Tutto viene anteposto alla lettura ed alla conoscenza del testo della Sacra
Scrittura. Questioni introduttive, studi di commentari, riflessioni sulla genesi letteraria dei
testi, problemi storici sembrano i soli ad avere dignità. Senza nulla togliere alla
rilevanza di questo – fatica di studio che profondamente amiamo – vogliamo
sottolineare, però, che niente sostituisce la lettura del testo stesso e del testo nel
suo insieme. Restituire al testo ed al lettore credente il primato di ciò che è
raccontato, del contesto in cui ogni singola parola, versetto od episodio è inserito,
è esperienza salutare di vita e di fede. Una “lettura continua” del testo,
non a brani spezzati, permette anche al semplice lettore ed al credente che prega con la
Bibbia, l'incontro vivo con la Parola di Dio nella sua diversità da noi e nel suo
interrogarci a trovare in lei noi stessi.
L'accostamento, inoltre, a ciò che la ormai bimillenaria tradizione cristiana - che la
Chiesa cattolica afferma essere guidata dallo Spirito Santo e di Lui rivelazione – ha
intuito e sottolineato del testo evangelico è punto di riferimento che, da un lato,
dà sicurezza all'interpretazione e, dall'altro, si rivela spazio di ardite e innovative
possibilità di lettura. Anche qui “la Tradizione si rivela fonte di
rinnovamento” secondo l'espressione di H. de Lubac.
Con ciò, questa nostra introduzione a Marco ci appare non ripetitiva di altri studi e
volta a sottolineare tratti marciani essenziali a torto trascurati [1] .
Il vangelo di Marco è attraversato da due fili rossi che si
incrociano continuamente: da un lato la rivelazione dell'identità della persona di
Gesù, dall'altro la risposta di fede degli apostoli. Trascurare uno dei due ha per
risultato l'incomprensione del testo stesso di Marco.
Una cesura è evidente nel testo marciano, in relazione al secondo filo rosso, quello
del cammino dei discepoli. Se vediamo crescere nella prima parte la domanda "Chi è
costui?", dal momento in cui Gesù stesso pone la domanda "Ma voi chi dite che io sia?" e
Pietro risponde "Tu sei il Cristo", le domande cambiano a sottolineare le conseguenze della
sequela per gli apostoli e per ogni discepolo futuro del Cristo. Questo, come vedremo meglio,
è importantissimo, ma, nondimeno, non deve far dimenticare che il primo filo rosso ha un
altro svolgimento. Infatti l'identità di Gesù è al centro fin dal primo
versetto del vangelo dove Gesù è dichiarato Cristo e Figlio di Dio. Tale
identità è subito affermata dal Padre che, nel battesimo, proclama la figliolanza
del “suo” Gesù; è al centro delle affermazioni dei demoni che
conoscono l'identità del Figlio; è centrale, subito dopo la professione di fede
di Pietro, nella proclamazione che Gesù è il Figlio dell'Uomo, nelle istruzioni
sulla passione, e che è il Figlio di Dio, nella Trasfigurazione; eccola poi nelle parole
decisive pronunciate nei cortili del Tempio (soprattutto, come vedremo, nella parabola del
Figlio inviato dal Padre nella vigna e nella questione posta da Gesù sul Salmo
messianico 110, a partire dal quale egli indirizza evidentemente i suoi ascoltatori
all'affermazione che il titolo di Signore, il titolo di Dio, compete al Cristo), nel processo
dove Gesù dichiara chiaramente di essere il Figlio del Dio altissimo. E tutto ciò
ben prima della professione di fede del centurione sotto la croce che, a torto, molti vedono
come uno dei culmini del vangelo, mentre essa è semplicemente la conferma che "tutto
ciò che già Gesù è" non è smentito, ma anzi ulteriormente
corroborato dal mistero della croce.
Vogliamo con ciò sottolineare che l'evangelista - e con lui la tradizione della Chiesa
- ha chiara coscienza del rapporto fra "conoscenza" ed "essere". Gli apostoli possono pian
piano procedere nell'approfondimento dell'identità di Gesù, perché lui
già è il Cristo, il Figlio dell'Uomo, il Figlio di Dio ed il Signore. Secondo la
splendida espressione tomista, la verità, la conoscenza è "adeguatio rei et
intellectus", è piena corrispondenza fra ciò che è e la nostra
comprensione di esso. Se la seconda linea può impantanarsi, come nel caso degli
apostoli, la prima continua a risplendere della sua verità [2] . La successiva riflessione teologica che, in maniera
acutissima, vedrà i due aspetti della fede, indicandoli come “fides quae”
- fede che è creduta, fede che si rivolge ad un preciso contenuto, non essendo
“fede cieca”, non brancolando nel buio, ma anzi radicandosi in Cristo – e
“fides qua” – fede con la quale si crede, fede che è risposta
adeguata alla rivelazione di Dio e, perciò, abbandono fiducioso, che compie ed
attende la sua volontà – è già tutta in nuce nel vangelo di
Marco.
Se seguiamo il filo dell'identità di Gesù, secondo
le sottolineature proprie del vangelo di Marco, prima di passare al cammino
dei discepoli, dobbiamo innanzitutto non dimenticare come il più antico
dei vangeli ci faccia incontrare la realtà dell'umanità di Gesù.
Alcune espressioni sono così esplicite che, ad una prima impressione,
non ci sembrerebbero degne del Figlio di Dio e saremmo, di primo acchito, tentati
di ritenerle non compossibili con una vera presenza dello Spirito Santo. Ad
una lettura più attenta esse si rivelano invece per quello che sono veramente:
la manifestazione umana della presenza del Figlio di Dio. Procediamo con ordine,
sottolineandone alcune.
Al v. 3,5 troviamo l'espressione "Guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per
la durezza dei loro cuori" in reazione al silenzio seguito alla domanda posta da Gesù:
"E' lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". Qui
l'indignazione e la tristezza sono proprio lo sdegno di Dio che traspare nel volto umano di
Gesù, dinanzi al rifiuto dell'uomo di inchinarsi alla sacralità della vita
implicita nella fede nel Dio creatore e salvatore.
Al v. 3,21 troviamo una espressione dei parenti del Signore: "Dicevano: è fuori di
sé". Certo non è una constatazione, come l'espressione precedente, ma una
interpretazione maligna della vita di Gesù, che, però, ci mostra la crudezza del
resoconto marciano. In molti dialetti italiani si usano espressioni analoghe: "E' fuori come un
poggiolo", "E' fuori come un balcone" o semplicemente "E' fuori".
Nell'episodio della tempesta sedata, mentre la tempesta infuria, solo Marco ci riporta un
particolare, al v. 4, 38: "Egli se ne stava a poppa sul cuscino e dormiva". Dormire non
è un atto anti-spirituale, non è un momento inconciliabile con la presenza di
Dio. E' lo stesso Gesù che, dinanzi alla furia delle acque e del vento, non trova di
meglio che riposare e per di più "sul cuscino". Quante crisi apparentemente spirituali
richiedono, talvolta, un po' di sano riposo per rientrare ed essere affrontate nella loro vera
dimensione!
Marco è anche l'unico a testimoniarci del mestiere di Gesù. Mentre gli altri
vangeli si limitano a dirci che egli è il figlio di Giuseppe, il carpentiere, Marco, al
v. 6, 3, ci dice che proprio Gesù è conosciuto come "il carpentiere
(tektòn), il figlio di Maria". In greco "tektòn" non vuol dire semplicemente
falegname, ma piuttosto "carpentiere", essendo le abitazioni antiche costruite in gran parte di
legname e non solo di pietra.
Al v. 6,6 troviamo: "Si meravigliava della loro incredulità". E' il Cristo che non si
rassegna al rifiuto di fede, prestato dai suoi ascoltatori.
Il v. 8,12 ci fa notare, ancora più in profondità, lo sbuffare del Signore:
"Traendo un profondo sospiro disse: Perché questa generazione chiede un segno?". E' il
giudizio divino espresso nel gesto dell'uomo.
L'umanità appare anche nell'espressione della compiacenza divina di Gesù. Di
nuovo Marco è l'unico a ricordare, nell'episodio dell'incontro con il ricco, al v. 10,
21 "Fissatolo, lo amò". L'incontro di due sguardi, il fissare gli occhi del ricco,
è qui espressione di una elezione di carità riservata a quell'uomo e non a tutti.
Quanto anche nella nostra esperienza siamo in grado di percepire diverse intensità nel
modo in cui siamo guardati!
Nel cammino verso Gerusalemme, al v. 10,32, troviamo l'ordine del gruppo composto da
Gesù e dai discepoli: "Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti;
coloro che venivano dietro erano pieni di timore". Il Signore cammina innanzi a tutti e sa bene
che gli altri non marcerebbero alla volta di Gerusalemme se egli non fosse lì, solo,
avanti a tutti.
E' questo Gesù che è il Cristo. Nessuna esitazione nel racconto marciano nel cogliere, insieme alla piena umanità di Gesù, la sua piena e cosciente messianicità e figliolanza divina. Marco non attende che gli apostoli comprendano chi è il Cristo per dichiarare la sua identità, ma la annuncia fin dall'intestazione del suo vangelo che così recita:
Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (Mc 1,1)
Con i commentari testuali moderni riteniamo autentica la
“lezione” “figlio di Dio”, non solo per gli autorevoli testimoni che la
tramandano [3] , ma, soprattutto, come vedremo,
per la centralità teologica e letteraria della figliolanza divina in Marco. La
questione, però, più importante di questo primo versetto è un'altra. Qual
è il valore del genitivo “di Gesù Cristo”? Cosa è inteso
precisamente nell'espressione “vangelo di Gesù Cristo”? La grammatica
conosce varie forme di genitivo, con significati e sfumature diversi. Se io dico:
“l'amore di Dio”, posso intendere sia l'amore che Dio ha per me – nella
grammatica, questo genitivo viene chiamato genitivo soggettivo, cioè che indica come
protagonista dell'azione, come soggetto reale, la persona che è indicata nel caso
genitivo – oppure posso intendere l'amore che io ho per Dio – in tale caso si
tratta di un genitivo oggettivo, cioè la persona che è nel caso genitivo è
l'oggetto dell'azione che ha invece il soggetto per protagonista. Esiste anche una terza
possibilità che viene chiamata “genitivo epesegetico”. Se, ad esempio, in
una famiglia si attende la notizia della nascita di un nuovo bambino che porterà il nome
di Marco, essendo ormai terminati i nove mesi della gravidanza, quando qualcuno porterà
l'annuncio della “lieta notizia di Marco” questo non indicherà che Marco,
come soggetto, ha dato una lieta notizia, ma neanche, esattamente che la lieta notizia ha come
oggetto Marco, bensì, più specificatamente che Marco è la lieta notizia da
tutti attesa. Nel “genitivo epesegetico” c'è identità fra il primo
termine, espresso al nominativo, ed il secondo, espresso nella forma genitiva. Questo è
il caso dell'intestazione del vangelo di Marco. Il vangelo non è solamente detto da
Gesù e non ha neanche solamente Gesù per oggetto, ma è Gesù in
persona. La sua persona è il vangelo, la lieta notizia recata al mondo.
Non dobbiamo mai dimenticare che il vangelo di Marco è il più antico e, quindi,
il primo che ci racconti, nel suo dispiegarsi di vita quotidiana, questo dono oggettivo, dono
per tutti: il Figlio. La parola “vangelo” era già usata dalla chiesa
primitiva per indicare il fatto della morte e della resurrezione nel suo significato salvifico
per gli uomini – sempre fatto e significato sono non disgiungibili nella realtà
cristiana, mai sono due aspetti che si giustappongono senza nesso – ma ora ciò che
era implicito diviene esplicito: ogni parola, ogni silenzio, ogni relazione, ogni gesto, ogni
segno compiuto da Gesù è vangelo, perché è annunzio di letizia
tutta la sua persona. Diviene necessario prendere tutto il tempo per raccontare la vita del
Signore e per apprenderla e conoscerla, con tutte le nostre forze, con tutto il nostro cuore,
con tutta la nostra anima. Marco è il primo che mette per iscritto tutto ciò che
viene a conoscere della vita del Signore, perché sa ed annuncia che tutta la vita del
Cristo è vangelo. Non ci sono, da questo punto di vista, fatti più importanti e
meno importanti, essendo ogni istante della vita di Gesù espressione del dono del Messia
e del Figlio di Dio in terra agli uomini. Marco, inventando per primo il genere letterario
“vangelo”, mostra come esso sia il perfetto corrispettivo della realtà
dell'Incarnazione.
Il suo vangelo ci ricorda che, nella coscienza cristiana che “la fede è dono di
Dio”, la prima attenzione non si rivolge tanto al moto del soggetto che si affida a Dio,
poiché è mosso dalla grazia interiore , ma, prima ancora, al dono oggettivo che
Dio fa di sé donando il Figlio ed il Messia al mondo. In questo senso è evidente
che Gesù è il dono del Padre, anche se l'uomo non gli credesse. Un dono non
è meno dono se non viene accolto, non trae la sua dignità di dono
dall'accoglienza che se ne fa, anzi è dono proprio perché non guarda al
contraccambio, ma è gesto originale e libero del donatore. Il vangelo non è dato,
innanzitutto, dal fatto che l'uomo “sente” Dio, si apre a lui, ma primariamente dal
Signore che si manifesta al mondo. Ed è solo conseguentemente che la grazia opera anche
nell'uomo perché costui possa aprirsi in risposta al dono oggettivo che è stato
fatto. La scelta soggettiva dell'uomo è sostenuta dall'oggettività del dono che
la precede e la fonda, altrimenti sarebbe moto immotivato ed irrazionale dell'uomo. Marco
racconta il fatto del vangelo, l'esistenza di Gesù nel mondo, con il suo significato
inscindibile e, così, invita gli uomini ad aderire ad esso, a condividerlo e a
parteciparvi. Sia detto non incidentalmente, così è affermata ed assicurata anche
la libertà di Dio. La Chiesa continua a sentire come “bestemmie”
l'attribuzione a Dio di termini come “energia”, “positività”,
“forza”. Questo vocabolario, oggi espresso senza alcun approfondimento teologico
dalle correnti della New Age, nega alla radice la libertà di Dio di nascondersi e di
manifestarsi. L'esistenza di Cristo, cioè il vangelo, può essere compresa solo
come un dato non deducibile da noi stessi, né da alcunché che sia una presunta
essenza di Dio: è l'apparire nel tempo della libera grazia divina nella persona del
Cristo, il Figlio di Dio, Gesù.
Per chi comprende la realtà della fede cristiana, resta incomprensibile l'odierna
diffidenza dell'annuncio dei contenuti della fede, nella catechesi e nella predicazione. La
debolezza della scelta di fede di tanti ed il repentino abbandono della Chiesa, dopo anni di
presenza in gruppi cristiani, spesso ha, come retroterra, proprio l'aver legato troppo
l'esperienza e la proposta cristiana alla simpatia del sacerdote o del laico, alla
novità sempre ricercata delle forme espressive o al calore della relazione umana, e
troppo poco l'averla fondata e radicata nell'oggettività della presenza del Cristo nella
storia e nella Chiesa. Non esiste una catechesi che non trasmetta il contenuto della fede, che
non racconti la storia reale e significativa del Signore. Marco è, innanzitutto, colui
che fa per noi questo.
Per lui, tutti i detti ed i fatti di Gesù sono vangelo. Il Figlio è il segno per
il quale e nel quale possiamo giungere al Padre.
Il primo versetto di Marco ci annuncia subito che l'uomo Gesù
è il Cristo. Sarà affermato da Pietro, che, alla domanda del Signore “Ma
voi chi dite che io sia?” risponderà: “Tu sei il Cristo”, al versetto
8,27. Lo affermerà Gesù stesso, rispondendo alla domanda del sommo sacerdote:
“Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto? Io lo sono”, ai versetti 14,61-62.
Con tale titolo, evidentemente accolto da Gesù, sarà anche irriso sulla croce:
“Il Cristo, il re d'Israele scenda ora dalla croce, perché vediamo e
crediamo”, al versetto 15,32.
Marco ci invita a ridare all'espressione “Cristo” tutta la forza possibile.
“Christos” è la traduzione greca dell'ebraico “Mashiah”, Messia.
Il termine greco viene dal verbo “Chrio”, “ungere”. Ma l'unzione di cui
qui si tratta non è l'unzione, pure rivelativa e fondamentale, dei profeti, dei re, dei
sacerdoti (e dei più grandi dei profeti, dei re e dei sacerdoti) – l'Antico
Testamento ci fornisce numerosi esempi di questa unzione che significa l'investitura divina del
personaggio in questione e l'azione dello Spirito in lui.
E' Gesù stesso ad istituire la distinzione fra sé e tutti i precedenti
“unti” e “consacrati del Signore”. Così arriverà ad
interrogare prima indirettamente e poi direttamente i discepoli, nei villaggi intorno a Cesarea
di Filippo, l'odierna Banyas, alle sorgenti del Giordano:
Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: «Chi dice la gente che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti». Ma egli replicò: «E voi chi dite che io sia?». (8,27-29).
Le due domande poste in rapida successione direttamente da Gesù -
come vedremo, esse giungono dopo che per tutti i capitoli precedenti una domanda insistente
sulla sua identità si è levata per i suoi gesti e le sue parole - riguardano ora
direttamente la sua persona. “Chi sono io?”, interroga Gesù. Per la gente
egli è certamente un grande, è certamente un inviato da Dio. Forse egli è
Giovanni il Battista redivivo, poiché il popolo riteneva Giovanni talmente grande da
ipotizzare un suo ritorno, dopo la sua decapitazione? Vedremo nella sequenza del tempio come
Gesù affermi chiaramente che Giovanni il Battista “viene dal cielo”,
cioè da Dio, ma in un modo diverso dal suo venire “dal cielo”! Forse egli
è Elia, colui che rappresenta tutti i profeti? Nella Trasfigurazione vedremo Elia,
cioè tutta la profezia, e Mosè, cioè tutta la Legge, tutto il Pentateuco,
illuminare il Figlio, ma anche essere illuminati da Lui! Forse piuttosto uno dei profeti
finalmente inviato nuovamente da Dio a risvegliare il popolo? Non dimentichiamo che in Israele
da 3 secoli non si vedeva un profeta e si cominciava a credere che il periodo profetico fosse
stato definitivamente chiuso! Niente di tutto questo. Come afferma Pietro: “Tu sei il
Cristo”, non “un Cristo”. Tu sei unico e nessuno dei profeti, nemmeno Elia o
Giovanni Battista [4] , sono nemmeno lontanamente
paragonabili al Cristo!
La nostra abitudine non ci fa più riconoscere immediatamente che dire
“Gesù Cristo” non è come dire un nome ed un cognome, come Stefano
Rossi, ma è compiere una affermazione di fede: Gesù è il Messia, l'unico
Messia, l'atteso. A rigor di logica chi non è credente cristiano non potrebbe dire
Gesù Cristo, perché così dicendo automaticamente si comprometterebbe con
la fede! Ricordo la sensazione avvertita nella celebrazione della messa della comunità
degli ebrei-cattolici a Gerusalemme nell'udire l'espressione conclusiva delle preghiere
liturgiche “per mezzo di Gesù Cristo… nei secoli dei secoli” che in
ebraico suona “derek Jeshuah Hammashiah”, “per la via di Gesù che
è il Messia”. Quei cittadini di Israele, ebrei da generazioni, arrivavano a
riconoscere che quel Messia atteso dai padri dei padri dei padri, fin dalla prima promessa di
Dio, era infine arrivato nella persona di Gesù di Nazareth.
La domanda sull'unicità di Gesù riprende la questione che già prima il re
Erode aveva posta, ai versetti 6,14-16:
Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui». Altri invece dicevano: «E' Elia»; altri dicevano ancora: «E' un profeta, come uno dei profeti». Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!».
Gesù è ormai famoso ed è con ciò venerato e
rispettato e, quindi, anche seguito. Ma, anche qui, non è questo il punto. La questione
non è se egli sia un maestro come altri maestri farisei dell'epoca, fosse anche migliore
di loro. La questione che egli coscientemente pone – e Marco la prepara proprio con
questo brano relativo alla riflessione di Erode – è se egli sia l'unico da
attendere, come il definitivo inviato di Dio. Una espressione moderna di stupore ci sembra ben
cogliere il problema. Nel brano iniziale del musical Jesus Christ Superstar, dopo l'ouverture,
Giuda canta: “Tu stai diventando più importante delle cose che dici”! E'
ciò che non può accettare. La parola del maestro può anche andar bene, se
colta solo nella sua presunta universalità di insegnamento di vita - da tutti
contestabile perché contestante tutti, ma, in fondo, da tutti condivisibile - ma la
centralità della persona del Messia, questa è inaccettabile!
Proprio Pietro confessa ciò che Gesù chiaramente accetta e che confermerà
nell'interrogatorio dinanzi ai sacerdoti:
Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno( 8,30).
Qui comprendiamo anche la forza di documenti come la recente Dichiarazione
Dominus Iesus su Gesù, unico salvatore del mondo, che riprende le stupende espressioni
della Dei Verbum del Concilio Vaticano II.
Ciò che il moderno contesto ci permette di aggiungere è che una attesa
dell'inviato di Dio, può essere intuita non solo come risposta della certa promessa di
Dio giurata ad Israele, ma anche nell'orizzonte più ampio dell'intero camino dell'uomo.
Nella stessa Scrittura troviamo testimonianza di questo là dove i libri sapienziali,
allargandosi non solo alla rivelazione propria della storia della salvezza, ma attingendo al
patrimonio della riflessione culturale, dovuta all'opera di Dio nell'uomo in quanto creatore,
arrivano a pronunziarsi così nel libro del Qoèlet:
Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda
sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?
Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa.
Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel
loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l'opera compiuta da Dio dal
principio alla fine (Qo 3,1-11).
Qui due diverse prospettive sono presentate all'uomo. Innanzitutto la
necessità di saper ben scegliere i tempi. Guai a piantare quando si deve sradicare e a
sradicare quando si deve piantare. Guai a tacere quando è tempo di parlare e a parlare
quando è tempo di tacere. Ma la seconda prospettiva supera la prima: è per la
nozione di eternità, posta da Dio nel cuore, che l'uomo non può comprendere
l'opera divina dal principio alla fine. Lo sguardo “sub speciem aeternitatis”
è tanto necessario, quanto irrealizzabile! E' solo l'arrivo del Cristo, del Messia, che
permette alla creatura umana di superare l'impasse: “Questa è la vita eterna, che
conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,
3).
L'umanità attende chi mostri il nesso tra il tempo e l'eternità. Egli è,
perciò, l'atteso anche delle genti, dei popoli [5] .
A questo annunzio dell'essere Gesù il Cristo fa simmetricamente eco la comprensione
giovannea che il male radicale è l'antitesi, l'opposizione al Cristo stesso. Questo
è l'antiCristo! Il termine, invenzione propria dell'evangelista Giovanni, caratterizza
il dispiegarsi del male nella sua forma definitiva e più terribile, proprio come rifiuto
della messianicità di Gesù. Ed è l'evangelista che più ha amato e
compreso il mistero altissimo della presenza del Cristo in terra che ha visto la
possibilità terribile di non considerare il Cristo come il definitivo, il decisivo, come
afferma 2 Gv 9: “Chi va oltre Gesù Cristo non possiede Dio”. Gli fa eco
l'apostolo Paolo quando afferma che “in realtà tutte le promesse di Dio in lui
(nel Figlio di Dio, Gesù Cristo) sono divenute sì” (2 Cor 1,18-20).
