell’imperatore è sostituita dalla centralità del Cristo; egli
è il padrone di casa che accoglie e si presenta. La scritta sul libro che tiene in mano dice:
“Ego sum lux, ego sum vita, ego sum resurrectio”. Sono tutti riferimenti al vangelo di Giovanni.
Ai piedi del Cristo ci sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine.
Ancora più in basso è raffigurato un uccello. Ad un primo sguardo si potrebbe immaginare che si
tratti della rappresentazione dello Spirito Santo. Io credo però che in realtà si tratti
dell’araba fenice. Innanzitutto per la collocazione; lo Spirito Santo dovrebbe stare sopra Gesù,
non sotto i suoi piedi. Ho in mente altri mosaici qui a Roma che hanno all’interno del fogliame di un
albero l’araba fenice, segno della resurrezione, simbolo di Cristo in quanto risorge dalle sue stesse
ceneri. Qui infatti c’è un albero tagliato, quindi morto, che però germoglia, mostrando
così i segni della rinascita. Tutto ci riporta al simbolismo di Gesù morto e risorto.
Sopra la testa del Cristo benedicente, c’è la mano di Dio con una corona, simbolo di vittoria.
Questa immagine rappresenta la legittimazione. La tradizione ebraica aveva il divieto di rappresentare Dio, per
cui in molti affreschi, per indicare la presenza di Dio ed il suo intervento, viene raffigurata solo la mano di
Dio. Qui è quindi Dio che dà la corona a Cristo, dandogli in questo modo una legittimazione.
È veramente suo Figlio, nel quale si riconosce, e che fa poi sedere alla sua destra.
Nella zona inferiore del mosaico abbiamo l’agnello; qui non ha i segni della Passione, ma è
evidente che rappresenta Cristo, non solo perché è in posizione preminente, sopra una collina
(pensiamo alla Trasfigurazione di Gesù che avviene su un monte), ma anche perché ha il nimbo
crociato con il monogramma di Cristo. Anche qui abbiamo l’alfa e l’omega.
Ai due lati dell’agnello dodici pecore, sei per parte, che escono dalle porte di due città,
Betlemme e Gerusalemme. Alcuni vi vedono le due città che racchiudono l’esistenza storica di
Gesù, che nasce a Betlemme e muore e risorge e ascende al cielo a Gerusalemme. Altri vi vedono la
raffigurazione simbolica dell’Antico e del Nuovo Testamento. In questo caso gli apostoli, rappresentati
dalle dodici pecore, trarrebbero origine dalla tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Nell’uno e nell’altro caso il sorgere dei dodici –e con loro di tutta la chiesa- è
visto nella relazione con Gesù come il Salvatore.
Il fatto che l’agnello si ritrovi spesso nell’iconografia dei primi secoli cristiani, può
essere spiegato, oltre che a partire dai fondamentali riferimenti degli stessi vangeli e dell’Apocalisse,
anche con il fatto che, per la prima comunità cristiana, rappresentare Cristo in croce era una cosa
imbarazzante. Da Costantino in poi si rappresenta la croce, ma è sempre una croce gemmata, una croce
gloriosa, fiorita. Non è più lo strumento di tortura. Per vedere un Cristo sofferente in croce
dobbiamo aspettare Cimabue, Giunta Pisano. Prima era davvero imbarazzante, come potrebbe essere per noi dipingere
una sedia elettrica. Per evitare una rappresentazione di Cristo torturato sulla croce lo si sostituiva
perciò con un’immagine simbolica, che era appunto l’agnello con i segni della Passione, ma
vivente.
Andrea Lonardo
A livello iconografico, è facile abituarsi a riconoscere non solo l’alfa e l’omega che sono
tipiche di Cristo, ma anche l’aureola con la croce. Mentre tutti i santi hanno solo l’aureola, quella
del Cristo è sempre crociata. Lo vedete anche nell’agnello ritto sul monte. Dal monte, ai piedi
dell’agnello escono i quattro fiumi del paradiso terrestre, talvolta con i loro nomi. Sono simboli che
dicono che come nel Paradiso terrestre c’era la vita piena, in abbondanza, così ora, anzi ancor
più, dal Cristo crocifisso e risorto fluisce la vita nuova in abbondanza. I fiori intorno ai quattro
fiumi non sono ornamentali, ma manifestano anch’essi che da Cristo, vero agnello, ritorna a nascere la
vita.
