Il presente testo è una traduzione italiana curata da Giulia Balzerani dell'originale francese: D.Neuhaus, L'idéologie judéo-chrétienne et le dialogue juifs-chrétiens. Histoire et théologie, RSR 85/2 (1997) 249-276. Chiunque si occupi seriamente del dialogo ebraico-cristiano conosce gli importanti lavori di p.Bruno Hussar, di p.Marcel Dubois, di p.Pierre Lenhardt, di p.Francesco Rossi de Gasperis e le prospettive da loro aperte sulla via della riflessione cristiana sull'ebraismo. L'articolo di p.Neuhaus, che molto rilievo ha avuto negli ambienti di lingua francese, propone ulteriori e diverse domande, o, forse, pone le stesse da un diverso punto di vista. E' espressione, anche, di una nuova generazione che si affaccia a servizio di tale dialogo. Soprattutto è testimonianza di una voce che cerca di vivere il dialogo ebraico-cristiano non nei paesi occidentali, ma nel contesto dello Stato di Israele e della realtà palestinese, là dove la presenza cristiana è una piccola minoranza dinanzi alla maggioranza ebraica. Le discussioni seguite alla pubblicazione in francese dell'articolo hanno spinto l'autore ad ulteriori precisazioni ed approfondimenti nei 4 articoli: "Wie mann weiterkommt: Einigen Mythen des gegenwartigen Dialogs unter Juden, Christen und Muslimen zerlegt" in Offene Fragen im Dialog (ed. Jens Haupt et Rainer Zimmer-Winkel), Hofgeismar Vortrage, 1998, 28-44, "Pour l'amour de la Torah: R. Johanan ben Zakkai eet l'origine du judaisme rabbinique" dans Le Milieu du Nouveau Testament: Diversite du judaisme et des communautes chretiennes au premier siecle, Media Sevres, Paris, 1998, 239-252, "A la rencontre de Paul: Connaitre Paul aujourd'hui, un changement de paradigme?" dans Recherches de Science Religieuse, 90/3 (2002) 353-376, "Qehilla, Eglise et Peuple juif" di prossima pubblicazione su Proche Orient chretien, 53 (2003). Presentiamo così ai lettori italiani il testo di D.Neuhaus, perché possa suscitare ulteriori riflessioni.
L'Areopago
La Chiesa cattolica vive - dopo il Concilio Vaticano II - un periodo di dialogo con gli ebrei.
Dopo trentacinque anni è molto cambiato lo sguardo che essa porta sull'ebraismo e sugli ebrei – come
testimoniano i numerosi documenti ufficiali sull'ebraismo[2]. Si
è, in qualche modo, tentato di cancellare duemila anni di disprezzo. Questa evoluzione, di cui ci si
può ben rallegrare, rappresenta un vero progresso in rapporto all'insegnamento ecclesiale che, per secoli, ha
affrontato in modo negativo ogni questione relativa agli ebrei e all'ebraismo.
Tuttavia noi solleveremo un certo numero di domande a partire da tre espressioni usate nel quadro dell'incontro
ebraico-cristiano: la testimonianza religiosa, la storia dell'incontro e la teologia dell'incontro. Queste domande
toccano il rapporto fondamentale che la Chiesa vede tra il cristianesimo e l'ebraismo. I documenti della Chiesa
cattolica di oggi pretendono che i rapporti tra il cristianesimo e l'ebraismo siano unici e che essi siano
“legati al livello stesso della loro propria identità”[3]. In questa prospettiva, il cristianesimo nasce dall'ebraismo; Gesù non era ebreo? Per
di più i cristiani non hanno forse adottato “le Scritture ebraiche” (l'Antico Testamento) come
prima parte del loro testo fondante (la Bibbia)? Infine, i cristiani, dimenticando questi legami, si sarebbero allora
resi responsabili di tutte le violenze storiche perpetrate contro gli Ebrei. In queste condizioni, cosa può
significare per noi l'incontro con l'ebraismo fondato su una tale elaborazione storica e teologica?
Nel corso di tutto questo articolo, i termini "ebraismo" ed "ebrei" faranno riferimento alla religione ebraica e a
quelli che praticano questa religione. Non entreremo nel dibattito sull'identità ebraica di quelli per i quali
l'ebraismo è sinonimo di appartenenza sociologica o politica. Ciò a cui si punta in questo articolo
è piuttosto l'incontro con una testimonianza religiosa vivente. Oggi, trentacinque anni dopo il Concilio, una
certa ideologia "ebraico-cristiana" si è istaurata poco a poco come fondamento dell'incontro
ebraico-cristiano. In uno spirito di vero dialogo, questo articolo vorrebbe presentare una riflessione critica su
questa ideologia. In effetti, è essenziale andare sempre più lontano nello slancio del dialogo: ma per
fare questo è necessario approfondire una riflessione teologica a partire da questo incontro
ebraico-cristiano.
"Gli ebrei e l'ebraismo non dovrebbero occupare un posto occasionale e marginale nella catechesi e nella predicazione, ma la loro presenza indispensabile deve esservi integrata in modo organico"[4]. Nel discorso cattolico dopo il Concilio Vaticano II si è sostenuto regolarmente che il rapporto del cristianesimo con l'ebraismo è essenziale per la sua auto-comprensione. Il cristianesimo, in effetti, non può comprendere se stesso senza l'ebraismo che gli è storicamente anteriore. Così, secondo il Concilio Vaticano II, il cristianesimo testimonia della sua origine nel riconoscimento di Gesù come ebreo e nell'unità del Nuovo Testamento con l'Antico.
“Gesù era ebreo ed è sempre rimasto tale”[5]. Gesù Cristo, che è l'incarnazione di Dio, è sorto dall'insieme dell'Antico Testamento e ha vissuto il suo ebraismo come ebreo praticante, fedele alla Legge e a tutte le sue prescrizioni. Riprendendo una espressione dei vescovi tedeschi, Giovanni Paolo II dice che “chiunque incontra Gesù Cristo incontra l'ebraismo”[6]. Cosa implica il rapporto tra Gesù e il suo ebraismo per l'auto-comprensione cristiana? Il fatto che Gesù sia ebreo comporta un rapporto speciale con l'ebraismo? Cosa significa l'espressione “Gesù l'ebreo”? Queste domande pongono già in partenza dei problemi di terminologia. Cosa significa "ebreo" nel vocabolario cristiano? Secondo noi è possibile dare almeno tre significati a questo termine.
1. L' “ebreo” del testo
L'ebreo del testo è quello che esiste nel testo fondante del cristianesimo, la Bibbia (l'Antico Testamento e
il Nuovo Testamento). La storia cristiana della salvezza si svolge in un racconto che riguarda un popolo specifico,
Israele, eletto da Dio. Questa storia si completa con la nascita, la morte e la risurrezione di Gesù, egli
stesso figlio di questo popolo. Ci sono tre categorie di ebrei nel testo. I "confessori" (quelli che hanno atteso la
venuta di Cristo nell'Antico Testamento), "i testimoni" (quelli che hanno affermato la sua venuta nel Nuovo
Testamento) e i "ciechi" (coloro che, nel Nuovo Testamento, hanno rifiutato Gesù come i loro antenati avevano
rifiutato la Legge di Dio nell'Antico Testamento). L'ebreo del testo è definito allora dalla sua accettazione
o dal suo rifiuto di Gesù come Cristo.
2. L' “ebreo” mitico
L'ebreo mitico è quello che esiste nell'immaginazione cristiana. E' l'ebreo come è percepito dopo la
rottura irrevocabile del cristianesimo con l'ebraismo. Una lettura anti-giudaica del Nuovo Testamento (la negazione
della religione ebraica vista come superata dopo la venuta di Cristo) ha dato origine a un antisemitismo forte nel
mondo cristiano (il disprezzo degli ebrei stessi). L'anti-giudaismo cristiano vede l'ebraismo come una religione di
paura e di legalismo ipocrita, privato di ogni vitalità, e vede nell'ebreo un deicida – l'uccisore di
Cristo. E' contro tutte queste immagini che i documenti cattolici si levano dopo il 1965. L'ebreo mitico è
quello che, nel suo rifiuto di Cristo e della Chiesa, rifiuta la verità, la luce e la vita e, in questo modo,
tutti i valori umani. E' anche vero che esiste un certo filo-semitismo che vuole vedere negli ebrei delle persone
particolarmente dotate intellettualmente o abili sul piano finanziario per esempio. In effetti questo filo-semitismo
non è molto diverso dall'antisemitismo perché rinchiude l'ebreo in un immaginario cristiano che trova
il suo principio e il suo fondamento in una lettura della Bibbia in cui il rapporto con l'ebreo reale è
inesistente.
3. L' “ebreo” vicino
L'ebreo vicino è quello che vive in un mondo che il cristiano divide con lui. Questa immagine dell'ebreo come
vicino non corrisponde né all'ebreo del testo, né all'ebreo mitico. L'ebreo vicino è, in una
certa misura, un “altro” in un mondo pieno di altri. L'ebreo che resta al di fuori dell'accoglienza della
testimonianza cristiana si ricollega alla stessa categoria di altri “non credenti”, come il musulmano,
l'indù, il buddista o l'ateo. L'ebreo vicino come “altro” è presente da molto nella storia
cristiana e costituisce una realtà sempre presente di alterità.
La confusione di questi tre significati è molto diffusa nel discorso cristiano sugli ebrei e sull'ebraismo.
E' dunque fondamentale, in un vero dialogo, prendere coscienza della distinzione essenziale che esiste tra l'ebreo
del testo e l'ebreo vicino per neutralizzare l'immagine (a volte molto violenta) dell'ebreo mitico. L'ebreo del testo
è quello che indica la venuta di Cristo ma (per la maggior parte) rifiuta Cristo quando egli viene. L'ebreo
vicino non può essere definito dal Cristo, né dall'evento cristiano, né dalle radici ebraiche di
Gesù. Benché la maggior parte degli ebrei ignori totalmente Gesù, è vero che oggi ci sono
alcuni autori ebrei (come M. Buber, F. Rosenzweig, S. Ben Chorin, D. Flusser, ecc.) che riconoscono in Gesù
una sorta di riformatore ebreo, in buona fede, tra molti altri della sua epoca. Ma per i cristiani Gesù
è più che un riformatore, più che un profeta.