Vogliamo ora approfondire il senso di un altro appellativo di Gesù
(gli studi teologici moderni chiamano tali appellativi “titoli cristologici”, ad
indicare le espressioni che con diritto debbono essere applicate a Gesù ed a lui solo),
il titolo di “Figlio dell'uomo”.
“Figlio dell'uomo” compare in un testo profetico del profeta Daniele, Dan 7,13-14,
che così recita testualmente:
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.
Il testo profetico si proietta verso il futuro annunciando qualcuno che, in
effetti, resterebbe misterioso, senza la rivelazione del Cristo. Possiamo affermare con
certezza che l'autore antico aveva coscienza di parlare di un personaggio escatologico, di
origine trascendente, avente a che fare con il momento del giudizio finale di Dio, il
Vegliardo. In alcuni testi giudaici apocrifi, cioè non accolti nel canone, ma ben
conosciuti e diffusi sia anticamente che negli studi moderni, come 1 Enoch 37-71, come il Libro
delle Parabole, come 4 Esdra, troviamo speculazioni su questo Figlio dell'uomo; ognuno di
questi autori cerca la sua soluzione al problema dell'identità ed della vocazione di
questo personaggio.
Gesù, da parte sua, afferma, usando a piene mani di questo titolo, di esserne lui la
realizzazione e, quindi, anche la chiave di interpretazione.
Alla domanda del sommo sacerdote, durante la passione – “Sei tu il Cristo, il
Figlio del Dio benedetto?” – Gesù risponde: “Io lo sono! E vedrete il
Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc
14,62). E' indubitabile nella coscienza di Marco e della Chiesa che Gesù, usando di
questo titolo cristologico, sta illuminando la sua altissima realtà. Egli sarà
visto seduto alla destra di Dio stesso, la Potenza, e verrà a giudicare il mondo sulle
nubi del cielo. A Lui spetta il giudizio, il potere ed il regno senza fine! Tutto questo
è corroborato continuamente dalle parole di Gesù, nella sua vita pubblica, fin
dal primo apparire in Marco di questa espressione, quando, dinanzi al paralitico che viene
calato dal tetto sul suo lettuccio e, soprattutto, dinanzi al mormorio di chi sa che solo Dio
può perdonare veramente il peccato, Gesù risponde: “Ora perché
sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati, io ti ordino:
alzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua” (Mc 2,10-11). Ecco che la vita di
Gesù è già il giudizio di Dio apparso in terra, a tal punto che il suo
perdono è già ora il perdono definitivo di Dio. E questo è così
importante che il miracolo di guarire non solo passa in secondo piano, ma diviene segno di
questo perdono che deve esser creduto!
Inoltre “il Figlio dell'uomo è signore del sabato” (Mc 2,28). Legiferare e
giudicare sul sabato, istituzione divina, spetta a Gesù, al Figlio dell'uomo, non solo a
Dio, poiché è proprio Dio che ha dato a lui il potere.
Di nuovo è tale l'identità che vergognarsi di Gesù è l'elemento
decisivo del giudizio:
“Chi si vergognerà delle mie parole dinanzi a questa generazione adultera e perversa, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (Mc 8,38).
Gesù è il Figlio dell'uomo che verrà nella gloria del Padre suo!
Quando nel discorso escatologico del cap. 13 Gesù vorrà relativizzare la paura e
la novità degli eventi cosmici degli ultimi giorni, per indicare che la vera
novità sarà la sua venuta nella gloria - tutto il cosmo non potrà allora
altro che rispecchiare semplicemente, con il suo essere rinnovato da Dio, la realtà
della parousia che tutto l'universo non è in grado di produrre – ecco di nuovo
l'annuncio: “Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e
gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti,
dall'estremità della terra all'estremità del cielo” (Mc 13, 26). Il Figlio
dell'uomo è certamente il salvatore, colui che dona il giudizio di salvezza, richiamando
tutti gli eletti a sé.
Non possiamo, però, non incontrare un aspetto di assoluta originalità
nell'applicazione di questo titolo cristologico (ulteriore segno di verità storica,
secondo i criteri di storicità dei vangeli, elaborati dagli importantissimi studi di
R.Latourelle in A Gesù attraverso i vangeli, Cittadella, Assisi, 1979): la gloria del
Figlio dell'uomo incontrerà la sofferenza, il rifiuto e la croce.
Il testo di Marco sottolinea l'assoluta novità di questo con l'espressione – che
più in là analizzeremo ancora – “e cominciò ad insegnar
loro” (Mc 8,31). E' l'inizio dell'istruzione ai discepoli sul mistero del patire del
Figlio dell'uomo, voluta da Gesù solo a partire dal momento in cui Pietro ne ha
riconosciuto la messianicità.
Ed ecco che Marco ci ricorda che Gesù ha coscienza di essere anche in questo il
compimento delle Scritture che di lui avevano parlato. Egli non è solo il Figlio
dell'uomo, annunciato da Daniele, ma è anche l'uomo dei dolori che ben conosce il
patire, dei “canti del servo di Yahwe”, detti anche “carmi del servo
sofferente”, pronunciati da Isaia: “Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni
cosa; ma come sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto ed essere
disprezzato” (Mc 9,12). Non è inutile notare come, anche in questo modo, si renda
evidente che cosa la Chiesa intenda per “lettura spirituale delle Scritture”.
Nessuno sapeva, ai tempi di Gesù, dei “carmi del servo sofferente”, nel
senso che si conoscevano certo le parole di Isaia, ma nessuno studioso aveva ancora formulato
l'ipotesi che fossero carmi a parte, con un significato particolare. E' piuttosto Gesù
che è elemento rivelatore, come cartina al tornasole, come luce che illumina e permette
di dire: ecco, questo era scritto [6] !
Daniele 7 appare, dalla professione di fede di Pietro in poi, insieme ad Isaia 52,13-53,12 ed
agli altri canti del “servo sofferente”. E' l'esegesi di Gesù, la sua
lettura spirituale della Bibbia, che manifesta un senso più pieno, il sensus plenior,
non coscientemente chiaro a chi aveva pronunciato anticamente quel testo, ma voluto e posto dal
divino ispiratore della Sacra Scrittura e manifestato nella vita del Cristo, “in questi
tempi che sono gli ultimi” (Eb 1,1). Ecco che, per Gesù, è la Scrittura ad
annunciare che “il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli
anziani, dai sommi sacerdoti, dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni,
resuscitare” (Mc 8,31, ma anche 9,9.12.31, con l'aggiunta “lo consegneranno ai
pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno”, Mc 10,33.45 con
l'aggiunta “il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti”, Mc 14,21.41 con l'aggiunta “il Figlio
dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui” ed “il Figlio dell'uomo viene
consegnato nelle mani dei peccatori”). E, non è inopportuno rilevarlo, ciò
che è lettura spirituale dell'Antico Testamento, si rivela, invece, lettura storico del
Nuovo Testamento, tanto è ovvio nei testi biblici cristiani questa lettura cristologica
dell'Antico Testamento. Essa differisce da una lettura che cerchi solamente il senso inteso dal
primo scrittore veterotestamentario del testo, ma è anch'essa storica, poiché
è la lettura dello scrittore neotestamentario, anch'egli storico, e, prima ancora, dello
stesso Cristo storico!
Il vangelo di Marco spinge ancora oltre nell'identificare la ricchezza della
persona di Gesù: egli è il Figlio di Dio. Vogliamo subito porre in risalto il
fatto che non condividiamo assolutamente l'analisi di molti commentari che asseriscono essere
Mc 15,39 uno degli apici dello sviluppo letterario, quando il centurione sotto la croce, avendo
visto Gesù morire in quel modo, afferma: “Veramente quest'uomo era Figlio di
Dio”. Questa tesi viene generalmente sostenuta dalla presunta motivazione che mai nel
vangelo Gesù avrebbe affermato la sua figliolanza divina e solo il centurione, sotto la
croce, giungerebbe ad una così nuova comprensione dell'evangelo. Solo l'espressione
Figlio dell'uomo sarebbe sulle labbra di Gesù – si sostiene da più parti
– mentre gli altri titoli verrebbero da altri attori del dramma evangelico, sia pure da
attori non umani, come i demoni o il Padre stesso.
Una lettura più attenta del testo di Marco ci porta invece a dire che, da subito, la
proclamazione di Gesù Figlio di Dio è centrale nel nostro testo. Abbiamo
già visto come il titolo stesso del vangelo si pronuncia chiaramente in proposito,
secondo la lettura più accreditata della critica testuale. Ma, a scanso di equivoci,
dopo pochi versetti dal titolo troviamo l'episodio del battesimo di Gesù. L'unica cosa
che interessa all'evangelista è di riconoscere che subito Dio, il Padre, lo proclama
Figlio. Un aggettivo straordinario chiarisce il senso di questa voce dall'alto: Gesù
è l' “agapetos” (Mc 1,11), l'amato. Un orecchio addestrato alla storia
biblica ed ai suoi termini, vi riconosce facilmente un nuovo uso dello stesso aggettivo usato
nel racconto di Abramo ed Isacco: “Prendi il tuo unico figlio, prendi il figlio, proprio
quello che ami...” (Gen 22,2). Non a somiglianza della figliolanza divina che hanno avuto
Adamo e tutte le creature umane è pronunciata una così alta sentenza. “Tu
sei il mio figlio, quello amato, in te mi sono compiaciuto”. E' una figliolanza unica
quella che viene affermata all'inizio del vangelo. Questo Figlio è amato come l'unico.
Nessuno gli è simile, da questo punto di vista. Quando il racconto della Trasfigurazione
aggiungerà – siamo nel momento in cui è iniziata l'istruzione di
Gesù ai suoi discepoli, dopo la confessione di fede di Pietro – non tanto
l'invito, quanto il comando, “Ascoltatelo” (Mc 9,7), ciò sarà
nuovamente a motivo del fatto che egli è proprio “l'amato”. Le nostre
espressioni “l'amato”, “colui nel quale mi sono compiaciuto” debbono
marcare l'articolo determinativo. Egli, proprio lui e solo lui, è colui che a diritto
è l'amato, colui che piace al Padre, colui che deve essere ascoltato.
Quando, incautamente, le tendenze della New Age tendono ad accorciare le distanze, affermando
che la storia avrebbe visto diversi “illuminati”, fra i quali Cristo, Budda,
Maometto e così via, l'incomprensione si fa totale. La Trasfigurazione mostra, infatti,
che Gesù è la luce stessa. Egli non riceve luce da un altro, così da
portare a buon diritto il titolo di “illuminato”! No! Egli, come dice il simbolo di
fede, è “luce da luce”, è la luce stessa che appare nel suo
splendore. “Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti,
bianchissime. Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Come
affermerà con una formula teologica di una concisione straordinaria la lettera ai
Colossesi: “In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”
(Col 2,9). In Lui solo tutta la pienezza di Dio abita e proprio e solo nella sua carne mortale
prende dimora in mezzo agli uomini.
I demoni sanno, secondo la testimonianza marciana, proprio questo, solo che essi non si
affidano, ma anzi si oppongono (proprio come dice la lettera di Giacomo: “Tu credi che
c'è un Dio solo? Fai bene anche i demoni lo credono e tremano!” Gc 2,19). Troviamo
questo in Mc 3,11 e 5,7 “Tu sei il Figlio di Dio” e “Che hai tu in comune con
me, Gesù, Figlio del Dio altissimo?”
Il passo decisivo sta però nel riconoscere che è Gesù stesso - nella sua
profonda ed eterna coscienza di essere, in cielo ed in terra, il Figlio – che mostra
tutto ciò agli uomini. E' proprio al Tempio, come vedremo in dettaglio tra breve, nel
luogo dove Dio ascolta ed è ascoltato dagli uomini, che Gesù pronuncia la
parabola del figlio inviato dal padre nella sua vigna. Dopo tanti servi inviati dal padre a
ritirare il frutto dai vignaioli, ecco la novità, ecco la svolta. Questo è vero
culmine evangelico e non può essere misconosciuto in una lettura di Marco: “Aveva
ancora uno, il figlio prediletto. Lo inviò per ultimo” (Mc 12,6). La
qualità dell'ultimo inviato dal Padre è radicalmente diversa da tutti gli inviati
anteriori. Egli è l'ultimo non solo perché nessun altro verrà dopo, nello
sviluppo cronologico successivo della storia che continua. E' piuttosto il contrario: nessuno
potrà venire, perché in quel figlio, che è l'unico e l'amato, tutto Dio ha
detto agli uomini. Non perché è adirato, Dio non aggiunge più parola. Al
contrario, proprio perché nel suo amore ha donato tutto di sé, ha donato la
Parola unica e suprema, il Figlio, e sempre la donerà immutata ed immutabile. La
straordinaria comprensione dei mistici penetra questo mistero, come, ad esempio, nelle parole
di S.Giovanni della Croce:
Donandoci il Figlio suo, ch'è la sua unica e definitiva Parola, ci
ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare.
Questo è il senso genuino del testo in cui San Paolo vuole indurre gli Ebrei a
lasciare gli antichi modi di trattare con Dio secondo la legge mosaica, e a fissare lo sguardo
solamente in Cristo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi... in questi
giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Con queste parole l'Apostolo
vuole far capire che Dio è diventato in un certo senso muto, non avendo più nulla
da dire, perché quello che un giorno diceva parzialmente per mezzo dei profeti, l'ha
detto ora pienamente dandoci tutto nel Figlio suo [7] .
Gli fa eco la Dei Verbum che afferma, al numero 4:
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini», «parla le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).
Il vangelo ci mostra poi la preghiera di Gesù nell'Orto del
Getsemani. E' Marco l'unico a ricordarci le parole pronunciate in aramaico, in quella notte
suprema: “Abba”, che subito da Marco viene tradotto nel greco in greco
“Padre”. Questa espressione aramaica appartiene, insieme ad altre locuzioni, alle
“ipsissima verba Jesu”, le parole che noi sappiamo con certezza Gesù ha
pronunciato. Ci rivelano nuovamente l'unicità di questo rapporto fra padre e figlio. Non
solo il Padre riconosce il suo Figlio come l'unico, ma anche il Figlio riconosce la
paternità del suo unico Padre.
Infine – e non comprendiamo come si possa misconoscere l'importanza di un tale passaggio
marciano, fino ad affermare che non troviamo sulla bocca di Gesù l'affermazione che egli
è il Figlio! – dobbiamo fare riferimento al processo a Gesù. L'accusa di
bestemmia, il vero capo di imputazione per la morte di Gesù, è esattamente
questo: si è fatto come Dio. Nella domanda del sommo sacerdote, che già abbiamo
visto, è in questione non solo l'essere il Cristo, ma soprattutto l'essere “il
Figlio del Dio altissimo”, affermazione che riprende ciò che evidentemente era
avvertito in quel giorno come la pretesa di Gesù. La risposta è chiarissima. Non
semplicemente “Tu lo dici”, ma il ben più forte “Io lo sono”, l'
“ego eimi” che sarà ulteriormente esplicitato nel vangelo di Giovanni.
Ecco allora che l'altissima affermazione del centurione sotto la croce –
“Veramente quest'uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39) - nulla aggiunge, se non che
tutto ciò che è vero dall'inizio non è smentito dalla crocifissione, ma,
anche in quel momento supremo, si conferma come la verità.
Soffermiamoci ora a vedere come nella prima parte del vangelo - fino al
momento in cui è posta da Gesù stesso, direttamente, la domanda sulla sua
identità e Pietro, con la sua professione, risponde ad essa – cresca la questione
su Gesù. Abbiamo visto fin qui il primo filo rosso che Marco ci fa seguire, quello del
mistero di Gesù: egli è, fin dall'intestazione del vangelo, dichiaratamente, il
Cristo, il Figlio dell'uomo, il Figlio. ma questo suo “essere”, deve essere
conosciuto.
Il secondo filo che Marco continuamente intreccia al primo pone si dipana lentamente: è
la presa di coscienza dell'assoluta singolarità di Gesù in tutti coloro che lo
incontrano. Con continue domande ed osservazioni di tutti coloro che vengono in contatto con
lui, Marco fa crescere l'interesse e la suspence, mentre, dall'altro lato, già ha dato
la risposta.
In Mc 1,22 - “Ed erano stupiti del suo insegnamento perché insegnava loro come
uno che ha autorità e non come i loro scribi” - si manifesta subito la forza
assoluta della parola di Gesù.
In Mc 1,22-23 - “Allora un uomo… posseduto da uno spirito immondo si mise a
gridare: Che c'entri con noi Gesù Nazareno?” - i demoni mostrano la loro
distanza.
In Mc 1,37 - “E, trovatolo, gli dissero: Tutti ti cercano” - subito dopo la
preghiera al mattino presto, oramai (e siamo solo al primo capitolo!) Gesù è
già il grande ricercato.
In Mc 2,7 - “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere
i peccati se non Dio solo” - la domanda verte sul potere di perdonare. Chi ha autorizzato
Gesù a perdonare? Lo stupore si concretizza dinanzi al fatto della riconciliazione.
Notiamo che l'espressione può anche essere tradotta più precisamente,
evidenziando ancora di più il legame fra il gesto di Gesù e la misericordia che
solo a Dio pertiene, e cioè: “Chi può rimettere il peccato, se non il Dio
unico?”
In Mc 2,12 - “Tutti si meravigliavano e lodavano Dio dicendo: Non abbiamo mai visto
nulla di simile” - lo stupore cresce ancor più.
Mc 2,16 - “Allora gli scribi della setta dei farisei… dicevano: Come mai egli
mangia e beve in compagnia dei pubblicani e dei peccatori?” - mostra la domanda sorta dal
comportamento di Gesù.
Mc 2,18 - “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano,
mentre i tuoi discepoli non digiunano?” - è l'espressione della novità
nell'educare i discepoli.
In Mc 2,24 - “I farisei gli dissero: Vedi, perché essi fanno di sabato quello che
non è permesso?” - è la stupefacente constatazione della libertà di
Gesù dinanzi al sabato.
In Mc 4,41 - “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare
obbediscono?” - subito dopo la calma che segue alla tempesta, non può non sorgere
la questione sul potere di Gesù.
In Mc 5,7 - “Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo?”
- è nuovamente uno spirito immondo a suscitare la questione.
In Mc 6,2 - “E molti ascoltando rimanevano stupiti e dicevano: Da dove gli vengono
queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi
compiuti dalle sue mani?” - la domanda è sulla bocca di tutti.
In Mc 6,14 - “Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché intanto il
suo nome era diventato famoso” - è il re che, avendo sentito la vox populi, cerca
anche lui una risposta..
In Mc 7,37 - “E, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e
parlare i muti” - lo stupore già diviene lode.
Finalmente, in Mc 8,27, come già abbiamo visto, la domanda cresciuta e passata di bocca
in bocca, diviene la grande questione che Gesù stesso pone. Innanzitutto: “Chi
dice la gente che io sia?”, ma poi più direttamente: “E voi chi dite che io
sia?”
Non a caso, allora, era stata posta sin qui la domanda sull'identità del Cristo, ma
tutto questo interrogarsi era il preludio, sorretto e voluto dalla divina provvidenza,
finché Gesù stesso mostrasse che quella questione era l'unica necessaria!
Da tempo il pensiero umano aveva compreso che la capacità di lasciarsi interrogare
è la fonte che fa nascere la filosofia, la vera maturazione del pensiero –
Aristotele aveva detto che “la meraviglia è l'origine di ogni filosofia”,
poiché il pensiero non si chiarifica in un'autoreferenziale interrogazione continua, ma
nel rapporto alla res, alla realtà, che, per prima pone questione e
interroga.
Ma qui la res è l'incarnazione stessa del Figlio. Non c'è mai stato
stupore più grande che quello di trovarsi dinanzi all'opera compiuta di Dio e qui,
infine, dinanzi al compimento dell'opera compiuta da Dio, il dono di Gesù al mondo.
Un'espressione cara a mons. Luigi Giussani ci sovviene qui. “lo stupore di un
avvenimento”. La meraviglia dinanzi ad un evento, non ad un pensiero!
“Accade” la rivelazione, la presenza di Dio nella storia, e la risposta ad esso si
fa pensiero, comprensione, teologia.
Tutta la prima parte del vangelo provoca il lettore a riscoprire la giusta reazione dinanzi
alla manifestazione del Cristo. E' certo anche un invito ad approfondire la domanda, a non
bruciare le tappe nell'annuncio perché cresca fino in fondo la domanda e la risposta non
giunga prematura ad un interlocutore che non ha questione alcuna, ma è soprattutto
affermazione che, dinanzi al mistero della presenza del Figlio, solo lo stupore è
adeguato e l'indifferenza è già rifiuto.
Che siamo ad una svolta con la professione di fede di Pietro (sebbene, da un altro punto di vista, tutto sia già stato detto!) lo mostra anche il fatto che le tre grandi affermazioni cristologiche – Gesù è il Cristo, Gesù è il Figlio dell'uomo, Gesù è il Figlio – sono ora immediatamente una di seguito all'altra. Pietro confessa la prima, la messianicità di Gesù (Mc 8,27-30), Gesù parla della sua umiliazione e gloria di Figlio dell'uomo (8,31-9,1), il Padre annuncia il suo Figlio, nella Trasfigurazione (Mc 9,2-8). I tre annunzi si chiarificano l'uno con l'altro e si illuminano a vicenda. Saliamo da Pietro ed i discepoli, alla voce stessa di Gesù. alla proclamazione del Padre. Pietro professa la sua fede nel Cristo, Gesù inizia a parlare di sé, il Padre chiede che il Figlio sia ascoltato. Nel giro di pochi versetti - che dobbiamo leggere unitariamente (Mc 8, 27-9,8) - tutto ciò che si era dipanato, che si era svolto, è sintetizzato e posto sotto gli occhi dei discepoli.
Perché, allora, se tutto è già chiaro, la richiesta di
tacere? Perché se tutto è detto non è ancora il tempo dell'annunzio e
della diffusione del vangelo? Cosa aggiungerà il vangelo che ancora si deve sviluppare?
Ecco un elemento che ha attirato ed attira tuttora l'attenzione di chi si pone dinanzi al
vangelo di Marco. Perché questo insistere sul silenzio, da parte di Gesù, non
appena si raggiunge una affermazione chiave sulla sua identità?