Anche le Dodici pecore permettono di ricordare un aspetto centrale del vangelo di Marco. I dodici sono gli
Apostoli e, di conseguenza, la Chiesa. Marco descrive nel suo vangelo i Dodici: essi hanno come
caratteristica quella di seguire Gesù. E quando la sequela si interrompe per la passione, la resurrezione
torna ad annunciare che “Egli vi precede in Galilea”.
Il numero Dodici è fondamentale. Ricorda la nascita dell’antico popolo di Israele, attraverso i
dodici figli di Giacobbe-Israele. Gesù, attraverso la chiamata dei Dodici, indica chiaramente la sua
intenzione che è quella di far rinascere, di rinnovare il popolo di Dio. Già solo da questa scelta
è evidente che Gesù veramente voleva fondare la Chiesa. Su questo a livello storico non
c’è dubbio. I dodici agnelli sono gli Apostoli -e, per traslato, tutta quanta la Chiesa- che escono
dalle città di Betlemme e Gerusalemme e si uniscono a Lui.
Nell’arco trionfale sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti. Forse è utile
ricordare anche il significato e la storia di questi simboli.
Il leone è il simbolo di S.Marco, il vitello o il toro di S.Luca, l’angelo di S.Matteo e
l’aquila di S.Giovanni. La loro origine è da ricercarsi in un brano del profeta Ezechiele. In
Ez 1,4-10 si descrive il carro di Dio, cioè la sua gloria, che viene mosso da quattro ruote e ai quattro
angoli il profeta pone quattro esseri viventi.
Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che
splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la
figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l'aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno
quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come gli zoccoli dei
piedi d'un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d'uomo; tutti e
quattro avevano le medesime sembianze e le proprie ali, e queste ali erano unite l'una all'altra. Mentre
avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto avanti a sé.
Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d'uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze
di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d'aquila.
Ezechiele rappresenta questa scena nel momento in cui il tempio è stato distrutto dai Babilonesi ed il
popolo ebraico è in esilio. La gloria di Dio, allora, esce dal tempio e va a dimorare con gli Ebrei in
esilio. Si afferma così che Dio non abita semplicemente in un luogo, non dimora semplicemente nel
Tempio di Gerusalemme. Israele, attraverso il profeta, comincia a capire che Dio è presente
dappertutto, anche nel luogo dell’esilio, in mezzo agli dei pagani che sono solo idoli. Qui i quattro
esseri sono a servizio della mobilità di questo “carro” simbolico che indica la
mobilità della gloria di Dio.
Il libro dell’Apocalisse riprende da Ezechiele l’immagine di questi quattro esseri viventi.
Mentre in Ezechiele ogni essere vivente ha tutte e quattro le facce, nell’Apocalisse ognuno ha uno solo di
questi volti:
In mezzo al trono e intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni d'occhi davanti e di dietro. Il
primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un vitello, il terzo vivente
aveva l'aspetto d'uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila mentre vola. I quattro esseri viventi hanno
ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere:
Santo, santo, santo
il Signore Dio, l'Onnipotente,
Colui che era, che è e che viene! (Ap 4,6-8)
Probabilmente qui si vuole rappresentare tutta la creazione che adora Dio, che si pone al suo servizio per
annunziare la sua gloria. Ireneo di Lione per primo dirà che coloro che realmente portano la gloria di
Cristo nel mondo sono gli evangelisti, collegando i quattro esseri viventi con i quattro evangelisti, anche se
con una differenza rispetto all’interpretazione attuale. Per Ireneo l’aquila era il simbolo di Marco
e il leone di Giovanni.