Non c'è dubbio secondo il testo fondante del cristianesimo sul fatto che Gesù e i
suoi discepoli fossero ebrei. Gesù e i primi cristiani sono stati formati nell'ebraismo, il culto dei
sacrifici, le tradizioni, le pratiche e la Sacra Scrittura, del loro tempo. Situato nella particolarità del
suo ebraismo, Gesù segna con questo una rottura che è al centro dell'avvenimento fondante del
Cristianesimo. E' in questa rottura con l'ebraismo della sua epoca che Gesù apre una strada per il
cristianesimo che altro non è che il compimento dell'Antica Alleanza.
In questo senso Gesù è definito nella tradizione cristiana per l' “instaurazione di un altro
senso[7]”. Gesù è un ebreo per nascita e cultura,
ma “suggerisce qualcos'altro, che critica l'assoluto rappresentato da questa condizione che ne è alla
radice[8]”.
Pertanto, per comprendere il cristianesimo e l'ebraismo attuali, bisogna capire le loro rotture (al plurale) con la religione dell'Antico Testamento. La prima è evidentemente la rottura tra i discepoli di Gesù e il giudaismo istituzionale del loro tempo. La seconda è la rottura tra la Chiesa e la Sinagoga dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (nel 70 d.C.). Il Tempio è stato un punto d'incontro per quelli che hanno accettato Gesù e quelli che lo hanno rifiutato, ma è stato anche un punto di incontro per molte altre sette giudaiche, tra gli altri per quelli che hanno accettato una Torah orale (i Farisei) e quelli che l'hanno rigettata (i Sadducei). Infine, c'è stata una terza rottura – che spesso viene dimenticata dai cristiani che parlano del rapporto del Cristianesimo con l'ebraismo – la rottura tra il giudaismo antico e il giudaismo rabbinico che è fondato sulla consacrazione e la redazione di una Torah orale.
Gesù non rappresenta la sola rottura con la religione dell' “Antico Testamento” e non è il solo ad avergli dato un nuovo senso – ce ne sono altri. Rabbi Yohanan ben Zakkai, i suoi compagni e i suoi discepoli, le generazioni dei Tannaim, degli Amoraim, i rabbini, costituiscono un'altra rottura nei confronti di questa religione dell' “Antico Testamento”. Queste persone hanno costruito un nuovo modo di essere nel mondo, il significato religioso di un quotidiano regolato dalla volontà divina[9]. Sono questi saggi, i rabbini, che, tra il primo e il settimo secolo, hanno dato un nuovo senso al giudaismo dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. Il giudaismo del Tempio era incentrato sui riti e sui sacrifici laddove il giudaismo rabbinico si fonda sullo studio della Torah, una vita di mitzvot (i comandamenti) e gli atti di misericordia[10]. E' la Torah che rappresenta allora un terzo cammino che non è né quello del Tempio, né quello dei discepoli di Gesù e della Chiesa che riconoscono in lui il Messia. L'interpretazione e la memorizzazione dei testi sacri mirano alla strutturazione interiore e segreta dell'esistenza, cercando di fare la volontà divina in una comprensione della creazione[11]. E. Lévinas descrive questo movimento fondamentale, che costituisce la rottura rabbinica con la religione antica, come un passaggio dal sacro al santo. “La Torah orale parla in spirito e in verità anche quando sembra "triturare" dei versetti e dei testi della Torah scritta. E' per questo che noi abbiamo intitolato il presente libro con delle parole che, a usare un linguaggio appropriato, concernono soltanto il tema trattato dal sacro al santo[12]”.
La distinzione tra l'ebreo del testo e l'ebreo vicino concerne l'identità storica di ciò che noi chiamiamo ebraismo. La definizione dell'ebraismo che emerge dai documenti cattolici contemporanei – un ebraismo che è definito da citazioni bibliche – dovrebbe essere precedentemente verificata. In rapporto a questa definizione, bisogna domandarsi qual'è la realtà dell'ebraismo vissuto oggi. Ciò che manca a questa definizione è il cuore stesso dell'ebraismo: il progresso storico – i diciotto secoli che sono trascorsi tra la distruzione del Tempio e la liberazione degli ebrei europei. L'ebraismo, restando sempre vivo, si è sviluppato e la Torah scritta ha trovato il suo slancio nella formazione della Torah orale (il Talmud). Benché i rabbini non siano coloro che hanno dato origine alla Torah orale, sono essi, però, che l'hanno stabilita come autorità. Il Talmud costituisce un'altra trasformazione della religione del tempo di Gesù. Adin Steinsaltz, un pensatore ebreo contemporaneo, così spiega: “Poiché il Talmud è di un'importanza tanto fondamentale per il popolo ebraico, studiato a fondo da ogni sapiente ebreo, è evidente che non soltanto esso è stato creato dal popolo ebraico, ma che esso stesso, di rimando, ha modellato questo popolo[13]”.
Questa realtà di un ebraismo in evoluzione è essenziale per il cristiano che desideri comprendere l'ebraismo. Per il cristiano, la sfida posta dall'esistenza dell'ebreo vicino dopo la venuta di Cristo, non è la fedeltà ebraica all' "Antico Testamento" che non troverebbe il suo compimento nel Nuovo Testamento, ma piuttosto l'elaborazione di un movimento nel seno stesso delle Scritture che andrebbe dall' "Antico" verso un altro “nuovo”. E' necessario dunque condurre un dialogo che riconosca l'ebraismo così come è stato definito dalla sua propria evoluzione. Solo un riconoscimento del Talmud permette di cogliere la differenza tra un ebraismo reale e quello che esiste nell'immaginario cristiano. Secondo J. Neusner, quando i cristiani dicono “Antico” Testamento, vogliono dire che c'è un "Nuovo" Testamento che porta a compimento l' "Antico". Ma ciò che la maggior parte dei cristiani ignora è che l'ebraismo stesso opera una distinzione tra un “Antico” – il Tanak (l'equivalente ebraico dell' "Antico Testamento") che contiene una parte della rivelazione – e la Torah orale insegnata dai rabbini e che sviluppa l'altra parte di questa stessa rivelazione[14].
La comprensione cristiana dell'ebraismo attuale non può essere fondata sulla presupposta giudaicità di Gesù di Nazareth perché l'ebraismo di questo Gesù è anteriore alla testimonianza ebraica delle due Toroth (Torah scritta e Torah orale). Bisogna notare che ci sono stati, dopo l'inizio dell'esegesi moderna, dei tentativi di comprendere Gesù e i suoi discepoli come degli ebrei “rabbinici”, utilizzando gli scritti rabbinici per ricostruire il quotidiano del I secolo [15]. Bisogna riconoscere che questa ricostruzione è il risultato di una proiezione erronea del giudaismo rabbinico successivo al 70 d.C. sul giudaismo del Tempio anteriore al 70 (quello di Gesù). Le domande che Gesù e i suoi discepoli pongono in rapporto alla Legge, alla rivelazione di Dio e all'elezione di Israele sono formulate in un contesto ebraico proprio del I secolo. Le domande dei rabbini sono di un'altra epoca. Si deve dunque situare il Gesù storico nella sua epoca per cogliere la novità che ciò rappresenta quando i suoi discepoli lo riconoscono come il Cristo. In questo riconoscimento il cristianesimo segna una rottura con la religione che lo precede, ma, nello stesso tempo, stabilisce una continuità con la rivelazione di Dio espressa nell'Antico Testamento. Non accade diversamente per l'ebraismo contemporaneo – si può parlare di passaggio da una religione antica incentrata su un tempio con dei sacrifici, un'autorità politica e un centro geografico, ad una religione incentrata sulla pietà personale e familiare e sullo studio fedele della Torah. In continuità, come il cristianesimo, con gli scritti dell'Antico Testamento, l'ebraismo rabbinico instaura un altro senso. Questo senso deve essere scoperto in un dialogo con l'ebreo vicino piuttosto che in un riferimento a “Gesù l'ebreo”.
Una seconda fonte di confusione possibile nel discorso cristiano sul rapporto con l'ebraismo concerne ciò che è identificato, nella dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, come “il grande patrimonio spirituale comune” degli ebrei e dei cristiani – l'Antico Testamento. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “a differenza delle altre religioni, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nell'Antica Alleanza[16]”. I documenti che pretendono che la giudaicità di Gesù renda necessario un rapporto con l'ebraismo, spiegano che c'è una "parentela" unica tra l'ebraismo e il cristianesimo a causa di "un testo comune" - l'Antico Testamento.
Tradizionalmente i cristiani hanno fatto riferimento alla Scrittura comune nella loro polemica con gli ebrei per tentare di convincerli che Gesù Cristo è il Messia e il Figlio di Dio[17]. Tommaso d'Aquino, per esempio, spiega che "sconfiggere tutti gli errori è difficile" poiché "i Maomettani e i pagani non si accordano con noi per riconoscere l'autorità della Scrittura, grazie alla quale si potrebbero convincere, mentre al contrario con gli ebrei noi possiamo disputare sul terreno dell'Antico Testamento[18] ". E' importante non dimenticare da dove viene questo linguaggio di comunione – esso è legato al tentativo di ricondurre gli ebrei al cristianesimo. Il fatto che gli ebrei abbiano questo testo “comune”, l'Antico Testamento, e non riconoscano il Cristo (che, beninteso, vi è prefigurato all'interno) ha giustificato l'assimilazione degli ebrei a dei “ciechi”. Il portale centrale di Notre-Dame a Parigi ne è un buon esempio. La Sinagoga cieca, la sua corona in terra, il suo scettro spezzato, lascia il posto alla Chiesa che scopre il vero senso del testo.
Molti cristiani, oggi, chiamano l'Antico Testamento, questa prima parte del testo fondante cristiano, “le Scritture ebraiche”. Perché sottolineare che questo testo è “comune”? Cosa implica il rapporto tra l'Antico Testamento e il suo compimento nel Nuovo Testamento per l'incontro tra l'ebraismo e il cristianesimo? Il problema non è quello di una rottura con una religione che avrebbe preceduto il cristianesimo e anche l'ebraismo contemporaneo, ma piuttosto quello di una continuità/unità di rivelazione. In un certo senso, il Gesù del Nuovo Testamento e la Torah orale dei rabbini rappresentano una rottura in rapporto all'Antico Testamento, ma d'altro canto, né il cristianesimo né l'ebraismo contemporaneo rendono conto di una rottura con i testi dell'Antico Testamento. Le due religioni pongono una ermeneutica di continuità/unità (un compimento dell'Antico Testamento per il cristianesimo e una “apertura di senso” della Torah scritta per l'ebraismo).