Continua è l'insistenza su questo. E' vietato ai demoni di parlare di lui: in Mc 1,34
“Ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” ed in Mc
3,12 “Egli li sgridava severamente, perché non lo manifestassero”. E'
vietato alle persone guarite: in Mc 1,44 al lebbroso guarito, “Guarda di non dir niente a
nessuno, ma va', presentati al sacerdote...”, in Mc 5,43 ai parenti della figlia di
Giaìro, “Gesù ordinò loro con insistenza che nessuno venisse a
saperlo e ordinò di darle da mangiare”, in Mc 7,36 alla guarigione di un
sordomuto, “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo
raccomandava, più essi ne parlavano”, in Mc 8,26 al cieco di Betsaida, “E lo
rimandò a casa dicendo: Non entrare nemmeno nel villaggio”. E' vietato ai
discepoli: in Mc 8,30, alla professione di Pietro, “E impose loro severamente di non
parlare di lui a nessuno”, in Mc 9,9, dopo la Trasfigurazione, “Ordinò loro
di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto se non dopo che il Figlio dell'uomo
fosse resuscitato dai morti”.
Tre ipotesi avanzate ad interpretare questi passi sono state giustamente smascherate dalla
critica recente come profondi fraintendimenti.
La prima ha voluto vedere l'imperativo del silenzio sullo sfondo di una pretesa paura di
Gesù dinanzi al potere di allora, soprattutto quello romano, come se le sue parole
avrebbero potuto dare adito ad una persecuzione anzi tempo. Questa ipotesi è stata
giustamente rigettata perché, come vedremo più da vicino commentando
l'unità del Tempio, se mai Gesù avesse potuto avere soggettivamente paura del
potere – cosa che peraltro è da escludere – non ci sarebbe stato niente da
temere oggettivamente da parte della presenza romana in Giudea, perché anzi essa
sarà, fino all'avvento di Nerone, favorevole ai cristiani, per la giusta convinzione che
il messaggio di Gesù non si rivolgeva a promuovere sollevazione, disordine o violenza
nei confronti né della presenza occupante, né di chicchessia. La paura di un
rischio di una lettura politica del messaggio evangelico di Gesù è tale solo per
chi vuole dare proprio tale interpretazione del fatto cristiano. Ad una serrata analisi storica
si rivela invece una invenzione.
La seconda ipotesi, una delle critiche più feroci che siano state rivolte al
cristianesimo, è quella elaborata da W.Wrede, nel suo famoso volume, Das
Messiasgeheimnis in den Evangelien, zugleich ein Beitrag zum Verstaendnis des
Markusevangeliums, Gottinga, pubblicato nel 1901. L'espressione da lui adoperata nel titolo
della sua opera, Messiasgeheimnis, “il segreto messianico”, è divenuta
proverbiale proprio ad indicare il silenzio chiesto da Gesù, fino alla Pasqua. La tesi
di Wrede è che il “silenzio messianico” sia un fatto puramente redazionale,
senza alcun aggancio nella storia reale del Cristo. Poiché, secondo la sua impostazione,
Gesù non si riteneva Messia e mai si era sognato di parlare di ciò che ora la
comunità gli attribuiva. Ecco allora, secondo Wrede, la necessità per gli
apostoli che avevano inventato la sua messianicità di inventare anche questo comando di
Gesù di tacerla. Solo così dinanzi a coloro che avevano conosciuto Gesù e
mai lo avevano sentito parlare di identità messianica o divina, ma lo avevano conosciuto
solo come un maestro farisaico del tempo, gli apostoli avrebbero potuto sostenere che
Gesù aveva affermato di essere il Cristo: egli lo aveva detto solo a loro, solo ai
Dodici, ed aveva loro vietato di parlarne e per questo nessuno ne aveva saputo nulla, tranne
loro. l'accusa di Wrede è l'accusa infamante di una falsificazione neanche incosciente,
ma addirittura costruita a tavolino, in vista di un inganno perpetrato con intenzione.
La terza ipotesi è quella delle letture gnostiche del vangelo, ripresa in tempi moderni
dall'interpretazione di autori New Age. Essa pretenderebbe l'esistenza di un messaggio segreto
di Gesù, non rivelato al popolo, alla Chiesa, in via pubblica e manifesta. Quello che
gli apostoli avrebbero scritto nei vangeli sarebbe in realtà un adattamento popolare,
per venire incontro alle esigenze religiose della povera gente ignorante di allora. Quello che
la Chiesa annuncerebbe non sarebbe la vera dottrina di Gesù, ma una sua volgarizzazione
e banalizzazione, perché gli uomini di allora non erano in grado di penetrare
speculativamente la gnosi data dal maestro. Esisterebbe invece una dottrina di Gesù
orale, esoterica, rivolta solo ad iniziati, non resa pubblica nei testi della Bibbia, ma da
intuire in essi, rivelata in presunti insegnamenti orali e poi giunta a maestri non
appartenenti alla Chiesa.
In tutt'altra direzione ci porta, invece, una lettura del testo evangelico. Non è
ancora tempo di annuncio, perché mancano ancora la croce e la resurrezione di Cristo!
Senza l'accadere sconvolgente di questi due eventi, senza la partecipazione dei discepoli ad
essi, non solo tutto sarebbe passibile di fraintendimenti – un Messia solo vincitore e
non rifiutato ed ucciso! – ma, come vedremo, la sequela e l'annunzio non sarebbero mai
possibili, perché mancherebbe ancora la grazia e la salvezza.
“Ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non
dopo che il Figlio dell'uomo fosse resuscitato dai morti” (Mc 9, 9). E' il testo stesso
marciano, e non arbitrarie speculazioni, allora, a darci il profondo motivo di questa richiesta
provvisoria di silenzio (peraltro mai ascoltata, poiché tutti, nel testo, raccontano
ugualmente i miracoli e le parole di Gesù). Il silenzio ha un valore pedagogico
[8] . Senza l'esperienza della morte e della
resurrezione, gli apostoli ed i discepoli di Gesù, come coloro che lo avevano incontrato
ed erano da lui stati guariti, avrebbero necessariamente frainteso il vangelo, lo avrebbero
potuto leggere come un messaggio morale o come la promessa di un guaritore in terra, non
avrebbero mai potuto immaginare ciò che invece si compirà a Gerusalemme. Gli
apostoli debbono prima conoscere l'intero itinerario della persona di Gesù, penetrare
fino in fondo la realtà della sua presenza nel dono dello Spirito Santo, per poterlo poi
annunciare nella sua interezza a tutto il mondo. Ancora più esplicito è, in tal
senso, il testo della seconda istruzione di Gesù ai discepoli della passione:
“Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo
sapesse. Istruiva, infatti, i suoi discepoli e diceva che: “Il Figlio dell'uomo sta per
essere consegnato nelle mani degli uomini... ma una volta ucciso, dopo tre giorni,
resusciterà”. Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di
chiedergli spiegazioni” (Mc 9, 30-32).
Ecco che la sintesi cristologica del vangelo di Marco, nei versetti 8,27-9,8, si apre allo
sviluppo successivo. E' solo dalla confessione di Pietro in poi che comincia l'istruzione di
Gesù ai discepoli sulla realtà della croce e della resurrezione. Essi vengono
preparati ad esse. Solo l'avvenimento della Pasqua di Gesù li renderà capaci di
vivere e comprendere l'annuncio nella sua totalità. Nuovamente è l'evento della
persona di Gesù e non una dottrina, un pensiero, la via cristiana della salvezza!
L'esegesi ha correttamente individuato tre successivi discordi di
Gesù sulla sua morte e resurrezione. All'abituale espressione con cui vengono indicati
– “i tre annunzi della passione” – preferiamo “i tre
insegnamenti”, perché più fedele al testo stesso del vangelo che
così recita, al v. 8,31: “Allora Gesù cominciò ad insegnare
loro”. Il primo insegnamento è in Mc 8,31-32, il secondo in 9,31-32, il terzo in
10,32-34. “Insegnamento” sottolinea che Gesù, parlando di sé, come
maestro indica che la sua strada, la sua via, come subito vedremo, è anche la via di
ogni discepolo.
Le parole di Gesù sono, da ora in poi, dette con “parresia” (Mc 8,32
“Gesù faceva questo discorso con parresia, apertamente”), termine tecnico
neotestamentario che dice l'assoluta libertà di parlare dinanzi a tutti senza alcuna
maschera o finzione delle cose che riguardano Dio - “E con parresia Gesù diceva la
parola” (Mc 8,32) è la traduzione letterale del versetto. E' la preoccupazione
– questa sì, paura vera di Gesù, potremmo quasi dire - che i suoi discepoli
non vadano in profondità su quello che lui vuole dire. Per tre volte, in rapida
sequenza, incontriamo, nel primo insegnamento, il verbo “epitimao”,
“sgridare”. E' per primo Gesù che "sgridò" di non dirlo a nessuno
– proprio per essere certo che non ci fosse ingenuità o nascondimento sul fatto
della passione e della resurrezione che dovevano accadere. Ma subito dopo è Pietro che
lo sgridò (“Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo, a
sgridarlo”, Mc 8,31), perché troppo forte è la ripulsa dell'uomo verso il
mistero della Pasqua appena annunciato da Gesù. Ma è, infine, Gesù che
sgridò Pietro (“Egli voltatosi, e guardando i discepoli, rimproverò,
sgridò, Pietro dicendo: Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma
secondo gli uomini”, Mc 8,33, che, più letteralmente può essere tradotto
“dietro di me, Satana”, cioè, “mettiti alla mia sequela”). Fin
da questo primo dialogo è chiaro cosa sia in questione. Certo è ormai appurato
che Gesù è l'unico – non vi sarà altro Cristo, altro Figlio
dell'uomo, altro Figlio di Dio - ma per questo la sua via è quella che l'uomo si
aspetterebbe? L'annunzio della morte e della resurrezione è sorpresa che ferisce il
cuore dell'uomo che, con Pietro, la rifiuta immediatamente e non la ritiene consona alla
propria attesa. Certo Gesù è il Cristo, ma con ciò è già
chiaro che il suo modo di esserlo non sarà quello che l'uomo avrebbe scelto? O piuttosto
l'uomo resisterà al “modo” della sua vita e terrà a distanza
ciò che “non gli andrà giù” della via del Figlio dell'uomo?
Ma, poiché egli è l'Unico, va per questo accolto esattamente come è e non
come l'uomo vorrebbe che sia.
E' per questo che, dopo Mc 8,27-30, quando ormai è sotto gli occhi dei discepoli
l'identità di colui che seguono, la domanda muta.
Ora è in questione la sequela: quale è la sua via, quali le condizioni
dell'essere con lui. Le domande si fanno nuove. E' centrale da ora in poi la prospettiva:
qual'è la vita del discepolo? Essa sarà chiarita ultimamente solo quando si
realizzerà tutto l'itinerario del Cristo stesso, solo quando egli per primo
prenderà quella croce che poi anche il discepolo dovrà prendere, solo quando egli
risorgerà e nel suo nome saranno poi predicati la conversione ed il perdono dei peccati
a tutti gli uomini.
Gli insegnamenti pronunciati da Gesù, insieme ai fatti che avvengono nel cammino, sono
occasione di continui chiarimenti sulla via del Cristo e del suo discepolo.
Subito dopo il primo insegnamento sulla passione, dopo l'istruzione sulla vita di Gesù
che sta per essere persa a Gerusalemme, ecco le parole sulla vita di ogni discepolo che
sarà chiamato a perdere similmente la vita: “Se qualcuno vuol venire dietro a me,
rinneghi se stesso, prenda la propria croce e mi segua” (Mc 8,34). Il motivo è
subito dato: non perché ciò sia bello, non per amore masochistico della
sofferenza, ma perché la fede è vissuta in mezzo ad “una generazione
adultera e peccatrice” (Mc 8,38). La situazione è tale che l'uomo può
vivere il vangelo solo perdendo la vita. Basta non vergognarsi di Gesù e del vangelo e
la persecuzione non mancherà!
Ma insieme, proprio per questo – perché la croce non è amore della
sofferenza, ma è portare il peccato del mondo adultero e peccatore, se la testimonianza
di Dio lo richiede – la prospettiva della salvezza è subito posta dinanzi agli
occhi: “Il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo” (Mc 8,38). E'
nuovamente il Figlio del Padre suo! E' il Figlio che ha un Padre suo! E gli angeli sono i suoi
angeli! E' lui che giudicherà il mondo e farà giustizia dei suoi che sono stati
perseguitati fino a perdere la vita.
L'espressione “rinnegare” ha molto a che fare con il linguaggio giuridico, dove
significa “smettere di testimoniare a favore di qualcuno”. “Rinneghi se
stesso”, cioè smetta di testimoniare a favore di se stesso, smetta di difendere se
stesso.
“Prenda la sua croce” è chiaramente qui non una allusione alla semplice
presenza di una malattia o della debolezza corporea, ma alla croce che viene messa addosso dal
nemico della fede cristiana, da colui che ha in odio la presenza cristiana nel mondo.
“Mi segua”: è azione continuativa, che si dispiega nel tempo. Nella sequela
tutto è detto. Il discepolo non dice al Signore: “Dimmi prima cosa vuoi da
me” e poi ti dirò se sono disposto a seguirti. Piuttosto afferma: “Chiedi
ciò che vuoi, indica la strada, sia fatta la tua volontà, perché ogni tua
chiamata è bene!”.
Subito dopo il secondo insegnamento sulla passione, alcuni fatti sono occasione per
chiarificare la realtà del discepolato. Per via gli apostoli discutono su chi sia il
più grande, ma dinanzi a Gesù tacciono ed egli insegna che il più grande
è l'ultimo di tutti ed il servo di tutti. Subito dopo Giovanni vorrebbe fermare chi
“non è dei nostri”, ma Gesù risponde che nessuno che fa miracoli nel
suo nome, può poi parlar male di lui. Dopo un accenno alla ricompensa di chi da anche
solo un bicchiere d'acqua a chi è discepolo e perché è discepolo, seguono
le parole sul non essere occasione di scandalo, motivo di inciampo.
E' in questo contesto della sequela che incontriamo, intervallate dai detti sull'essere
bambini, due insegnamenti sull'indissolubilità del matrimonio e sulla chiamata del
Signore a lasciare tutto per la sequela, nell'episodio del giovane ricco, con la conclusione
sul pericolo delle ricchezze e sulla ricompensa promessa alla rinuncia. In parallelo la
proposta del matrimonio e quella dell'abbandono di tutto ci appaiono nella loro
radicalità, proprio in questo contesto che esplicita le conseguenze dell'identità
del Cristo.
Dopo i versetti che, per la terza volta, spiegano ai discepoli quello che sarebbe accaduto a
Gerusalemme, ecco l'episodio dei figli di Zebedeo, che chiedono gloria e potere e debbono
imparare il servizio.
Infine l'ultimo episodio del cammino prima di giungere a Gerusalemme, la guarigione del cieco
di Gerico. Gesù è circondato dai discepoli, immagine della Chiesa. Mentre essi
sembrano rendere più difficile, ostacolare, l'incontro fra il cieco e Gesù, egli
non cerca un contatto diretto con Bartimeo, non li invita a farsi da parte, ma anzi domanda
loro di farsi mediatori, perché il cieco possa essere chiamato e presentarsi dinanzi a
lui, figura della presenza necessaria della Chiesa cosciente del suo essere stata voluta
perché il mondo possa conoscere ed accogliere l'evangelo, perché ogni uomo sia
incoraggiato a presentarsi, per la Chiesa, al Cristo.
Di grande utilità, per lo studio e la comprensione del vangelo di
Marco, è l'individuazione di unità più ampie dei singoli episodi e
brani.
Le pericopi contenute in Mc 4,1-34 sono, a ragione, unanimemente considerate una unità
legata dal linguaggio parabolico e dal tema del Regno. Ne acquista profondità
innanzitutto la percezione del motivo per cui Gesù le usa: non si tratta, infatti, di
concessione o facilitazione per venire incontro all'uomo ritenuto infantilmente incapace di
concetti, né di desiderio ante litteram, in anticipo sui media moderni di
uso privilegiato dell'immagine, bensì di provocazione rivolta all'uomo perché
divenga discepolo, coltivando un rapporto stretto con il Maestro, decidendosi a stargli vicino
per interrogarlo a “tu per tu” per essere istruito appieno sul senso delle parabole
[9] . Esse manifestano poi più
compiutamente, non separate le une dalle altre, il loro significato di parole sul
“mistero del regno” già presente in Cristo e nella Chiesa.
Le pericopi di Mc 13,1-37, pronunciate da Gesù seduto sul monte degli Ulivi, di fronte
al Tempio, più o meno dove ora si trova la basilica dell'Eleona, ci istruiscono, invece,
sulla dimensione escatologica della fede cristiana.
Un'altra unità è di decisiva importanza nella comprensione di Marco, ma è
spesso sottaciuta, se non addirittura misconosciuta. I testi racchiusi in Mc 11,11-12,44 hanno
una profonda e significativa unità di luogo – tutto si apre con “Ed
entrò a Gerusalemme nel Tempio”, v. 11,11, e si chiude con “Mentre usciva
dal Tempio”, v. 13,1 – ma, soprattutto, una sorprendente progressione lega un brano
all'altro, come stiamo per vedere.
In Mc 11,11, l'unico luogo che sembra interessare Gesù, a Gerusalemme, è proprio
il Tempio (e questo ben prima del vangelo di Luca che, come sappiamo, lo ha come punto di
riferimento costante). Le due azioni sembrano addirittura coincidere: Gesù entra a
Gerusalemme e Gesù entra nel Tempio. Immediata segue una frase solo apparentemente
misteriosa: “Dopo aver guardato ogni cosa attorno, uscì”.
Soffermiamoci un istante a riflettere sul significato della presenza del Tempio nell'Antica e
nella Nuova Alleanza, con l'aiuto delle meditazioni che d.Umberto Neri pronunziò nel
pellegrinaggio dei preti e seminaristi di Roma, in Terra Santa nel 1990 [10] :
La questione dei templi: per capire il ruolo del tempio nella tradizione
di Israele occorre un attimo ricomprendere tutta l'antropologia e tutta la teologia di Israele,
quindi ricondursi all'idea originaria. Mi baso sui testi della tradizione rabbinica,
evidentemente, per questo, ma la Scrittura li legittima totalmente. Corrispondono questi testi
ad una lettura oggettiva dell'Antico Testamento, almeno nello stato attuale in cui noi ce lo
troviamo fra le mani.
L'uomo è stato creato come essere colloquiante con Dio. Colloquiante con Dio! E il
paradiso è il luogo di questo colloquio con Dio. Colloquio con Dio! E la cacciata dal
paradiso, più che come in una lettura squalificata dal punto di vista teologico e
spirituale spesso fatta fra di noi, vista come grave di conseguenze per il faticare dell'uomo,
per la sua stessa morte, è vista come la catastrofe in quanto allontanante dal luogo
dell'incontro personale con Dio. La restitutio quindi dell'uomo, la redenzione dell'uomo,
dell'umanità, la storia della salvezza si disegna tutta come un ritorno al luogo della
“communio” con Dio, della comunione edenica… Ci sono dei testi numerosissimi
nei quali si parla delle diverse generazioni che si succedono alla prima generazione, quella di
Adamo, come generazione nella quale la Shekinah si allontana di un gradino, poi di un altro,
poi di un altro, fino al punto supremo dell'allontanamento che è costituito dalla
generazione della separazione, della dispersione, la generazione della Torre di Babele,
l'ultimo grado di separazione. E poi i riavvicinamenti progressivi che iniziano con la storia
di Abramo. La storia di Abramo è la storia del ritorno, dunque di questo riabbassarsi
della Shekinah, della dimora della Gloria di Dio, al livello dell'uomo, in modo da riavvolgere
l'uomo e ricomprenderlo nella “communio”. Questo è il discorso. Quindi il
viaggio di Abramo verso la terra che Dio gli indicherà, è il viaggio con cui
Abramo inizia la riconduzione dell'uomo alla “communio” con Dio. E' per questo che,
arrivato nella terra - “questa è la terra” - comincia subito a costruire
degli altari. Non è soltanto una presa di possesso, ma è la qualifica della terra
come il luogo nel quale si può ritrovare il colloquio con Dio e dal quale è
legittimo innalzare a Dio la supplica e nel quale è giustificato attendere da parte di
Dio la benedizione. La costruzione degli altari, della quale si parla al cap. 12 della Genesi,
che è quello che racconta della vocazione di Abramo, è a questo riguardo
estremamente significativa: è uno degli elementi capitali di tutta la storia della
salvezza in realtà...
Il Tempio, diversamente dal Tempio messianico, finale, non è propriamente il luogo -
precisa la Scrittura - dell'abitazione di Dio. Il testo, a questo riguardo molto significativo
e probante, è il testo del cap. VIII, versetto 27, del I libro dei Re, che pone il
problema teologico: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i
cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito”.
Quindi Dio non abita - lo dice espressamente - non abita! Non intendetelo così - e qui
si differenzia oltre tutto da tutte le religioni circostanti che hanno la cella del Dio. Il
Tempio di Israele non ha la cella dell'abitazione. Il Santo dei Santi non è il luogo
dell'abitazione. E' interessantissimo! Non soltanto nel cap. VII degli Atti degli Apostoli, nel
grande discorso di Stefano, che mette in crisi una certa teologia del Tempio costruita al di
fuori del solco biblico, e quindi illegittima. Stefano non fa che ricuperare i testi
veterotestamentari più autentici smontando la teologia del Tempio da sovrastrutture che
si erano fatte e che non erano adeguate. “Forse che Dio abita in un tempio
manufatto?” Niente affatto! Non è Stefano il primo a dirlo, sarebbe un eretico se
contraddicesse la Scrittura. Non contraddice la Scrittura, rispecchia la teologia espressa
chiaramente, in modo formale, nel primo libro dei Re...
Certo che il Tempio non è il luogo dell'abitazione, ma è il luogo sul quale
si posa lo sguardo di Dio e dal quale sale a Dio la preghiera. E tutto il testo che segue
è un unico sviluppo di questa idea. “Volgiti alla preghiera del tuo servo e alla
sua supplica, Signore mio Dio, ascolta il grido e la preghiera che il tuo servo oggi innalza
davanti a te”. E allora che cos'è? “Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno
verso questo casa, verso il luogo di cui hai detto: Là sarà il mio nome. Ascolta
la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo”. Allora il rapporto è
chiaro. Dio guarda questo luogo, questo luogo è il luogo dal quale si innalza la
supplica. E tutto il resto che segue nel testo è la spiegazione dettagliata di questa
categoria e quindi lo ribadisce in ogni sezione: “Ascolta la supplica del tuo servo e
d'Israele tuo popolo quando pregheranno in questo luogo, ascoltali dal luogo della tua dimora,
dal cielo, ascolta e perdona”. Allora è chiaro! Non vi sono più dubbi, il
luogo della dimora è il cielo – “Tu ascolta dal cielo, quando ti pregano in
questo luogo”... Addirittura quando sono in esilio, quando pregheranno volti verso quel
luogo e si rapporteranno a quel luogo perché quello è il sacramento, è il
luogo sacramentale. Capite che purezza. E' una cosa straordinaria, divina – divina! - uno
dei tanti casi nei quali si verifica la divinità della Scrittura, in un certo senso, in
modo oggettivo, intrinseco, divino, incredibile, unico, raffinatissimo.
Gesù “guardando ogni cosa intorno”, manifesta di essere
il vero responsabile di ogni rapporto sacramentale con Dio. Egli è il signore del
Tempio, è colui che viene a prenderne possesso, è colui che ha il diritto sul
quel luogo, perché ne ha la potestà sacramentale!