La nostra codificazione abituale viene da S.Girolamo (IV secolo) che spiega come i quattro simboli siano
stati attribuiti agli evangelisti, collegandoli agli incipit dei rispettivi vangeli, per cui Marco
è rappresentato dal leone perché il suo vangelo inizia con Giovanni Battista che, come un leone che
ruggisce, grida predicando nel deserto. Giovanni dall’aquila perché il prologo che apre il suo
vangelo è un salire subito alle vette più alte, come in un volo, nella descrizione di Dio e del
Figlio che sono una cosa sola e che sono l’uno rivolto verso l’altro. Luca, invece, per Girolamo
è rappresentato dal toro perché comincia il suo racconto con Zaccaria, padre di Giovanni Battista,
che sta nel tempio ad offrire un sacrificio e il toro era tradizionalmente animale sacrificale. Matteo infine
è rappresentato da un l’uomo –o da un angelo- perché il suo vangelo inizia con la
genealogia di Gesù.
Marco Valenti
Palazzo Venezia –più precisamente Palazzo di Venezia- è stato costruito a partire dal 1455
per volere del cardinale veneziano Pietro Barbo, che verrà eletto pontefice nel 1464 con il nome di Paolo
II. È la prima grande opera di architettura civile realizzata dal rinascimento a Roma. Il palazzo
diventerà nel 1564 sede dell’ambasciata di Venezia dopo essere stato per anni residenza papale.
Questo rafforzerà ancor più il legame di questo luogo con la figura di San Marco.
Palazzo di Venezia |
San Marco è legato a Venezia perché, secondo la tradizione, egli fu martirizzato ad Alessandria
d’Egitto, ma il suo corpo venne successivamente sottratto dai veneziani per essere portato a Venezia
come reliquia. Questa basilica di San Marco qui a Roma diviene allora, a partire dal rinascimento, la chiesa
ufficiale di Venezia.
Gli affreschi furono, invece, realizzati durante il periodo della guerra di Candia, la guerra che
opporrà la Repubblica di Venezia all’Impero ottomano per il possesso dell’isola di Creta
(Candia) e che durerà dal 1645 al 1669, e si concluderà con la conquista turca
dell’isola.
Ai due lati vediamo due grandi affreschi di Guglielmo di Courtois (il Borgognone) che raffigurano la cattura e
il martirio di S.Marco evangelista. Qui vedete rappresentato in maniera barocca, siamo nel 1659, S.Marco che
sta celebrando la messa ad Alessandria d’Egitto e viene catturato dai pagani proprio in quel momento. Lo
strappano dall’altare, viene legato al carro del governatore di Alessandria e trascinato al suolo fino alla
morte.
Affresco destro dell'abside: la cattura di San Marco ad Alessandria d'Egitto, mentre celebra (Borgognone) |
L’affresco al centro è, invece, opera seicentesca del Romanelli, discepolo di Pietro da Cortona, e rappresenta San Marco evangelista (e con lui della repubblica di Venezia) che, a destra, sconfigge il paganesimo ed, a sinistra, esalta la vera fede, sotto la quale si intravede la città lagunare. Queste immagini mutuano dalla pittura classica e rinascimentale molti stilemi.
Affresco centrale dell'abside: San Marco, il trionfo della fede e la sconfitta del paganesimo (Romanelli, 1617-1663) |
Marco Valenti
Le colonne della navata centrale, dell’epoca di Gregorio IV, non sono più visibili
perché impacchettate dentro pilastri ricoperti di marmo. Le colonne che invece vediamo ora sono di
mattoni, rivestite di diaspro di Sicilia e hanno un grande effetto scenografico, ma sono di scarsa consistenza,
perché quelle che davvero sostengono sono quelle nascoste. Probabilmente le colonne precedenti sono state
inserite nei pilastri anche per renderle più solide, perché tutti i lavori che nel tempo si sono
succeduti potrebbero averne compromesso la tenuta.
Al di sopra delle arcate tra le colonne si alternano dipinti a fresco e altorilievi in stucco. I pannelli dipinti
sono di autori vari (sec. XVIII) e rappresentano, a sinistra, le storie di S.Marco papa, a destra le storie di
Abdon e Sennen.
A sinistra, cominciando dal fondo, il primo raffigura san Marco papa incoronato, lo stesso soggetto che
ritroviamo rappresentato anche sulla tavola presente nella cappella del SS.Sacramento, attribuita a Melozzo da
Forlì. Poi abbiamo papa Marco che approva il progetto della chiesa dedicata all’evangelista, poi
ancora papa Marco che consacra l’altare alla presenza dell’imperatore Costantino, poi ancora la
traslazione del corpo di Marco trasportato qui dal castello di Giuliano (1154). L’ultimo affresco vicino
all’altare ci riporta ad un episodio della spiritualità veneta ed è precisamente
l’ingresso in Venezia di san Lorenzo Giustiniani accolto dal doge.