E' evidente che ebrei e cristiani venerano e leggono, in generale, dei testi che costituiscono ciò che i cristiani chiamano l'Antico Testamento. Ma il problema maggiore che sorge quando si argomenta di un “testo comune” è il presupposto che il testo esista “in se stesso”. Ora il testo non può essere separato dalla comunità che lo legge. Ogni lettura è propria ad una comunità particolare. Ricoeur propone una comprensione ermeneutica del “mondo del testo[19]”. Occorre ben riconoscere che questi due mondi, il mondo ebraico e il mondo cristiano, sono diversi. Bisogna anche sottolineare che questi testi divengono “testi fondatori” nelle due religioni in modo diverso. Infine bisogna rispettare questa differenza per rispettare l'alterità dell'ebreo vicino e per allontanarsi dall'ebreo del testo che conduce alla violenza dell'immagine dell'ebreo mitico. Tre differenze fondamentali dissolvono il presupposto di un “testo comune”.
1.Il luogo del testo
E' molto importante prendere coscienza del fatto che il testo non occupa lo stesso posto nel cristianesimo e
nell'ebraismo. Gli ebrei sono un “popolo del Libro” mentre, per i cristiani, la parola è incarnata
in Gesù. Per ciò che concerne il luogo della Scrittura, bisogna sottolineare che, nel cristianesimo
post-patristico, la Bibbia (lectio) e la Teologia (quaestio) sono state progressivamente separate man mano che il
centro del pensiero cristiano si focalizzava su una elaborazione teologica e dogmatica. Questa distinzione tra Bibbia
e Teologia è divenuta un punto centrale nel dibattito tra cattolici e protestanti. Dopo il Concilio Vaticano
II, c'è stato un certo ritorno alla Bibbia per trovare una risposta alla moderna crisi di senso. E' vero che
un cristianesimo rinviato alle fonti riscopre il “Gesù storico” – un “ebreo”
– e l'Antico Testamento, spesso dimenticato. Tuttavia non bisogna confondere questo ritorno alle fonti del
cristianesimo con la realtà degli ebrei e dell'ebraismo che costituiscono una sfida permanente alla pretesa di
universalità del cristianesimo. Il ritorno alla Bibbia, anche se è definito in termini di
“patrimonio comune” tra ebrei e cristiani, non offre una soluzione semplice alla domanda: come
comprendere la testimonianza ebraica reale che rigetta l'universalità del cristianesimo? In effetti, il testo
fondante del cristianesimo, la Bibbia, propone il Nuovo Testamento come il compimento necessario dell'Antico
Testamento. Benché ci sia questo ritorno alle “fonti” (la Bibbia e i Padri della Chiesa
l'utilizzano come punto di partenza) nel cattolicesimo moderno, il cristianesimo non può essere compreso come
una religione del Libro. Mentre per gli ebrei è il "testo" sacro (rappresentato dal nucleo centrale della
Torah, il Pentateuco, scritta su un rotolo) che riceve un'adorazione rituale, per i cristiani è il corpo di
Gesù che riceve l'adorazione dei fedeli nei sacramenti.
Gli ebrei sostituiranno dopo il 70 d.C. l'immagine del Monte Sion (il Tempio di Gerusalemme) con l'immagine fondatrice del Monte Sinai che sarà totalmente reinterpretato nella Torah orale. Uno dei “miti fondatori” dell'ebraismo rabbinico si incentra sulla figura di Mosè che ha ricevuto sul Sinai una rivelazione scritta e un'altra orale, trasmessa, in seguito, dai maestri ai discepoli. L'unità di queste due rivelazioni contiene il disegno rivelato dallo stesso Architetto dell'Universo. Lo studio di questo disegno divino è da intendersi non tanto come un mezzo di conoscenza ma piuttosto come un atto di riverenza verso Colui che in questo modo si rivela agli uomini. Nel suo studio il rabbino imita Dio[20]. Mosè diventa il primo rabbino e il testo della Torah (orale e scritta) diventa il punto di incontro con il divino[21]. Y. Leibowitz, uno dei più eminenti pensatori ebrei contemporanei, lo conferma. “Occorre sottolineare che il mio ebraismo... non proviene dall'ebraismo biblico, ma realmente dall'ebraismo della Legge orale... Nella struttura dell'ebraismo così come ci è pervenuto, Soura e Pumbédita (dove il Talmud fu redatto) sono più importanti di Gerusalemme. Non un ebraismo come nozione astratta, ma l'ebraismo reale che si esprime attraverso un programma di vita per i credenti, ed è questo ebraismo che i negatori della religione rifiutano[22] ".
Non si potrebbe dire che il Monte Sion della religione antica all'epoca di Gesù diviene il Monte Calvario per i cristiani e il Monte Sinai per gli ebrei? In questo senso l'idea di compimento di questo “testo comune” è presente nel cristianesimo. Il Nuovo Testamento dà la prospettiva definitiva dell'Antico Testamento e presenta Gesù come suo compimento perfetto e completo. Per il cristiano, l'avvenimento fondatore è l'Incarnazione che termina con la Crocifissione e la risurrezione di Cristo. Il Calvario sostituisce il Sinai e Gesù sostituisce il corpo del testo. Mosè diventa, allora, per il cristiano, non soltanto un precursore, ma anche una prefigurazione di Gesù. Quanto alla Torah orale, essa apre lo scritto ad una infinità di significati. E. Lévinas spiega che per la Torah orale, “il senso letterale, che è interamente significante, non è ancora il significato. Questo resta da cercare" [23].
2. Le frontiere del testo
Bisogna riconoscere la differenza reale tra “l'Antico Testamento” e la “Torah scritta” o il
“Tanak” malgrado la loro apparente somiglianza. Il cristianesimo, chiamando la prima parte della Bibbia
“Antico Testamento”, esprime l'idea che l'Antico Testamento debba essere letto a partire dal Nuovo
Testamento. L'ebraismo rabbinico, da parte sua, delimita anch'esso il proprio punto di partenza nei testi della Torah
orale che dà il senso alla Torah scritta. Secondo i rabbini, la Torah orale precede la Torah scritta, rivelata
sul Sinai, e ciò permette di spiegare come i Patriarchi siano vissuti secondo i comandamenti prima che essi
fossero rivelati a Mosè. In ogni caso l'unità della Scrittura è indivisibile. Il testo alla base
del cristianesimo (la Bibbia, che unisce Antico e Nuovo Testamento) e quello dell'ebraismo (la Torah che unisce Torah
scritta e orale) sono presentati in lingue diverse – il greco per la Bibbia, l'ebraico e l'aramaico per la
Torah. Nel cristianesimo è la versione greca dell'Antico Testamento (la LXX) che ha costituito la prima parte
della Bibbia. Gli evangelisti, S.Paolo e gli altri autori del Nuovo Testamento citano soltanto la versione greca
dell'Antico Testamento, e come loro, la maggior parte dei Padri. Con Origene, e dopo di lui Girolamo, inizia il
fascino cristiano per la versione ebraica dell'Antico Testamento, un interesse che Lutero manifesterà con
forza collocando la versione masoretica ebraica ad un livello superiore della LXX. Bisogna però notare che la
lingua (il greco) e il canone (più ampio di quello della versione masoretica) della LXX permettono di cogliere
pienamente i rapporti interni tra i due Testamenti (Antico e Nuovo Testamento).
Il rifiuto del greco da parte dei rabbini e la sua adozione da parte degli Apostoli e dei Padri sono un elemento essenziale nella rottura tra la Chiesa e la Sinagoga. Poco a poco, l'ebraismo rabbinico ha rifiutato l'inculturazione della cultura ebraica nella cultura greca, iniziata alcuni secoli prima della nascita del cristianesimo. Accadde fino al Medio Evo, quando Maimonide tra gli altri, riscopre la filosofia greca. In un primo tempo i rabbini hanno rigettato la LXX, desiderando così eliminare “una versione greca che la nuova setta cristiana usava a vantaggio delle sue tesi[24]”, ma hanno autorizzato altre traduzioni greche per restare in rapporto con gli ebrei ellenizzati. Eppure, in un secondo tempo, la semplice traduzione della Scrittura è stata malvista: “Le Scritture non devono essere scritte... in greco. 70 anziani scrissero la Torah per il re Tolomeo in greco, e quel giorno fu per Israele altrettanto funesto di quello in cui fu fabbricato il vitello d'oro[25]”. I rabbini hanno rigettato gli scritti greci dell'Antico Testamento e hanno usato una lingua ebraica rinnovata per scrivere la Mishna. Per la Gemara (la seconda parte del Talmud), hanno utilizzato l'aramaico.
La definizione di un “canone” delle Scritture – la Bibbia per la Chiesa e la
Torah (orale e scritta) per la Sinagoga – rivela due processi decisionali paralleli e non si devono ignorare le
differenze tra i due[26]. Così, nell'ebraismo rabbinico, i
rabbini hanno eliminato gli scritti in greco e la lettura di alcuni altri testi del Tanak troppo legati alla lettura
cristiana dell'Antico Testamento. Non dimentichiamo che i fedeli, ebrei e cristiani, non leggono gli stessi testa tra
quelli che sono apparentemente comuni. Mentre la lettura ebraica dà il primato al Pentateuco (è questa
parte che si trova nel tabernacolo scritta sul rotolo e che riceve l'adorazione rituale), la lettura cristiana
dà il primato ai profeti e ai testi sapienziali, poiché essi rivelano una progressione che conduce al
Nuovo Testamento. Per la lettura ebraica il Talmud di Babilonia trae i suoi fondamenti halakici solo dalla Torah
(Pentateuco) poiché lo considera il solo testo che abbia autorità a questo riguardo[27]. Per la lettura cristiana, è negli ultimi libri dell'Antico
Testamento (i libri profetici nell'ordine seguito nella LXX e non i libri della Sapienza come nella versione ebraica)
che i segni della venuta di Cristo divengono sempre più evidenti.