Ed ecco che il giorno dopo, nuovamente, incorniciato dall'episodio del fico sterile,
Gesù torna a Gerusalemme e di nuovo l'unico luogo menzionato è il Tempio:
nient'altro gli interessa, ma attraverso quell'interesse è in gioco tutto il rapporto di
Dio con gli uomini! Dopo “aver visto ogni cosa” il primo giorno, nel secondo
avviene l'espulsione di chi non ha più diritto di stare. E' il secondo ingresso, al v.
11,15, nel Tempio. Marco sottolinea che non vengono cacciati da Gesù solo i
“venditori” di oggetti, ma anche i “compratori” e chiunque
“portasse cose attraverso il Tempio”! E' la manifestazione non tanto della malizia
morale di chi guadagnava sulle offerte, ma della fine, del compimento di un modo di vivere il
dialogo con Dio. Dio manifesta che il suo amore non si può acquistare! Che il
trasportare cose in suo nome, non è motivo della comunione fra l'uomo e Dio. Viene il
momento in cui l'unico sacrificio gradito a Dio è la vita del suo stesso Figlio, Figlio
offerto e non acquistato, da accogliere e non da costruire.
Marco, con le sue sottolineature, ci manifesta l'unitaria comprensione della Chiesa apostolica
nei confronti della realtà di Cristo, nuovo Tempio. Citiamo ancora d.Umberto Neri:
Il testo a questo riguardo più significativo, che però ha degli elementi altrove inconfutabilmente corretti, corrispondenti, è il capitolo II del Vangelo di Giovanni, dove Gesù dice, dopo avere scacciato i venditori dal tempio: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro”. Non per protestare contro lo sfruttamento dei poveri. Non ha motivo per protestare contro le classi abbienti che sfruttavano i poveri facendo fare loro offerte al Tempio – ecco allora commentari che parlano in questo modo di un Gesù come riformatore sociale che scaccia i creditori dal tempio! Non si possono dire cose di questo genere - credo che anche a lui interessasse che i poveri non fossero sfruttati. Ma non lo fa certamente per quello! Lo fa per dichiarare finita ormai la liturgia, con un gesto profetico, la liturgia del Tempio! E' sostanzialmente conclusa. Conclusa perché? La giustificazione è data dopo. “Quale segno fai per scacciare questi venditori e per ripulire il Tempio in modo che non si possano fare più sacrifici, non ci sono più animali, venditori, tutto questo ordine di celebrazioni non c'è più?” La giustificazione: “Distruggete questo Tempio ed io in tre giorni ne riedificherò un altro e uno nuovo e non manufatto”. E i discepoli non capirono, ma capirono soltanto dopo che alludeva al Tempio del suo corpo. Allora il nuovo Tempio! Il Tempio non è distrutto, il Tempio è sostituito. Nessuna delle realtà dell'Antico Testamento è distrutta, sono tutte sostituite Tutte sostituite, tutti i sacramenta “veteris Legis” sono ripresi nei sacramenti “novae Legis” altrimenti sarebbe un impoverimento colossale invece non è così. Tutto, tutto! E il Tempio stesso è ripreso perché c'è un luogo solo donde salgono a Dio le preghiere gradite, l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'unico luogo sul quale è aperto il cielo, l'unico luogo sul quale si posa lo sguardo compiaciuto di Dio, il luogo anzi in cui dimora corporalmente la pienezza della divinità che è il corpo del Cristo. Il corpo del Cristo è il nuovo Tempio. Ugualmente essenziale quanto l'antico, anzi ancor più essenziale, perché nessuna preghiera può innalzarsi a Dio se non “per Dominum nostrum Jesum Christum”, Tempio. E questo nuovo Tempio è il Tempio messianico, è il corpo stesso glorificato del Cristo, verificato come Tempio nuovo anche da ciò che Giovanni per esempio fa osservare sull'acqua che scaturisce dal fianco trafitto del Cristo, che è l'acqua che sgorga dal lato destro del tempio di Ezechiele, il Tempio messianico, ed è l'acqua del sacrificio che sgorga continuamente dal Tempio, come già in Zaccaria 12–13.
Ciò che Giovanni, il contemplativo, esplicita, Marco esprime a suo
modo, ma con identico significato, perché è il senso stesso dell'esistenza di
Gesù Cristo. Il tempo di quel Tempio è ormai terminato, anche se quel Tempio,
fino all'anno 70, l'anno della distruzione, resterà in attività.
Segue subito dopo la splendida pericope di Mc 11,27-33. E' il terzo giorno, ed è la
terza volta che Gesù va diritto al Tempio e “si aggirava” in esso. Non solo
ne ha cacciato gli altri, ma egli vi “resta”. E' il suo luogo, è il
“suo” Tempio. Chi cerca Dio deve ora passare attraverso di Lui. Subito “i
sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani” si accorgono – a differenza di
commentatori moderni! – che Gesù sta affermando la sua
“autorità”, che Gesù sta chiedendo che sia riconosciuto il suo essere
da Dio.
“Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di
farlo?”. Come puoi dichiarare decaduto ciò che Dio ha stabilito?
Gesù, con la sua ironia finissima, volta non a condannare, ma a creare occasioni
perché l'uomo possa essere salvato – qualunque uomo, anche chi lo vuole morto!
– non risponde, ma interroga. “Vi farò anch'io una domanda!”. E' Dio
che mette in questione le vie dell'uomo e non viceversa.
“Giovanni il Battista da chi veniva: dal cielo – cioè Dio lo aveva inviato
e bisognava prenderlo perciò sul serio e divenire suoi discepoli – o dagli uomini
– era cioè un suo pallino, una sua idea ed iniziativa, interessante come tante, ma
niente di più?” La risposta “Non lo sappiamo” non è una reale
confessione di ignoranza, di non conoscenza umile ammessa dopo una ricerca piena di
disponibilità alla conversione, ma è un calcolo di chi, messo alle strette, con
le spalle al muro, sa che è comunque in torto. Un calcolo che non vuole né
ammettere che Giovanni fosse uno dei tanti, perché il popolo, la “vox Dei”,
non avrebbe tollerato questa incomprensione del martire e testimone di Dio, Giovanni, e della
verità divina della sua parola, né pronunziarsi sulla reale missione a lui
affidata da Dio, poiché da troppo disinteresse e indifferenza era stata accolta la sua
voce. Gesù comprende allora che i suoi interlocutori pongono domande non in vista della
verità, non come cercatori della via di Dio, ma come persone che difendono solo il loro
punto di vista.
“Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose!”. Espressione
non di chiusura, ma densa di serietà, di amore, di invito alla conversione, per poter
arrivare a porre la domanda su quale sia l'autorità di Gesù e la sua origine, con
spirito di verità.
Ed ecco che Gesù inizia a parlare in parabole. La prima è di una importanza
straordinaria, come già abbiamo visto, cercando di penetrare il titolo di “Figlio
di Dio”. E' la verità di tutto ciò che sta avvenendo sulla spianata del
Tempio, è ciò che Gesù più vuole sia accolto e compreso.
L'accento non è tanto sul fatto che la vigna – il popolo, quel Tempio, la vita
umana stessa – non è proprietà degli uomini, che anzi hanno ricevuto tutto
solo in affidamento e ne debbono rendere conto, ma, soprattutto sul fatto che al Padre era
rimasto ormai solo uno, il Figlio prediletto [11] ! Tanti servi, tanti inviati, giudici e re, messaggeri e profeti
– e fra essi anche Giovanni il Battista – aveva mandato alla sua vigna. Ma, da
ultimo, aveva deciso di inviare il suo Unico e prediletto Figlio. “Avranno rispetto per
mio figlio”, si era detto fra sé! Ecco la chiara coscienza della identità
di Gesù che sa di essere assolutamente diverso da tutti coloro che il Padre ha inviato
prima di Lui. Ecco l'origine della sua autorità, affermata, certo, in modo parabolico,
ma, come in ogni parabola, lo stesso assolutamente evidente e certa!
E' l'annunzio del contenuto della fede. Se anche nessuno la vivesse, essa resta la
verità. Non è perché Gesù è accolto che diviene il Figlio.
Egli è il Figlio, anche se tutti lo buttassero fuori dalla sua vigna. L'uomo, a volte,
ha come paura della verità, pensa che essa possa poi rivelarsi una costrizione, un
legaccio, un impedimento. E', in realtà, vero l'opposto. E' proprio nell'assenza della
verità che l'uomo vive nell'arbitrio e diviene dittatore o servo ed il messaggio
dell'evangelo si annacqua in seduzione, confezione di prodotto suadente, gadget, simpatia
superficiale che cerca di conquistare l'uomo. La verità sola crea quella distanza, quel
distacco che ti obbliga a riflettere, a decidere. La verità precede, viene prima
dell'adesione dell'uomo. La pericope si conclude con la constatazione. “Avevano capito
che aveva detto quella parabola contro di loro”. E' una parola detta al cuore
dell'ascoltatore. Ma non è poi questa l'opera dell'amore: appellarsi alla libertà
dell'altro perché possa vedere la verità sua e della realtà?
Ma essi, “lasciatolo, se ne andarono”.
Seguono tre questioni, la prima rivolta da farisei ed erodiani, la seconda
dai sadducei, la terza da uno scriba che lo aveva visto ben rispondere a tutti. Gesù
è ancora interrogato, ma solo dall'ultimo interlocutore con un reale desiderio di
capire. Alla fine dei tre incontri, “nessuno avrà più il coraggio di
interrogarlo” (Mc 12, 34) e sarà Lui stesso a poter finalmente chiedere. E
sarà la questione più importante!
La prima domanda è posta dai farisei e dagli erodiani [12] e riguarda il tributo, la tassa, che i romani richiedevano.
E' un interesse – il testo lo dice subito – non volto al problema in sé, ma
“a coglierlo in fallo nel discorso”. Tanti sono i motivi perché l'uomo
domanda all'uomo. Può avvenire per imparare e per crescere veramente. Può
avvenire “pour parler”, “tanto per”, per ammazzare il tempo. Si
può chiedere solo per mettersi in mostra, per apparire e farsi notare. Ma si può
interrogare solo per far svelare le carte all'altro ed avere così materiale per
distruggerlo. Si può voler sapere solo per vedere dove l'altro sbaglia e poterlo
così meglio diffamare . Ma qui il questionato è il Figlio stesso di Dio!
La risposta del Signore mostra non tanto che è bene pagare le tasse (a questo
penserà S.Paolo insegnando il doveroso ossequio a chi è preposto al bene comune
nello Stato), quanto piuttosto il fatto che i suoi interlocutori – ed ogni uomo – a
tutto e a tutti si piegano, ma non alla verità e a Dio. La risposta “Date a Cesare
quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, segnala che essi
già obbediscono a Cesare, già fanno uso di ciò che è suo,
già hanno accettato la relazione con lui e le sue regole, già a lui obbediscono
[13] . Ma – ed è qui il centro
della questione – perché non fanno altrettanto con Dio, perché non rendono
conto a Dio, perché non gli obbediscono? Dio è Signore ben più importante
di Cesare, eppure di Cesare accettano la presenza, di Dio rifiutano il Figlio!
La seconda questione, che segue immediatamente, è posta dai Sadducei ed è
relativa alla resurrezione dei morti. L'attesa della resurrezione era ed è patrimonio
dell'ebraismo, ma non era condivisa da tutte le correnti di allora.
Il problema posto è sì posto capziosamente, ma è anche problema reale.
Con termini moderni, potremmo domandare: un vedovo risposato avrà due mogli
nell'eternità? Altre religioni tuttora, concependo l'eternità come
continuità assoluta con il tempo presente, possono discutere sul numero di donne che
ognuno avrà in sorte nel mondo a venire. Qui il problema è posto secondo la
prospettiva propria della legge del levirato che, in nome dell'esigenza biblica che sia
trasmesso il nome di ogni famiglia, chiede al fratello di un marito morto senza aver prima
generato gigli, di sposare la di lui moglie per avere un figlio che continui la discendenza
[14] . Il caso proposto a Gesù è
l'ipotesi che questo sia avvenuto per sette fratelli. Tutti e sette obbedienti alla legge del
levirato e tutti senza un figlio. Chi dei sette avrà, nell'eternità, la donna che
tutti e sette hanno sposato? La risposta dei Sadducei è implicita: nessuno. Il caso
presentato è prova sufficiente a dire che non esiste vita eterna.
Ma non è questo il pensiero di Gesù e la verità di Dio! “Voi siete
in grande errore!” A dispetto dell'antico e moderno atteggiamento di chi ritiene che la
questione della vita eterna non sia in realtà decisiva nella comprensione della vera
fede, il Signore anatematizza il “grande” errore dei Sadducei. E ne fornisce i
motivi.
Innanzitutto nella vita eterna non esiste matrimonio, “ma saranno come angeli nei
cieli”.
La fede cristiana ha scoperto, a partire dall'incontro con il Cristo, tre differenti
espressioni che corrispondono a tre accezioni della parola “tempo”, che sono di
un'importanza grandissima.
C'è il “chronos” che è il tempo che scorre. Noi siamo nell'anno 2004
del chronos (del tempo che scorre).
All'interno di questo tempo che va continuamente avanti c'è un altro tempo che il Nuovo
Testamento chiama il “kairos”. Kairos è il “momento opportuno”,
potremmo dire “la grande occasione”. Noi usiamo questa espressione per i saldi di
un esercizio commerciale. I giovani la usano quando gli scappa un possibile partner -
“ogni lasciata è persa”. Il Nuovo Testamento sa che
“l'occasione” è l'incontro con il Cristo. Il tempo non è sempre
uguale a se stesso. Il tempo sempre scorre, ma c'è un momento, un tempo di questa vita
che fluisce, che è decisivo e non deve essere mancato: “oggi” tu devi
entrare nella “salvezza”, “ora” Cristo e la Chiesa ti chiamano a
diventare cristiano. E' il treno che non devi perdere, quell'appuntamento decisivo che apre il
tuo tempo a credere all'incarnazione di Cristo ed all'annuncio della Chiesa che porta Cristo
nella tua vita.
La terza espressione fondamentale per comprendere cos'è il tempo, è la
“Parusia”, una parola che la Tradizione della Chiesa ci chiede di imparare ad
usare. Parliamo troppo poco della parusia, della seconda venuta di Gesù nella gloria,
dell'incontro definitivo con Lui, del giudizio finale e del perdono donato dalla sua comunione
[15] . Quando il tempo finirà? Non
quando si esaurirà il chronos, quando ad un certo punto la Terra tornerà ad
essere un globo di fuoco e morirà tutta la vita. No! Il tempo finirà quando -
parusia viene dal greco “pareimi” che può essere tradotto sia con
“essere presente” sia con “arrivare” – Cristo verrà nella
gloria. Sarà la venuta - e la presenza rivelata pienamente - di Cristo. Qui trae origine
la presenza monastica nella Chiesa - ma ogni cristiano deve avere questo nella memoria della
sua vita. La presenza monastica ha la vocazione di ricordare sempre al mondo da un lato che
“oggi” è il tempo della salvezza, del kairos, dall'altro che questa terra
è destinata a finire. E non semplicemente perché viene consumata dal chronos, dal
tempo, ma perché Cristo la verrà a rinnovare completamente e tutto ciò che
non ha a che fare con Cristo verrà eliminato e tutto ciò che ha a che fare con
Lui resterà. E' per questo ricordo della venuta ultima, delle nozze escatologiche, che
nasce il monachesimo.
Rispondendo ai Sadducei, Gesù invita a vivere nella prospettiva del tempo della
parusia, che sarà diverso, che non sarà mera continuazione dell'attuale:
“Quando resusciteranno dai morti non prenderanno moglie, né marito”. Egli
invita a vivere l'attesa escatologica, l'attesa degli ultimi tempi (“eschaton”
significa “la realtà ultima”) con l'annuncio cristiano che vi è
contenuto. Il cuore degli ultimi tempi è la venuta di Gesù. E' tema tabù
del pensiero moderno. L'uomo, a volte senza avere coraggio di dirlo, può, tragicamente,
vivere senza attesa di vita eterna, può non credere nel paradiso. Così facendo,
distruggono però anche la sua fede. La vita sarà allora giudicata unicamente in
base a ciò che uno fa o sbaglia, a ciò che si costruisce o non si riesce a
costruire. Nel Cristianesimo è, invece, desta l'attesa di un'opera più grande di
quella dell'uomo, la seconda venuta di Cristo.
Una è la parusia, la sua venuta ultima, evento sconvolgente e meraviglioso, molti gli
aspetti che derivano: la Resurrezione dei morti, la vita eterna, il perdono, la comunione con
il Padre.
L'uomo non cristiano vede solo il chronos, il fluire del tempo sempre uguale o sempre diverso.
Il credente annuncia la relazione decisiva tra il tempo dell'uomo e la venuta di Cristo. La
presenza dei monaci, dei religiosi, nella Chiesa, è la testimonianza di coloro che non
vivono il matrimonio non tanto per essere più disponibili per gli altri - non è
questa la cosa decisiva - ma soprattutto per essere segno per quelli che sono sposati
dell'attesa della vita eterna, quando l'opera dell'uomo in questa terra sarà
“trasfigurata”.
Ecco perché il celibato è così diverso dal moderno essere
“single” – mai uno “scapolo” è un “celibe” o
una “zitella” è una “vergine” – nascendo non da un
rifiuto, ma da una vocazione a testimoniare che la parusia è alle porte, poiché
il tempo è compiuto ed il Signore è giunto. E presto tornerà. Ed il suo
amore basterà. Tanto più necessario è questo annunzio in un tempo che
sembra credere che l'unico amore che esiste, l'unico che basta e l'unico atteso dalla nostra
vita, è quello fra un fidanzato e la sua ragazza. La Santa Madre Chiesa, con la presenza
dei celibi e delle vergini, continua a rispondere alla domanda superficiale sul perché i
preti ed i religiosi non si sposino, con l'opposta domanda: “Come è possibile che
l'uomo continui a non cercare l'amore di Dio ed, in Lui, del fratello, l'amore che solo basta e
che solo resterà?”
Il grande annuncio implicito nella risposta al secondo quesito posto al Tempio è che
esiste una dignità altissima: quella dello stato della vergine e del celibe che è
“più perfetto” dello stato dello sposato perché anticipa già
in questa terra quello che poi tutti vivranno, in qualche modo, nel mistero del Paradiso.
La Chiesa proclamerà nel Concilio di Trento, con pronunciamento magisteriale, che lo
stato del matrimonio, da un lato, e quello del celibato e della verginità cristiana,
dall'altro, non sono uguali oggettivamente: “Se qualcuno dirà che il matrimonio
è da preferirsi alla verginità o al celibato e che non è cosa migliore e
più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio, sia
anatema” (Sessione XIV, canone 10 sul sacramento del matrimonio).
Questo resta vero anche se ognuno ha, a livello soggettivo, la sua vocazione e non può
seguire quella di un altro, ma la sua perfezione personale è quella della sua vocazione
– e, da questo punto di vista, ogni stato di vita è espressione di amore perfetto
e totale [16] .
Ma la risposta di Gesù, va ancora più oltre: “Non avete letto nel libro di
Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe?” E' l'annuncio di una profonda trasformazione dell'idea
di permanenza immortale dell'anima. Essa non viene negata, ma ciò che è
sottolineato e balza in evidenza è che è per la volontà di Dio – e
per la comunione con Lui – che i morti non sono morti, ma viventi: “Non è un
Dio dei morti, ma dei viventi”. La fede cristiana comprende in questo annuncio la
realtà del Paradiso come stato eterno di chi vive in comunione con Dio. Non è
mera sopravvivenza dell'anima la vita eterna, ma la gioia dell'essere con il Dio dei viventi.
Corrispettivamente l'Inferno è la condizione – possibile certamente, ma
così terribile che la Chiesa continuamente prega che la bontà di Dio salvi ogni
uomo da essa – di chi si è talmente chiuso all'amore di Dio, al suo perdono, alla
sua misericordia, da non essere più raggiunto da Dio e vivente perciò eternamente
in una situazione di totale solitudine e gelo – è straordinaria in ciò la
comprensione dantesca dell'apice della situazione infernale come del ghiaccio dove nessun
calore spirituale arriva. E, similmente, la realtà transitoria del Purgatorio, che
è già condizione irreversibile di salvezza e non semplice stadio intermedio da
cui sia possibile decadere, è data proprio dalla nudità del presentarsi
dell'uomo, con il bene compiuto, ma anche con il peccato ormai scoperto, alla presenza del Dio
dei viventi: totale esposizione dell'uomo al Signore, dinanzi all'amore del quale la creatura
umana sente la sofferenza di non aver corrisposto in pienezza a tanto dono, ma sente, insieme,
già come l'abbraccio di quel dono la purifichi per la piena comunione [17] .
La terza questione – è una progressione, siamo chiaramente in una unità
letteraria e tematica – è posta questa volta da un singolo, da uno scriba che
aveva “visto come aveva loro ben risposto” (Mc 12,28). Incontriamo di nuovo
l'importanza della parola. Gesù convince, nel suo spiegare, conquista, annuncia la
verità. E le parole pronunciate al Tempio si dimostrano parole di salvezza, non solo di
difesa o di schermaglia. Permettono ancora a nuove persone di raggiungere il Cristo.
La domanda dello scriba è espressione di un desiderio di sintesi. L'uomo che vive a
volte disarticolato e disperso in mille rivoli domanda unità alla sua vita ed alla sua
fede: “Qual'è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12,28).
Gesù accetta la domanda! I comandamenti sono tanti, ma debbono essere non solo
riconducibili, ma addirittura sottoposti ad un principio superiore che dia loro anima e senso.
B.Pascal si è meravigliosamente espresso in questo senso, secondo la nota espressione,
ripresa da H.U.von Balthasar nella citazione iniziale di Solo l'amore è credibile:
“Tutto ciò che non va diritto alla carità è figura. L'unico oggetto
della Scrittura è la carità”. Qui siamo veramente dinanzi alla suprema
sintesi del cristianesimo. Non ogni comando ha lo stesso valore; i comandamenti non sono
ugualmente importanti. Esiste un centro ed è da questo che tutto va interpretato
[18] . Senza questa sintesi l'uomo vivrebbe
frammentato nell'osservanza di tante singole prescrizioni [19] . Inoltre non saprebbe spesso decidere quale è l'eccezione che
deve essere presa in considerazione e quale, invece, la costante che non può essere
trascurata. D'altro canto ogni sintesi ha bisogno poi di analisi – condizione per non
banalizzare ed impoverire la serietà della sintesi. Il supremo comandamento si
rivelerebbe vuoto se non accettasse poi di scomporsi in un prisma infinito di comandamenti
particolari e determinati che rendono realtà concreta per ogni istante ciò che
è annunciato ed enunciato nel momento sintetico. Senza questa risposta del Signore
l'uomo correrebbe sempre, da un lato, il rischio di divenire schiavo di infiniti moniti oppure,
all'opposto, di avere una norma astratta, assolutamente generale e diffidente dal
concretizzarsi in tutte le dimensioni che la morale cattolica ha saputo, invece, evidenziare ed
esplicitare.
“Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore”: non solo Dio
è uno ed unico ed è il nostro Dio che si offre al nostro ascolto – dice la
risposta di Gesù – ma egli può e deve essere amato! “Amerai dunque il
Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”.
Subito è bloccata la strada ad una interpretazione del comandamento dell'amore che si
indirizzi direttamente al fratello! Dio chiede di essere amato. Lo chiede perché questo
è il destino e l'altissima vocazione dell'uomo. Come ha insegnato S.Ignazio di Loyola,
l'uomo è stato creato per lodare Dio, ad maiorem Dei gloriam , e perderebbe la
sua felicità se non ritrovasse la comunione con lui, nella possibilità di amarlo
e lodarlo. La filosofia contemporanea ha riscoperto la dimensione del “tu”. L'uomo
non si trova dinanzi ad oggetti, ma dinanzi a persone umane, e solo quando è da esse
chiamato, appellato, impara il proprio nome, acquista coscienza di essere – questa
è l'esperienza originaria di ogni bambino in questa terra che, amato, impara
l'esistenza. Senza il “tu” non esiste neanche l' “io”. E questa origine
diviene poi “responsabilità”, risposta alla domanda che la presenza
dell'altro suscita. Pure questi interessantissimi sviluppi sono da integrare a partire dal
comandamento dell'amore assoluto a Dio. Non primariamente l'uomo ama il suo simile, ma un terzo
è il riferimento e l'origine. Senza la grazia del Padre che fa piovere sui giusti e
sugli ingiusti e fa altrettanto con il sorgere del suo sole (e senza il sacrificio della croce
per i peccati del mondo, che ripete l'amore del Padre) ogni uomo si troverebbe dinanzi al suo
simile con il rischio di divenirne schiavo o di assoggettarlo a sé. Esiste, invece, un
metro di paragone dell'amore. Tale è l'amore di Dio. E' il suo, quello a partire dal
quale si svelano i segreti dei cuori per mostrare chi diviene simile a Lui e chi se ne
allontana sempre più. L'uomo non può comprendere appieno l'amore se non si misura
con l'amore di Dio. Come, inoltre, potrebbe l'uomo trovare la forza per continuare la presenza
di amore, una volta che il tradimento, il peccato, la cattiveria si opponessero? Può
l'amore vivere senza un dono di grazia che supera l'opera stessa dell'uomo? La risposta della
fede cattolica è chiaramente negativa. Il perdono, l'amore del nemico, il porgere
l'altra guancia, il dare senza ricevere, il prestare senza attendere nulla, la fedeltà
nonostante il tradimento, traggono non solo significato, ma anche possibilità di
esistere e forza dalla grazia divina. Ecco che il comandamento dell'amore di Dio è da
vivere “con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la forza”.
E' da aggiungere, non ultima considerazione, che se l'uomo non amasse con tutto se stesso Dio,
il suo essere creaturale è così fatto che amerebbe come se fosse Dio stesso una
creatura. Il tempio riservato a Dio, nella coscienza umana, è tale che, se non vi si
pone la presenza divina, quel posto non potrà comunque restare vuoto. Qualche cos'altro
lo occuperà. Si dirà che il senso della vita è una professione, un figlio,
un successo, un'opera, ma quella realtà assumerà il posto di Dio ed alla perdita
di quel traguardo o di quella compagnia udremo le parole: “Ora niente ha più
senso”. Invece l'amore assoluto a Dio permette ad ogni creatura di essere amata come
creatura e non come un assoluto, lasciando, conservando, la differenza fra creatura e Creatore.
Quest'ultimo il senso, le altre il suo dono.
Ma il comando dice anche che Dio – affermazione altissima, misconosciuta da quelle
creature che illudono, chiedendo di essere amate loro sole, divenendo unico motivo di vita!
– chiede di non essere amato solo. A Dio non basta che lo si ami! Egli chiede l'amore al
fratello. “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Nessuna interpretazione di un
amore presunto tale per Dio che possa convivere con il disprezzo o l'odio verso qualsivoglia
creatura umana. La via del terrorismo suicida, che pretende di essere amore tale per Dio con
tutto se stessi, fino all'offerta della propria vita, viene smascherato come via che offende
Dio stesso. Mai Dio accetterà di essere amato a danno dell'uomo, fosse pure quell'uomo
stesso nemico di Dio.
E' preclusa anche la via ad ogni spiritualismo, che si rifugi in un presunto abbandono a Dio
nel rifiuto della responsabilità e della tenerezza verso la creatura umana, da colui che
è posto vicino nella stessa casa a coloro che abitano lontani in terre di
povertà.
Una splendida colletta della liturgia eucaristica, di sapore agostiniano, riprende nella
preghiera il comandamento: “Signore, fa che possiamo amarti in ogni cosa ed al di sopra
di ogni cosa”. Né l'uno, né l'altro presi a sé e separati, ma
insieme! Ecco il cristianesimo. Un ultimo riferimento vogliamo evidenziare, assumendolo dalla
celebrazione eucaristica. Nonostante gli usi e gli abusi in merito, la liturgia non ha mai
approvato il recitare il Padre nostro tenendosi per mano, ma ha preferito il gesto di levare le
mani al cielo, secondo la tradizione, proprio perché, insieme allo scambio di pace,
subito successivo, fossero espressi in sequenza il rivolgersi al Padre nostro che è nei
cieli e la fraternità che ne nasce.
La sintesi suprema del comandamento – lo notiamo nuovamente in conclusione –
è detta anch'essa al Tempio, dal Cristo come Signore del rapporto fra l'uomo ed il suo
Dio.
Dopo la domanda dello scriba, “nessuno aveva più il coraggio di
interrogarlo” (Mc 12, 34). Ma Gesù “continua a parlare” (Mc 12, 35) ed
è adesso Lui, finalmente a porre questioni. E' il rapporto corretto fra il Maestro e
coloro che vogliono realmente essere discepoli.
Il brano che segue è il culmine tematico del racconto degli avvenimenti accaduti al
Tempio: Gesù, interpretando le Scritture, vuole essere riconosciuto come il Signore.
Come nella parabola dei vignaioli omicidi, anche qui egli non è solo colui che risponde
ai problemi posti da altri, ma è colui che imposta egli stesso la questione vera. La
domanda sorge dal Sal 110 (109), 1. Il Salmo è attribuito a Davide e, per bocca del
Santo Re, dice: “Disse il Signore al mio Signore”. Chi è costui, domanda
Gesù, che Dio stesso, il Signore, chiama con il suo stesso titolo di Signore? Se il
Messia, come afferma la Scrittura è “figlio di Davide” e quindi inferiore a
Davide stesso, perché poi Davide lo chiama “Signore”, cioè non solo
più grande di se stesso, ma uguale a Dio?
Solo una lettura superficiale si può arrestare a notare semplicemente che qui il Cristo
interpreta il Salmo messianicamente. Egli neanche solamente lo riferisce a sé.
Ciò che è straordinario è che affermi implicitamente che il Messia, il
Cristo, cioè Lui stesso possa avere il titolo di Signore. Signore, “Kurios”
è il titolo che nella Septuaginta, la versione greca della Bibbia curata dal giudaismo
ellenizzato alessandrino, era stato riservato solamente al Dio unico. Ed ecco che Gesù
lo prende per sé!
E' questo il punto veramente culminante della rivelazione di Gesù, prima della
passione, nel vangelo di Marco. Egli non è solo il Cristo, non è solo il Figlio
dell'uomo, non è solo il Figlio (se ciò non bastasse!). Egli è anche il
Signore, egli porta il titolo stesso di Dio [20] .
Prima di abbandonare il Tempio, ora sì, Gesù mette in guardia dagli scribi che
“riceveranno una condanna più grave”. Il testo è esplicitato negli
altri vangeli, soprattutto in Mt 23, 1-39. Notissime sono le osservazioni del Signore che
ironizza sulla disarmonia delle preoccupazioni che si manifestano quando il “primo dei
comandamenti” è in ombra e la presenza del Signore Dio che parla nel Signore
Gesù non è accolta: “Pagate la decima della menta, dell'aneto e del
cumino... e trascurate le prescrizioni più gravi della Legge... Guide cieche che
filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”. La memoria del passato –
“innalzate i sepolcri dei profeti” – non li aiuta ad accogliere oggi la
profezia di Dio che si manifesta in Gesù, ma anzi porta a “colmare la misura dei
padri”.
Estremamente significativo è, all'opposto, il compendio offerto da Gesù, nel
commento all'obolo della vedova. Essa sì “ha messo tutto quello che aveva, tutto
quanto aveva per vivere” (Mc 12, 44). Indicando la povera vedova Gesù non annunzia
solo che ciò che conta non è il valore oggettivo del dono, ma la proporzione fra
ciò che si ha e ciò che si dona, poiché è questo rapporto che
evidenzia quanto si trattiene, quanto “ci si spreca”, quanto “si danno le
briciole”. Colei che tutto offre è piuttosto anticipo, come lo sarà la
“Maddalena”, del dono totale, senza riserve del Figlio sulla croce. Lì
niente sarà conservato, niente risparmiato, niente tenuto in riserva.
Dopo il capitolo 13, il discorso escatologico, inizia il cammino della
passione di Gesù. Marco è il primo ad averla messa per iscritto. Possiamo
ragionevolmente ipotizzare che precedentemente ne esistesse una versione orale, ma egli
è il primo ad averla scritta per noi.
Marco la introduce ponendo sotto ai nostri occhi i due grandi motivi di essa: l'accanimento
del male e la donazione del Cristo.
La presenza del male si mostra innanzitutto in Mc 14,1-2:
Cercavano il modo di impadronirsi di lui, con inganno… Dicevano infatti: “Non durante la festa”.
E' un male fatto con misura, con metro, con scientificità. Non esiste
solo, nell'annuncio evangelico, il male frutto della rabbia, della vendetta, della follia,
dell'incapacità della persona a controllare i suoi sfoghi. C'è anche un male
studiato, preparato, programmato, pensato, cercato. La libertà della creazione lo ha
subito conosciuto, nei primi capitoli della Genesi, come la forza che invita a lottare con Dio,
a separarsi da Lui, a diffidare di Lui. Il Figlio di Dio, nella sua storia terrena, deve subito
fare i conti con questa presenza, fin dall'inizio della sua vita pubblica, come ci mostra Mc
1,12. Il deserto in cui Gesù è condotto, non ha niente di quel luogo ameno che
talvolta ne fa la leggenda. Chiunque si avventura, anche solo per poche decine di minuti nel
deserto, avverte subito cosa vuol dire smarrirsi in esso, non avere acqua a sufficienza,
conoscere il rischio del morire. Il testo marciano è straordinario nel descriverci chi
spinge il Cristo. Egli è “sospinto dallo Spirito e tentato da Satana; sta con le
fiere, ma gli angeli lo servono”.
Il Maligno si apposta per tentare Gesù, ma è lo Spirito Santo, Dio stesso, a
guidare Gesù verso questo luogo di lotta. Questa tensione è anche simbolizzata
dalla contemporanea presenza delle “fiere” e degli “angeli che lo
servivano”, dei pericoli mostruosi e della presenza della Provvidenza divina.
La vita può sembrare all'uomo inadatta, come il deserto, per trovarvi Dio. Addirittura
la presenza del male può spingere a dire che questa vita, così intrisa del
“nemico”, non è ambiente in cui Dio possa manifestarsi ed accompagnare. E'
vero, invece, l'opposto! Non solo non abbiamo altra vita in terra che questa –
nell'attesa della vita a venire – e non accettarla, fuggirla, vorrebbe dire scappare
dalla nostra stessa condizione. Ma, ancor più, questa vita è proprio la
realtà più adatta all'incontro con Dio! E' bestemmia grande l'affermare che la
vita come è stata fatta non è il luogo in cui è possibile incontrarLo.
Perché maledire la vita vuol dire, in qualche modo, maledirne l'Autore. Ed è
adatta nonostante la presenza del male! Nessuna ingenuità cristiana in questo, nessun
irenismo che vorrebbe far bello ciò che è infame, che vorrebbe giustificare
l'ingiustificabile. Il male è tale e resta tale e deve essere denunciato. Dinanzi ad
esso e non in una condizione immaginaria avviene la vita e la lotta dell'uomo. Tutti i rinvii
ad un presunto tempo migliore - quando avrò meno da studiare, quando avrò
più tempo dal lavoro, quando vivrò una differente situazione familiare,
ecclesiale, politica, internazionale... allora sarà il tempo di cercare Dio! - si
rivelano qui vera tentazione ed, in fondo, pretesti per rifiutare la sequela. “Se non
ora, quando?” dice un antico detto rabbinico. E' per la compresente realtà della
grazia che l'uomo può stare dinanzi al male, proprio in questa vita.
Nei versetti 14,10-11 e 14,20-21 incontriamo il tradimento di Giuda. E' bene fare subito
piazza pulita di tutte le letture non evangeliche e antistoriche di questo personaggio. Il
romanzo ed il cinema si sono impadroniti di lui traendone spunto per voli pindarici che nulla
hanno a che fare con il Nuovo Testamento [21] .
Egli è così divenuto, nella letteratura, il “predestinato”, colui che
si dibatte interiormente, quasi tradisse per amore, per permettere a Cristo di donarsi!
Con Giuda siamo invece dinanzi alla banalità del male. Giuda ha ricevuto, come tutti
gli apostoli, tutto dal Maestro. Ancora una volta mangia con lui, in quell'ultima notte. E
Gesù sottolinea: “Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto”! Non
un estraneo, non uno che non mi ha conosciuto, non uno che non ho scelto e non ho amato, ma
proprio uno dei Dodici! Proprio uno che ha mangiato e mangia con me, nello stesso piatto! La
vicinanza del bene non è garanzia del fatto che la nostra libertà si pieghi
all'amore, alla fede e rifiuti l'indifferenza o addirittura il tradimento.
La nostra letteratura cerca un male che possa essere nobilitato, che abbia, in fondo, una
giustificazione. Non vuole accettare la realtà di Giuda semplicemente infedele a
Gesù. Non crede all'esistenza di un male che non ha ragione di essere tale. Vuole, in
fondo, dire che il male non esiste, perché un male che ha motivo non è poi male
fino in fondo. Giuda deve per forza essere un Giuda predestinato, un uomo di grande spessore
esistenziale e di autoanalisi interiore che si dibatte in profondi pensieri! Niente di tutto
questo, nella serietà del testo evangelico. Egli è ad un passo dalla salvezza e
non la coglie. E' lì ad un passo dall'afferrarla e la rifiuta. Ma non è questa la
realtà che tante volte incontriamo nel cammino? Non è questa anche la nostra
realtà personale? Sono veramente nobili i dinieghi umani alla chiamata di Dio al bene,
alla fede? O non sono piuttosto semplicemente male?
Un parroco del Nord Italia iniziava così recentemente una conferenza sul tema del male
nell'attuale condizione giovanile: “Del male non possiamo che parlare male!”
Giuda è la memoria che il male, in questa terra, non si elimina, che contro di esso
dobbiamo sempre lottare. Che differenza dalle moderne correnti del New Age! L'uomo non credente
vive come una meraviglia il manifestarsi improvviso del male morale, del peccato
[22] . Il credente sa che la vita implica
una decisione sempre nuovamente da prendere di rinuncia al male. La sequela di Cristo e del
bene ha bisogno della nostra libera adesione che tutte le circostanze favorevoli non bastano
a produrre e tutte le circostanze sfavorevoli non riescono ad impedire, per grazia di
Dio.
In altri luoghi Marco, conformemente all'insegnamento di Gesù, parla anche di un altro
aspetto dello spessore personale del male. Il male non si elimina, perché ha avuto
origine in un essere personale che sempre cercherà in noi una breccia per convincere la
nostra libertà [23] . In Mc 5,1-20
– l'episodio dell'indemoniato geraseno - incontriamo la persistenza del principio
personale del male. Lo spirito immondo che si chiama Legione, se scacciato, si rivolge altrove
ed entra nel branco dei porci. La sua fastidiosa presenza non può essere eliminata,
finché il giudizio finale del Cristo non porrà fine alla sua tentazione ed alla
storia, nel Paradiso. La serenità del credente non deriva tanto dalla sottovalutazione
dell'avversario, quanto piuttosto ed a vera ragione, dalla grazia di Cristo continuamente
invocata ed accolta, baluardo e forza invincibile dinanzi al male. Come è personale la
nostra libertà, come è personale il male che cerca la nostra caduta, così,
soprattutto è personale la grazia che ci accompagna e che cerca il nostro bene.
Ma Giuda ci mostra che la forma primaria d'azione del maligno non è quella, temuta e
vagheggiata e grazie a Dio rarissima, della possessione diabolica. L'indemoniato può
anche non avere alcuna colpa morale – pur essendo tormentato dal male. La forma
“abituale” e più distruttiva del male è l'inganno, la presentazione
artefatta della realtà per convincere il cuore umano a pensare che il male sia bene ed
il bene male, fin dal primo dei peccati che aprì la strada ad ogni altro. Giuda è
figura della possibilità di prescindere da Gesù, anzi di voltare le spalle a lui,
di non amare colui che ci ha amato. E' veramente la banalità del male così vicina
a noi [24] . E Giuda ci mostra che il male non
ha motivo. Dargli motivo vuol già dire giustificarlo.
E', però, proprio per la presenza del male che appare ancora più decisiva la
vittoria del Cristo. Il male sa che è giunto il momento della grande lotta con il Figlio
di Dio. La combatte con accanimento, ma non può che perderla! La vittoria di Cristo
è vinta una volta per sempre. Da allora il male più nessun potere avrà sul
Cristo e si rivolgerà contro gli uomini, perché non entrino nel regno. Ma la
forza della grazia sprigionata dalla vittoria definitiva della croce e della resurrezione
è protezione e speranza dei credenti.
Ecco che proprio dinanzi al male, dinanzi all'apparentemente preponderante motivo scatenante
della passione, emerge invece il reale cuore di essa: la libertà del Figlio. Giuda
tradisce e consegna Gesù; Gesù consegna ed offre se stesso. “Il Figlio
dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui”. Non Giuda scrive la storia, ma il Padre che
ha pensato il dono del Figlio suo ed a lui lo ha richiesto. Ed egli compie il disegno del
Padre.
La passione si apre non solo con il calcolare dei traditori, ma soprattutto
con la figura della donna – per la tradizione è la Maddalena [25] – dell'unzione di Betania, figura e profezia del
consegnarsi di Gesù.
Essa “ha fatto ciò che era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la
sepoltura” (Mc 14,8). Siamo dinanzi non ad un Cristo che non sa - così lo vorrebbe
il New Age, un Cristo non consapevole della sua divinità, non consapevole della sua
storia, che apprenderebbe da altri del suo destino, della sua passione [26] .
Il Cristo è, invece, anche nella passione, l'unico “sapiente”, l'unico che
sa, che comprende, che legge i cuori, che abbraccia con il suo sguardo tutto il disegno di Dio
dall'inizio alla fine.
La donna “giunse con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato, di nardo genuino
di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l'unguento sul suo capo” (Mc
14,4). Quell'olio, come dicono gli astanti, si sarebbe potuto vendere a più di trecento
denari!
E' esagerato il gesto della donna. Tutto ci parla di eccesso. La cifra del valore dell'olio
è enorme, il vasetto di materiale finissimo (l'alabastro), di grande qualità il
suo contenuto. E' l'amore che riceve il Cristo morto, ma questo amore trae motivo dall'amore
annunciato nella vita di Gesù ed espresso totalmente nella sua morte e nella sua
resurrezione.
Non c'è riserva nell'amore della croce. Tutto è donato, con abbondanza ed
esagerazione, proprio come nel gesto della donna. E' anche un amore donato irrimediabilmente,
come è irreparabile la rottura del vasetto. Esso non è aperto, ma rotto. Nessuno
potrà mai più adoperarlo per altro, aggiustarlo per una nuova funzione.
Indissolubile, è amore che mai si ritrarrà, versato per sempre. E' l'amore del
crocifisso e del risorto. E', infine, un amore tattile, che tocca, non un gesto lontano,
astratto ed aereo, ma un atto di profonda vicinanza e comunione, proprio come lo sarà la
lavanda dei piedi, immagine del mistero.
La profezia della morte di croce è così dinanzi ai nostri occhi. L'amore non
sarà amato - “l'amore non è amato”, secondo la stupenda espressione
agostiniana, ripresa dalla tradizione francescana. La nostra esperienza conosce fra le
sofferenze più grandi quella di un amore promesso e poi tradito, ben differente dal
capriccio dell'adolescente che vede, come è ovvio, terminare la sua storia di
innamorato. Ma l'amore che qui non è amato non è quello di una creatura umana, ma
quello dello stesso Figlio di Dio! Non dobbiamo mai mettere a tacere la domanda fra le
più alte dell'intero universo: come è possibile che l'amore di Dio stesso non sia
accolto, non produca conversione e attenzione nel cuore umano?
Come è possibile che l'amore stesso di Cristo sia rifiutato, sia messo da parte, sia
tradito? Ma proprio dinanzi al male, proprio dinanzi al tradimento, proprio dinanzi a Giuda ed
ai sommi sacerdoti, l'amore del Figlio non smette di essere l'amore, ma porta a compimento
l'opera sua. L'amore non amato del Cristo ama! Questo è lo splendore! Un vasetto
è rotto, dell'olio è versato, ma tutto questo è figura della
“sepoltura” del Cristo, della sua morte data per la salvezza.
Ecco che la passione nasce dalla disponibilità di Cristo ad “essere
sprecato”. Egli non è come l'uomo che abitualmente attende la grande occasione,
cerca la certezza che il suo dono non sia sciupato, lo lesina finché non è certo
di essere capito, non si gioca se ritiene l'altro non meritevole. Gesù celebra l'offerta
del suo corpo proprio “nella notte in cui fu tradito”, come recita la liturgia. E'
quella la notte nella quale si consegna!
Crolla qui – come deve crollare la mitologia che circonda Giuda – il mito della
“Maddalena” come dell'innamorata di Gesù, secondo tanta letteratura popolare
pruriginosa, assolutamente incapace di penetrare il senso del racconto evangelico. Niente del
testo evangelico ci dice di un presunto innamoramento di Gesù. Ma niente ci viene detto
nemmeno di un innamoramento della Maddalena. E' quando l'uomo non conosce altro amore che
quello dell'attrazione dell'uomo e della donna – e per di più in maniera
adolescenziale – che non ha altre categorie per parlare di ciò che avviene tra il
Cristo e la donna che versa l'olio su di lui. La Maddalena è santa! Secondo la
tradizione ella diverrà la patrona degli eremiti, dopo aver vissuto tutta la sua vita
cantando le lodi di Dio in Francia. S.Francesco d'Assisi dedicherà a lei i suoi eremi,
abitati nelle numerose Quaresime che inframezzavano di preghiera la sua predicazione. Non
persona irrisolta, ma donna che si pone al servizio della croce del Signore e che, vergine, lo
proclama vivente al mondo intero. E' espressione di una castità che è amore
perfetto. Non solo perché nessun rilievo ha in lei il desiderio di un possesso fisico
del suo Signore, ma perché è proprio lei a preparare la libertà del
“tornare al Padre” del Cristo, “ungendo in anticipo il suo corpo per la
sepoltura” [27] .
