Padre Ignace de la Potterie, gesuita belga, professore del
Pontificio Istituto Biblico di Roma, è stato chiamato a sé dal
Signore all’età di 89 anni, l’11 settembre 2003. Questa antologia
di suoi brani vuole essere un omaggio alle sue ricerche scritturistiche ed,
in particolare, ai suoi studi sul IV vangelo. La presente raccolta è
stata preparata in vista del pellegrinaggio ad Efeso della parrocchia di S.Melania
in Roma nell’anno 2004. Le meditazioni di quei giorni sono nella sezione
I luoghi della Bibbia di questo stesso sito www.gliscritti.it, Turchia
e Patmos: itinerario paolino, giovanneo, patristico e bizantino.
In Appendice una riflessione di p.de la Potterie sulla “Casa della
Madonna” di Meryem Ana, in Efeso, ed un breve brano di p.D.Mollat sulle
notizie patristiche relative al IV evangelista.
L’Areopago
Nel presentare alcune delle ricchissime riflessioni di p.de la Potterie sul vangelo di Giovanni, vogliamo innanzitutto partire da quello che, a ragione, il gesuita belga considera la rivelazione centrale dell’Evangelo giovanneo. Dinanzi alla realtà dei segni compiuti da Gesù ed al segno supremo che è Gesù stesso, Giovanni non perde mai di vista la realtà storica, sensibile, terrena, umana, dell’evento che gli è dinanzi agli occhi, ma sa vedere in esso la presenza divina, eterna. La compresenza del divino e dell’umano nella vicenda dell’evangelo è, così, al cuore di tutta la sua testimonianza. Così risponde p.de la Potterie alle domande di Antonio Socci [1]:
P.de la Potterie: Nell’ultima cena Gesù dice:
“Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). E’ il versetto centrale del
quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente: anche i suoi nemici lo
vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e
udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per
pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di
Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. E’ Gesù, con le parole, i
gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero e conduce dal
“vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il
“vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero.
Questa pedagogia del vedere diventa esplicita – è Gesù stesso che la spiega
– nel capitolo 20. E pochi finora sembrano averlo capito.
Domanda: Dunque cosa è possibile scoprire?
Risposta: Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri
occhi di carne: si comincia dai segni, come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale
in cui s’imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce in lui Gesù... E’ una
progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco βλέπω, che
vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi θεωρειν che
troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente, osservare. Poi il verbo
οραν, al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo vedere e
che io tradurrei qui “ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò
che vedo”. Dunque dall’accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di
Dio nella realtà visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana,
secondo i Vangeli.
Domanda: E’ una storia raccontata attraverso gli occhi degli apostoli.
Risposta: Certo. L’evangelista però cerca di descrivere, nei primi
testimoni della risurrezione, l’approfondimento progressivo del loro sguardo su
Gesù. Il semplice βλέπειν (accorgersi)
dell’inizio, diventa uno sguardo attento, scrutatore
(θεωρειν), ma la pienezza della fede pasquale è
espressa solo dal verbo al perfetto: “Ho visto il Signore”, come annuncia la
Maddalena ai discepoli.
Domanda: L’evangelista ha curato tutti i particolari di questo
capitolo?
Risposta: Il capitolo è costruito in maniera concentrica. Primo episodio: i
due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo: l’apparizione alla
Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l’apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv. 19-25).
Infine, quarto: l’apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio
è parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in
Cristo risorto si basa sulla testimonianza “di quelli che hanno visto il sepolcro vuoto e
il Signore vivo”. Sono parole di padre Donatien Mollat. Non si parla più, spesso,
in questo modo oggi...
Domanda: Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni?
Risposta: Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e
Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le bende e Giovanni che “cominciò a
credere” (non “credette” come recita la traduzione normale, perché
subito dopo aggiunge: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura”). E’
la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è molto
chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell’uomo dice:
“Maestro, sei tu!”. No, non è più il maestro di prima. Maria è
legata alla vecchia immagine che aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede:
è il Signore risorto. E’ lui stesso che glielo dice. Allora capisce: Gesù
non è più come prima pur essendo sempre la stessa persona.
Domanda: Poi l’apparizione ai discepoli senza Tommaso.
Risposta: I discepoli sono pieni di gioia “alla vista del Signore”.
Diranno a Tommaso: “Abbiamo visto il Signore”. Lo avevano riconosciuto prima che
aprisse bocca, perché avevano accettato la testimonianza della Maddalena. E’ molto
importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò che Tommaso non fa. Lui
diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo
così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su
testimonianza, infine vedere e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che
permette di cogliere il senso delle cose, tutta la profondità della
realtà [2].
Lo sguardo di Giovanni coglie in profondità, così, ciò che si realizza nell’evento della croce. Non solo la resurrezione è glorificazione di Gesù, ma già la sua crocifissione partecipa dello splendore della gloria. Così spiega p. de la Potterie [3]:
Nei Sinottici, Gesù predice che dovrà soffrire molto; annuncia che “sarà schernito, flagellato e crocifisso” (Mt 20,19) e che il terzo giorno risorgerà. Giovanni, invece, annunciando la passione di Gesù la presenta come una “esaltazione”. Lo fa nei capitoli 3 (versetti 14-15), 8 (versetto 28) e 12 (versetto 32). L’ultimo è il brano più esplicito: “Quando io sarò innalzato [exaltatus] da terra attirerò tutti a me”. Nel versetto precedente Gesù aveva detto: “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo [satana] sarà cacciato fuori”. Gesù, innalzato da terra, prenderà il suo posto, divenendo re e attirando tutti a sé. Ma, come si vedrà più avanti, l’esaltazione di Gesù non avviene in paradiso, ma sulla croce...
Giovanni non nega la realtà. La materialità degli
avvenimenti che racconta rimane intatta. Giovanni però mette in rilievo, a differenza
dei Sinottici, l’aspetto di regalità, di trionfo, di vittoria sul male, di valore
salvifico, che è insito nella passione e nella morte subita da Gesù Cristo;
indica il senso degli eventi. Questi aspetti emergono anche durante la sua crocifissione. Alla
fine del processo fatto dai Romani, Pilato conduce Gesù di fronte alla folla e dice:
“Ecce homo”, ecco l’uomo (Gv 19,5). Gesù indossa i simboli della
regalità: oltre alla corona (di spine) ha ancora il mantello (i Sinottici, invece,
dicono che la porpora gli è stata tolta). Leggendo Giovanni si ha addirittura
l’impressione (erronea) che Gesù vada alla croce indossando la porpora e la corona
(di spine). E c’è un impressionante parallelismo, anche letterario, tra la scena
avvenuta nel pretorio nel luogo chiamato Gabbatà (Gv 19, 13-16), e quanto accade ai
piedi della croce, sul Golgota (Gv 19, 17-22). In entrambi i casi Giovanni pone l’accento
sul tema della regalità, e in entrambi i casi è Pilato, cioè il detentore
del più alto potere civile, che rende gli onori a Gesù. “Ecco il vostro
re” dice alla folla radunata davanti al pretorio (Gv 19,14); poi sopra la croce egli
scrive: “Il re dei Giudei” (Gv 19,19). E’, di fronte al mondo, una
proclamazione della regalità di Cristo fatta in tre lingue: in ebraico (la lingua di
Israele), in greco (la lingua della cultura) e in latino (la lingua del potere civile). Questo
episodio viene raccontato solo da Giovanni. E non è un caso se nella tradizione
cristiana la Via crucis, ispirata principalmente al racconto di Giovani, diventa una via
trionfale. Giovanni scrive che Gesù esce dalla città “baiulans sibi
crucem”. Abitualmente viene tradotto: “Portando la croce da
sé”. In realtà la traduzione corretta è: “Portando la
croce per sé”, cioè portandola come strumento della sua vittoria.
San Tommaso d’Aquino conferma questa traduzione. Dice: “Cristo portò per
sé la croce, e per gli empi era un grande ludibrio ma per i fedeli un grande mistero.