3. La chiave del testo
Infine, è nel senso di questo “testo comune” che si può comprendere la differenza
fondamentale che fa vacillare il presupposto della comunione. Il testo fondante di ciascuna delle due religioni
è aperto con delle chiavi molto diverse. Il testo della Torah scritta si radica per l'ebreo praticante su una
tradizione di senso che inizia con i testi talmudici, i midrashim, continua con le responsae rabbiniche e non
è ancora finita. La Torah scritta (in particolare il Pentateuco) è la “chiave di volta
dell'ebraismo, ma il Talmud ne è il pilastro centrale che, slanciandosi dalle fondamenta, ne sostiene
l'edificio intellettuale e spirituale. Perno della creatività e della vita nazionale, il Talmud è, a
ben guardare, l'opera più importante della cultura ebraica. Nessun altro testo ha mai esercitato un'influenza
comparabile, sia teorica che pratica, sulla vita ebraica, modellando il suo contenuto spirituale e offrendo una guida
di condotta[28]. I “Padri della Sinagoga” avevano la
certezza che era il Talmud a dare al popolo ebraico “il suo carattere unico
[29]”. Questo contesto chiarisce la lotta dei
rabbini contro l' “eresia” che nega l'origine divina della Torah orale – citiamo la scomunica
del R. Eliezer ben Hyrcanus all'epoco del R. Yohanan ben Zakkai e il ruolo molto importante di Saadyah Gaon nella
lotta contro i Caraiti per assicurare lo stabilimento del Talmud. E' con i rabbini che l'unità delle due
Toroth (plurale di Torah) è considerata determinante per l'ebraismo – quelli che hanno rigettato
questa unità sono stati posti al di fuori del giudaismo. Ciò che Y. Leibowitz sottolinea e che
è sempre valido oggi: “Il fondamento della nostra fede è che la Torah orale, opera umana,
è la Torah divina, che ci vincola. E' il dogma dell'ebraismo[30]”.
Per il cristiano, “è nel rapporto dell'Antico Testamento con il Nuovo Testamento che il cristianesimo pone, da sempre, la sua coscienza di sé come pienezza di senso, compimento della storia, avvenimento insuperabile, religione assoluta[31]”. I Padri della Chiesa hanno visto un'unità perfetta tra l'Antico Testamento e il Nuovo Testamento: “L'Antico Testamento si trova, lui stesso, unificato, e i due Testamenti uniti non hanno più che una sola voce. Il Cristo è trovato in essi perché è il loro stesso consensus. Appena il Vangelo è risuonato, Profeti ed Apostoli non formano che un unico coro, e il credente li contempla nella loro meravigliosa unione. Poiché tutta la Sacra Scrittura è d'accordo con se stessa, unificata com'è da uno spirito unico"[32]. Non è “la Scrittura ebraica” alla base della Scrittura nella tradizione cristiana, ma una Scrittura resa pienamente cristica.
Inoltre si può affermare che, storicamente, la Chiesa ha compreso che la singolarità dell'ebraismo è nella lettura alternativa dell' “Antico Testamento” che trova il suo slancio nel Talmud. Le persecuzioni degli ebrei sono cominciate con il divieto di studiare e di diffondere il Talmud. "La convinzione che la legge orale costituisse il baluardo dell'ebraismo prevaleva... presso i cristiani[33] ". Nel corso di molti secoli, ci sono stati tentativi di vietare lo studio del Talmud e nel 1240 il papa Gregorio IX ordinò che il Talmud fosse bruciato a Parigi. Analoghi editti furono emanati, in particolare da Clemente IV nel 1264 e migliaia di esemplari del Talmud furono dati alle fiamme [34]. E' stupefacente constatare che ancora oggi, nei documenti sull'ebraismo, il Talmud non è menzionato. Insistendo sulla parentela tra l'ebraismo e il cristianesimo, i documenti della Chiesa identificano gli ebrei al popolo dell'Antico Testamento. Seguendo questa logica, beninteso, l'Islam, per esempio, non partecipa a questa relazione perché il suo testo – il Corano – è altro. Si può notare che nemmeno il Corano è menzionato nel paragrafo sui musulmani di “Nostra aetate”. Ma l'ebraismo senza il Talmud non è l'ebraismo reale così come l'Islam senza il Corano non è l'Islam reale.
Dopo questo percorso, si può, di nuovo, porre questa domanda essenziale: la testimonianza cristiana ha senso senza rapporti con gli ebrei e l'ebraismo? Certamente non senza l'ebreo del testo e l'Antico Testamento in relazione ai quali si trova il Nuovo Testamento. Ma gli ebrei vicini e la loro religione, l'ebraismo contemporaneo, sono al di fuori della testimonianza cristiana. Essi sono “problematici” come lo sono i fedeli delle altre religioni (e anche gli atei), tutti quelli che ignorano la realtà del Cristo. Il cristianesimo e l'ebraismo, che coesistono nella storia, non possono comprendersi senza l'Antico Testamento. Ma entrambi si sono allontanati storicamente dalla religione di Gesù che non esiste più. A partire dall'inizio dell'esegesi storico-critica, si è molto cercato il Gesù della storia distinto dal Cristo della fede. Questo Gesù enigmatico è forse conosciuto oggi più che mai. Con l'ausilio dell'esegesi, dell'archeologia, della storia sociale e religiosa e di tante altre discipline, si scopre poco a poco la società ebraica della Palestina del I secolo. Ma bisogna riconoscere che Gesù e i Rabbini costituiscono due rotture storiche e, nello stesso tempo, due ermeneutiche di continuità con l'ebraismo dell'Antico Testamento. Con la distruzione del Tempio dove i discepoli di Gesù e i futuri discepoli dei rabbini avevano pregato fianco a fianco, la rottura è divenuta irreversibile. La differenza essenziale che si esprime nel loro rapporto con la Scrittura deve essere presa in considerazione, come afferma la Chiesa: “Identità cristiana ed identità ebraica devono essere distinte con cura riguardo il modo di leggere la Bibbia[35]”. E' questa rottura che deve essere rispettata nell'incontro contemporaneo tra le due religioni. Questi due sistemi religiosi totalmente diversi comunicano con grande difficoltà e imprecisione a causa dei loro diversi fondamenti, per gli uni la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, per gli altri il Talmud. La differenza tra questi due sistemi che fanno testo nei loro specifici ambiti, mostra in cosa è così difficile realizzare un dialogo autentico. Il fatto che i due si comprendano in una continuità diretta con i testi dell'Antico Testamento è uno dei punti che crea problemi all'incontro tra ebrei e cristiani in un mondo che essi condividono.
E' in questo mondo condiviso che bisogna vedere la storia dell'incontro tra ebrei e cristiani. Se si analizza questa storia, si scopre il potere di una maggioranza e la fragilità di una minoranza. Sono le reazioni di paura e di violenza che, troppo spesso, costituiscono la risposta alla seguente domanda: Come accettare l'alterità dell'altro? “La paura degli altri o il timore di essere diversi diviene intolleranza.Tende ad instaurarsi un imperialismo sociale dell'identità che sarebbe il regno della tautologia: a causa del modo di non potersi accettare diverso, ogni cristiano ammetterebbe solo la propria immagine della verità, in modo che tutti dovrebbero dire o essere la stessa cosa[36]”. Così è nel quadro dell'incapacità di accettare l'alterità che si deve esaminare la storia dell'incontro tra il cristianesimo e l'ebraismo. A questo riguardo, i due avvenimenti più importanti per l'incontro ebraico-cristiano oggi sono l'Illuminismo e l'Olocausto. E' in questo contesto storico che è nato il discorso cattolico contemporaneo sugli ebrei e l'ebraismo.
Il fatto che ci siano oggi degli ebrei e dei cristiani che parlano di una “eredità comune” è parzialmente l'effetto dell'Illuminismo e dell'emancipazione degli Ebrei nell'Europa occidentale. L'emancipazione ha condotto all'assimilazione (la dissoluzione dell'identità ebraica) di molti ebrei che hanno desiderato entrare completamente nella società europea. Alcuni si sono convertiti al cristianesimo per “portare a compimento” questa assimilazione. J. Moingt descrive questo periodo richiamando una certa reciprocità nel progetto della modernità. I popoli dell'Illuminismo sono stati “ebrei che hanno voluto fuggire dal ghetto nel quale li confinava il loro particolarismo, e conquistare il diritto di cittadinanza nel regno universale della pura ragione, e dei cristiani che volevano emancipare, dalla tutela delle autorità religiose, l'eredità della ragione greca. Queste persone hanno conservato molte cose del loro antico patrimonio, ebraico o cristiano[37]”. Tra il XVIII e il XX secolo, si è avuta l'impressione che gli ebrei e i cristiani europei in Europa occidentale creassero insieme una cultura comune – una cultura “giudaico–cristiana”.
Lo sviluppo della filosofia dell'Illuminismo ha condotto alla formazione di un discorso
ermeneutico degli intellettuali ebrei e cristiani che rendeva conto della parentela del testo (l'Antico Testamento
perlomeno) e da lì ne cambiava la lettura tradizionale. La nuova lettura (e l'annullamento delle differenze
tra la lettura ebraica e cristiana che ne consegue) è strettamente legata all'entrata degli ebrei nella
società europea. La definizione di una essenza dell'ebraismo letta come la fede “etica” di
Mosè (la fede di Israele) e fondata sull'Antico Testamento, aiuta a definire le radici di questa cultura
“ebraico-cristiana” comune. Questa cultura comune è alla base del dialogo ebraico-cristiano
contemporaneo in Europa e negli Stati Uniti. In fondo non è il testo che è comune agli ebrei e ai
cristiani, ma la loro esperienza culturale in Europa. “Soltanto, in effetti, un'esperienza comune può
condurre ad un'interpretazione ermeneutica comune[38]”. E P.
Ricoeur sottolinea che “è la situazione comune degli interlocutori, questa situazione che da in qualche
modo il contesto al dialogo e di cui tutti i riferimenti possono essere mostrati[39]”. Questa cultura comune legge il testo in altro modo poiché non è
ancora inquadrata in una tradizione ermeneutica particolare. Dopo l'età dei Lumi, il testo fondante (che
definisce l'identità del gruppo) diventa un testo tra gli altri e, come gli altri, può dunque essere
relativizzato. “Il Libro rivelato diventa in effetti un libro come gli altri, oggetto materiale prodotto dalle
tecniche di una civiltà[40]”.