Infine ecco che Gesù apre ancora la prospettiva della speranza, del domani che
seguirà la sua morte: “In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo,
sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure, in suo ricordo ciò che
ella ha fatto” (Mc 14, 9). C'è nuovamente tutta la certezza dell'evangelizzazione.
“In tutto il mondo” risuonerà il lieto annunzio della Pasqua. In
quell'annunzio non solo il Cristo sarà narrato, ma tutta la storia degli uomini e delle
donne suoi, a lui legati, coloro che, nella loro testimonianza sono figura del dono totale
compiuto sulla croce.
Ecco allora che dinanzi alla serietà del male - del male che ci cerca, del male che ce
l'ha proprio con noi - c'è la grazia che ci previene e ci cerca [28] , nell'invio del Figlio che realizza la sua consegna,
“secondo quanto è stato scritto”.
Il crocifisso benedetto viene prefigurato nell'unzione di Betania, non masochismo o amore di
sofferenza, come solo gli stolti possono affermare, ma segno - il segno! - di un amore -
dell'amore! - che ama non amato.
E' così centrale il racconto della passione di Gesù – ed
il suo significato di compimento delle Scritture e di evento decisivo salvifico – che
resta, da questo punto di vista, vera la paradossale affermazione di M.Kaehler (1896) che
scrisse essere “i vangeli un racconto della passione con ampia introduzione”
[29] , anche se Marco ha proprio il primato
cronologico di mettere per iscritto la coscienza ecclesiale che tutta la vita di Gesù
è vangelo, dall'eternità che si fa storia, al dispiegarsi di ogni minuto evento
della sua vita, dalla passione, alla resurrezione.
Proprio per questa centralità della passione i tre sinottici ed il quarto vangelo
concordano in misura maggiore proprio nei capitoli relativi agli ultimi giorni di Gesù,
fino alla sua sepoltura.
Ciò che è annunciato nell'episodio dell'unzione di Betania, diviene
realtà nel racconto dell'Ultima Cena. E' Gesù che chiede di preparare per la
Pasqua, è lui che prepara la Pasqua. Il male continua a credersi protagonista e
protagonista assoluto, ma, nel disegno divino, l'unico reale, è il Cristo il vero
attore, è lui che tutto apparecchia per offrire il suo corpo. Il disegno del male anzi
è esattamente quello di rendere inattiva la presenza di Dio, di trasformarla in pura
passività, di renderla inefficace per nasconderla e toglierla di mezzo. Il dono
cosciente del Figlio, invece, trasforma l'apparente sconfitta nell'atto di amore più
alto mai visto dalla faccia della terra, trasforma il lutto nella gioia della salvezza che si
dischiude a tutto il mondo.
Nei versetti 14,12-16 vediamo il Cristo, signore assoluto del momento, che fa preparare ai
suoi. E tutto è già lì, come lui ha detto. Iniziata la cena è
sempre Gesù ad annunciare il tradimento. Mentre gli apostoli si interrogano su chi
sarà a tradire [30] , ecco nuovamente la
sovranità del Figlio dell'uomo: è lui “che se ne va, secondo quanto
è scritto di lui” (Mc 14,21). Tutta la passione marciana illumina la profonda
coscienza del Cristo di compiere le Scritture. Egli non solo obbedisce ad esse, ma, più
profondamente, le porta a compimento, le realizza nella loro pienezza, nel loro significato
più intimo, nel senso pensato dal Padre che le aveva ispirate agli uomini, agli
scrittori biblici. E' anche in questo modo che il vangelo di Marco ci mostra l'obbedienza
assoluta di Gesù al Padre.
Nell'istituzione dell'eucarestia appare ancor più il vero protagonista:
“Prendete, questo è il mio corpo”. Il corpo non è tanto tradito
– ed il sangue versato - è piuttosto dato per essere preso, direttamente offerto
dal Signore. E' ciò che sempre si ripeterà in ogni eucarestia nella storia dove,
ben oltre ogni umana apparenza, non sarà primariamente né la Chiesa, né il
sacerdote a “celebrare”, ma sarà ancora il Cristo stesso ad
“offrire” se stesso, ed il sacerdote presiederà l'eucarestia “in
persona Christi” secondo la più vera e profonda comprensione cattolica della
realtà sacramentale [31] .
Subito segue la complementare dichiarazione: “Questo è il mio sangue, il sangue
dell'alleanza, versato per molti” (Mc 14,24). E' la coscienza e l'annunzio altissimo che
il suo dono è l'unico e completo sacrificio gradito a Dio, per la remissione dei peccati
e per la salvezza del mondo. L'uomo, nei momenti di più assoluto e totale sentimento di
autosufficienza, può arrivare addirittura a dubitare della necessità di essere
salvato. Correnti di pensiero e religioni secolari rifiutano l'idea di salvezza: non solo
nessun salvatore esiste, ma, più radicalmente, l'uomo non deve essere salvato.
Può apparire priva di senso la domanda stessa. Salvarsi? Da cosa? Ricevere salvezza? Da
chi che insidi l'uomo senza appello? Non così la fede cristiana benedetta. Il suo
realismo ha coscienza del peccato presente nell'uomo dal peccato d'origine, sa la forte
presenza del Nemico, conosce la possibilità reale e terribile del vivere e morire senza
l'amicizia divina [32] . Per questo diviene
invocazione della salvezza che solo per grazia può essere data da Dio. Il sangue versato
e dato da bere è dato “per” questo. E' quel sangue dell'alleanza che non
può avere origine dall'uomo, tanto meno dall'uomo peccatore, ma solo dalla libera grazia
divina.
Ma dove tutto questo è scritto? Marco, seguendo Gesù, ci mostra l'Antica
Alleanza che parla della Nuova.
I testi che si “compiono” – Mc 14,49, “Si adempiano dunque le
Scritture”, Mc 15,28, “Si compì la Scrittura è stato messo tra i
malfattori” - sono soprattutto il Salmo 22 (21), il Salmo 110 (109), insieme a Daniele
7,13 e ad Isaia 52,13-53,12 e agli altri canti del “servo sofferente”che già
abbiamo visto in riferimento al Figlio dell'uomo.
Gesù, nella sua umiliazione, sa di essere colui di cui ha parlato il profeta Isaia:
tolto di mezzo con ingiusta sentenza (Mc 14,53 ss., cioé tutto il processo, e Is 53,8,
“Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”), flagellato (Is 50,6
“Ho presentato il dorso ai flagellatori” e Mc 15,15 “Pilato, dopo aver fatto
flagellare Gesù, lo consegnò...”), coperto di sputi (Is 50,6 “Non ho
sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” e Mc 15,19 “I soldati gli sputavano
addosso”), silenzioso (Is 53,7-8 “Maltrattato si lasciò umiliare e non
aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai
suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” e Mc 15,5, “Ma Gesù non
rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato”),. E si
potrebbe continuare con i riferimenti.
E' in gioco non solo la corrispondenza fra ciò che era annunziato e lo svolgimento
materiale della passione che si compie. E' soprattutto il senso che si dispiega agli occhi
nostri: è l'essere Gesù caricato del peccato dell'uomo per divenire offerta di
salvezza, come annunzia Is 53,5-6 - “Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è
abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti” - e che diviene
realtà in Gesù in Mc 14,24: “Questo è il mio sangue, il sangue
dell'alleanza, versato per molti”).
Gesù, similmente, è anche colui di cui Davide aveva profetizzato, nel Salmo 22
(21). Non solo la sua preghiera sulla croce, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”, ma ogni parola del Salmo si rivela detta per lui: “Mi scherniscono
quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo” (Sal 22,8), “Si
è affidato al Signore, lui lo scampi, lo liberi se è suo amico” (Sal 22,9),
“Si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte” (Sal 22,19). E cosa
pensare della gioia finale del salmo che muta la tristezza e l'angoscia iniziale: “Ed io
vivrò per lui” (Sal 22,30)? Quando e dove si compirà? E' la domanda che
sembra lasciata aperta fino all'annuncio della resurrezione.
Anche il Sal 69 (68),22, “Quando avevo sete mi hanno detto aceto”, riguarda
Gesù. E' la “sua” sete.
Se i testi precedenti ci mostrano la passione di Gesù che il disegno di Dio aveva
prefigurato nelle Scritture, che ora si rivelano scritte per Lui ed in vista di Lui, egli
è, per lo stesso disegno di Dio, anche “il Re”. Ed è “Re”
profetizzato nello stesso modo da Dio nelle Scritture Sante. Quest'uomo dei dolori è il
“re dei Giudei”! Che Gesù sia il Re viene insinuato dall'interrogatorio con
Pilato in poi, nel giro di 32 versetti, ben 6 volte (Mc 15,2.9.12.18.26.32), più il
chiaro riferimento di Mc 15,17, “Lo rivestirono di porpora, dopo aver intrecciato una
corona di spine, gliela misero sul capo”.
Questa regalità non è solo parola sulla bocca questionante di Pilato, o sulle
labbra ironiche dei soldati e dei sommi sacerdoti con gli scribi. E' l'ammissione di
Gesù, la sua autocoscienza trasmessaci da Marco: “E vedrete il Figlio dell'uomo
seduto alla destra della Potenza” (Mc 14,62). Se, subito dopo, è evidente il
riferimento al Figlio dell'uomo che viene sulle nubi del cielo, qui è non meno chiaro il
rapporto con il Salmo 110 (109), il Salmo della questione centrale posta da Gesù al
Tempio, nei versetti Mc 12,35-37 che già abbiamo visto.
“Oracolo del Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, finché io ponga i
tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”: Questo è il primo versetto del Salmo. Il
suo prosieguo non lascia dubbi che il salmista abbia in mente il personaggio regale,
discendente di Davide, a cui, nei tempi ultimi, Dio avrebbe conferito ogni potere in terra.
Egli non solo è re, ma anche sacerdote “per sempre, alla maniera di
Melchisedek”. La catalogazione successiva, che lo pone fra i cosiddetti “Salmi
messianici regali”, notazione chiaramente non esistente ai tempi di Gesù, non fa
che evidenziare l'intenzione di Marco nel ricordare le parole che il Figlio dell'uomo dice di
se stesso, rivelando un altro aspetto del mistero profondo della sua identità. Egli
è il Re, il Re atteso, il Messia Re. E tutto ciò che dagli altri personaggi della
passione viene detto sulla regalità, viene riletto da Marco come profezia inconsapevole
di questo.
Anche qui, allora, il Figlio compie la Scrittura, rivelando se stesso ed il senso più
nascosto degli antichi versi. Certo egli obbedisce ad essi, ma prima ancora le Scritture hanno
obbedito a lui, sono state piegate e scritte per obbedire a lui
E' anche per questa evidenza che, ultimamente l'obbedienza del Figlio dell'uomo non è
che indirettamente alla Scrittura. La più vera adesione, come mostra nuovamente il
racconto, è direttamente al Padre. Nella preghiera di abbandono nuovamente Gesù
anticipa ciò che dovrà subire: è sua adesione al Padre la passione,
è suprema attività d'amore e non impotenza dinanzi al male! E' la preghiera di
Gesù nell'orto del Getsemani, dove tutto appare chiaro, pur nelle tenebre di quel
momento. “Abbà, Padre. Tutto è possibile a te, allontana da me questo
calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Il Padre potrebbe anche cancellare le Scritture, modificarle. E' proprio Lui, invece, a
domandare al Figlio di bere, in obbedienza di amore divino ed in offerta di misericordia agli
uomini, quel calice.
Questa libera domanda del Padre! Questa libera obbedienza del Figlio! Ecco il motivo della
passione! Ed il male, pur libero e liberamente e indegnamente voluto, diviene comparsa.
“Tutti, allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovanotto,
però, lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono.
Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo” (Mc 14,50-51).
Molto si è scritto su questo giovanetto di cui solo Marco ci racconta.
C'è chi vi ha visto, proprio per la notazione esclusivamente marciana,
un riferimento personale, un accenno autobiografico alla presenza dello stesso
Marco nel momento della passione. L'accento è, comunque, sull'esperienza
del fuggire. Anche l'ultimo dei discepoli giunti a Gesù, anche il più
giovane, anche lui, lo abbandona e fugge via nudo [33]
.
Il giovinetto che fugge via nudo, insieme agli apostoli, lasciando il mantello. Affresco del cosiddetto "Maestro trecentesco del Sacro Speco" nella Chiesa Superiore del Sacro Speco di Subiaco |
Tutto il vangelo ci mostra che la cautela di Gesù, il
suo invito ai discepoli a non parlare prima del tempo, è giustificato.
Essi non comprendono. E, quando comprendono, è il momento della fuga.
Gesù è circondato dalla cecità dei farisei, da quella del
popolo, da quella dei suoi compaesani, ma anche da quella dei suoi discepoli.
Tutto il suo camminare è stato anche un educare continuamente i Dodici.
Lo stupendo capitolo delle parabole ci mostra, ai versetti 4,10-13, il dinamismo
del discepolato che Gesù ha incoraggiato:
Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogarono sulle
parabole. Ed egli disse loro: A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a
quelli di fuori invece tutto viene detto in parabole, perché:
guardino, ma non vedano,
ascoltino, ma non intendano,
perché si convertano e venga loro perdonato.
E' errore grossolano, come già abbiamo avuto occasione di notare
precedentemente, ritenere le parabole un espediente adoperato da Gesù per essere
semplice ed usare le immagini di tutti i giorni, per essere capito da tutti. Sarebbe una
lettura infantilistica e strumentale del messaggio parabolico. Certo Gesù parla per
essere compreso – e che forza hanno le sue immagini! – ma il motivo delle parabole
sta nel dare la possibilità a chi ha ricevuto il dono della chiamata da Dio e vi ha
risposto con la sua libertà, di potersi avvicinare, di poter chiedere su ciò che
è rimasto oscuro. La parabola rivela sì, ma anche nasconde, chiedendo così
al discepolo di farsi più vicino al maestro per porre quelle domande a cui solo
Gesù può rispondere.
Gesù parla in parabole per suscitare la domanda vera, quella di colui che è
stupito da ciò che ha visto e sentito ed è divorato dal desiderio di capire di
più. E' questo che permetterà di avvicinarsi, che renderà vicino il
discepolo al maestro. Ed è solo la domanda intima e sincera di colui che vuole divenire
discepolo che apre la vera spiegazione di Gesù. E' l'emergere del vero discepolo che
Gesù ha a cuore.
Gesù ha cercato questo... ed, ora, tutti fuggono! Neanche coloro che hanno chiesto
– e altre volte hanno avuto paura di chiedere, come spesso ha annotato Marco – sono
più con lui, nel momento della croce.
Tutto sembrava già rivelato dell'identità di Gesù, già chiaro di
lui e della sua vita, già dichiarato, ma ora tutto si rivela impossibile, inaccettabile.
Il discepolo deve ancora comprendere. Ora, addirittura, abbandona. Una espressione divenuta
proverbiale è quella di M.Dibelius che ha creato l'espressione “il vangelo delle
epifanie segrete”, proprio ad indicare la tensione irrisolta, fino al capitolo sedicesimo
di Marco, fino alla resurrezione, fra la rivelazione di Gesù, la sua epifania, la sua
manifestazione e, dall'altro lato, l'incomprensione di chi gli è lontano e di chi gli
è vicino. Ci permettiamo solo di indicare che essa è tale, come vedremo subito,
fino al momento della resurrezione. E' in quel momento che sarà finalmente possibile una
epifania accolta ed, anzi, annunciata al mondo intero. Senza resurrezione il cristianesimo
resta invivibile, impossibile, intollerabile (nel senso etimologico della parola,
“ciò che non può essere portato”).
Una speranza è, però, sempre indicata dal Signore, anche prima del terzo giorno.
E' lui ad indicarla, a chi sa leggere il testo e la storia, nonostante l'incomprensione e la
fuga. La intravediamo già chiara nel primo annuncio della passione. Non solo lì
è già detta la resurrezione, ma, subito dopo, segue la dichiarazione: “Chi
perderà la sua vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,35).
L'annuncio del vangelo è già detto. E ci sarà chi perderà la
propria vita per esso. Tutto il futuro della Chiesa e dell'evangelizzazione è già
pensato in Marco, prima della passione. Così nell'episodio prefigurativo dell'unzione di
Betania: “In verità vi dico, che dovunque, in tutto il mondo, sarà
annunziato il vangelo, si racconterà pure, in suo ricordo, ciò che ella ha
fatto” (Mc 14,9). L'epifania fallisce, di tutti è la fuga, ma Marco già
segnala il seguito, quando tutto questo sarà solo passato e saranno nate le
realtà nuove.
Quando questo si compirà, una volta che il silenzio della morte e della sepoltura ha
arrestato lo sviluppo degli eventi?
Ecco che il capitolo sedicesimo si rivela il culmine di tutto il testo evangelico. Senza di esso, tutto resterebbe senza senso, tutto sarebbe fallimento. Tutto il vangelo tende ad esso, come a parte indissolubilmente presente fin dalla prima pagina del testo.
“Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E' risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto... Là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16, 6-7).
Questo Gesù Nazareno, cercato in tutto il vangelo, il Cristo, il
Figlio dell'uomo, il Figlio di Dio, il Signore, il crocifisso uomo dei dolori, il Re, non
è qui, è risorto. E' a partire da questa evidenza che Marco ha deciso l'opera di
scrittura del suo vangelo. E' per arrivare a parlare di questo. Tutto è vangelo, ogni
parola che Marco ha scritto su Gesù, perché ogni aspetto della vita del Cristo
è vangelo. Ma tutto lo è, perché la sua resurrezione è vangelo e
lieta notizia per gli uomini!
Soffermiamoci, per questo, a leggere con attenzione i versetti conclusivi di Marco. E' un dato
ormai acquisito dalla critica letteraria che due siano le finali marciane. La prima, Mc 16,1-8,
scritta dalla mano stessa dell'evangelista, la seconda, ugualmente ispirata, aggiunta
più tardi, ad arricchire ed a stimolare verso una ulteriore rilettura di tutto il testo
di Marco [34] .
La migliore introduzione alla lettura della prima finale di Marco è quella di
Ermenegildo Manicardi che così sintetizza una vita di studi dedicati a Marco,
mostrandoci il nesso strettissimo fra le parole degli ultimi 8 versetti e tutto il resto
dell'evangelo [35] :
Il “precedere” come ricostituzione della sequela
L' “epilogo” autentico di Marco (16,1-8) presenta l'annuncio della
risurrezione, dato dal messaggero di Dio stesso, “il giovane” in talare bianca,
seduto a destra, dentro al sepolcro spalancato e vuoto. C'è un unico gesto del Risorto:
il “precedere” i suoi discepoli verso la Galilea. Quest'azione unica del Risorto
– che potrebbe anche deludere se confrontata alla ricchezza di gesti, che si leggono in
Mt 28 e, soprattutto, in Lc 24 e Gv 20-21 – è di estrema importanza perché
trascrive il fatto che, con la sua risurrezione, Gesù torna a mettere in moto quella
sequela, che la passione sembrava avere definitivamente interrotta. Il “precedere”
è, infatti, il perfetto correlato del “seguire”: se Gesù è
impegnato in un “precedere” (proàgein), allora il “seguire” dei
discepoli (akoloutheîn) è di nuovo possibile. Il “precedere” di Mc
16,7 va compreso in correlazione con la coppia “precedere” di Gesù e
“seguire” dei discepoli, quale appare soprattutto in 10,32-34.
Il discepolato e “la via di Dio” che continua
Nella tesi di dottorato, presentata nel 1980, abbiamo cercato di mostrare che il cammino
del Risorto verso la Galilea davanti ai suoi discepoli, non costituisce solo il centro
dell'epilogo marciano, ma è un movimento che porta a compimento il cammino di
Gesù, raccontato in tutta la narrazione precedente... e annunciato con le parole d'Isaia
nella citazione iniziale (Mc 1,2-3). Il “precedere” del Risorto continua il cammino
terreno, con cui Gesù di Nazaret ha fatto esistere la sequela storica. Rimettendo in
moto il discepolato, completamente disperso al momento dell'arresto (cfr. 14,50-52), il Risorto
– in forza appunto della risurrezione – realizza nella vita postpasquale dei
credenti “la via di Dio”, inaugurata dalla comparsa di Gesù e dalla sua
“via” terrena (1,2-3). Compiendo il suo cammino, prima in maniera iniziale durante
il ministero terreno e poi in modalità definitiva con la risurrezione, Gesù
realizza “la via di Dio” (he hodòs kyrìou), vale a dire la presenza
tra il suo popolo così come l'annunciano soprattutto i testi isaiani. Dando fin
dall'inizio la chiave biblica dell'identificazione tra “il cammino di Gesù”
e “la via del Signore”, e suggerendo un accostamento tra “il cammino di
Gesù di Nazaret” (v. 2b; tèn hodòn sou) e “il precedere del
Risorto” (16,7: proàghei hymâs), Marco invita a vedere – attraverso la
sua narrazione – come Dio si renda presente nel ministero di Gesù e, in forza
della risurrezione, nella concreta sequela, finalmente possibile, dei discepoli (di tutti i
tempi).
L'assenza di un mandato missionario e la missione implicita nella
sequela
Questo tipo di epilogo non ha bisogno che ci sia, da parte del Risorto, un invio dei
discepoli in missione. Dove abbiamo la sequela reale è impossibile, secondo Marco, che
non ci sia anche l'annuncio esplicito. Questo appare dal raddoppiamento caratteristico tra
“me”, ossia Gesù, e “il vangelo” che compare in tutta la
narrazione marciana. Si pensi a parole di Gesù quali: “perdere la vita per me e
per il vangelo” (8,35), “vergognarsi di me e delle mie parole” (8,38),
“lasciare per me e per il vangelo” (10,29).
La limitazione del silenzio delle donne in 16,8
Un punto molto delicato della comprensione della finale autentica di Marco è il
senso del silenzio delle donne. La nostra convinzione è che questo silenzio non concerna
il comando di portare il messaggio della risurrezione a Pietro e ai discepoli, e di inviarli a
mettersi in cammino per “vedere” il Risorto in Galilea. L'osservazione insistita
che le donne, spinte dalla paura, tacquero non significa che disobbedirono al giovane. Si deve
per questo osservare che la paura delle donne è descritta con una terminologia, che
rimanda a un timore, consapevole della grandezza della rivelazione ricevuta. Esse tacquero
verso l'esterno, ossia dopo avere portato il messaggio non parlarono più con nessuno. In
questo modo i testimoni del Risorto tornano a essere Pietro e gli altri discepoli. Con il tema
del silenzio a causa della paura religiosa il narratore toglie le donne dalla scena del dopo
Pasqua. Questo senza fare loro torto: le donne sono state il tramite per il quale Dio ha reso
di nuovo possibile la sequela dei discepoli. Dopo 16,8 le donne tornano in quel silenzio, che
è tutt'altro che assenza e irrilevanza, in cui sono state lasciate nel corso della
narrazione esplicita della via terrena di Gesù, come appare dal modo in cui le donne
sono introdotte in 15,40-41. All'improvviso appare che erano presenti dall'inizio (cfr.
soprattutto 14,41) e la loro importanza per il seguito (cfr. 14,47 e 16,1). Il silenzio, tenuto
verso l'esterno, non toglie nulla al compito delle donne dopo la Pasqua. Non pare nemmeno che
una tale chiusa sia affetta da maschilismo. Ponendo il problema del ricupero della sequela dei
discepoli maschi, naufragata nella passione, la narrazione di Marco chiude semplicemente sulla
prospettiva del ricupero finale di quella sequela, che era una delle principali proposte di
Gesù di Nazaret, anzi forse quella fondamentale.