Cristo porta la croce come un re porta il suo scettro, come segno della sua gloria, della sua
sovranità universale su tutti. La porta come un guerriero vittorioso porta il trofeo
della sua vittoria”. E nei primi secoli san Giovanni Crisostomo aveva già usato
un’espressione analoga: “Egli portò sulle proprie spalle il segno del
trionfo”.
La croce in Giovanni non è più solo un patibolo, diventa “la croce di
Gesù”: è una formula che altrove nel Nuovo Testamento viene usata solo da
Paolo per parlare del mistero salvifico della croce di Cristo (cfr 1Cor 1,17).
Insomma, in tutto il racconto di Giovanni ogni piccolo dettaglio attira l’attenzione
su questo diverso livello di lettura. Per esempio, solo i Sinottici parlano di due ladroni,
Giovanni si limita a parlare di altri due in mezzo ai quali viene crocifisso Gesù
(“medium autem Jesum”): la centralità di Cristo è un altro segno
della sua dignità,.
Un altro esempio: Giovanni sta vicino a Maria, ma ella sola sta vicino alla croce di
Gesù. E’ Maria la più coinvolta con la croce di Gesù, Giovanni
è in secondo piano. E Maria per la seconda volta viene chiamata da Gesù, come era
già accaduto a Cana, “donna”. E’ questo il termine usato
nell’Antico Testamento per designare la Figlia di Sion. Nei profeti Isaia e Baruch
“la figlia di Sion” è la donna che dopo l’esilio richiama a casa tutti
i dispersi. Sotto la croce Maria, la madre di Gesù, una donna concreta, realizza quella
prefigurazione scritturistica: Maria, ricevendo il discepolo come figlio, attua nella
realtà l’immagine della Figlia di Sion, cioè la Chiesa, che vede tornare i
suoi figli dall’esilio. Per Giovanni, è il momento in cui nasce la Chiesa, nelle
due persone presenti sotto la croce: la madre di Gesù rappresenta già la
Chiesa-Madre; e il discepolo che Gesù amava rappresenta tutti i discepoli: diventando
figli di Maria (“Ecco tua madre”) diventano tutti figli della Chiesa. La croce, in
Giovanni, è vista in prospettiva ecclesiale.
Un altro elemento proprio soltanto a Giovanni nel racconto della crocifissione è
rappresentato dal sangue e dall’acqua che escono dal costato di Gesù Cristo morto,
quando viene perforato dalla lancia del soldato (Gv 19,34): l’acqua simboleggia lo
Spirito Santo dato da Gesù Cristo alla Chiesa (Gv 19,30) e il sangue attesta la
realtà del sacrificio, il dono della vita di Cristo, col quale “tutto è
compiuto” (Gv 19,28).
Anche nella sepoltura di Cristo emerge un dettaglio “regale”. I circa trenta
chili di balsamo (cento libbre di mirra e aloe) che, secondo Giovanni, sono stati utilizzati,
eccedevano una misura media. E’ una quantità che poteva essere utilizzata per un
re. Si apre già qui la prospettiva sulla Pasqua (Gv 19,31-42).
E’ indubbio, alla luce di quanto abbiamo detto, che Giovanni dà una visione
della croce differente da quella degli autori dei tre Vangeli sinottici. Per Giovanni, certo,
la croce non viene annullata, non ci presenta una visione gnostica; ma quell’avvenimento
è letto nella sua valenza gloriosa. E’ ciò che ha ben presente la Chiesa
nella sua liturgia.
Al centro del pensiero di p. de la Potterie, stanno le sue considerazioni sul concetto di “verità” in S.Giovanni. A questo tema il gesuita aveva dedicato la sua ponderosa tesi di laurea (per una presentazione di questo tema vedi la sintesi elaborata dallo stesso p. de la Potterie e pubblicata on-line sul nostro sito www.gliscritti.it nella sezione Approfondimenti con il titolo: “Che cos’è la verità? Verità biblica e verità cristiana”). E’ dalla “verità” - che è Gesù stesso - che discendono gli unici due precetti che S.Giovanni sembra avere in mente: la fede e l’amore. Così ancora p. de la Potterie [4]:
Partiamo... dalla dichiarazione di Gesù: “Io sono la via, la
verità e la vita; nessuno va al Padre se non attraverso di me”. Nessun uomo della
storia ha mai parlato così di se stesso. Per comprendere bene queste parole bisogna
metterle in relazione con il mistero dell’incarnazione ossia del fatto che, in
Gesù, si realizza il mistero di “Dio con noi” (Mt 1, 23).
L’unicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, che è Gesù
Cristo, è la ragione fondamentale dell’unicità della verità
cristiana. Un altro testo fondamentale è quello del Prologo: «La grazia della
verità accadde in Gesù Cristo» (Gv 1, 17). L’incarnazione è
evento unico nella storia delle religioni: quell’uomo della storia, Gesù, era il
Figlio di Dio venuto da presso il Padre. Perciò dobbiamo sempre dire con un apoftegma
dei Padri del deserto: «Colui che persevera nella memoria di Gesù, costui è
nella verità». Così viveva anche san Paolo: «Per me, vivere è
Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21); tutta la sua opera missionaria
consisteva in questo: «Far conoscere tra i Gentili la splendida ricchezza di questo
mistero: Cristo in voi, la speranza della gloria» (Col 1, 27).
Ma se la verità cristiana è un avvenimento che è mistero, si
comprende che abbia una relazione intima con lo Spirito Santo. La verità è un
evento, sì, ma un evento rivelatore, un mistero che deve essere sempre approfondito dal
di dentro. E’ proprio qui che è necessaria la funzione dello Spirito. Se
Gesù Cristo è la verità, è anche vero che «lo Spirito
è la verità» (1 Gv 5, 6); Giovanni è l’unico autore del Nuovo
Testamento che usa l’espressione «lo Spirito della verità».
Contrariamente a ciò che pensava Gioacchino da Fiore nel XIII secolo, lo Spirito non
porta una verità nuova, diversa da quella di Gesù: al contrario, lo Spirito della
verità ci fa ricordare tutto ciò che ha detto Gesù, per insegnarcelo dal
di dentro, così ci fa entrare “in tutta intera la verità” (Gv
16, 13).
Scrive monsignor Luigi Giussani nel libro Il cammino al vero è
un’esperienza: «Ha veramente incontrato Cristo solo chi possiede il suo
Spirito: “Se uno non ha lo Spirito di Cristo non è dei suoi”, cioè
è un estraneo, un incapace di sorprenderne l’intima fattura, la natura segreta, di
diventare familiare del suo mistero».
Questo doppio rapporto della verità con Cristo e con lo Spirito ci apre una
prospettiva veramente nuova per la nostra vita cristiana, per la morale cristiana. Per
comprenderlo ancora meglio, partiamo adesso da un altro celebre testo giovanneo:
«Dio è amore» (1 Gv 4, 8. 16). Qui di nuovo dobbiamo insistere
sull’assoluta novità di una tale affermazione. Nelle altre religioni si parla per
esempio della profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua
eternità, della sua giustizia, ecc. Ma solo il cristianesimo ci insegna: “Dio
ha tanto amato il mondo che ha mandato il suo Figlio unigenito affinché chiunque
crede in lui [...] abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo
comandamento, che è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui
ha amato noi (Gv 13, 34). Solo così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che
tutta la morale giovannea è praticamente “una morale della verità”.
Si compendia in due precetti fondamentali: la fede (che ci apre al Mistero) e
l’amore (che ci fa vivere nel mistero della rivelazione).
Per converso Giovanni sembra conoscere, nella sua essenzialità e semplicità ricchissime, solo due peccati: il rifiuto della fede in Gesù e l’odio del fratello. Ecco come il gesuita belga presenta, dopo l’Incarnazione, il peccato del mondo (è significativo che il Battista, in Giovanni, chiami così Gesù: l’Agnello di Dio che toglie “il” peccato del mondo) [5]:
Prima di imbattersi personalmente nella novità del cristianesimo
è soggettivamente ancora possibile una religiosità umana o persino una posizione
di indifferenza non menzognere e inique. Ma l’incontro col fatto cristiano rivela
l’apertura o la chiusura del cuore di ognuno di fronte alla scelta di Dio, di fronte al
modo storico in cui il Mistero ha scelto gratuitamente di rivelarsi. Per questo, per Giovanni
l’unico peccato mortale è l’incredulità, che si trasforma in odio.