Affreschi della navata: traslazione del corpo di San Marco papa |
Sul lato opposto abbiamo le storie di Abdon e Sennen, questi due martiri persiani del III (o degli inizi
del IV secolo), di cui abbiamo già parlato. Vediamo i due santi che seppelliscono i corpi dei santi
martiri, poi che si rifiutano di sacrificare agli idoli, poi che vengono legati al carro dell’imperatore
Decio, poi che affrontano il martirio nel Colosseo, infine il papa Clemente XIII che approva il decreto della
loro beatificazione.
Negli stucchi alternati a questi dipinti sono raffigurati i dodici apostoli. A sinistra, partendo dal
fondo: Mattia che resuscita un bambino, poi il martirio di San Bartolomeo, poi Simone e Giuda Taddeo, poi la
visione di San Giovanni evangelista, poi il martirio di sant’Andrea, infine Pietro che affronta Simon
Mago.
A destra, partendo dal fondo, Giacomo maggiore che battezza Ermogene, Filippo che battezza l’eunuco, la
vocazione di Matteo, l’incredulità di Tommaso, Giacomo Minore ed, infine, Paolo ed il mago Elimas
nell’isola di Cipro.
Andrea Lonardo
Abbiamo già visto come papa Paolo II abbia abitato qui. Nel corso dei secoli i papi hanno abitato in
differenti luoghi della città –anche se i romani non lo sanno- e solo da un periodo relativamente
breve risiedono in Vaticano. Non sappiamo dove abbiano abitato nei primi tre secoli, ma a partire dal IV, proprio
a motivo della donazione dei terreni dei Laterani e la costruzione della basilica ad opera di Costantino, la
residenza papale, con quella della curia, si fissò nella zona che oggi chiamiamo di San Giovanni.
Questa situazione si protrarrà fino al periodo della cattività avignonese (1305-1377) –anche
se nel Basso medioevo si verificherà una itineranza della curia pontificia che spesso si sposterà
fuori Roma, nel Lazio ed in Umbria, anche a motivo della malaria che d’estate infestava Roma- quando i papi
avranno la loro sede in Francia per circa settanta anni. Al ritorno da Avignone, i papi non torneranno ad
abitare in Laterano e la loro residenza sarà fluttuante. Solo molto tardi il Vaticano
diventerà l’unica residenza del Papa. Niccolò V, intorno al 1450 vi si stabilirà,
ma con degli intervalli di tempo in cui abiterà altrove. Paolo II (1464), come abbiamo visto, trasforma
Palazzo Venezia nella sua residenza pontificia.
Alcune delle lapidi esposte sotto il portico della basilica di San Marco, come potete vedere, riportano
iscrizioni in greco, sebbene siamo a Roma, perché il greco era la lingua internazionale
dell’epoca, come l’inglese di oggi. Nell’Impero Romano il greco era la lingua internazionale;
tutti i grandi letterati conoscevano il greco e gli imperatori scrivevano in greco e in latino. I vangeli sono
scritti in greco perché quella era la lingua usata. Anche la liturgia cristiana dei primi secoli era in
greco.
Iscrizione greca nel portico, con la scritta "eirene", pace, ed una colomba, simbolo dell'anima del defunto |
C’è una lapide, invece, del periodo rinascimentale che è particolarmente interessante. Non era questa la sua sede originaria perchè era precedentemente a Santa Maria del Popolo, ma è stata poi murata nella parete destra interna del portico in cui ci troviamo. È la lapide di Vannozza de’ Catanei (1442-1518), amante di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), madre di Lucrezia Borgia e di Cesare (il Valentino); sono ancora leggibili nella lapide il suo nome e quello dei suoi figli. Di Alessandro VI parleremo, quando arriveremo con il nostro corso sulla storia della chiesa al periodo rinascimentale.