Così si conclude la prima finale di Marco. Ora la sequela
è finalmente possibile. Ora è finalmente possibile essere discepoli
di Gesù. Tutto il cammino dalla Galilea in poi ha ora un nuovo senso,
a partire dall'evento della resurrezione. Lo stesso Cristo, conosciuto camminando
per la via, è ora il Risorto.
Ma una finale successiva ci obbliga ad una ulteriore rilettura. Non basta, infatti,
affermare che il testo della “finale lunga” è letterariamente
e cronologicamente successivo. Per comprenderlo, bisogna spingersi fino a dire
il motivo della sua aggiunta. Mc 16,9-20 mostra che non basta arrestarsi alla
sequela, ma l'incontro con il Risorto e con i discepoli che lo hanno visto risorto
e asceso al cielo non può non spingere all'annuncio a tutto il mondo.
E' l'annuncio della missione della Chiesa.
Mc 16,9-20, può, infatti, essere suddiviso in 4 unità: l'apparizione
a Maria Maddalena, quella a due discepoli, quella agli Undici, infine l'ascensione
e la glorificazione di Gesù ed il mandato missionario.
I primi tre incontri si svolgono in un crescendo. Si passa dal lutto e dal pianto
e dal non voler credere ai testimoni della resurrezione, fino al rimprovero
di Gesù per non aver creduto. Si passa dalle donne agli uomini. Si passa
da uno, la Maddalena, a due, quelli che erano in cammino verso la campagna,
agli Undici.
E', però, la quarta parte, la più estesa, ad indicare il culmine
della progressione. Gesù ammaestra ancora, prima di essere assunto in
cielo e sedere alla destra di Dio. E, dal cielo, “conferma la parola con
i prodigi che la accompagnavano” (Mc 16,20). L'annunzio deve essere dato
“a tutto il mondo” e “ad ogni creatura” (Mc 16,15).
Le parole misteriose sul legame fra la vita di Gesù ed il vangelo, divengono
ora comando e realtà. Da ora in poi tutto dipenderà dalla fede
cristiana e dal battesimo, “Chi crederà e sarà battezzato,
sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc
16,16). L'adesione o il rifiuto cosciente di accogliere la fede cristiana e
l'appartenenza alla Chiesa è l'elemento ormai discriminante di ogni esistenza
umana [36] .
Se anche il mondo sembrerà apparentemente immutato, dopo la resurrezione
di Cristo, in realtà l'evento enorme che si è prodotto e che ha
cambiato da allora in poi la storia e l'eternità è visibile ed
afferrabile nella Chiesa. E' essa la vera novità che consegue alla novità
della resurrezione del Figlio di Dio.
La storia proseguirà ancora, prima di terminare, ma, da qui in poi, il
suo senso sarà l'attendere di Dio che gli eletti “siano segnati
col sigillo dell'Agnello”, come afferma l'Apocalisse. Ed il Risorto, assunto
in cielo, non sarà come colui che è lontano e inaccessibile, ma
piuttosto come il sempre Presente che conferma la missione della Chiesa in ogni
tempo, finché si spalanchi l'eternità, alla fine del tempo.
Una introduzione al
Vangelo di Matteo
Romano Penna, Introduzione al vangelo di Marco
Breve introduzione al vangelo di
Luca ed ai suoi temi principali
Per leggere ed amare l’evangelista
Giovanni
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sul vangelo di Marco presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[Nota 1] Questo breve testo di
introduzione a Marco nasce dall'accostamento a questo vangelo dovuto all'esperienza di
insegnamento di Sacra Scrittura alle novizie salesiane prima del noviziato internazionale di
via della Camilluccia e poi di quello di Castel Gandolfo (grazie all'invito di sr.Celestina
Corna e di sr.Anna Trotti, maestre delle novizie), ed all'esperienza di lectio divina ai
seminaristi dell'Almo Collegio Capranica (grazie all'invito di S.E.mons. Michele Pennisi) e
successivamente ai preti della Diocesi di Sessa Aurunca (grazie all'invito di S.E.mons. Antonio
Napoletano).
Questi incontri sono stati occasione per riflettere su ciò che è più
importante e ciò che è più trascurato nella lettura odierna di Marco.
Vogliamo ringraziare chi, avendoci chiesto di insegnarlo, ci ha dato modo di crescere nella
conoscenza e nell'amore del testo di Marco.
[Nota 2] Vogliamo qui ricordare la
proposta, elaborata da C.M.Martini, che ha visto una possibile progressione nella presentazione
dei quattro vangeli, “un'ipotesi di lavoro secondo cui i “quattro
Evangeli”, nell'ordine Marco – Matteo – Luca - Giovanni, potrebbero essere
considerati come indicativi dello spirito caratteristico dei diversi momenti di questo
itinerario. Pur tenendo conto del fatto che le diversità tra i vangeli sono dovute a
molti motivi, ampiamente messi in luce dalla critica, cioè ad esempio alla
molteplicità delle fonti e delle tradizioni soggiacenti, al diverso pubblico per cui
furono composti, alla mentalità teologica dei redattori, ecc., sembra che non sia da
trascurare, nella valutazione delle loro diversità, anche l'intenzione specifica di
ciascuno di essi di servire ad un particolare momento della maturazione cristiana. Ritenendo
Marco come il Vangelo più antico si vedrà facilmente che esso è
particolarmente adatto per la prima istruzione catecumenale in preparazione al battesimo.
Sviluppando lo schema della vita di Gesù che ha in comune con i discorsi kerygmatici
degli Atti degli Apostoli, esso offre la materia essenziale per una prima istruzione sul fatto
cristiano incentrata sulla persona e l'opera di Gesù. Matteo, col rilievo dato al tema
della comunità e con l'abbondante raccolta dei detti parenetici di Gesù, si
presta assai bene per la formazione di coloro che hanno ricevuto il battesimo e debbono
iniziarsi ai doveri della vita in comune. L'opera lucana (Luca e Atti) prolunga il racconto
della evangelizzazione fatta da Gesù con la narrazione della testimonianza resa dai suoi
inviati ed è particolarmente indicata per preparare il battezzato a proclamare ad altri
la parola di Dio. Infine Giovanni, il Vangelo del “presbitero”, rappresenta la
riflessione matura della coscienza cristiana sul mistero della Rivelazione, e si presta
soprattutto per l'istruzione di coloro che, avendo percorso i gradi successivi
dell'esperienza cristiana, la vogliono contemplare nel suo insieme unitario nella
trasparenza della fede” , da C.M.Martini, Iniziazione cristiana e teologia
fondamentale. Riflessione sulle tappe della maturità cristiana nella chiesa
primitiva in R.Latourelle e G.O'Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia
fondamentale , Queriniana, Brescia, 1980, pp. 85-91. Come, però, vedremo, al termine
del nostro percorso, i temi della sequela, della missione e di una contemplazione approfondita
di tutto l'itinerario percorso sono già in opera – e non potrebbe non esserlo,
essendo coessenziali con il cristianesimo stesso - in nuce, nello steso Marco.
L'interpretazione antica delle figure dei quattro esseri viventi, viste come simboli dei
quattro evangelisti, mostra anch'essa questi diversi livelli di lettura. Si passa dal motivo
iniziale con cui si apre ogni singolo evangelo, ad una caratterizzazione della figura di
Gesù del singolo vangelo, alla dimensione esistenziale che il credente assume dinanzi ed
a causa di quel vangelo. Così, in maniera completa, Gregorio Magno, nell'Omelia IV su
Ezechiele: che “questi quattro esseri viventi alati simboleggino i santi quattro
Evangelisti, lo attestano le introduzioni stesse dei singoli libri del Vangelo. Matteo
giustamente viene simboleggiato da una figura d'uomo perché si rifà all'origine
umana di Gesù; Marco dal leone a motivo del grido nel deserto; Luca dal vitello
perché prende le mosse da un sacrificio; Giovanni è simboleggiato dall'aquila
perché egli esordisce con la divinità del Verbo. Egli dice: In principio era il
Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, mentre fissa lo sguardo nella sostanza
stessa della divinità, quasi come l'aquila fissa gli occhi nel sole”. Ma i
quattro simboli, continua Gregorio, indicano anche l'identità del Figlio fatto uomo:
“Egli infatti, il Figlio unigenito di Dio, si è fatto veramente uomo, egli si
è degnato morire come vitello nel sacrificio della nostra redenzione, egli è
risuscitato come leone in virtù della sua forza. Al leone non è consentito di
dormire con gli occhi aperti, perché nella morte stessa in cui come uomo il nostro
Redentore poté addormentarsi, come Dio, rimanendo immortale, rimase sveglio. Egli,
ascendendo al cielo dopo la sua risurrezione, fu elevato in alto come aquila. Egli dunque
è per noi tutto questo insieme: uomo per la sua nascita, vitello per la sua morte, leone
nella sua risurrezione, aquila nella sua ascensione al cielo”. Insieme, continua,
l'opera del credente vive della grazia completa enunciata nei simboli: “Ciascun eletto
ed ogni uomo maturo nella via di Dio, è insieme uomo, vitello, leone e aquila. L'uomo
è un animale ragionevole. Il vitello di solito viene immolato nel sacrificio. Il leone
è un animale forte, come sta scritto: Il leone, il più forte degli animali, non
teme l'incontro di nessuno. L'aquila vola in alto e fissa, senza batter ciglio, i raggi del
sole. Così chi è maturo nella ragione, è un uomo. E se mortifica se stesso
da ogni piacere mondano, è un vitello; e poiché, per questa sua mortificazione
spontanea, possiede la forza della sicurezza, per cui sta scritto: Il giusto è sicuro
come il leone che non ha paura di nulla, egli è un leone; siccome, poi, contempla in
modo sublime le realtà celesti ed eterne, è un'aquila. Perciò, se ogni
giusto diventa uomo in virtù della ragione, vitello in virtù del sacrificio della
sua mortificazione, leone per la forza della sicurezza, aquila per la contemplazione,
giustamente questi esseri viventi possono essere il simbolo di ogni uomo
perfetto”.
[Nota 3] La “lezione” “figlio di Dio”, assente nel Codice Sinaitico, è invece presente nel Vaticano (Codice B), nel Codice di Beza (Codice D), nell'Alessandrino (Codice A). B.M.Metzger, nel suo A textual commentary on the Greek New Testament , la dà con grado di probabilità C, secondo la sua codificazione, cioè al 50%. Per un approfondimento della storia della tradizione manoscritta della Bibbia vedi, su questo stesso sito, www.gliscritti.it , la mostra L'ignoranza delle Scritture , con le relative schede ai principali manoscritti antichi del NT.
[Nota 4] Da un certo punto di vista le figure di Elia, il “profeta” per eccellenza, e del Battista in fondo coincidono, poiché Giovanni è stato la realizzazione della promessa di uno simile ad Elia, che avrebbe preceduto l'imminente arrivo del Cristo. E' per questo che Giovanni Battista era "svestito" da Elia così descritto dal racconto biblico: "Era un uomo peloso; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi" (cfr. 2 Re 1,8).
[Nota 5] E' questa la prospettiva che la teologia fondamentale indaga e che ha solenne affermazione nel magistero del Concilio Vaticano II, proprio in un passo a cui ha lavorato il papa Giovanni Paolo II, allora giovane vescovo Wojtyla. Ecco una breve introduzione alla questione dalla conferenza di S.Ecc.mons. Rino Fisichella, in occasione del XXV di Pontificato di Giovanni Paolo II, tenuta presso L'Areopago, dal titolo Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell'uomo, su www.gliscritti.it alla sezione Approfondimenti: “Ho fatto fare una tesi, ai bei tempi in cui ero professore, ad un mio studente americano, per cercare di capire quale influsso abbia avuto il giovane vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, in quella espressione di Gaudium et spes, n. 22. Il n. 22 di Gaudium et spes torna in tutti i documenti più importanti del papa, ritorna nelle sue omelie più decisive, più importanti. Cosa dice quel brano? Dice così: “In realtà, solamente alla luce del Verbo incarnato, trova piena luce il mistero dell'uomo”. E poi, continua il Concilio, “in effetti, veramente, in questo nuovo Adamo, Cristo, rivelando il volto del Padre, permette all'uomo di conoscere pienamente se stesso, l'uomo diventa più uomo e capisce la sua altissima vocazione”... Quella tesi ha dimostrato che quel giovane vescovo ci aveva messo le mani... C'è tutta una storia lunghissima dietro la composizione e la redazione di questo documento. Ma lì c'è un pensiero che Wojtyla ha sempre portato avanti, cioè qual è la visione dell'uomo. Perché è stato abbattuto il muro di Berlino, perché questo uomo, il Papa, è stato così accolto ed è diventato, anche nella vecchiaia, l'espressione ultima a cui tutti si rivolgono per avere una parola che sia carica di senso? Il perché, essenzialmente, ci è chiarito in questi testi, sempre nella Redemptor hominis, dove il papa scrive che Cristo si è rivolto ad ogni uomo, senza esclusione alcuna, a tutto l'uomo, senza escludere nessuno. Sembra proprio quasi che il suo tentativo sia proprio quello di dire che Cristo va incontro a tutti e a tutto l'uomo. Non solo non esclude nessuno, ma tutto ciò che è l'umanità, all'interno del mistero di Gesù Cristo. Che rimane un mistero, come rimane un mistero la vita dell'uomo, ma sono due misteri che si incontrano. Io sono convinto che su quella base lui ha sviluppato tutta la sua antropologia. Cioè l'antropologia di Wojtyla è essenzialmente un'antropologia carica della cristologia e riletta alla luce della cristologia. Alla luce di Cristo, lui rilegge l'uomo. Per capire veramente questo uomo, bisogna metterlo sotto i riflettori di Gesù Cristo. Allora si capisce perché questo Gesù Cristo che è venuto a portare la libertà, deve rendere l'uomo sempre più libero, e si capisce perché Wojtyla insista su questo”.
[Nota 6] Eccoci al cuore
del problema odierno dell'interpretazione biblica. E' già nella stessa
Scrittura che testi successivi rivelano un senso più pieno di un'espressione
precedente. E' soprattutto nella stessa autocomprensione di Gesù, che
i vangeli ci manifestano, che ciò è vero. Tutto questo viene tradizionalmente
indicato con l'espressione "sensus plenior" ("senso più pieno"). Così
l'esegesi cattolica non fa che continuare ciò che la stessa Scrittura
fa. Ma anche il magistero interviene ad indicare una comprensione più
profonda di un determinato testo. Quando si parla di "sensus plenior", non è
solo la Scrittura a rileggere se stessa, in maniera sempre più piena.
La chiave di volta ed il compimento della rivelazione divina è il Figlio
Gesù Cristo. Il Concilio Vaticano II usa distintamente due espressioni
significative: la Bibbia è "locutio Dei", il Figlio è il "Verbum
Dei". Lo Spirito Santo, da lui donato alla Chiesa, la guida alla comprensione
della "verità tutta intera". La lettura della Scrittura nel contesto
della morte e resurrezione di Cristo e del dono dello Spirito Santo permette
di cogliere quello che la Tradizione chiama il "senso spirituale" delle Scritture:
"Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo
la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti
sotto l'influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo
e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il
Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. E' perciò
normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della
vita nello Spirito". E' il documento L'interpretazione della Bibbia nella
Chiesa , della Pontifica Commissione Biblica, ad affermare questo. Dopo
aver analizzato i differenti metodi dell'esegesi e la loro complementarietà,
continua considerando la specificità della lettura cristiana della Bibbia:
"Si tratta o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo
biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce
un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica
o una definizione conciliare dà a un testo della Bibbia. Per esempio,
il contesto di Mt 1, 23 dà un senso pieno all'oracolo di Is 7, 14 sulla
"almah" che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta
(parthenos): “La vergine concepirà”. L'insegnamento patristico
e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell'insegnamento del
Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del
peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno dell'insegnamento
di Paolo in Rm 5,12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l'umanità.
Ma quando manca un controllo di questo genere - da parte di un testo biblico
esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, - il ricorso a un preteso
senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.
Il documento Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana
sempre della Pontificia Commissione Biblica, pubblicato nel 2001, completa la
riflessione del precedente. Così afferma al n.64:
"I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell'Antico Testamento,
molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità
di senso effettivamente presente nei testi. Come un «rivelatore»
durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù
e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza
di significato che prima non poteva essere percepita. Questa pienezza di significato
stabilisce tra il Nuovo Testamento e l'Antico un triplice rapporto: di continuità,
di discontinuità e di progressione".
Il documento intende così rifiutare "un'esegesi, per la quale i testi
del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar
loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica
però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima
di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere
anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con
la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico
Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita" (prefazione
del card. J.Ratzinger al documento).
Una lettura unilateralmente storico-critica dell'Antico Testamento negherebbe
la stessa verità del Nuovo Testamento che si propone proprio come compimento
in chiave cristologica dell'Antico e condurrebbe inevitabilmente a ritornare
alla posizione di Marcione che, già agli inizi del cristianesimo, vedeva
un Antico Testamento opera di un Dio senza Cristo e, conseguentemente, lo rifiutava.
Se l'esegesi cattolica profondamente apprezza ed utilizza ogni metodo scientifico,
non dimentica, però, l'opera dello Spirito Santo: "L'esegesi cattolica
non cerca di distinguersi usando un metodo scientifico particolare… Di
conseguenza, utilizza senza secondo fine, tutti i metodi e approcci scientifici
che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto
linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico… Ciò
che la caratterizza è il suo situarsi consapevolmente nella tradizione
vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà
alla rivelazione attestata dalla Bibbia. Le ermeneutiche moderne hanno messo
in luce… l'impossibilità di interpretare un testo senza partire
da una “precomprensione” di un genere o dell'altro. L'esegesi cattolica
si avvicina agli scritti biblici con una precomprensione che unisce strettamente
la moderna cultura scientifica e la tradizione religiosa proveniente da Israele
e dalla comunità cristiana primitiva. La sua interpretazione si trova
così in continuità con il dinamismo ermeneutico che si manifesta
all'interno stesso della Bibbia e che si prolunga poi nella vita della Chiesa.
Corrisponde all'esigenza di affinità vitale tra l'interprete e il suo
oggetto, affinità che costituisce una delle condizioni di possibilità
del lavoro esegetico".
E' di fondamentale importanza, per una corretta comprensione del problema, rilevare
– sebbene ciò sia, in genere, completamente misconosciuto –
che un problema simmetricamente corrispondente esiste nell'esegesi rabbinica.
L'interpretazione giudaica delle Scritture, ricchissima e carica di denso significato
– utile pure, come affermano i recenti documenti della Pontificia Commissione
Biblica, per gli esegeti cattolici - è anch'essa profondamente differente
da una ricostruzione storico-critica di esse. Inoltre è anch'essa profondamente
debitrice di testi successivi - soprattutto, come è noto, la Mishna ed
il Talmud – al punto che, si potrebbe con buone ragione affermare che
la prospettiva del giudaismo successivo all'origine del cristianesimo ed alla
distruzione del Tempio differisce in molti aspetti di non poca importanza da
quella corrente, o piuttosto di quelle correnti, ai tempi di Gesù, come
sostiene acutamente D.Neuhaus S.J., in
L'ideologia ebraico-cristiana e il dialogo ebrei-cristiani. Storia e teologia
, su www.gliscritti.it , nella sezione Approfondimenti.
[Nota 7] Questo il testo integrale, tratto dalla Salita al monte Carmelo, Lib.2, cap.22, III ss., dove San Giovanni della Croce si domanda se sia segno di un progresso nella vita di fede domandare rivelazioni particolari da Dio e visioni:
- 3. Ora che la fede è basata in Cristo e la legge evangelica
è stabilita in quest'era di grazia, non è più necessario consultare Dio,
né che egli parli o risponda come allora (nell'Antico Testamento). Infatti donandoci il
Figlio suo, ch'è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta e
non ha più nulla da rivelare.
- 4. Questo è il senso genuino del testo in cui San Paolo vuole indurre gli Ebrei a
lasciare gli antichi modi di trattare con Dio secondo la legge mosaica, e a fissare lo sguardo
solamente in Cristo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi... in questi
giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Con queste parole l'Apostolo
vuole far capire che Dio è diventato in un certo senso muto, non avendo più nulla
da dire, perché quello che un giorno diceva parzialmente per mezzo dei profeti, l'ha
detto ora pienamente dandoci tutto nel Figlio suo.
- 5. Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o
rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa
lo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità. Dio infatti
potrebbe rispondergli: “Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono
compiaciuto. Ascoltatelo!” (Mt 17,5). Se ti ho già detto tutto nella mia Parola
ch'è il mio Figlio e non ho altro da rivelare, come posso risponderti o rivelarti
qualche altra cosa? Fissa lo sguardo in Lui solo e vi troverai anche più di quanto
chiedi e desideri: in Lui ti ho detto e rivelato tutto.
Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai
Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia
visione e rivelazione in quanto io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato
ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio. Dal giorno in cui sul
Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui, dicendo: “Questi è il mio Figlio
diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo”, cessai di istruire e rispondere in
queste maniere ed affidai tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più
materia di fede da rivelare e verità da manifestare. Prima parlavo, ma unicamente per
promettere Cristo e gli uomini mi consultavano solo per chiedere e aspettare Lui nel
quale dovevano trovare ogni bene, come ora tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli
fa capire. Colui che ora mi consultasse in quel modo e desiderasse che io gli dicessi e
rivelassi alcunché, sotto un certo aspetto mi chiederebbe di nuovo Cristo e altre
verità della fede, in cui però sarebbe debole, perché tutto è
già stato dato in Lui. In tal modo farebbe un grave oltraggio al mio amato Figlio
poiché non solo in ciò mancherebbe di fede, ma perché lo obbligherebbe ad
incarnarsi di nuovo e ad affrontare ancora una volta la vita e la morte qui in terra. Tu dunque
non desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da parte mia: guarda bene il
Cristo e in Lui troverai già fatto e detto molto più di quanto tu
vorresti”.