Un’incredulità che non è più indifferenza di fronte a ciò che
non si conosce, ma rifiuto e negazione di ciò che si è visto. Può odiare
il cristianesimo solo chi in qualche modo lo ha incontrato, chi ha visto e odia ciò che
ha visto. Lo dice Gesù stesso, sempre nel capitolo 15: “Chi odia me, odia anche il
Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non
avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio” (Gv
15,23-24).
Domanda: Qual è la radice di questo odio?
Risposta: Ci sono molti passi che illuminano. Quando Gesù identifica se
stesso con il pane disceso dal cielo, i Giudei mormorano: “Costui non è forse
Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può
dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6, 42). Quando Gesù va ad insegnare al
tempio, alcuni dicono, rivolti ai capi farisei: “Non è costui quello che cercate
di uccidere? Ecco, egli parla liberamente e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano
riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo da dov’è, il
Cristo invece quando verrà nessuno saprà da dove sia” (Gv 7,25-27). Lascia
spiazzati il fatto che Gesù era un uomo come tutti, un uomo di cui si conosce il nome,
la data di nascita e il paese dove aveva vissuto. Eppure pretende di identificarsi col Mistero,
di “farsi Dio” (Gv 10,33). Lo scandalo davanti a questa pretesa, che coincide col
mistero stesso dell’incarnazione, diventa obiezione rabbiosa nei Giudei che non accettano
la libertà assoluta del Mistero nello scegliere come gratuitamente comunicarsi.
Per questo ci sono i tentativi di lapidarlo (Gv 8,59; Gv 10,31). Dalla parte opposta
c’è la posizione della folla dei semplici, che crede ai segni e che Giovanni
descrive poco più avanti: “Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano:
“Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che
ha fatto costui?” (Gv 7,31). Eppure anche il “successo” della missione
pubblica di Gesù, i frutti della sua predicazione, diventano insopportabili e scatenano
la reazione ostile.
Domanda: Soprattutto dei capi religiosi...
Risposta: Davanti alle folle che seguono Gesù, i capi del sinedrio
s’inquietano: “Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo
fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo
santo e la nostra nazione” (Gv 11, 47-48). Ma più avanti c’è una
frase ancora più rivelatrice: “I farisei allora dissero tra loro: “Vedete
che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!” (Gv 12,19).
Questo è importante. Se il cristianesimo fosse una cosa totalmente estranea alle attese
ultime del mondo, cioè di ogni uomo, non susciterebbe alcuna reazione. Se Gesù
fosse stato un predicatore di idee religiose e morali, anche elevatissime, lo avrebbero
lasciato fare. E invece la sorpresa è che il mondo subisce il fascino della sua
presenza, che non è del mondo ma che risponde alle attese del mondo. L’odio e
l’ostilità sono così cattivi solo perché carichi del rinnegamento di
questo fascino verso qualcosa che il potere del mondo non riesce a tenere sotto
controllo...
Ma all’inizio, la ragione era più profonda, anche perché il cristianesimo non veniva ridotto a una mera morale. Gesù dice che non è lui a giudicare il mondo, ma che il mondo stesso, rifiutandolo, si autocondanna. Gesù lo spiega a Nicodemo: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18). Gesù è venuto per salvare il mondo, ma questa salvezza non è un automatismo meccanico. Davanti al fatto cristiano che entra nel mondo, il mondo si divide. Gesù lo ripete dopo l’episodio del cieco nato: “Io sono venuto in questo mondo per dividere” (Gv 9,39). Una frase che molte edizioni dei Vangeli, sbagliando, traducono: “Io sono venuto nel mondo per giudicare”. Non giudicare, ma dividere. Una divisione che non è voluta da Gesù: egli viene e propone se stesso. Davanti a questa proposta c’è chi lo segue, e chi lo rifiuta e si autocondanna. L’immagine di questa divisione è proprio l’epilogo dell’episodio del cieco nato. Il cieco è il discepolo che accetta di seguire Gesù, il punto più drammatico del rifiuto dei farisei è l’espulsione del cieco dal tempio. Da questa divisione nasce visibilmente la Chiesa. Da una parte la folla, che, alla fine, sobillata dai capi, chiederà la condanna di Gesù; e dall’altra i suoi, pochi, che escono dal tempio e lo seguono. Per questo Gesù usa subito dopo l’immagine del Buon Pastore: “Egli chiama le sue pecore ad una ad una e le conduce fuori” (Gv 10,3).
La parola “anticristo” è fra i termini propri del corpus ioanneum (cioè l’insieme degli scritti del Nuovo Testamento attribuiti all’evangelista Giovanni). E’ espressione originaria di Giovanni, proprio perché l’evangelista vede concretizzarsi, in opposizione alla presenza del Cristo, la possibilità di opporsi a Lui, a Gesù. L’opposizione alla fede cristiana è l’apice del male possibile. Ecco un breve testo di p. de la Potterie al riguardo [6]:
Il problema affrontato da Giovanni appare molto simile a quello odierno: come discernere gli spiriti per vedere se provengono effettivamente da Dio? La risposta fondamentale di Giovanni è che il riferimento a Gesù Cristo è la misura su cui basarsi. “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4,2). E’ interessante notare che è precisamente in questo contesto che Giovanni introduce, primo fra tutti, il termine “anticristo” (1 Gv 2, 18); come altrettanto interessante è considerare qual è la situazione storica che Giovanni ha di fronte. Il fatto è molto attuale: c’è uno scisma all’interno della comunità giovannea, alcuni sono andati via. L’evangelista non ne fa una questione sociologica – sul genere dei discorsi sulla secolarizzazione così in voga nel nostro tempo – bensì colloca questo evento nella prospettiva teologico-escatologica: “Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi” (1 Gv 2, 18). Questi anticristi sono appunto coloro che, pur appartenendo esteriormente alla comunità, non possedevano più lo Spirito di Cristo. “Non erano dei nostri” dice Giovanni; perciò è bene che se ne siano andati, perché “doveva rendersi manifesto che loro, tutti quanti, non sono dei nostri”. Dunque il pericolo di uno spirito separato da Cristo, il pericolo dell’anticristo, è un pericolo eminentemente interno alla comunità dei credenti, cioè alla Chiesa. Anche se Giovanni parla di “spirito del mondo” (“il mondo giace sotto il potere del maligno”), è quel “mondo” penetrato nel seno della Chiesa a costituire la vera insidia per la fede.
Possiamo ora considerare altri termini caratteristici del linguaggio giovanneo. Ognuno di essi ci rimanda alla comprensione di fondo che egli ha del mistero di Gesù, il Verbo. Innanzitutto l’insistenza sul “diventare” figli di Dio, reso possibile dall’Incarnazione [7]:
Questa concezione (N.d.C. cioé che non sia necessario diventare figli di Dio, ma che lo si sia in partenza, per il semplice fatto di essere nati come uomini) pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui “considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi” (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell’ultimo Concilio: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo” (22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi “secondo gradi diversi” e “in certo modo” non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica. Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”...
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il
discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non
è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a
chi sceglie, e che si accoglie nella fede (“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto
voi”, Gv 15,16). Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza
divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1,12)
che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo
(Gv 3,1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la
nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera
(1 Gv 3, 6-9; 1 Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita
concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così
“impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi
soprattutto i primi due passi sopra citati. Nel Prologo (Gv 1,12-14), Giovanni scrive: “A
quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè]
che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato
[έγεννήθη]. Sì, la Parola si fece carne e venne
ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria
dell’unigenito [μονογενους]
venuto da presso il Padre [παρά πατρός] pieno
della grazia della verità”.