I.Deutscher chiama “l'ebreo non-ebreo” quello che sta dietro il tentativo di definire una parentela
comune tra tutti gli uomini. I più esemplari furono Spinoza, Marx, Freud e Kafka. Tutti questi ebrei, secondo
Deutscher, hanno creduto alla solidarietà essenziale dell'umanità in “una patria comune
[41]”. Spinoza ha negato la verità dell'ebraismo. Egli
ha letto la Bibbia come formata dall'Antico e dal Nuovo Testamento, e rigettando la Torah orale, tutto ciò
senza per questo diventare cristiano. In effetti, la sua opera costituisce un punto di partenza per una nuova lettura
del testo. E' lui che, malgrado la sua origine ebraica, riconosce le frontiere cristiane del testo. Con lui inizia un
processo di desacralizzazione del testo che rifiuta “la tradizione” in favore della
“scienza”. Già tra il XVI e il XVIII secolo, gli ebrei e i cristiani avrebbero cominciato a
leggere la Bibbia nella stessa lingua – le lingue europee (e non in latino o in ebraico), compreso nei luoghi
di culto. La Scrittura è sacra relativamente al lettore e questo testo è divenuto comune agli ebrei e
ai cristiani solo a partire dal momento in cui il carattere sacro non era più evidente. Quando si spoglia il
testo del sacro per farne una lettura “scientifica”, si scorge questa parentela. Ma un testo spogliato
non è al centro dell'ebraismo (né del cristianesimo).
La lettura cristiana “scientifica” ha staccato l'Antico Testamento dal Nuovo per rendere conto della storia nelle Scritture. Questa lettura storico-critica ha reso sospetta la lettura tradizionale dell'Antico Testamento alla luce del Cristo che è, Lui, storicamente, posteriore all'Antico Testamento. Il liberalismo protestante e il modernismo cattolico, nati da un dialogo con l'Illuminismo, hanno trovato un concorrente ebraico nella “Wissenschaft des Judentums” (“scienza dell'ebraismo”) durante il XIX secolo. Questa ha cambiato il volto dell'ebraismo dell'Europa occidentale incentrandosi sull'evoluzione storica dell'ebraismo. L'intento di Moses Mendelsohn, di Zachariah Frankel, di Solomon Schechter, di Hermann Cohen e di altri non era mettere da parte la Torah orale. Ma il risultato di questo lavoro definiva “un'etica profetica”, letta alla luce del razionalismo del XVIII e XIX secolo, come essenza dell'ebraismo[42]. Si giunse così a una sintesi europea ebraico-cristiana che raggiunge i suoi vertici con le opere di M. Buber, F. Rosenzweig, L. Baeck, G. Scholem e altri, che leggono l'ebraismo in armonia con la filosofia e la cultura europee.
D'altronde la maniera di leggere dei testi seguendo i dettami dell'Illuminismo è ancora priva di basi nel mondo musulmano. La difficoltà maggiore nel dialogo islamo-cristiano in Occidente è l'assenza di una cultura comune e non la mancanza di un testo comune. Gli ebrei e i cristiani, nel mondo culturale definito dall'Islam, restano fedeli alla lettura tradizionale dei loro testi (come i musulmani). Inoltre, quando il musulmano “occidentalizzato” spoglia il testo coranico del suo carattere sacro alla maniera dell'Illuminismo, come hanno fatto M. Arkoun e N. Hamed Abou Zeid[43], il dialogo religioso-culturale con il cristiano d'Occidente diviene più agevole. Così ci si può domandare perché il Corano non potrebbe porre un altro modo di apertura in rapporto alla Scrittura: “Non dobbiamo dimenticare che il Corano rivendica di essere un Libro donato agli ebrei e ai cristiani prima che al Profeta (Maometto); esso comprende infatti la Torah, i Profeti, i Salmi e il Vangelo [44]”.
In effetti, il destino di un ebraismo modernista o liberale è simile a quello del protestantesimo liberale e del cattolicesimo modernista. J. Neusner sottolinea che questa corrente dell'ebraismo ha ridotto, inconsapevolmente, una religione viva ad una teologia accademica[45]. Il tentativo di definire la fede ebraica per mezzo della sua “essenza” ha dato vita ad una fede filosofica senza tradizione. Esso ha ridotto la dimensione religiosa ad uno studio positivista. Dopo Auschwitz, l'ebraismo prende le distanze da questo ebraismo filosofico e sradicato prendendo due diverse forme – il ritorno all'ortodossia (l'adozione di una ermeneutica a partire dall'unità della Torah scritta e della Torah orale) e il sionismo (il rifiuto della possibilità di una vita autenticamente ebraica all'interno di una patria comune agli ebrei e ai cristiani). L'ortodossia e il sionismo sono sospettosi di fronte a questa “eredità comune” ebraico-cristiana. Il dialogo tra ebrei e cristiani oggi è a volte troppo limitato alle correnti moderniste dell'ebraismo che si sono concentrate sui movimenti di riforma del XIX secolo. Poiché, attualmente, la forma religiosa più viva dell'ebraismo, come religione, è un' “ortodossia” rinascente che rivendica con forza l'ermeneutica tradizionale. A tale riguardo, colpisce constatare come gli autori ebrei meno conosciuti rispetto ai sostenitori cristiani del dialogo sono i grandi pensatori dell'ebraismo rabbinico: i “Padri della Sinagoga” (espressione di Neusner), R. Saadyah Gaon, Maimonide, R. Yosef Karo, Gaon di Vilna, Samson R. Hirsch e fino ai pensatori contemporanei come F.D. Soloveitchik, Y. Leibowitz, D. Boyarin e altri[46]. Troppo spesso, la conoscenza cristiana passa dalla Bibbia all'epoca di certi ebrei modernisti della cultura europea come M. Buber e F. Rosenzweig.
E' evidente che il pensiero religioso cristiano è molto cambiato dopo la lettura “storico-critica” della Bibbia. Questo è vero anche per l'ebraismo. Dopo Auschwitz gli intellettuali ebrei hanno preso le distanze da questa concezione della “cultura ebraico-cristiana” che minimizza le differenze essenziali tra l'ebraismo e il cristianesimo. Il fumo dei crematori ha oscurato l'ottimismo del “comune”. Così dobbiamo riconsiderare questa tradizione “ebraico-cristiana” - essendo stata la parte ebraica troppo ridotta ad una lettura culturalmente cristiana.
L'ideologia ebraico-cristiana – il porre in evidenza ciò che è comune agli ebrei e ai cristiani - ha anche un'altra origine storica. Non è soltanto a causa dello “scientismo” dell'Illuminismo che dei cristiani hanno cominciato a parlare di un “patrimonio comune” ebraico-cristiano. C'è stato anche (specialmente dopo Auschwitz) un risveglio del senso di colpa riguardo la lunga storia di antisemitismo. Così la Chiesa ha affermato che l'iniziativa del Vaticano II in rapporto agli ebrei “si è inscritta in una congiuntura profondamente modificata dal ricordo delle persecuzioni e dei massacri di ebrei che si sono verificati in Europa appena prima e durante la Seconda Guerra mondiale[47]”. Il riconoscimento di questa colpa è sottolineato in tutti i documenti cattolici sulla questione degli ebrei e dell'ebraismo dopo Nostra Aetate del 1965. In effetti, in Nostra Aetate, l'incontro con gli ebrei è presentato sotto il segno “di un così grande patrimonio comune” che spinge la Chiesa a deplorare “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni di antisemitismo[48]”.
Tuttavia, come avevamo già osservato, questo discorso contemporaneo ignora quasi del tutto gli elementi che distinguono l'ebreo dai suoi vicini cristiani. Il documento sulla presentazione degli ebrei e dell'ebraismo nel catechismo cattolico, "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica", sottolinea che bisogna “presentare gli ebrei e l'ebraismo, non soltanto in modo onesto e oggettivo, senza alcun pregiudizio e senza offendere nessuno, ma più ancora con una viva coscienza dell'eredità comune agli ebrei e ai cristiani[49]”. Secondo questo documento, è ugualmente importante fondare le nostre relazioni "sui rapporti unici che esistono tra il cristianesimo e l'ebraismo legati al livello stesso della loro propria identità, rapporti fondati sul disegno del Dio dell'Alleanza"[50]. Infine, in un'ammissione di colpevolezza in rapporto all'antisemitismo, l'insegnante cristiano deve trasmettere agli alunni “una conoscenza esatta del legame del tutto unico che come Chiesa ci lega agli Ebrei e all'ebraismo. Si insegnerà loro anche ad apprezzarli, ad amarli, loro che sono stati scelti da Dio per preparare la venuta del Cristo e che hanno conservato tutto ciò che è stato progressivamente rivelato e dato nel corso di questa preparazione, malgrado la loro difficoltà a riconoscere in lui (Gesù) il loro Messia"[51]. Dopo Auschwitz, l'ebreo non è più presentato come “altro” perché una certa colpevolezza identifica l'alterità dell'ebreo come causa della violenza.
L'accento messo sulla presunta parentela ebraica con il cristianesimo conduce ad una confusione nell'incontro storico tra ebrei e cristiani. Questa confusione è stata disgraziatamente molto evidente nelle controversie sorte intorno alla beatificazione di Edith Stein nel 1987. Nel discorso tenuto in Germania in questa occasione, Giovanni Paolo II ha presentato E. Stein come “ebrea, filosofa, religiosa, martire”. Egli ha così continuato: “Nel campo di sterminio, ella è morta come figlia di Israele glorificando il suo Santo Nome (il Nome del Signore) e contemporaneamente come suor Teresa Benedetta della Croce, benedetta dalla Croce" [52]. Ma quando la Chiesa presenta E. Stein come ebrea per eccellenza, il riconoscimento della reale alterità ebraica è perso. Il Papa afferma, in effetti, che: “per Edith Stein ricevere il Sacramento del Battesimo non significava in alcun modo rompere con il popolo ebraico, il suo popolo... Sempre ella ha avuto coscienza di appartenere a Cristo non soltanto spiritualmente, ma anche per i legami di sangue[53]”. Un ebreo non potrebbe essere d'accordo con una tale affermazione. Nel corso della stessa giornata, il Papa ha incontrato i rappresentanti della comunità ebraica della Germania e ha presentato E. Stein come una delle “grandi figure del popolo di Israele[54]”. Non può sorprendere dunque che il disaccordo tra ebrei e cristiani su questa questione sia stato totale.