Lapide funeraria di Vannozza Catanei |
Sul portale è scolpito l’evangelista san Marco, seduto sulla cattedra, anche qui con l’attributo iconografico del leone; l’opera è attribuita ad Isaia da Pisa. Nel portico è evidente l’opera fatta realizzare dall’allora cardinale Pietro Barbo. Si possono ammirare, uscendo dalla chiesa, le armoniose linee del portico che reca al piano superiore la loggia delle benedizioni. L’intera opera è attribuita, anche se non con sicurezza, a Giuliano da Maiano.
Lunetta del portale con San Marco evangelista di Isaia da Pisa (1464) |
Andrea Lonardo
La piazza prende ovviamente il nome dal Palazzo. Il Palazzo di Venezia sarà famoso anche perché
divenne durante il fascismo la residenza del duce che dal balcone teneva i suoi discorsi.
Nel palazzo di fronte al Palazzo di Venezia, dall’altro lato di piazza Venezia, è possibile vedere
una lapide che ricorda il luogo dove era situata la casa di Michelangelo, quando lavorava a S.Pietro.
Quando è stato costruito il Vittoriano per celebrare Vittorio Emanuele a motivo dell’unità
d’Italia, tutta questa zona è stata sbancata; resta solo una insula romana e medioevale in un
angolo del Vittoriano mentre tutte le altre costruzioni medievali e rinascimentali furono demolite. La facciata
della casa di Michelangelo fu smontata e poi rimontata sul Gianicolo, vicino porta San Pancrazio, dove è
tuttora.
Lapide che ricorda l'ubicazione della casa di Michelangelo |
Giungiamo all’ultima tappa di questa nostra giornata, alla Colonna traiana.
La visita a questo monumento vuole essere uno spunto per avere occasione di riflettere sul significato della
parola “vangelo” in ambito pagano, per confrontarlo con il senso conferitole dal Cristo e
dall’evangelista. Questo per comprendere il mutamento avvenuto ad opera del cristianesimo, a partire anche
dai termini che noi usiamo in un’accezione completamente diversa da quella che veniva loro attribuita nel
paganesimo.
La parola “vangelo” che in Marco indica la presenza nel mondo di Gesù è una parola
già utilizzata dal linguaggio imperiale romano. La troviamo già in Augusto che chiama
“vangelo” la notizia di un suo decreto, di una guerra da lui vinta, di un’opera da lui
realizzata. La parola compare nella terminologia augustea al plurale: indica i lieti annunzi delle
realizzazioni che scaturiscono dal suo potere umano –ovviamente dal suo punto di vista., che è
quello della propaganda imperiale.
Nell’iscrizione di Priene[3], detta così perché è stata ritrovata negli scavi di questa
città dell’odierna Turchia, si dice:
Il giorno natale di Augusto, noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose.
Cioè alla creazione. Pensate al vangelo di Giovanni, “in principio era il logos”, e vi
rendete conto della differenza di visione. Chi è il senso, qual è l’origine del
mondo?
Perciò si considera a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza.
Quando l’imperatore Augusto è nato, è nata la civiltà, è nata la
pace!
Questo giorno segna il limite e il termine del pentimento di essere nati.
L’uomo dinanzi alla morte è pentito di essere nato, ma quando si accorge che Augusto è
nato, smette di essere triste e la sua vita acquista senso: questo è il messaggio che Augusto vuole
comunicare. Pensate all’enciclica Spe salvi che abbiamo citato. Qual è il motivo per il quale
vale la pena vivere? La vita è una fatica? E allora perché vivere? Perché l’uomo
può avere speranza? Questo testo risponde: perché è arrivata l’età
augustea!
L’iscrizione di Priene utilizza due volte la parola vangelo:
Cesare Augusto, una volta apparso, superò le speranze degli antecessori, i buoni annunzi di
tutti.
Qui, nel testo dell’iscrizione che è in greco, si dice proprio
ευαγγελια, i vangeli, perché qui il
termine è al plurale. Augusto vinceva una guerra e la notizia era “vangelo”. Marco, invece,
utilizza il termine al singolare: c’è un solo vangelo che è il Cristo, egli è uno
solo.
Non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto.
Cioè: Augusto ha superato il bene, i vangeli, di tutti gli altri governanti romani che lo hanno
preceduto.
Ma non ha lasciato a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento.
Nessuno avrebbe fatto tanto bene al mondo quanto Augusto.