E’ importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo
divenire (γίυεσθαι), sul quale i
commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende
Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo
in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato
acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa
figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è
“generati dall’acqua e dallo Spirito”. E ciò accade quando un
avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica
dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa
di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di
grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede.
Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di
ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. E’ piuttosto un dono che si
riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio
stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il
sì di Maria. L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola
potere (έξουσίαν), che indica
anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera
automatica, per legge di natura, ma per la fede. E’ la fede il potere dato per diventare
figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune
occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi “crede nel suo nome”.
Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel
“credere nel nome del Figlio unigenito di Dio” (Gv 3,18). Ne segue che la nostra
figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si
è manifestato tra noi come “il Figlio unigenito venuto da presso il Padre”.
Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla
fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per
sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la
stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua ad operare nel
presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il
Padre gli dà (cfr. Gv 17,2). Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più
lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre
sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo
nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: “Se uno
non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno
di Dio” (Gv 3,5). Quindi la via d’accesso al diventare “figli nel
Figlio” è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel
battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua). Anche le teorie
che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio
acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa
operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza
divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio
perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o
no, lo voglia o no, i frutti della redenzione. Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo
Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera
nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di
Gesù Cristo Figlio di Dio. Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della
salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del
tempo di Natale: “Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si
rende presente nello Spirito”. E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto
Gesù ha detto alla Samaritana: “Bisogna adorare nello Spirito e nella
verità” (Gv 4,23) chiaramente definendo se stesso “la verità”.
Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel
Vangelo di Giovanni. Lo Spirito “insegnerà”, facendo ricordare quello che ha
detto Gesù (Gv 14,26); “renderà testimonianza” a Gesù (Gv
15,26); “non parlerà da se stesso, ma dirà quello che ascolta” (Gv
16,13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede
una chiara benché misteriosa intenzionalità (“Lo Spirito ispira dove
vuole”; Gv 3,8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e
l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è “lo Spirito della
verità” (Gv 15,26; Gv 16,13), quale altra verità potrebbe farci conoscere
lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: “Io sono la
verità” (Gv 14,6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso
la verità intera (Gv 16,13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù
Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica
Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: “Cristo, infatti, innalzato
da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo
Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale
universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel
mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a
sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo
sangue”.
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è
mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II
nell’enciclica Redemptoris missio “la fede che abbiamo ricevuto” è un
“dono dall’Alto senza nostro merito”.
Abbiamo già incontrato, all’inizio di questa nostra rapida rassegna, l’importanza del “vedere”. A più riprese p.de la Potterie è tornato nei suoi scritti a manifestare l’importanza di una corretta comprensione di questa famiglia semantica, nelle sue diverse sfumature [8]:
(Dice) una frase suggestiva di Hans Urs von Balthasar: “Vedere non è tanto il contemplare di Platone, quanto lo stare di fronte all’evidenza dei fatti”. Il cristianesimo non è quindi un idealismo di tipo platonico, non è un deismo di marchio razionalista come quello in voga due secoli fa, ma è fondamentalmente il fatto dell’incarnazione che rimane presente: la venuta del Figlio di Dio tra noi. Il cristianesimo è quindi una storia reale con eventi accaduti. Eventi che noi contempliamo nella fede cercando, come diceva Gregorio Magno, di alzarci dalla storia al mistero, di scoprire il mistero all’interno di quella storia così umana.
“Ciò che era fin da principio”... Quell’inizio, l’inizio del cristianesimo, quando Gesù si è manifestato a Giovanni e agli altri, si può trasmettere e comunicare? Giovanni, nella sua lettera, dice ai credenti che non hanno conosciuto Gesù (sono la seconda generazione di cristiani della Chiesa in Asia Minore) che anche loro partecipano a quell’inizio. Un inizio di cui Giovanni aveva potuto fare esperienza sensibile. Alla domanda che evidentemente anche quei cristiani, come noi oggi, si ponevano, Giovanni risponde: “Ciò che noi abbiamo visto e udito lo comunichiamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi”. Così si comunica e si trasmette l’inizio dell’avvenimento cristiano. “Ciò che era fin da principio”. Questa è la formula perfetta per definire la Tradizione cristiana: all’inizio c’erano dei testimoni che hanno trasmesso la loro esperienza a quelli della seconda generazione, facendola arrivare, adesso, fino a noi. Infatti Giovanni usa l’espressione “fin da principio” altre volte, riferendola ai discepoli della seconda generazione. “Voi avete conosciuto colui che è fin da principio” (1 Gv 2,13); “L’annuncio che voi avete udito fin da principio” (1 Gv 3,11): si vede bene che per Giovanni quelli a cui egli comunica il messaggio cristiano partecipano all’esperienza dei primi testimoni pur non essendo stati, come lui, presenti ai fatti.
P.de la Potterie a partire non solo dall’esegesi degli incontri dei discepoli con Gesù risorto, che già abbiamo visto, ma anche attraverso il ricorrere delle diverse sfumature utilizzate dall’evangelista, ha studiato questa attenzione al “vedere”. Il “vedere”, senza escludere la realtà di ciò che è stato visto, anzi prendendo inizio e fondamento proprio da esso, giunge ad essere sguardo di fede. In tutto lo sviluppo del vangelo è presente questa dinamica [9]:
C’è... in Giovanni, e questo ci porta nel cuore del nostro discorso, un vero e proprio cammino del vedere..
Il verbo più neutro è scorgere, βλέπειν. Lo troviamo per la scena iniziale del battesimo al Giordano. Giovanni Battista scorge Gesù che viene a lui e dice: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,29). Ma si nota già in questo episodio un passaggio da scorgere (Gv 1,29) a contemplare (Gv 1,32) e poi a ho visto (Gv 1,34 come in Gv 14,9).
Un verbo usato più spesso nel quarto Vangelo è Θεωρειν (donde deriva teoria). Questo verbo descrive lo sguardo scrutatore di colui che osserva attentamente. Viene usato quando si tratta di cose straordinarie, come i segni che Gesù faceva (Gv 2,23; Gv 6,29); anche qui questo guardare attento è giustapposto due volte al credere in Gesù (Gv 6,40; Gv 12,45): questo osservare attento è già uno sguardo di fede. Lo stesso verbo viene usato nell’ultima cena per i discepoli che guardavano attentamente Gesù che stava per lasciarli (Gv 16,10. 16.17.19).
Terzo verbo è Θεασθαι (da cui deriva teatro). Con questo verbo facciamo un passo più avanti: possiamo tradurlo con contemplare. Che, come nota von Balthasar, non è il contemplare platonico, ma lo stare di fronte all’evidenza dei fatti. E’ infatti uno sguardo che riconosce stupito la bellezza dell’oggetto e quindi cerca di penetrarne il mistero. Quando viene applicato a Gesù, viene chiaramente indicato che nella realtà che i discepoli vedevano con gli occhi del corpo riconoscevano stupiti “la gloria dell’unigenito venuto dal Padre” (“Abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito, venuto da presso il Padre”, Gv 1,14). Lo sguardo attento e stupito – contemplativo – dei discepoli su Gesù scopre in lui la sua venuta da presso il Padre.