La posizione degli ebrei in quanto minoranza all'interno del mondo cristiano occidentale, un mondo che non accetta facilmente l'altro, ha condotto a delle persecuzioni contro gli ebrei. Ma è nell'orrore simboleggiato da Auschwitz che se ne è presa coscienza. Durante l'Olocausto e quando i sopravvissuti ebrei sono usciti dai campi di sterminio, molti cristiani hanno riconosciuto che “Gesù era ebreo”. Se fosse vissuto in Europa durante la guerra, sarebbe stato portato nei campi. Eppure non si deve confondere la solidarietà implicata in questa espressione “Gesù l'ebreo”, con il suo uso storico. Dopo Auschwitz, c'è stata una profonda presa di coscienza di questa violenza verso gli ebrei all'interno della storia cristiana. Per esempio il teologo J.B.Metz scrive: “La teologia cristiana dopo Auschwitz deve - infine - essere condotta dalla visione che i cristiani possono formare e comprendere sufficientemente la loro identità solo di fronte agli ebrei[55]”. Dopo Auschwitz la riflessione cristiana sulla storia esige “un'ermeneutica radicale di sospetto[56]”. Eppure, tutto ciò che l'immagine solidale di “Gesù l'ebreo” implica per la generazione del dopo Olocausto in Europa non può restare rinchiuso in una ideologia ebraico-cristiana. Non sarebbe più giusto dire che il Gesù che sarebbe stato portato ad Auschwitz, lo sarebbe stato non tanto perché ebreo, ma perché è il più povero e il più vulnerabile di tutti gli uomini? Sì, come gli ebrei di questa epoca erano i più vulnerabili di allora. Così Gesù, ebreo nel 1945, diviene, se così si può dire, palestinese nel 1948, sudafricano nero nel 1976, guatemalteco nel 1990 e musulmano bosniaco nel 1994.
La riflessione cristiana dopo Auschwitz deve aprirsi al di là dell'antisemitismo. Per esempio, c'è oggi il bisogno di una riflessione sugli atteggiamenti cristiani riguardo all'Islam. Sempre più si trovano minoranze musulmane in seno all'Europa. Come ci prepariamo per questo incontro? Da molti secoli (e fino ad oggi), la violenza caratterizza le relazioni tra il cristianesimo e l'islam. Non sono soltanto la storia delle crociate o l'espulsione dei musulmani di Spagna che meritano una riflessione sulla violenza, ma anche la colonizzazione e il proselitismo in Africa, in Asia e in Medio Oriente. Le riflessioni sulla storia cristiana in rapporto ai musulmani possono essere accusatrici tanto quanto quelle riguardo gli ebrei. E' opportuno ascoltare la voce di un cristiano del mondo arabo in questo contesto. Michel Sabbah, il patriarca latino di Gerusalemme scrive: “Io, personalmente, patriarca dei Latini, sono toccato dalle crociate a doppio titolo: da un lato io appartengo contemporaneamente al cristianesimo orientale e occidentale, dall'altro, essendo Palestinese arabo, appartengo anche al mondo arabo, alla sua storia e alla sua cultura di cui l'islam è una delle componenti principali... Il Vaticano II inaugurò un nuovo atteggiamento in rapporto all'islam come a tutte le religioni. Non sono più relazioni di condanna e ostilità, ma di stima e di appello al dialogo. Novecento anni fa, la Chiesa ha chiamato alle crociate. Oggi... essa chiama al dialogo[57]”. In questi termini M. Sabbah parla di un patrimonio comune ai cristiani arabi e musulmani arabi che include una patria araba, una storia e una civiltà.
Per la cristianità occidentale, la presenza musulmana è sempre stata più di altre ai confini della cristianità. Beninteso, laddove i musulmani costituiscono la maggioranza sono capaci di infliggere la loro violenza. Eppure oggi, con il fatto nuovo di una presenza musulmana minoritaria all'interno della società europea, la domanda del rapporto con i musulmani è più pressante che mai. Ma la distinzione messa in evidenza dall'ideologia ebraico-cristiana tra il rapporto del cristianesimo con l'ebraismo e con le altre religioni, si radica in un certo discorso chiuso, che si incentra soltanto sull'ebraismo. Per esempio in un documento dei gesuiti sulla questione del dialogo interreligioso del 1995, l'islam è descritto come “potenza religiosa, politica ed economica” e si fa riferimento ad un passato di “rivalità” e di “conflitti storici, anzi di guerre” e ad un presente di timore [58] ; ma riguardo agli ebrei, si dice che il dialogo con loro “occupa un posto unico”. Dio ha concluso la prima alleanza (che “non è mai stata revocata”) con questo popolo costituito dai “nostri fratelli e sorelle maggiori[59]”. E' interessante domandarsi se il cristianesimo accetti il musulmano meglio di quanto non abbia accettato l'ebreo. Abbiamo imparato che occorre riconoscere questa alterità tra noi (del musulmano come dell'ebreo) non come minaccia mitica ma come vicinanza reale (e, oso dire, feconda)? La cultura comune, che è stata stabilita nel corso dei secoli con gli ebrei europei, si stabilirà senza dubbio, anche con i musulmani europei. Ma l'inevitabile “riconoscimento di radici comuni” può avvenire senza passare attraverso le tenebre di una violenza distruttrice?
L'ideologia ebraico-cristiana concentra l'attenzione sulla parentela spirituale presupposta per i due gruppi, gli ebrei e i cristiani, che, politicamente e culturalmente, coesistono. Ma è anche evidente che si è evocata questa ideologia per definire un nuovo altro (sia l'ateo, sia il comunista, sia il musulmano), quello che non fa parte della “nostra eredità” e minaccia “i nostri valori comuni”. Questo tentativo, che definisce gli ebrei come "non talmente" altri, delimita dei confini un po' modificati, ma il sistema resta sempre chiuso. Così, le persecuzioni degli ebrei durante duemila anni di storia cristiana in Europa fanno risaltare una forte violenza all'interno del cristianesimo. Durante i lunghi secoli in cui si è sviluppata l'idea dell'ebreo mitico - dell'ebreo inteso come minaccia, come nemico dei nostri valori cristiani – si può percepire la problematica concernente una definizione dell'ebreo secondo i testi cristiani. Mantenendo la specificità dell'orrore dell'Olocausto, bisogna comprendere il carattere universale di questa violenza. “Quelli che sono oppressi in modi diversi guardano all'Olocausto come ad un avvenimento terrificante, un segnale storico generatore di paura, che simboleggia fino a dove possono arrivare gli oppressori per eseguire i loro piani[60]”. Ma non è sbagliato credere che il cammino del pentimento sia quello dell'elaborazione di un sistema teologico aperto agli ebrei e chiuso agli altri?
Il tentativo di elaborare una teologia dell'incontro con gli ebrei, fondata sull'affermazione che “Gesù era ebreo” e che noi dividiamo “un testo comune” pretende di essere universale. Ma questa rivendicazione è nata da una specificità storica: sono la cultura comune nata dall'Illuminismo e l'ombra di Auschwitz che danno un senso al discorso cristiano sull'incontro con gli ebrei oggi. Tuttavia, la domanda che così si pone è la seguente: “cosa implica il rapporto tra il cristianesimo e l'ebraismo per l'incontro tra il cristianesimo e le altre religioni o sistemi di pensiero?
Per il cristiano, sarà perfettamente legittimo porre la domanda: perché gli ebrei continuano ad esistere dopo la venuta di Cristo che ha compiuto tutte le Scritture? Come afferma il documento dell'episcopato francese, il permanere della testimonianza ebraica è una realtà viva e non “una reliquia di un passato venerabile e compiuto” che “interroga la coscienza cristiana[61]”. Ma è necessario riformulare questa domanda tenendo conto di tutti quelli che sono al di fuori della testimonianza cristiana. Pensare l'ebraismo come religione ancora viva al di fuori del cristianesimo è certamente un buon inizio, ma questa dinamica deve condurre a una riflessione sempre più ampia sulla pretesa universale del cristianesimo. Una ideologia del dialogo ebraico-cristiano può, tuttavia, costituire un ostacolo a questa riflessione.
I tentativi contemporanei di leggere i testi fondanti alla luce del dialogo provengono da un pensiero cristiano del dopo–Olocausto. Il nuovo atteggiamento verso gli ebrei è spesso legato a una lettura della Lettera ai Romani 9-11 e, in particolare, il versetto 11, 29: “ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!”. E' nel discorso importante di Giovanni Paolo II alla comunità ebraica della Germania, nel 1980, che questi elementi di una nuova immagine dell'ebreo del testo sono stati elaborati, a partire, giustamente, da una interpretazione della lettera ai Romani 11, 29. In questo discorso il Papa ha messo in evidenza che colui che ha incontrato il Cristo, ha incontrato l'ebraismo: “la fede della Chiesa in Gesù Cristo, figlio di Davide figlio di Abramo, contiene in effetti... l'eredità spirituale di Israele per la Chiesa[62]”. Gli ebrei sono definiti in questa presentazione come “il popolo di Dio dell'Antico Testamento... il popolo attuale dell'alleanza conclusa con Mosè[63]”. Gli sforzi attuali per parlare di ebraismo, in quanto religione dell'Antica Alleanza mai “revocata da Dio”, caratterizzano i documenti ufficiali[64]. Alcuni teologi ed esegeti cercano di radicare questa idea nel testo del Nuovo Testamento. J.Moltmann, per esempio, adotta questa posizione: “Nello sviluppo di Rm 9-11 consacrato a Israele, Paolo ha visto nel “no” di Israele la volontà di Dio. Israele non è indurita perché dice “no”, ma poiché è stata “indurita” da Dio, non può dire altro che “no[65]”. Moltmann interpreta Paolo dicendo che il “no” ebraico a Gesù come Cristo facilita il “sì” dei gentili: “Se è in questa direzione che bisogna cercare il “sì” cristiano che scopre nel “no” ebraico ciò che c'è di positivo e che è la volontà di Dio, è sempre là che si troverà il punto di partenza di una “teologia cristiana dell'ebraismo” nel seno di una cristologia non anti-ebraica ma pro-ebraica[66]”. Questa stessa prospettiva si ritrova in altri teologi[67].
In effetti noi abbiamo in questa lettura a–storica del Nuovo Testamento, una nuova
presentazione dell'ebreo del testo, quello che è sempre eletto, che sostituisce quella che è respinto e
cieco. Questa immagine di ebreo non è più reale di quella precedente. La Chiesa è sicuramente
chiamata a lottare contro l'odio e a testimoniare l'amore. Questo amore non conosce frontiere. In questo senso,
l'evoluzione verso un atteggiamento di pentimento riguardo l'antisemitismo è molto positiva: bisogna
riconoscere gli ebrei come vicini e chiedere perdono per i secoli di disprezzo. Ma la Chiesa non è chiamata ad
attestare la verità dell'ebraismo (né di altre religioni). Essa non può affermare un cammino di
salvezza al di fuori di quello del Cristo, ma deve ascoltare quelli che restano fuori da questo cammino, gli ebrei
come tutti gli altri. La Chiesa è chiamata ad ascoltare l'altro in un vero dialogo e a testimoniare la sua
vera fede.