Così il giorno genetliaco del dio, cioè di Augusto, fu per il mondo l’inizio dei buoni
annunzi, dei vangeli, a lui collegati.
Quando si usa la parola vangelo in greco, e sicuramente Marco ne era cosciente, si crea una tensione fra
l’accezione comune di questo termine e il nuovo significato attribuitogli dai cristiani.
Così Benedetto XVI, nel suo libro Gesù di Nazaret, ha scritto[4]:
Di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona
novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola
«vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano
signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano
«vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e
piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è
messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per
definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si
fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è
solo parola, ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il
Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza
efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono
gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è
parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere.
Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente.
Tutto questo ci fa capire da un lato chi erano gli imperatori; tutto ciò che essi facevano lo chiamava
vangelo. Ma, dall’altro, ci fa capire la forza trasformante, efficace della presenza di Cristo.
Soffermiamoci ora a dare uno sguardo sui cosiddetti fori imperiali dei quali la Colonna traiana fa parte.
Dall’altra parte dell’attuale Via dei Fori imperiali ci sono i fori repubblicani. Quando
Augusto diventa imperatore costruisce il suo Foro e molti imperatori, dopo di lui, faranno altrettanto. Il Foro
è una piazza nella quale si amministra il suo potere. Questa davanti a voi è la colonna fatta da
Traiano, monumento all’interno del Foro di Traiano, perché fosse la sua tomba, insieme a quella
della moglie Plotina; quindi nel basamento c’erano le loro ceneri.
Nel periodo dell’Alto Medioevo la colonna è stata utilizzata
anche da uno stilita che ha scelto di vivere in cima alla colonna, similmente
a ciò che avveniva per gli stiliti della Siria e dell’Oriente.
Marco Valenti, nella sua tesi che è on-line nella sezione Roma
e le sue basiliche del sito www.gliscritti.it
, lo dimostra. Il monumento è stato così usato anche come luogo
di eremitaggio.
In cima alla colonna originariamente era posta una statua di Traiano scomparsa in età medievale. Al suo
posto nel 1588 venne innalzata, per volere di Sisto V, una statua di S.Pietro.
La colonna è una delle opere d’arte romane più belle. Raffigura le due guerre condotte da
Traiano contro i Daci, cioè nell’odierna Romania. Dopo la vittoria la Dacia rimase sotto
l’influenza romana, tanto che l’odierna lingua rumena è una lingua neolatina.
La colonna si legge dal basso verso l’alto. È concepita come un enorme nastro arrotolato sul
quale si susseguono i rilievi che raccontano le imprese di Traiano. L’imperatore compare 58 volte in
diversi momenti, mentre parla alle truppe, o presenzia ai sacrifici o riceve l’omaggio dei nemici vinti, ma
mai mentre combatte. È sempre presente come colui che comanda, che ringrazia, ecc. Traiano si
presenta come l’imperatore che porta la civiltà, sradica alberi per dominare i boschi selvaggi e
costruire ponti ed edifici. La narrazione delle due guerre daciche inizia con l’illustrazione delle
fortificazioni romane lungo il Danubio ed il passaggio del fiume, che è personificato, da parte
dell’esercito e si conclude con la deportazione dei vinti.
La Colonna di Traiano in restauro: in basso il passaggio del Danubio, con la sua personificazione |
Le due guerre sono separate iconograficamente da una vittoria alata che mette per iscritto il trionfo.
Possiamo vedere, subito dopo il passaggio del fiume che avvenne nel 101 d.C., per tre volte consecutive Traiano
rappresentato: presiede un consiglio di guerra, poi offre un sacrificio (qui compie una
lustratio), poi pronuncia un discorso alle truppe. Con il sacrificio si sottolinea la
pietas religiosa dell’imperatore e l’aiuto degli dei che ne verrà.
Infatti, al primo combattimento rappresentato, dopo che i soldati romani hanno disboscato e realizzato opere con
gli alberi abbattuti, la prima vittoria romana è accompagnata da Giove che, dall’alto, manda
saette contro i Daci. Prima della vittoria alata, alla fine della prima guerra, sono rappresentati i soldati
che portano a Traiano le teste mozzate dei capi nemici che sono stati uccisi e, a seguire, Decebalo con i capi
Daci che si prostra sottomesso domandando la pace ed i soldati Daci che distruggono le proprie
fortificazioni.