Arriviamo così alla forma verbale più completa, quella che troviamo anche in Gv 14, 9: il verbo comune «vedere», ma usato al perfetto έώρακα. Applicato a Gesù, descrive ciò che lo sguardo attento e stupito ha scoperto in lui, e di cui si conserva nella memoria la scoperta. Possiamo osservare che ogni volta che Giovanni usa questo verbo ho visto (e ne conservo la memoria) Gesù viene riconosciuto come il luogo santo dove Dio si manifesta, il tempio della presenza divina, la casa ovvero la dimora in cui Dio stesso abita. In un tale contesto diventa chiaro il senso del nostro versetto 14, 9: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Aver visto Gesù e conservarne la visione interiore nella memoria vuol dire riconoscere Gesù come il luogo di inabitazione del Padre, presente nel suo Figlio come in una dimora. Qui si constata tutta l’importanza in san Giovanni del dimorare: il tema corre come un filo rosso attraverso tutto il quarto Vangelo, arricchendosi progressivamente. Proviamo a tirare le fila del nostro discorso: lo stesso evangelista in 1, 14 ci invita a comprendere che nell’uomo Gesù — il Verbo fatto carne «pieno della grazia della verità» in cui i testimoni hanno “contemplato la gloria dell’unigenito” — c’era un mistero, «insondabilmente nascosto» ma che ci viene manifestato «simbolicamente» (san Massimo il Confessore). È il mistero dell’«unigenito venuto da presso il Padre», che «è venuto a mettere la sua tenda in mezzo a noi». Così egli diventa la dimora del Padre (Gv 14, 10), il nuovo tempio della presenza di Dio (Gv 2,21; cfr. Cv 4,20-24). Un bellissimo brano di san Massimo il Confessore, seppur difficile, dice l’essenziale: «Il Signore [...] è diventato precursore di se stesso; è diventato tipo e simbolo di se stesso. Simbolicamente fa conoscere se stesso attraverso se stesso. Cioè conduce tutta la creazione, partendo da se stesso in quanto si manifesta, ma per condurla a se stesso in quanto è insondabilmente nascosto».
Il contributo precedente ci mostra già il passaggio dal “vedere al “rimanere”, al “dimorare”, un altro caposaldo del discorso giovanneo. Già nella testimonianza del Battista si affermava che colui sul quale vedrai “scendere e rimanere” lo Spirito, questi è colui che battezza in Spirito Santo (Gv 1, 33). P de la Potterie così commenta il tema del “rimanere” [10]:
Il verbo rimanere (μένειν) s’incontra
118 volte nel Nuovo Testamento, di cui soltanto 12 nei Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67
nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. Il termine appare il più delle volte (43 dei 67
casi) nell’espressione composta rimanere in. Direi che si possono distinguere tre
modalità dell’uso del verbo rimanere e delle espressioni ad esso collegate:
innanzitutto l’uso semplicemente biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli
spostamenti di Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni che
ricorrono nei racconti degli incontri evangelici, come quelli con Giovanni e Andrea (Gv
1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42). E infine le formule contenute nei discorsi di
Gesù o nelle Lettere: si tratta di inviti ai discepoli a rimanere in Lui, rimanendo
nella sua parola e nel suo amore. Vi sono affermazioni in cui è indicato insieme il
rapporto di Gesù con i discepoli e il rapporto di Gesù con il Padre e la
comunione con il Padre e con il Figlio che viene sperimentata dai discepoli.
Domanda: Che cosa collega questi diversi modi di usare l’espressione
rimanere?
Risposta: C’è un passaggio ab extra ad intra. Da un uso esteriore si
passa a un uso interiore. Il rimanere, come il guardare e il vedere, in Giovanni descrive la
dinamica della fede dei discepoli. Ma proprio il fatto che il medesimo e identico verbo
rimanere è usato sia in senso esteriore sia in quelle che vengono chiamata formule di
immanenza, impedisce ogni possibilità di interpretazione dualistica. Anche quando si
procede da un uso esteriore a un uso interiore, il rimanere giovanneo, pur negli aspetti
più interiori, ha origine ed è sempre in rapporto col manifestarsi storico e
visibile di Gesù, il Verbo fatto carne. Da un rimanere presso di Lui a un rimanere in
Lui; Egli dice che possiamo venire a Lui perché il Padre che lo ha mandato ci attira a
Lui (Gv 6,44; cfr. 12,32).
Domanda: Lei ha citato gli incontri evangelici. Che ruolo gioca il rimanere in questi
episodi?
Risposta: Prendiamo l’incontro di Gesù con Andrea e Giovanni (il
secondo discepolo, qui non nominato, è probabilmente il discepolo amato, che
verrà designato per la prima volta in 13,23). E’ l’inizio della missione di
Gesù e, in un certo senso, in quelle poche parole c’è tutto il
cristianesimo. C’è l’incontro, l’impatto imprevisto con una presenza
umana che percuote i sensi e stupisce: “Maestro, dove rimani?” (tradotto meno bene
nella Vulgata “ubi habitas?”). “Venite e vedete”. E subito
c’è di nuovo il rimanere: “Andarono a vedere dove rimaneva, e quel giorno
rimasero presso di lui. Era circa l’ora decima” (Gv 1,39). In poche battute il
verbo μένειν compare tre volte. E’ da quel rimanere stupiti a
guardarlo parlare quel giorno (era circa l’ora decima, ricorda Giovanni) che nasce nei
due discepoli un’immediata certezza. Una certezza ancora iniziale, ma che crescerà
man mano che, rimanendo, il loro stupore dell’inizio si rinnova. “Abbiamo trovato
il Messia”, dirà subito Andrea al fratello Simone. Ma quell’impressione
iniziale indimenticabile si prolunga e si conferma rimanendo presso di Lui...
Domanda: Ma dove nasce questa necessità del rimanere?
Risposta: Il rimanere è la condizione che identifica i discepoli di
Gesù. Non sono i più bravi, i più religiosi o i più morali. Sono
semplicemente quelli che rimangono presso di Lui e in Lui. Il cristianesimo è sempre
così: innanzitutto un incontro, occasione data, assolutamente gratuita. Lo stupore e
l’attrattiva dell’incontro stesso sollecitano la libertà a rimanere, a
starci a quell’incontro. E’ in questa convivenza, nel tempo dato a questa
convivenza, che lo stupore iniziale e la scoperta crescono, proprio perché le occasioni
per stupirsi ancora di quella presenza si moltiplicano. Se Giovanni e Andrea, che pur lo
riconobbero quel giorno come Messia, non l’avessero più visto, pur conservando per
sempre l’impressione della sua eccezionalità, si sarebbero nella vita come
dimenticati di Lui. Invece, riaccostandolo, si approfondiva l’impressione originale. Per
questo dopo i miracoli ritorna l’espressione “i discepoli credettero in lui”.
Non che prima non credessero, ma la convivenza e il constatare ogni giorno
l’eccezionalità della sua presenza accresceva la loro certezza.
Domanda: In che cosa consiste questa crescita?
Risposta: Gesù stesso, per dare un’immagine del rimanere, usa la
metafora della vite e dei tralci (Gv 15,4-8): “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane
in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Se
rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà
dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei
discepoli”. Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti.
Cioè dal cambiamento che lo stesso rimanere gratuitamente provoca. Come ha detto don
Giussani, accennando al rimanere di Giovanni e Andrea quel pomeriggio presso di Lui: “Che
cos’è avvenuto in loro? Non è stata in primo piano la soluzione dei
problemi, ma uno stupore, lo stupore di una Presenza. Seguendo questo stupore hanno cambiato
anche la vita”. E ancora: “L’incontro con Cristo fa venire voglia di seguire,
non immediatamente di cambiare la vita. Se il termine fosse cambiare la vita,
l’attenzione si sposterebbe inevitabilmente su di sé invece che sulla Presenza.
Neanche uno iota della legge viene eliminato da questa impostazione, anzi, viene reso
possibile, viene compiuto.
Domanda: Anche il cambiamento morale è frutto del rimanere...
Risposta: Senza dubbio, perché la morale giovannea è una morale della
verità (cfr. la Veritatis splendor). Nella crescente consapevolezza che “senza di
me non potete far nulla”, le conseguenze dell’essere cristiano, anche a livello
morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il rimanere con Gesù implica
(come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a livello
dell’essere) vivere come Gesù: “Chi dice di dimorare in Lui, deve
comportarsi come Lui si è comportato” (1 Gv 2,6). “Chiunque rimane in Lui
non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto” (1Gv 3,6). Se
il cristiano, come Giovanni e Andrea, rimane stupito a guardarlo, anzi se veramente rimane in
Lui, allora non pecca più. In quanto rimane in quello stupore e in quella grazia, non
può peccare. E’ bellissimo, nella sua sinteticità, il commento di Agostino
a questo versetto: “In quantum in ipso manet, in tantum non peccat”. Una percezione
comune soprattutto tra i padri della Chiesa orientale. Anche Ecumenio (un teologo della
tradizione antiochena di Crisostomo), nel suo commento alla Prima lettera di Giovanni, scrive:
“Quando colui che è nato da Dio si è completamente dato a Cristo che abita
in lui mediante la filiazione, egli resta fuori della portata del peccato”. Diventiamo
impeccabili in quanto ci abbandoniamo totalmente a Gesù Cristo, in quanto rimaniamo in
Lui.