Eppure la sfida di dialogare con l'altro è la nostra e non può essere differita nella storia. Occorre
riconoscere che il Nuovo Testamento giudica severamente il fatto di negare Cristo (come coloro che si attengono
all'Antica Alleanza senza compimento nell'evento cristico) come mostrano chiaramente la lettera agli Ebrei, ma anche
gli scritti di Paolo. In questo senso, il solo buon “ebreo del testo”, per il Nuovo Testamento, è
colui che fa il passaggio dall'Antico Testamento al Nuovo Testamento e riconosce Gesù come Cristo. Il solo
buon “greco” è quello che accetta la fede in Cristo e forma con l'ebreo un nuovo Israele –
popolo di Dio. Il Nuovo Testamento sottolinea la necessità che tutti gli uomini si sottomettano a Cristo
[68]. Il testo non ci aiuta direttamente a comprendere la
testimonianza dell'ebreo reale. Nello stesso modo, non ci aiuta a comprendere gli altri che restano al di fuori
dell'evento cristico.
Questa domanda sulla realtà della testimonianza ebraica attuale si ricongiunge alla domanda posta circa la validità delle altre religioni che ignorano la pretesa di universalità del cristianesimo. Occorre fondare una teologia dell'incontro sulla difficoltà di comunicare attraverso la differenza che, per il cristiano, è costituita dalla singolarità della testimonianza di Gesù Cristo. Deve essere elaborata chiaramente una teologia dell'incontro fondata sul riconoscimento di un mondo condiviso e sul bisogno di comunicare malgrado la differenza per facilitare la coesistenza e la cooperazione in questo mondo. Invece di condurre ad un'apertura della Chiesa di fronte alla nostra realtà moderna, l'ideologia ebraico-cristiana cerca, a volte, di chiudere la Chiesa e la Sinagoga in un sistema che può essere altrettanto sprezzante nei confronti dell' “altro” dell'insegnamento anti-ebraico di un tempo.
Il movimento verso una teologia che dovrebbe prendere coscienza delle altre religioni è essenzialmente un movimento verso il riconoscimento dell'altro. “Questo rapporto con l'altro, con l'irriducibilità dell'altro, che turba la coscienza cristiana è il problema maggiore del cristianesimo oggi[69]”. E' in questa prospettiva che l'accento contemporaneo messo sulla teologia come ermeneutica aiuta l'incontro. L'ermeneutica sarà viva o morta a seconda che essa saprà prendere sul serio la storia e il linguaggio, e dare all'altro (che si tratti di una persona, di un avvenimento o di un testo) la possibilità di attirare la nostra attenzione in quanto altro, e non come proiezione delle nostre paure, delle nostre speranze e dei nostri desideri del momento[70]. Il dialogo suppone la capacità di battersi per ascoltare l'altro e rispondergli. Per rispondere in modo critico quando è necessario, ma per rispondere unicamente in una relazione di dialogo con un altro reale e non con una proiezione. Fino al Vaticano II la Chiesa ha elaborato una teologia di esclusione – “fuori dalla Chiesa non c'è salvezza” – essendo le altre religioni considerate fallaci. Durante il Vaticano II fu adottato un nuovo modello - non siamo solo noi ad avere la verità, gli altri partecipano anche di questa verità. L'alterità dell'altro fu sostituita dall'espressione di Nostra Aetate: “ciò che gli uomini hanno in comune[71]”. Concentrandosi su ciò che è comune a tutti gli uomini e non sul dominio, la Chiesa insiste sul “dialogo”. Ma questo nuovo modello dà veramente un posto all'altro nella teologia dell'incontro? Definendo “la verità comune” nelle altre religioni, noi restiamo al centro; non più per negare, ma per dare senso a questa verità nelle altre teologie. Il comune non è totalitario quanto la negazione? L'altro che è definito come vicino in un mondo condiviso resta assente. L'individualità dell'altro è nella differenza tra lui e me e non in questo comune.
Forse l'ebreo ha un posto speciale nello sviluppo di una teologia cristiana che prendesse coscienza di un mondo pluralista. Se si può percepire l'ebreo vicino indipendentemente dall'ebreo del testo, l'ebreo mitico come immagine violenta può essere neutralizzato. E' l'ebreo riconosciuto come altro, che potrebbe rappresentare l'insieme dei non cristiani. L'ebreo era il testimone permanente della prassi cristiana e di lì cartina al tornasole di questa prassi. E' uno “straniero nell'interiorità[72]” per eccellenza. E' la fonte di inquietudine in rapporto alle nostre certezze perché resta sempre al di fuori di queste certezze e pretese di universalità. Come curare questa inquietudine? Cosa dice questo straniero della nostra “civiltà d'amore”? La violenza contro questi ebrei vicini è violenza contro l'altro reale. Per ben comprendere questa violenza, occorre che il cristianesimo prenda profondamente coscienza di questa e non soltanto della sua espressione particolare nell'incontro con gli ebrei. Il compito è di elaborare una teologia dell'incontro che sia fondata sull'esperienza della realtà di alterità. Come incontrare l'altro (gli altri perché essi sono plurali)? Come definirsi di fronte a questa alterità reale? Se noi cerchiamo ciò che è comune, noi rischiamo di ridurre la religione dell'altro alle nostre categorie. Una teologia dell'incontro con l'ebraismo e gli ebrei come essi sono realmente, sarebbe una chiave per un cambiamento profondo della prassi cristiana che ha rifiutato di rispettare l'altro negandone la differenza.
Il riconoscimento della differenza è legato al modo in cui il cristianesimo tratta la presenza permanente dell'ebraismo dopo Cristo. “E' a partire dall'irriducibilità di Israele che bisogna cercare di pensare l'irriducibilità delle altre tradizioni religiose dell'umanità[73]”. Incapace di accettare un ebraismo che ignora Gesù e che propone appunto un altro movimento a partire dall'Antico Testamento, la Chiesa ha elaborato un sistema nel quale ella sola è depositaria dell'eredità del culto vetero-testamentario. La Legge senza Cristo è vista come perversione cieca dell'antica tradizione (2 Corinzi 3, 14), ed è questo accecamento che caratterizzerebbe gli ebrei, secondo i cristiani. Il problema creato dall'idea della sostituzione (secondo la quale la Chiesa sostituisce Israele come popolo di Dio e Israele è spogliato della sua elezione) sta nel non riconoscere una realtà che sfugge all'universalità cristiana. L'altro resta sempre presente rifiutando la salvezza di Cristo. Questo rifiuto è ancora più problematico quando questo altro è l'ebreo che rifiuta il passaggio obbligato dall'Antico Testamento al Nuovo. Il problema teologico di questa storia è questo: “Occorre sostenere contemporaneamente e senza contraddizioni che le promesse del popolo di Dio trovano il loro compimento nel popolo della nuova alleanza e che la Chiesa non si sostituisce ad Israele[74]”. La Chiesa è, secondo le promesse, il nuovo Israele, l'eletta da Dio. Si può affermare questo. Ma non si può sostenere che altri non siano eletti. Questo è da scoprire in un vero dialogo.
Essenzialmente, è la differenza che esiste tra la Chiesa e la Sinagoga che pone il problema maggiore per una teologia dell'incontro. Questa differenza sarebbe ignorata se il cristianesimo fosse compreso soltanto come la continuità dell'ebraismo vetero-testamentario – una figlia della religione madre. Occorre elaborare una riflessione profonda sulla novità di Cristo e “la rottura instauratrice [75]” che Egli ha provocato. "L'ermeneutica tradizionale postulava sempre una armonia prestabilità, una identità fondatrice, una “fusione di orizzonti”. La nuova ermeneutica, nella misura in cui prende sul serio la materialità testuale del testo fondante e la sua storicità radicale, è una ermeneutica creatrice. Occorre accettare di vivere sotto il regime della differenza"[76]. Ma ciò è anche vero per l'ebraismo – anch'esso compreso in una doppia prospettiva di continuità e di rottura con la religione veterotestamentaria. Occorre mantenere rottura e continuità in una tensione dialettica per sviluppare una teologia dell'incontro con un altro reale. J. Neusner sottolinea che “è soltanto quando il cristianesimo sa vedersi così come i Padri della Chiesa lo vedevano – come nuovo e incondizionato, revisione completa della storia dell'umanità dopo Adamo, e non come erede subordinato all'ebraismo - e quando l'ebraismo sa vedersi così come i Saggi della Torah orale lo vedevano - come affermazione della Torah di Dio per tutta l'umanità –che le due religioni riconosceranno questo semplice fatto: esse sono realmente straniere l'una all'altra[77]”.
Una teologia dell'incontro che si allontana dalla realtà di una pratica vera cercando sempre l'universale e ciò che può essere comune, e ignorando il particolare che è il vivente sarà una teologia che non approda al vero dialogo. Al contrario, se io vado all'incontro con l'altro nella sua alterità, egli anche mi troverà nella mia particolarità. Così, “dobbiamo dissipare l'illusione secondo la quale sarebbe necessario mettere la propria fede tra parentesi o in sospeso per meglio raggiungere l'altro[78]”. “Piuttosto che rinunciare alla confessione di Gesù Cristo come assoluto, preferisco dire che il cristiano deve rinunciare ad ogni pretesa di verità assoluta precisamente perché egli professa Gesù Cristo come assoluto, cioè come pienezza escatologica che non sarà mai adeguatamente rivelata nella storia[79]”.
Per trovare un cammino che pensa la differenza, il cristiano è rinviato a Cristo. Il Dio che si rivela unicamente attraverso le contingenze storiche e culturali si nasconde in queste contingenze. “Il volto umano di Gesù rivela il volto divino non soltanto secondo dei contorni ben definiti, ma lo nasconde anche poiché è una rivelazione dell'ineffabilità divina attraverso l'espressione realmente umana, storica, e dunque contingente e limitata, che è Gesù[80]”. Così questa rivelazione è la fonte della nostra certezza ma costituisce anche l'apertura all'altro. Solo un cristianesimo che resta fedele alla sua singolarità, un cristianesimo che trova la sua pienezza nell'umiltà di un Cristo che muore sulla croce e che segnala la sua resurrezione attraverso la tomba lasciata vuota, è un cristianesimo che cerca l'incontro con l'altro e non il suo inglobamento.