La rappresentazione della seconda guerra, che inizia nel 105, si apre anch’essa con il passaggio del fiume
e con la celebrazione di due sacrifici agli dei in due diversi luoghi. Poi l’imperatore giunge alla
presenza di quei Daci che lo hanno accolto e celebra ancora un sacrificio in un luogo dove sono presenti numerosi
altari. Dopo il disboscamento ulteriore, ricominciano le battaglie. Dopo le battaglie segue un ulteriore
sacrificio vicino ad un grande ponte costruito sul Danubio, poi un solenne rito di purificazione (ancora una
lustratio) di Traiano che appare con il capo velato. Segue l’assedio della principale
città Dacia, Sarmizegetusa. Verso la sommità della colonna è rappresentato il suicidio di
Decebalo, che era stato preceduto dal suicidio con il veleno di altri capi. I suoi figli sono catturati e la
sua testa tagliata è portata dentro l’accampamento romano. La raffigurazione si chiude con i Daci
superstiti che si trasferiscono in zone più lontane con i loro averi restanti e con il loro
bestiame.
Il Foro di Traiano del quale fa parte la Colonna traiana era longitudinale, ed aveva, fra la zona del Foro
traianeo propriamente detto che è adiacente al Foro di Augusto e la zona della colonna traianea dove ci
troviamo, la basilica Ulpia in posizione centrale. Al centro del Foro di Traiano, del quale è ben visibile
la grande abside superstite verso i cosiddetti Mercati traianei, c’era una statua equestre
dell’imperatore alta dieci metri. L’altra abside era simmetrica a questa. La basilica Ulpia aveva
anch’essa due absidi, sui due lati corti; in particolare una delle due absidi era detta Atrium
Libertatis ed era quella dove avvenivano gli atti di liberazione degli schiavi.
Traiano è, ai fini del nostro corso, particolarmente importante anche perché è lui a
dettare la prima legge scritta di persecuzione contro i cristiani. Il programma di questo primo anno del
corso di storia sui primi anni della Chiesa di Roma finirà proprio con il 117, anno della morte di
Traiano. Ne parleremo a San Clemente, studiando la figura di Ignazio di Antiochia, vescovo e martire.
Dall’altro lato di via dei Fori Imperiali è possibile individuare anche da qui il luogo del Foro
di Cesare, che precede cronologicamente quello di Augusto. In particolare vediamo tre colonne che
appartenevano al tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare. Cesare si autoproclama imperatore e, siccome
affermava di appartenere alla gens Iulia, discendente da Enea, figlio di Venere, fece costruire un
tempio alla dea sua progenitrice.
Augusto è, in realtà, il primo imperatore, ma astutamente non rivendicherà mai questo
titolo, utilizzando quello di princeps e mostrando di voler restaurare la repubblica. Il
termine “imperatore” indicava, comunque, semplicemente colui che aveva trionfato in guerra.
Augusto fece, comunque, di tutto, pur avendo un potere assoluto, per non darlo a vedere, ma anzi volle
presentarsi come il difensore delle antiche istituzioni civili.
Al Foro di Cesare segue, in ordine cronologico, quello di Augusto che potete riconoscere, da questo lato
di Via dei Fori Imperiali, da due colonne bianche che appartengono al suo Foro e precisamente al tempio di Marte
Ultore (vendicatore). Augusto infatti aveva fatto il voto di costruire un tempio al dio della guerra alla vigilia
della battaglia di Filippi (42 a.C.) nella quale riuscirà a vendicare l’uccisione di Cesare
sconfiggendo Bruto e Cassio che lo avevano assassinato. Il tempio diventa così il luogo della vendetta
romana, dove cioè il potere di dio ristabilisce i “vangeli” imperiali.
Questo tempio diventerà il tempio di tutte le vittorie di Roma. Quando Augusto otterrà dai
Parti la restituzione delle insegne delle legioni romane che Crasso aveva perso in battagli, le collocherà
nel tempio di Marte Ultore. Da lì partivano gli ambasciatori, i procuratori, che erano mandati in missione
nelle diverse parti dell’impero romano. Probabilmente anche Ponzio Pilato, prima di partire per
Gerusalemme, si recò al foro di Augusto per venerare Marte Ultore, come era usanza.