Domanda: Che cosa succede a chi non rimane?
Risposta: La folla non rimane e semplicemente dimentica l’impatto con Cristo.
Ma anche nelle descrizioni dell’Anticristo ricorre la terminologia del rimanere.
“Sono usciti da mezzo a noi, ma non erano dei nostri, altrimenti sarebbero rimasti con
noi” (1 Gv 2,19). L’Anticristo è proprio per definizione colui che non
rimane nel luogo dell’incontro, nello stupore dell’incontro, ma “va
oltre” (cfr. 2 Gv 9). Invece il vero discepolo è colui in cui rimane ciò
che ha udito dal principio: “In voi [in contrasto proprio con l’Anticristo]
ciò che udiste dal principio rimanga. Se in voi rimane ciò che udiste dal
principio,, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre” (1 Gv 2,24). Il rimanere non
è una semplice premessa per poi poter fare altro. Non è uno spunto per giungere
finalmente alla conoscenza. Invece è l’inizio e la piena maturazione della
conoscenza e della vita cristiana. Gesù, dopo aver usato l’immagine del rimanere
in Lui come i tralci nella vite, aggiunge: “Questo vi ho detto perché la mia gioia
sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Domanda: Lei ha detto che il rimanere rende possibile anche un conoscere.
Risposta: In diverse espressioni c’è una connessione di successione tra
il rimanere e il conoscere (vedi Gv 8,31-32; 14,17; 2 Gv 2). Il tema del conoscere compare 141
volte nel Vangelo di Giovanni, ma nella maggioranza dei casi, ben 85, esso viene indicato col
verbo οιδα (so), in cui è la radice del verbo
ιδειν, vedere. Questo verbo è diverso da
γινώσκειν. Significa so perché ho
visto, esprime l’aspetto più esistenziale, meno astratto della conoscenza, il
suo aspetto di esperienza vissuta. Se si aggiunge che in Giovanni non compare mai il termine
γνωσις, conoscenza, come sostantivo astratto, soprattutto per
evitare equivoci con l’uso che ne facevano le sètte gnostiche, si intuisce a che
tipo di conoscenza allude Giovanni e perché la condizione stessa di questa conoscenza
sia il rimanere presso Gesù e in Lui. Questa conoscenza è infatti soprattutto un
gustare, un fare esperienza, un accorgersi di crescere, rimanendo nel luogo dove lo stupore si
rinnova.
Questo “rimanere” ha una profonda valenza antignostica. Si tratta di “rimanere” in Gesù, si tratta di rimanere nella comunione ecclesiale, si tratta di rimanere nella comunione sacramentale: Come dice in maniera splendida il testo di 2Gv 7-9: “Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nel mondo. Ecco il seduttore e l’anticristo...Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio”. L’ “andare oltre” non è segno di approfondimento, di accresciuta maturità, ma di lontananza dalla fede. Al di là, oltre Cristo, non c’è nulla. Ecco ancora p. de la Potterie [11]:
Domanda: I sacramenti e la morale. Come tratta Giovanni questi
argomenti? Ci possono essere confusioni con la concezione gnostica?
Risposta: Ovviamente per gli gnostici non esistono i sacramenti, questi atti del
corpo ecclesiale con cui Gesù Cristo tocca e salva la nostra vita. E’ ovvio: come
potrebbero, per gli gnostici, delle cose materiali essere strumento di salvezza, per loro che
considerano la materia come la pienezza del male? In Giovanni abbiamo accenni al battesimo,
nell’episodio di Nicodemo, e all’eucarestia, nel discorso alla sinagoga di
Cafarnao. In quell’episodio il suo realismo (“Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”)
scandalizza i giudei e anche i suoi discepoli. Tanto che Gesù poi aggiunge: “Per
questo vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre
mio”. Sbarrando la strada a chi interpreta la redenzione come un automatismo fisico
trasmesso attraverso i sacramenti. Riguardo alla morale, la posizione gnostica è tutta
determinata dal non riconoscimento del peccato originale e dalla concezione negativa della
materia. Chi è già salvo per natura non deve riconoscere alcuna morale. Le
conseguenze paradossali vanno dal libertinismo sfrenato all’ascetismo rigoroso: una volta
deciso che il mio profondo non ha nulla a che vedere con il corpo, posso indifferentemente
disporre della realtà materiale senza remore etiche o cercare di farmi condizionare il
meno possibile da questa gabbia infetta. Invece in Giovanni la fede non elimina i comandamenti.
“Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed Egli in lui”, scrive nella Prima
lettera. La morale cristiana di Giovanni riconosce due virtù fondamentali, la fede e la
carità, e due vizi capitali, l’incredulità e l’odio che ne deriva.
Tutte le formule del comportamento morale vengono sempre connesse alla parola verità.
Bisogna amare, pregare, santificarci nella verità. Ma la verità non è
l’illuminazione gnostica, è lo sguardo sempre rivolto a Gesù. Come dice un
testo anonimo dei Padri del deserto: “Chi persevera nella memoria di Gesù è
nella verità”. Il modello morale è imitare quello che ha fatto Gesù
Cristo. Per questo nella sua Prima lettera Giovanni aggiunge che “Dio è più
grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Malgrado le debolezze e i peccati, Dio vede
il cuore dell’uomo, giudica l’apertura e la domanda che è nel cuore. La
morale di Giovanni è una morale della verità della misericordia,
dell’essere abbracciati dal Signore...
Domanda: In che cosa consiste questo antignosticismo?
Risposta: Nel fatto che quello di Giovanni è per eccellenza il Vangelo del
vedere e l’oggetto del vedere è Gesù stesso. Tutta la fede nasce e cresce
come uno sviluppo del vedere. Nel capitolo 20, quello delle apparizioni del Risorto,
l’evangelista ripete in poche righe 23 volte questo verbo. Si parte sempre dal vedere e
udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto e una carne reale, dall’accorgersi
dell’eccezionalità della sua presenza per riconoscere stupiti che è il
Figlio di Dio, il Verbo fatto carne. Il vedere fisico per tutto il Vangelo è la via
d’accesso al Mistero presente nella carne. Per questo Gesù nell’ultima cena
può dire: “Chi ha visto me ha visto ha visto il Padre” (14,9). E si badi
bene, questa possibilità di vedere Dio nella carne non era affatto sentita dai cristiani
come una debolezza, ma era anzi motivo di vanto anche nei confronti degli gnostici.
Nel breve saggio dal titolo Il Paraclito [12], p.de la Potterie ha analizzato tutti i testi giovannei nei quali Gesù designa lo Spirito Santo come il Paraclito, al fine di comprendere il senso pieno di questa espressione greca. Nell’introdurre al tema il gesuita si sofferma innanzitutto sull’uso del termine “paraclito” nella letteratura contemporanea o comunque vicina al NT.
Il termine «Paraclito» nel Nuovo Testamento è proprio a Giovanni; esso è di formazione greca [13], ma nei testi profani è appena attestato. Viene utilizzato di solito in un contesto giuridico per designare chiunque venga in aiuto di qualcuno, insomma l’assistente, il difensore, l’avvocato. Il giudaismo tardo assunse questo termine dal mondo greco, tuttavia conferendogli ormai un significato più preciso: quello d’intercessore. In effetti i testi rabbinici l’usano esclusivamente per designare tutti coloro che intercedono in favore degli uomini davanti al tribunale di Dio: ad esempio, la legge (personificata), gli angeli, le buone opere degli uomini, i loro meriti, e così via. Nella prima Lettera, Giovanni applica il titolo di «Paraclito» al Cristo Gesù glorificato:
Se qualcuno poi commette peccato,
come avvocato rivolto verso il Padre
noi abbiamo Gesù Cristo, il Giusto (1 Giovanni 2,1) [14].