- 6. Se vuoi che io ti dica qualche parola di conforto, guarda mio Figlio, obbediente a me
e per amor mio sottomesso ed afflitto, e sentirai quante cose ti risponderà. Se desideri
che io ti sveli alcune cose o avvenimenti occulti, fissa in Lui i tuoi occhi e vi troverai dei
misteri molto profondi, la sapienza e le meraviglie di Dio le quali, secondo quanto afferma il
mio Apostolo, sono in Lui contenute: Nel quale Figlio di Dio sono nascosti i tesori della
sapienza e della scienza di Dio, tesori di sapienza che saranno per te profondi, saporosi e
utili più di tutte le cose che vorresti sapere. Per questo lo stesso Apostolo si
gloriava dicendo “di aver fatto intendere che egli non conosceva se non Gesù
Cristo e questi crocifisso” (1 Cor 2,2). Inoltre se tu desideri altre visioni e
rivelazioni divine o corporee, guarda il Cristo incarnato e vi troverai più di quanto
pensi, poiché S.Paolo afferma a tale proposito: “In Cristo abita corporalmente
tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
- 7. Ormai non conviene più interrogare Dio a quel modo, né d'altra
parte è necessario che Egli parli, poiché avendo rivelato in Cristo tutte le
verità della fede, non ha, né avrà mai più, altra verità da
manifestare. Perciò desiderare ancora di ricevere qualche cosa per via soprannaturale
è come ammettere che Dio non abbia dato nel Figlio tutto ciò che è
sufficiente. Anche se si fa ciò supponendo la fede e credendo in essa, tuttavia si
compie un atto di curiosità generata da fede imperfetta. Dunque non si deve aspettare
dottrina o altra cosa per via soprannaturale.
Dal momento in cui Cristo crocifisso disse sul punto di morte: “Tutto è
consumato” (Gv 19,30), cessavano non solo questi modi di fare, ma anche ogni rito e
cerimonia dell'antica legge. Perciò dobbiamo lasciarci guidare in tutto in modo umano e
visibile dalla legge di Cristo uomo, della sua Chiesa e dei suoi ministri, e per questa via
porre rimedio alla nostra ignoranza e debolezza spirituale, poiché in essa troveremo
abbondante medicina ad ogni nostro male. Tutto ciò che esce fuori da questo cammino
è non solo curiosità, ma grande presunzione e noi non dobbiamo credere a cosa
ricevuta per via soprannaturale, ma solo a quanto ci viene insegnato da Cristo uomo e dai suoi
ministri, uomini anch'essi. Per tale ragione l'Apostolo scrive: “Se un angelo del cielo
vi annunziasse cose diverse da quelle che vi abbiamo predicato noi, sia maledetto e
scomunicato”(Gal 1,8).
[Nota 8] Gli studi recenti, ad esempio quelli di V.Taylor, X.Léon-Dufour, C.M.Martini, si muovono tutti in questa direzione.
[Nota 9] Marco è l'unico a ricordare, in 4,12: “Se non comprendete questa parabola (quella del seminatore), come potrete comprendere le altre?” e ad aggiungere, in Mc 4,34, alla frase “Senza parabole non parlava loro (alle folle)”, l'espressione “Ma in privato ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa”.
[Nota 10] I testo integrali di queste meditazioni, unitamente a quelle di d.Giuseppe Dossetti che si alternarono alle prime, sono on-line sul sito www.gliscritti.it alla sezione I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa, con il titolo Irremovibili dalla speranza del Vangelo.
[Nota 11] Straordinaria è la memoria lucana che ben comprende il senso di questa parabola. Il Padre fa seguire alla domanda che medita tra sé e sé, “Che devo fare?” - cioè, potremmo dire: “Le ho provate tutte, come posso ancora dargli una chance?” – la risposta: “Manderò il mio unico figlio; forse di lui avranno rispetto”.
[Nota 12] Chi erano gli Erodiani? Nel
NT conosciamo tre Erode. Il primo in ordine cronologico è Erode il Grande, il terzo
è, invece, Erode Agrippa I (cfr. At 12,1), insignito del titolo regale da Caligola nel
41, fece uccidere Giacomo, fratello di Giovanni, fece arrestare Pietro, perché questo
era gradito ai Giudei, morì nel 44 e At racconta poi la sua morte.
Gli Erodiani sono allora sudditi e fedeli del secondo Erode del NT, di Erode Antipa, tetrarca
di Galilea (da Flavio Giuseppe sappiamo che fu lui a far uccidere Giovani Battista anche per
paura della folla di cui temeva una insurrezione). E' l'Erode che comparirà nel processo
di Gesù. Come dice Luca, “in quel giorno Erode e Pilato divennero amici, prima
infatti c'era stata inimicizia fra loro” (Lc 23,12). At 4,27, citando il Sal 2,1-2,
afferma che la profezia del Salmo si è compiuta proprio in quel giorno nel quale si
radunarono insieme Erode e Ponzio Pilato (“i re ed i principi”) con le genti e il
popolo di Israele. E' lettura spirituale della Scrittura, presente già nello stesso NT,
che vede riuniti nel giudizio di Gesù non solo diverse autorità, ma soprattutto
gli ebrei ed i pagani (con i rispettivi termini tecnici di 'am e goim). Gli Ebrei sono qui
rappresentati da Erode Antipa ed i pagani da Pilato. E' la prima unità di ebrei e non
ebrei, che annuncia “l'abbattimento del muro di separazione che era frammezzo”.
Tutti sono sotto la croce di Cristo, nel giudicarlo e condannarlo, macchiati dallo stesso
peccato verso di Lui, per essere tutti bisognosi di salvezza e aspersi dal suo sangue di
perdono.
Probabilmente gli Erodiani che pongono la domanda a Gesù sul tributo cercavano una
autonomia, pur nella dipendenza politica. Ecco che la risposta di Gesù mostrerà,
ma non sarà la sua affermazione più importante, come in realtà non hanno
bisogno di risposta perché già hanno accettato il potere romano e le sue monete.
Con la domanda che pongono stanno, per usare una secca espressione napoletana, “sputando
nel piatto dove mangiano” per cogliere Gesù in fallo.
[Nota 13] Per un corretto inquadramento storico della questione sul tributo a Cesare ci sembra importante sottolineare la tendenza degli studi recenti a mostrare, con buone ragioni, come l'atteggiamento dei funzionari romani, nella sua globalità, proprio per la tradizione dello Ius romano, non si sia avvalso del terrore per la gestione delle diverse nazioni conquistate e come, in particolare, sia stato benevolo fino alla svolta neroniana, nei confronti del cristianesimo. Cfr. ad esempio, Marta Sordi, Alle radici dell'Occidente , Marietti, Genova-Milano, 2002, p.116: “Tra alcuni studiosi moderni è ricorrente la tesi, a mio avviso insostenibile dal punto di vista di una corretta critica storica, che l'iniziativa politica del processo (di Gesù) sia stata dei Romani e di Pilato e che i vangeli siano viziati da un atteggiamento “filoromano”: questa tesi, sviluppata fino all'assurdo e al ridicolo è divenuta dominante nella “tradizione” cinematografica dei film sulla Passione, nei quali i romani sono rappresentati, con una falsificazione storica evidente, come i nazisti dell'antichità”.
[Nota 14] La legge del levirato, enunciata in Dt 25,5-10, prevede che il fratello od il parente più vicino di un maschio morto senza avere avuto figli, sposi la vedova del morto, in maniera da dare una discendenza al defunto. Il libro di Rut presenta in forma narrativa la stessa legge. L.Alonso Schoekel, nei suoi studi sulla figura di Giovanni Battista, analizzando l'espressione "non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali”, ha proposto la tesi che anche in questo caso si tratti della legge del levirato. Giovanni intenderebbe allora dire: “Gesù è il vero sposo, io non ho alcun diritto sulla sposa, sono solo l'amico dello sposo”.
[Nota 15] E' il grande annuncio del discorso escatologico, ricordato dal vangelo di Marco al capitolo 13,24-27, dove il centro dell'attenzione non è, evidentemente, sulle tribolazioni a venire quanto sul fatto che “In quei giorni, dopo quella tribolazione... vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo”.
[Nota 16] H.U.von Balthasar, nel suo
Gli stati di vita del cristiano , Jaca Book, Milano, 1996, affronta la questione del
perché lo stato di vita di chi si sposa “e perciò non segue i consigli (o
perlomeno non li segue alla lettera), che non afferra questo mezzo così essenziale per
il raggiungimento dell'amore, non è tuttavia da considerare univocamente, di fronte allo
stato dei consigli, come inferiore, come stato dell''amore imperfetto” (p. 48).
La sua proposta si articola successivamente a diversi livelli di lettura, per cui gli stati di
vita possono essere uguali fra di loro se considerati da un determinato punto di vista –
e tutti necessari, gli uni agli altri - e superiori o inferiori e, quindi, a servizio gli uni
degli altri e gerarchicamente disposti, a seconda della prospettiva. E' l'amore, poi, ad essere
perfetto. Ma, al suo livello, la vocazione alla vita religiosa di celibato e verginità
è la più perfetta, perché anticipa l'amore di Dio nel regno a venire.
Giovanni Paolo II ha affrontato lo stesso tema nell'Udienza generale del mercoledì 14
aprile 1982, ripresa nell'Osservatore Romano del 15.04.1982.
[Nota 17] Sebbene la parola Purgatorio appaia più tardi nella teologia cristiana – nella comprensione cattolica dell'opera dello Spirito Santo nella Tradizione della Chiesa questo è, a ragione, assolutamente normale – la coscienza della necessità di pregare per chi non è morto nella completa santità e nella più piena grazia e la consapevolezza che tale dono di chi è pellegrino sulla terra a chi è già nei cieli arreca reale giovamento – lex orandi, lex credendi – sono sempre state, anche nei primissimi momenti della vita della Chiesa, motivo per proporre la realtà di ciò che più tardi riceverà il nome di Purgatorio.
[Nota 18] Proprio queste affermazioni ci appaiono elemento di chiarificazione e punto di vista decisivo per comprendere le grandi tradizioni religiose. E' necessario, da un lato, chiarire quale sia il criterio sintetico di interpretazione, dall'altro, valutare come esso si concretizzi in norme concrete ed effettuali. A qualsiasi persona che abbia un minimo di competenza in tema di testi fondativi delle grandi religioni storiche monoteistiche, ebraismo, cristianesimo, islam, è evidente come il testo, citato nella sua letteralità, non dica, in fondo, tutto se stesso, proprio per le evidenti contraddizioni che, ad un livello puramente letterale, sono espresse. E' solo l'ermeneutica della tradizione orale che ne chiarifica la sintesi con il sottomettere testo a testo e interpretazione a interpretazione, da un lato, e, dall'altro, con l'anatematizzarne alcune. E' in questo rapporto complesso fra testo scritto e tradizione orale che stanno le questioni disputate, ad esempio, della “guerra santa” o delle regole alimentari.
[Nota 19] Come è noto la risposta di Gesù ha riferimento nei versetti di Dt 6,4-5 e Lev 19, 18. Ma sua propria è la sintesi e la priorità, proprio poiché egli è l'ermeneuta vero, l'interprete delle Scritture. La Chiesa ricorda varie espressioni del Signore che si completano a vicenda, come Mt 22, 40, “Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti”, Rom 13, 8-10, “Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge... pieno compimento della legge è l'amore”, Gal 5, 14, “Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso”, Gv 15,12, “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”. Quest'ultima formulazione non differisce dalle altre, ma mostra ancor più l'unità dell'amore. Esso viene ricevuto dall'amore del Cristo che diviene poi forza e misura dell'amore per l'uomo. Il Nuovo Testamento sa comunque bene che la sintesi non è sufficiente e immediatamente, accanto ad essa, sviluppa la diversificazione, la concretizzazione, perché non resti lettera vuota l'annuncio del primo dei comandamenti. Ecco, allora, ad esempio, l'inno alla carità, in 1Cor 13 che esplica cosa sia l'amore. Questo testo si pone ulteriormente come punto di riferimento per il cammino successivo della Chiesa. Possiamo vederne il primo sviluppo nei padri apostolici, Lettera di Clemente ai Corinzi 49, 1 ss che continua l' “analisi” insieme all'annuncio della sintesi.
[Nota 20] Nello splendido volumetto di U.Neri, Introduzione a Matteo, Marco, Luca , EDB, Bologna, 2001, la persona di Gesù secondo il racconto di Marco è presentata a partire da ulteriori “titoli”: Gesù è il nuovo Adamo, Gesù è l'evangelo, Gesù è la salvezza presente, Gesù è la Parola, Gesù è il giudizio di Dio.
[Nota 21] Possiamo pensare, fra gli altri, a La gloria di Giuseppe Berto (“Noi due sapevamo che non c'era possibilità di scontro, né di variazioni: dovevamo realizzare un evento già scritto, stando tutti e due nella necessità di una mostruosa innocenza, o di un ancor più mostruosa inconsapevolezza... Rabbi, gli dissi, e lo abbracciai. Fu il mio ultimo dovere d'amore, e ciò che sarebbe accaduto dopo ne avrebbe dato spiegazione e giustificazione, l'avrebbe fatto entrare nella gloria come necessità, e poco importava ch'io fossi destinato a pagarlo con dannazione”, Mondadori, Milano, 1978, p.166) oppure a Il vangelo secondo Gesù di J.Saramago (“Ma Gesù ... disse... Ecco quanto vi chiedo, che uno di voi corra al Tempio, dicendo che quell'uomo sono io, e forse, se la giustizia sarà rapida, la legge di Dio non avrà il tempo di correggere quella degli uomini... Fu allora che si udì, chiara, distinta, al di sopra del frastuono, la voce di Giuda Iscariota, Andrò io, se così vuoi... Lì, a un albero di fico sul ciglio della strada per cui Gesù sarebbe dovuto passare, c'era il discepolo che si era offerto perché si compisse l'ultima volontà del maestro”, Bompiani, Milano, 1993, p. 341).
[Nota 22] Il credente sa bene anche il male fisico. Le espressioni ricorrenti che usiamo vorrebbero nasconderlo, eliminarlo almeno verbalmente. Con tutte le attenzioni ecologiche per amare e rispettare la natura, chi afferma che le specie animali si estinguono lo stesso, anche senza i danni causati dall'uomo? Perché il nostro linguaggio censura l'affermazione che un uomo di 60 anni non è più giovane e non sa astenersi dal commento: “Certo, poveretto, era molto giovane”? Non siamo riconciliati con il passare delle cose e della vita. Come tornare a parlare, invece, della morte e della vita eterna? Come accogliere l'invito ad “essere pronti e vegliare” rifiutando lo stupore dinanzi al male improvviso? L'uomo è chiamato a perdere, per grazia di Dio, l'illusione di conservare la vita, di fotografarla, di catalogarla: la deve, invece, dare per poterla poi ritrovare!
[Nota 23] E' a partire dal testo di
Marco che possiamo comprendere le osservazioni degli altri evangelisti, proprio nella loro
affermazione della presenza di Satana, nell'operato di Giuda. Egli non è un
“indemoniato”, ma, tragicamente, è colui che, in piena libertà, ha
permesso al Nemico di esprimere nella sua carne l'opposizione dell'AntiCristo, cfr. Lc 22,3
“Allora satana entrò in lui”, Gv 13,2 “Quando già il diavolo
aveva messo in cuore a Giuda di tradirlo”, Gv 13,27 “Dopo quel boccone satana
entrò in lui”. L'etimologia della parola diavolo ha radice, come è noto,
nel verbo greco “dia-ballo”, dividere, ed egli è appunto il divisore (il suo
opposto etimologico è appunto la parola “simbolo”, ciò che unisce).
Satan ha origine ebraica e vuol dire, invece, “accusatore”.
Anche altrove i vangeli mostrano questa presenza scomoda del Nemico che ce l'ha personalmente
con l'uomo, che lo cerca e lo insidia insistentemente ed in successione, come in Lc 11,24-25:
“Quando lo spirito immondo esce dall'uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo
e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova
spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi
entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell'uomo diventa peggiore della
prima”. Altrove è sempre evidente che la sua forma primaria non è quella
della possessione diabolica, senza consenso umano, ma, piuttosto, quella della banalità
del male che impedisce di essere cristiani, attraverso la libertà dell'uomo, come in Lc
8,12: “I semi caduti lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata (la parola di
Dio), ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e
così siano salvati”.
[Nota 24] Uno dei rari testi contemporanei che ponga l'uomo, in maniera acuta e non ossessivamente conturbante, dinanzi al mistero della libertà del male che si appella alla nostra libertà è il libro di C.S.Lewis, Le lettere di Berlicche , dove viene descritta la salvezza di un uomo a rovescio, vista non con gli occhi di Dio, ma con quelli di Berlicche, un diavolo più anziano che prova ad insegnare al giovane nipote, il diavoletto Malacoda, come traviare l'uomo. Dio è qui “l'avversario nostro” ed il “padre nostro che sta laggiù” il suo avversario.
[Nota 25] La tradizione ha compiuto un
processo di unificazione di personaggi diversi, fondendo l'unica meravigliosa storia di Maria
Maddalena. I testi unificati sono quelli di Lc 8,2, “Maria di Magdala, dalla quale erano
usciti sette demoni”, Lc 7,36-50, “Chi lo amerà di più?... Le sono
perdonati i peccati perché ha molto amato. Quello a cui si perdona poco, ama (almeno un)
poco”, Lc 10,38-42 (nel contesto della questione: Chi è il mio prossimo?),
“Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi
aiuti”, Gv 11, “Signore, il tuo amico è malato… Io sono la
resurrezione e la vita… Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i
giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò…”, Gv
19,25, “Stavano presso la croce… e Maria di Magdala…”, Mc 16,1.9-10,
“Comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo
giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole”, Gv 20,11-18, “Hanno
portato via il mio Signore e non so dove l'hanno posto… va' dai miei fratelli e di' loro:
Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro… Ho visto il
Signore”.
La tradizione latina la presenta poi evangelizzatrice della Francia, insieme alla sorella
Marta ed al fratello Lazzaro, primo vescovo di Marsiglia, morto martire decapitato per la sua
professione di fede. Lo sbarco è nella Camargue, dove sorge ora la Chiesa delle Stes
Maries-de-la-Mer, la vita di eremita, nel canto della liturgia insieme agli angeli, presso la
Ste Baume, la grotta della Maddalena, le reliquie venerate a St Maximin-la-Sainte-Baume ed,
insieme, a Vézelay.
[Nota 26] Un recente, e non conforme al testo dell'evangelo, tentativo di lettura ne I giardini dell'Eden , del regista D'Alatri, propone l'ipotesi che da Giovanni Battista Gesù abbia appreso il suo destino di crocifisso! Costui va così ad aggiungersi ai tanti pretesi maestri di Gesù, indicati addirittura nella persona dei maestri tibetani dell'epoca, alla cui scuola Gesù si sarebbe recato negli anni della sua vita nascosta! E' conseguenza evidente di queste impostazioni che gli Apostoli e gli scrittori neotestamentari divengano così gli ignari, gli incompetenti, della vera storia di Gesù!
[Nota 27] E' straordinaria l'etimologia della parola “casto” che ha come suo opposto etimologico “incestuoso”, cioè quel rapporto madre-figlio dove a nessun altro è concesso entrare e dove non è possibile maturare quelle condizioni di libertà e di distacco di cui vive l'amore maturo. La morale cristiana sa bene che castità non è semplicemente astensione da contatto, ma ben più profondamente promozione di quella scelta del proprio e dell'altrui stato di vita, per essere trovati in quella vocazione che Dio ha pensato per ognuno.
[Nota 28] La parabola lucana del padre e dei suoi due figli, evidenzierà ancora questa grazia cercatrice di figli, nel male della vita.
[Nota 29] Citato da R.Penna, Letture evangeliche , Borla, Roma, 1989, p. 16.
[Nota 30] E' l'istante evidenziato nel Cenacolo di Leonardo da Vinci, l'immediato movimento di reazione degli apostoli, all'annuncio sul traditore.
[Nota 31] Così si esprime
l'enciclica Ecclesia de Eucharistia: “L'espressione, ripetutamente usata dal Concilio
Vaticano II, secondo cui «il sacerdote ministeriale compie il Sacrificio eucaristico in
persona di Cristo», era già ben radicata nell'insegnamento pontificio. Come ho
avuto modo di chiarire in altra occasione, in persona Christi «vuol dire di
più che “a nome”, oppure “nelle veci” di Cristo. In
persona : cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno
Sacerdote, che è l'autore e il principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel
quale in verità non può essere sostituito da nessuno». Il ministero dei
sacerdoti che hanno ricevuto il sacramento dell'Ordine, nell'economia di salvezza scelta da
Cristo, manifesta che l'Eucaristia, da loro celebrata, è un dono che supera
radicalmente il potere dell'assemblea ed è comunque insostituibile per collegare
validamente la consacrazione eucaristica al sacrificio della Croce e all'Ultima Cena.
L'assemblea che si riunisce per la celebrazione dell'Eucaristia necessita assolutamente di un
sacerdote ordinato che la presieda per poter essere veramente assemblea eucaristica. D'altra
parte, la comunità non è in grado di darsi da sola il ministro ordinato. Questi
è un dono che essa riceve attraverso la successione episcopale risalente agli
Apostoli . È il Vescovo che, mediante il sacramento dell'Ordine, costituisce un
nuovo presbitero conferendogli il potere di consacrare l'Eucaristia. Pertanto «il Mistero
eucaristico non può essere celebrato in nessuna comunità se non da un sacerdote
ordinato come ha espressamente insegnato il Concilio Lateranense IV» (Ecclesia de
Eucharistia 29).
[Nota 32] Per una breve riflessione su come parlare oggi di salvezza nell'attuale contesto, vedi il nostro: Parlare di salvezza sotto le Twin Towers , nella sezione Approfondimenti di questo sito www.gliscritti.it.
[Nota 33] L'episodio, raro nell'iconografia cristiana, è rappresentato pittoricamente negli affreschi del cosiddetto “Maestro trecentesco del Sacro Speco”, nella Chiesa superiore del Sacro Speco di Subiaco,
[Nota 34] L'esistenza di stadi letterari successivi che hanno portato alla giustapposizione di testi fino allo stabilimento del testo così come oggi lo leggiamo è evidente non solo dallo studio del vocabolario e dello stile che individua due differenti mani per Mc 16,1-8 e per Mc 16,9-20, ma anche dai motivi della critica letteraria. Il vangelo di Marco termina al versetto 16,8 nei Codici Vaticano e Sinaitico, che non conoscono i versetti successivi (sebbene proprio il Vaticano conservi stranamente una colonna vuota alla fine di Marco, secondo alcuni nell'indecisione se riportare o meno successivamente il brano di Mc 16,9-20). Due diversi manoscritti antichi contengono due ulteriori brani sulla resurrezione non riportati dagli altri testimoni. La maggioranza dei Codici, invece, riporta le due finali una di seguito all'altra. Dal punto di vista dogmatico il testo che scioglie ogni residuo dubbio sulla canonicità e sull'ispirazione divina del testo nella sua interezza (Mc 16,1-20) è il passo del Concilio di Trento che così recita: “Se qualcuno non accetterà consapevolmente come libri sacri e canonici questi libri, interi con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella Chiesa Cattolica e si trovano nella edizione antica della Volgata latina e disprezzerà consapevolmente le predette tradizioni, sia anatema”.
[Nota 35] Il testo che vi presentiamo è tratto da: E.Manicardi, La “finale lunga” del vangelo secondo Marco. Mc 16, 9-20: un altro testo in Credere oggi (La catechesi kerygmatica di Marco) XXII, n.5-6 131-132, 2002, pp. 163-177
[Nota 36] La Lumen Gentium, al n. 14, pur non citando espressamente la finale lunga di Marco, ad essa evidentemente fa riferimento, quando afferma: “Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla Sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare”.