Se volete approfondire la storia dello sviluppo architettonico dei Fori romani,
trovate citato nel foglio distribuito un articolo on-line dell’archeologo
Antongiulio Granelli, L'Impero
Romano da Augusto alla caduta dell'Impero d'Occidente ed i principali sviluppi
monumentali ed urbanistici della Roma imperiale.
Sono disponibili sul sito dell’Ufficio catechistico www.ucroma.it e sul sito www.gliscritti.it
- dinastia giulio-claudia
- storici sul cristianesimo a Roma
- costante, nella tradizione antica, la connessione di Mc
con Pietro
- Marco (Giovanni /Marco): At 12,12; 12, 25; 13,4; 13, 13; 15, 37; 15, 39; Col
4,10; Fm 24; 2Tm 4,11; 1Pt 5, 13
- Roma e Alessandria
- i destinatari del vangelo sono certamente pagani: cfr. Mc7,3-4:
I farisei, infatti, e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavate le mani
fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato
non mangiano senza aver fatto le abluzioni e osservano molte altre cose per
tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame
- latinismi comuni agli altri vangeli:
denarion, modios, kensos, krabbatos, legion,
phragelloun
- latinismi propri:
xestes (boccale) 7,4, spekoulator (guardia) 6,27, kodrantes
(quadrante, spicciolo) 12, 42, hikanon poiein (dare soddisfazione alla
folla) 15,15, kentyrion 15,39.44-45, praitorion 15,16
- fra il 62 ed il 70 d.C.
non c’è nessun accenno esplicito alla distruzione di Gerusalemme,
quando Gesù dice “non resterà qui pietra su pietra che non
sia distrutta (cfr. Mc 13)
- il vangelo che è Gesù Cristo (Mc 1, 1); genitivo epesegetico, non soggettivo o oggettivo;
Marco inventore del genere letterario “vangelo”
- i due fili conduttori del vangelo: l’identità del Cristo ed il discepolato
- Gesù vero uomo
Gesù Messia, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio
- “chi sei”; “come si diventa discepoli?”
- la passione, il fallimento della sequela; la resurrezione e la sequela finalmente possibile
- Dei Verbum 18-19:
l’origine apostolica dei vangeli
i tre stadi della formazione dei vangeli e l’affermazione “senza alcuna esitazione della loro
storicità”
(l’ipotesi non accreditata di un frammento di Mc a Qumran; O’Callaghan)
Dalla Dei Verbum 18-19
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una
superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla
dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i
quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo
predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia
tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo,
Marco, Luca e Giovanni.
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro
suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto
Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e
insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli
apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva
detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi
gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i
quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per
iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese,
conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su
Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di
coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con
l'intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo
ricevuto.
Da Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, pp.60-70
Di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona
novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola
«vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano
signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano
«vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e
piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è
messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire
il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare
per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola,
ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo
è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace,
che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli
imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è
parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere.
Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente.
[1] Non è chiaro se si tratti sempre della stessa persona.
[2] E.Salvatore, Della sequela ingenua, ossia il neaniskos di Mc 14, 51-52, in RdT 47 (2006) 645-665.
[3] Questo il testo che riprendiamo da
R.Penna (a cura di), L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, EDB, Bologna, 1984, p.157.
Iscrizione di Piene (OGIS 458)
…[Inizio mutilo] se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû
theiotàtou Kaìsaros [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto:
principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte
le cose (tôn pántōn archē)… (10) Perciò si considererà a ragione
questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (archēn toû bíou kaì
tês zōês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di
essere nati. E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la
società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e
poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso
negli uffici di governo (kairòn tês eis tēn archēn eisódou), (15)… e
poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi
numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi
sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» (riga 44) a
nome della città] che tutte le comunità (politeíōn) abbiano un solo e identico
capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro
ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza
che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore
(sōtêra charisaménē) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta
apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia
pántōn), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi
l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio (hē
genéthlios hēméra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a
lui collegati (hêrxen dè tô-i kósmō-i tôn di’autòn
euaggelíōn)…
[4] J.Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2007, pp.69-70.