In qual modo il Cristo Gesù esercita questa funzione di Paraclito presso il Padre? Lo spiega il contesto. Anche nel suo stato di gloria, Gesù sta alla presenza del Padre come “vittima di propiziazione per i nostri peccati” (v. 2). E’ il tema descritto dalle visioni dell’Apocalisse, dove contempliamo «l’Agnello sgozzato» mentre sta ritto davanti al Trono di Dio (Apocalisse 5,6.9.12; 13,8). Tutta l’opera d’espiazione che il Cristo Gesù ha realizzato qui in terra, nel cielo diventa come una grande preghiera d’intercessione che come un «avvocato», un «intercessore», egli rivolge al Padre. Altrove Giovanni applica il termine «Paraclito» costantemente allo Spirito Santo, tuttavia non per descriverne la funzione d’intercessione presso Dio, ma per caratterizzare la funzione d’assistenza ch’egli esercita quaggiù presso i credenti. Tali testi appartengono tutti ai discorsi dopo la Cena, i quali costituiscono come il testamento di Gesù prima del suo ritorno al Padre. Dopo una promessa formale della venuta del Paraclito, Gesù indica chiaramente i tre principali aspetti dell’attività di questo: la sua funzione d’insegnare, la testimonianza ch’egli rende a Gesù, e correlativamente la sua parte d’accusatore in faccia al mondo.
Giovanni mostra come “il primo” Paraclito, Gesù stesso, prometta il dono dello Spirito l’“altro” Paraclito:
Nell’ultima Cena il cuore dei discepoli si turba
all’annuncio imprevisto della partenza di Gesù (Giovanni 14,1). Finora egli
era restato con loro (16,4; 14,25); ma adesso egli annuncia che resterà con loro
soltanto per poco tempo (13, 34): ben presto essi non lo vedranno più (16,11)
perché egli va al Padre (16,10). Tuttavia Gesù tornerà subito presso i
suoi (14,18) non solo al momento delle apparizioni pasquali, ma per una presenza tutta
spirituale ed interiore: allora soltanto i discepoli saranno capaci di vederlo, in una
contemplazione di fede (14,19). E questo sarà opera dello Spirito Santo, il quale
viene chiamato «un altro Paraclito» (14,16) perché continuerà presso
i discepoli l’opera che ha iniziato Gesù: nel grande conflitto che oppone
Gesù ed il mondo, lo Spirito avrà il compito di difendere la causa di Gesù
presso i discepoli e di confermarli nella loro fede. E’ interesse dei discepoli che il
Cristo Gesù se ne vada, poiché senza questa dipartita il Paraclito non
verrà presso di loro (16,7). Il Padre donerà loro il Paraclito dietro
richiesta di Gesù e nel Nome di Gesù (14,16.26); il Cristo Gesù stesso da
presso il Padre invierà loro il Paraclito (15,26). Questo Spirito che proviene dal Padre
resterà coi discepoli per sempre (14,16), cioè fino alla fine dei tempi: durante
tutta la sua permanenza qui in terra, la vita della Chiesa sarà caratterizzata
dall’assistenza dello Spirito di verità.
Gesù enuncia un principio molto netto: egli non si manifesterà al mondo
(14,22); il Paraclito, il quale dovrà attuare la sua presenza spirituale in mezzo
agli uomini,
il mondo non può ricever(lo)
perché esso non lo percepisce e non lo riconosce (14,17).
Questa formula «non può», frequente nel quarto Vangelo, denota un’incapacità radicale del mondo davanti ai beni della Salvezza: abbandonati a loro stessi, gli uomini sono incapaci di giungere al Cristo Gesù (6,44.43), di ascoltare la sua parola (8,43), di credere (12,39).
Il Paraclito, infatti, non è dato al mondo, ma ai discepoli:
Il Padre donerà il Paraclito proprio a loro, ai discepoli, (14,16) e proprio a loro si manifesterà Gesù (14,21). A differenza del mondo, i discepoli potranno ricevere il Paraclito perché essi vi sono preparati fin d’adesso:
Voi invece lo riconoscete
perché egli dimora presso di voi (14,17).
Queste espressioni si riferiscono di nuovo alla condizione presente dei discepoli, prima che Gesù se ne torni via. Lo Spirito era già presente nella persona e nell’opera di Gesù durante il suo ministero. Nel Cristo Gesù, che restava «presso» i suoi discepoli (v. 25), lo Spirito già era in azione; e dunque anche egli stava «presso» di loro. E questi, malgrado la loro ridotta intelligenza, già avevano aderito a Gesù: essi credevano, e sapevano ch’egli era il Santo di Dio (6,64). Perciò si comprende come il Maestro nell’Ultima Cena possa dir loro che essi ormai hanno imparato a riconoscere lo Spirito: questa esperienza dello Spirito, questa conoscenza ancora rudimentale ed implicita che essi ne hanno, è una condizione sufficiente perché possano a loro volta ricevere il dono dello Spirito. La vera e propria promessa per il tempo avvenire viene espressa in due membri di frase tra loro diversi. Anzitutto Gesù dice ai discepoli: il Padre vi donerà lo Spirito
perch’egli resti con voi per sempre (v. 16),
e poi alla fine del v. 17:
ed egli starà in voi.
In questa prima promessa si deve notare con cura il gioco delle
preposizioni. Finora lo Spirito non era presente che presso i discepoli (par’hymin),
nella persona stessa di Gesù. Ma più tardi egli starà con loro
(meth’hymôn) e starà anche dentro di loro (en hymin). Queste tre
preposizioni segnano un reale progresso: esse descrivono magnificamente il carattere via via
più interiore dell’azione del Paraclito.
Egli starà «con loro». Questa formula non indica semplicemente una
presenza familiare dello Spirito «presso» i discepoli, simile a quella di
Gesù «presso» i suoi durante la sua vita terrena. Invece vi si deve vedere
piuttosto il concetto dell’aiuto, dell’assistenza. Con ciò il testo contiene
un’allusione discreta alle difficoltà che verranno e che saranno sperimentate
dai discepoli, come pure all’opposizione di cui essi sapranno trionfare. Perciò
fin da questo momento lo Spirito riceve anche il titolo di Paraclito, cioè di
«Difensore».
Egli starà anche «in essi». Qui Gesù promette ai discepoli
un nuovo modo di presenza e d’azione dello Spirito: questi ormai agirà nei loro
cuori. E secondo questa piena effusione del Paraclito, da quest’azione in
profondità che lo Spirito conduce dal momento della glorificazione del Cristo
Gesù, va compreso il testo di 7,39 a proposito dello Spirito che avrebbero ricevuto
tutti coloro che avevano creduto in Gesù.
P.de la Potterie mostra come due delle promesse ulteriori dello Spirito riguardino la sua missione di insegnamento:
Delle altre quattro promesse sul Paraclito, due sono dedicate a presentarcelo nel suo compito di Dottore: la seconda e la quinta (14,26; 16,13ss). Per Giovanni il compito dello Spirito di verità presso i discepoli consiste anzitutto nell’insegnamento. Il primo testo suona:
Io vi ho detto queste cose quando mi trovavo con voi. Tuttavia il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre invierà nel mio Nome, vi insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quello che io vi ho detto (14,25s).