Il dialogo ebraico-cristiano a Gerusalemme
[Nota 1] David Neuhaus, gesuita israeliano, del Pontificio Istituto biblico di Gerusalemme, PhD in Scienze politiche all'Università ebraica di Gerusalemme, attualmente studente presso la Facoltà dei Gesuiti di Parigi. Ha pubblicato (in inglese, e in collaborazione con K. Bergen e G. Rubeiz): Justice and the Intifada: Palestinians and Israelis speak out , New York, Friendship Press, 1991 (trad. in olandese, Kokkampen, 1993); e (in tedesco): Kritische Solidarität: Einige Überlegungen zur Rolle privilegierter/Christinnen und Christen im Kampf der Enteigneten , Aphorisma Kulturverein, 1995.(N.d.T. Tale presentazione dell'autore risale al 1997, ad introduzione del presente articolo su RSR 85/2, 1997, e non è, è perciò, aggiornata. Sempre di David Neuhaus, vedi, su www.gliscritti.it Il dialogo ebraico-cristiano a Gerusalemme, sempre nella sezione Approfondimenti).
[Nota 2] I documenti che sono qui utilizzati sono i seguenti: "Nostra Aetate" (1965); "L'attitude des chrétiens à l'égard du judaisme" (Conferenza episcopale francese), Documentation catholique 1631 (1973), pp. 419-422; "Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione della dichiarazione Nostra Aetate, numero 4", del Segretariato per l'unità dei cristiani, Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo (1975); "Incontro con la comunità ebraica di Magonza. Discorso di Giovanni Paolo II" (1980); "Allocuzione di Giovanni Paolo II tenuta il 6 marzo 1982 ai delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con l'ebraismo"; "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica", Segretariato per l'unità dei cristiani, Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo (1985) ; "Catechismo della Chiesa cattolica" (1992).
[Nota 3] "Allocuzione di Giovanni Paolo II tenuta il 6 marzo 1982 ai delegati…
[Nota 4] "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica"…
[Nota 5] Ibid. ; vedere anche Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), n. 423.
[Nota 6] "Incontro con la comunità ebraica di Magonza. Discorso di Giovanni Paolo II"… , citazione del documento dei vescovi tedeschi, “ Dichiarazione sui rapporti della Chiesa con l'ebraismo ”, dell'aprile 1980.
[Nota 7] M.DE CERTAU, La faiblesse de croire , 1987, p.222.
[Nota 8] M. DE CERTAU, L'Etranger , 1991, p. 145.
[Nota 9] J. NEUSNER, Jews and Christians: The Myth of the Common Tradition , 1991, p.11.
[Nota 10] J. NEUSNER, A Life of Rabban Yohanan ben Zakkai , 1962, p.145.
[Nota 11] Op. cit ., p. 61
[Nota 12] E.LEVINAS, Du sacré au saint , 1977, p. 10.
[Nota 13] A.STEINSALTZ , Introduction au Talmud , 1987, p.304.
[Nota 14] J.NEUSNER, The Academic Study of Judaism , 1975, pp. 33-34.
[Nota 15] Uno dei primi tentativi fu quello di Richard SIMON, padre dell'esegesi scientifica, Cérémonies et coutumes qui s'observent aujourd'hui parmi les juifs , seconda edizione del 1681. Uno dei più recenti è di M.VIDAL, Un juif nommé Jésus: Une lecture de l'Évangile à la lumière de la Torah , 1996.
[Nota 16] Catechismo della Chiesa Cattolica…, numero 839; vedere anche “L'attitude des chrétiens..., p.420.
[Nota 17] Per uno studio recente vedere S.McMICHAEL, “Did Isaiah foretell Jewish blindness and suffering for not accepting Jesus as Messiah? A Medieval Perspective”, Biblical Theology Bulletin , 26 (1996), pp. 144-151.
[Nota 18] Tommaso d'Aquino , Contra Gentiles , Libro 1, cap. 2. Vedere anche GIUSTINO, Dialogo con Trifone .
[Nota 19] P.RICOEUR, “Evénement et sens” in Révélation et histoire , 1971.
[Nota 20] J.NEUSNER, The Academic Study of Judaism , 1975, p.37.
[Nota 21] Uno dei testi talmudici per questo passaggio del Sinai è Pessahim 68b
[Nota 22] Y.LEIBOWITZ, Israël et Judaïsme , 1996, p. 177.
[Nota 23] E.LEVINAS, Quatre lectures talmudiques , 1968, p.19.
[Nota 24] M.HARL e al. La Bible grecque des Septantes , 1988, p.123.
[Nota 25] Sefer Torah 1, 8 op.cit., p.124.
[Nota 26] J.NEUSNER, Jews and Christians , 1991, p.131-132.
[Nota 27] A.STEINSALTZ, Introduction au Talmud , 1987, p.256.
[Nota 28] Op.cit., p.11.
[Nota 29] Op.cit., p.95
[Nota 30] Y.LEIBOWITZ, Israël et Judaïsme , 1996, p. 167.
[Nota 31] J.MOINGT “Une théologie d'exil” in Michel de CERTEAU ou la différence chrétienne , 1991, p.141.
[Nota 32] H.DE LUBAC, L'Ecriture dans la tradition , 1966, p.152-153.
[Nota 33] A.STEINSALTZ, Introduction au Talmud, 1987, p. 95.
[Nota 34] Vedi H.MACCOBY, “Anti-semitism and anti-judaism” in Contemporary Jewish Religious Thought , 1987, p.17.
[Nota 35] "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica"…
[Nota 36] M.DE CERTAU, L'Etranger , 1991, p.180.
[Nota 37] J.MOINGT, “Chrétien, juif, grec”, Lumière et Vie, 196 (1990), pp.30-31.
[Nota 38] E.SCHILLEBEECKX, L'histoire des hommes, récit de Dieu , 1992, p.252.
[Nota 39] P.RICOEUR, “Evénement et sens” in Révélation et histoire , 1971, p.20.
[Nota 40] M.ARKOUN, “Le concept de sociétés de livre-livre » in Interpréter-hommage amical à Claude Geffré, 1992, p.214.
[Nota 41] I.DEUTSCHER, The Non-Jewish Jew , 1968, p.36.
[Nota 42] P.HYMAN, “Emancipation” in Contemporary Jewish Religious Thought , 1987, p.169.
[Nota 43] M.ARKOUN, Critique de la raison islamique , 1988, N.Hamed ABOU ZEID, Mafhum al Nas (Il senso del testo), 1993. Vedere anche Gruppo di Ricerche Islamico-cristiane, Ces Ecritures qui nous questionnent: La Bible et le Coran, 1987.
[Nota 44] H.CAZELLES, “Sur les fondements de la recherche en théologie biblique » in Recherches des sciences religieuses , 83 (1995), p.358.
[Nota 45] J.NEUSNER, The Academie Study of Judaism, 1975, p.56-66.
[Nota 46] Non possiamo dare qui dei riferimenti bibliografici, ma un'opera come A.COHEN e P.MENDES-FLOUR (edd.), Contemporary Jewish Religious Thought , 1987, dà un'idea di questo movimento.
[Nota 47] "Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione della dichiarazione Nostra Aetate, numero 4"…
[Nota 48] Nostra aetate , n.1.
[Nota 49] "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica"...
[Nota 50] Op.cit .
[Nota 51] Ibid.
[Nota 52] Giovanni Paolo II, “Fille d'Israel, bénie par la Croix” in Documentation catholique 1941 (1987), p.572.
[Nota 53] Op.cit ., p.573.
[Nota 54] Giovanni Paolo II, “Allocution au conseil central des juifs d'Allemagne” in Documentation Catholique 1941 (1987), p.575.
[Nota 55] J.B.METZ, “En face des juifs - la théologie chrétienne après Auschwitz » in Concilium, 195 (1984), pp.45-46.
[Nota 56] E.FIORENZA e D.TRACEY “L'holocauste comme interruption et le retour chrétien à l'histoire » Concilium , 195 (1984), p.37.
[Nota 57] M.SABBAH, “Les chrétiens de Terre sainte face à leur avenir » Istina, XLI (1996), pp.407-408; vedi anche Consiglio dei Patriarchi cattolici d'Oriente, «La coesistence entre musulmans et chrétiens dans le monde arabe», Documentation Catholique 2113 (1995), pp.320-336.
[Nota 58] “Notre mission et le dialogue inter-religieux”, n.13, in 34° Congrégation générale, 1995.
[Nota 59] Op.cit ., n.12.
[Nota 60] G.BAUM, “L'holocauste et la théologie politique », in Concilium , 195 (1984), p.61.
[Nota 61] “L'attitude des chrétiens…", pp. 419-420.
[Nota 62] “La rencontre avec...” (1985), p.1148.
[Nota 63] Ibid.
[Nota 64] Linguaggio utilizzato in “L'attitude des chrétiens...” , "Incontro con la comunità ebraica di Magonza. Discorso di Giovanni Paolo II…", "Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica"… e Catechismo…, numero 839.
[Nota 65] J.MOLTMANN, Jésus, le Messie de Dieu , 1993, p.60.
[Nota 66] Op.cit ., p.64.
[Nota 67] Per esempio P.VAN BUREN, Discerning the Way: A Theology of the Jewish Christian Reality , 1980, G.LOHFINK, Der niemahls gekundigte Bund , 1989, M.R.MACINA, “Caducité ou irrévocabilité de la première alliance dans le Nouveau Testament,” Istina XLI (1996), pp.347-399, ecc.
[Nota 68] A.VANHOYE, “Salut universel par le Christ et validité de l'ancienne alliance » in Nouvelle revue théologique , 116 (1994), p.835.
[Nota 69] J.MOINGT, “Une théologie d'exil » in Michel de CERTEAU ou la différence chrétienne , p.141.
[Nota 70] D.TRACEY, Dialogue with the Other , 1991, p.4.
[Nota 71] Nostra aetate , n.2.
[Nota 72] Il termine è di M.DE CERTEAU, La faiblesse de croire , 1987.
[Nota 73] C.GEFFRE', "La singularité du christianisme à l'âge du pluralisme religieux" in Penser la foi , 1993, p.360.
[Nota 74] Ibid.
[Nota 75] Il termine è di M.DE CERTEAU, La faiblesse de croire , 1987.
[Nota 76] C.GEFFRE', Le christianisme au risque de l'interprétation , 1983, p.60.
[Nota 77] J.NEUSNER, Jews and Christians , 1994, p.119.
[Nota 78] C.GEFFRE', “ La singularité du christianisme... ” in Penser la foi , 1993, p.357.
[Nota 79] Op.cit ., p.363.
[Nota 80] E.SCHILLEBEECKX, L'histoire des hommes, récit de Dieu , 1992, p.163.