Questo insegnamento ha uno strettissimo rapporto con quello di Gesù che deve essere posto in rilievo:
Il Padre invierà lo Spirito Santo “nel Nome di
Gesù”. Gesù stesso stava sulla terra “nel Nome di suo Padre”
(5,43), in stretta comunione col Padre; egli dunque stava tra gli uomini per far conoscere il
Nome del Padre, per rivelare il Padre (cfr 17,6). Di qui si comprende meglio quel che intende
dire Gesù quando annuncia che il Paraclito sarà inviato “nel suo
Nome”. Questo non significa semplicemente che il Padre invierà lo Spirito dietro
richiesta del Figlio, oppure in luogo o come rappresentante del Figlio, o ancora per continuare
l’opera del Figlio. il «Nome» esprime quel che di più profondo esiste
nella persona del Cristo Gesù, la sua qualità di Figlio: il Figlio precisamente
in quanto Figlio avrà una parte attiva nell’invio dello Spirito. Per questo motivo
nei discorsi d’addio si trovano le due formule complementari: il Padre invierà lo
Spirito nel Nome di Gesù (14,26); il Figlio stesso invierà lo Spirito da
presso il Padre (13,26). La formula «nel mio Nome» indica dunque chiaramente la
comunione perfetta tra il Padre ed il Figlio quando inviano lo Spirito. Senza dubbio
l’origine di questa «missione» è il Padre: perciò il Figlio
invierà lo Spirito «da presso il Padre». Tuttavia anche il Figlio è
principio di questo invio: e perciò il Padre invierà lo Spirito «nel Nome
del Figlio». Il Padre ed il Figlio sono entrambi principio di questa missione del
Paraclito. Pertanto, se lo Spirito è inviato nel Nome del Cristo Gesù, la sua
missione sarà di rivelare il Cristo Gesù, di far conoscere il suo vero Nome,
questo Nome di Figlio di Dio che esprime il mistero della sua persona; il Paraclito
dovrà suscitare la fede in Gesù Figlio di Dio.
La seconda metà del versetto descrive il Paraclito «nell’ufficio di
maestro di dottrina» (M.-J. LAGRANGE). Tale azione viene designata da due differenti
verbi: «Egli vi insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quel che io vi
ho detto» (14,26). Alcuni studiosi hanno proposto di vedere là due uffici
distinti; in altre parole, l’espressione «tutto quel che io vi ho detto» non
indicherebbe che l’oggetto del secondo verbo: in questo caso, quando lo Spirito ci
«insegna», egli ci farebbe apprendere realtà diverse da quando ci
«fa ricordare» semplicemente le parole di Gesù. Tuttavia ad
un’interpretazione siffatta ostano la costruzione ed il movimento della
proposizione; inoltre essa potrebbe condurre a una conclusione teologica pericolosa: quella di
postulare un insegnamento del Paraclito indipendente da quello di Gesù; è la
sempre rinnovantesi tentazione d’introdurre nella Chiesa nuove rivelazioni dovute allo
Spirito, una tentazione per nulla illusoria se ci ricordiamo il montanismo agli inizi della
Chiesa, e la corrente spiritualista di Gioacchino da Fiore nel Medio Evo. H. DE LUBAC ha
scritto magnificamente: «Esistono due modi egualmente mortali di separare il Cristo dal
suo Spirito: quello di sognare un Regno dello Spirito che porterebbe al di là del
Cristo, e quello d’immaginare un Cristo che riporterebbe costantemente al di qua
dello Spirito». Il Paraclito ai discepoli non porterà un Vangelo nuovo: nella vita
e nell’insegnamento di Gesù infatti è contenuto tutto quel che dobbiamo
conoscere in vista della costituzione del Regno di Dio e per attuare la nostra Salvezza. La
funzione dello Spirito resta essenzialmente subordinata alla Rivelazione già
portata dal Cristo Gesù. «Insegnare» secondo Giovanni è quasi un
verbo di rivelazione. Il Padre ha insegnato al Figlio quel che questi ha rivelato al mondo
(8,28). Ma più spesso Gesù medesimo viene presentato come colui che insegna
(Giovanni 6,59; 14.28,35; 8,20; 18,20). Tuttavia questa dottrina del Cristo Gesù
non deve rimanere estrinseca al credente: Giovanni ha insistito fortemente sulla
necessità di renderla interiore con l’accoglierla mediante una fede sempre
più viva. Tale è il significato delle espressioni tipicamente giovannee
«restare nella dottrina del Cristo» (2 Giovanni 9), «restare nella sua
parola» (Giovanni 8,31: cfr 15,7s). Precisamente qui si pone l’azione dello
Spirito: anch’egli «insegna». Egli insegna esattamente quello che è
già stato insegnato da Gesù, ma per farlo penetrare nei cuori. Dunque la
Rivelazione ha una perfetta continuità: provenuta dal Padre, essa ci viene
comunicata dal Figlio e tuttavia non raggiunge il suo termine che quando è penetrata nel
più intimo di noi stessi, e questo avviene per opera dello Spirito.
La natura esatta di questo insegnamento del Paraclito viene precisata da un altro verbo
ancora: egli «farà ricordare» tutto quel che Gesù ha detto.
Questo tema del «richiamo» o del «ricordo» viene fortemente
sottolineato dal quarto Vangelo. Giovanni osserva più d’una volta che dopo la
partenza di Gesù i discepoli «si ricordarono» di questa o
quell’altra parola o azione di Gesù, cioè essi ne colsero il vero
significato e tutta la portata soltanto dopo la Resurrezione (2,17.22; 12,16). Proprio qui si
pone la funzione dello Spirito Santo: nel «ricordare» tutto quel che
Gesù aveva detto, egli non si limiterà soltanto a riportare alla loro memoria un
insegnamento che altrimenti avrebbero rischiato di dimenticare. Il suo vero compito sarà
di far comprendere nella loro interiorità le parole di Gesù, di farle afferrare
alla luce della fede, di farne percepire tutte le virtualità, tutte le ricchezze, per la
vita della Chiesa.
Dunque attraverso l’opera segreta del Paraclito il messaggio di Gesù non
rimane più per noi esteriore ed alieno; lo Spirito Santo l’interiorizza in noi e
ci aiuta a penetrarlo spiritualmente perché noi vi scopriamo una parola di vita. Questa
parola di Gesù, assimilata nella fede sotto l’azione dello Spirito, è quel
che nella sua prima Lettera Giovanni chiama «l’olio d’unzione» che
rimane in noi (1 Giovanni 2,27); l’insegnamento di Gesù presente nel credente,
conferisce a questo un senso intimo della verità (vv. 20s) e lo istruisce su tutte
le realtà; il cristiano è ormai «nato dallo Spirito» (Giovanni 3,8).
Giunto a questo grado di maturità spirituale egli non ha più necessità
d’essere istruito (1 Giovanni 2,27): ormai importa unicamente ch’egli resti in
Gesù e che si lasci istruire da Dio (cfr Giovanni 6, 45).
Cosa significa, allora, la “pienezza della verità” che lo Spirito donerà se il suo insegnamento e quello di Gesù sono identici?
Nella quinta ed ultima promessa, Gesù riprende e sviluppa la medesima dottrina:
“Ho ancora molte cose da dirvi ma adesso voi non potete portarle. Quando verrà Lui, lo Spirito di verità, egli vi guiderà verso la verità integrale; poiché egli non parlerà da se stesso; ma tutto quel ch’egli ascolterà lo dirà e vi rivelerà le cose future. Egli mi glorificherà, poiché egli riceverà del mio e ve lo rivelerà. Tutto quel che il Padre possiede appartiene a me. Ecco perché ho detto: egli riceverà del mio e ve lo rivelerà” (16.12-15).
Anche qui Gesù ci indica quale sarà la funzione dello Spirito riguardo alle sue parole. A prima vista anzi Gesù sembra contraddirsi: in 15,15 aveva affermato che tutto quel che aveva appreso dal Padre ormai l’aveva fatto conoscere ai suoi discepoli; qui invece egli dichiara che restano ancora da dire molte cose. Ma questa volta si tratta d’un complemento di rivelazione, che è riservato allo Spirito. Questi non proporrà una nuova dottrina ma darà un’intelligenza più profonda del mistero di Gesù, della sua vita, dei suoi atti, delle sue parole. Col dare rilievo all’avverbio adesso alla fine del v. 12 — «ma adesso voi non potete portarle» — viene stabilito un contrasto tra il momento presente, ch’è quello della vita terrena di Gesù, ed il tempo che verrà, l’epoca che giungerà dopo la Resurrezione e la venuta dello Spirito (cfr 13,7; 16,30s). Le realtà numerose che ancora mancano ai discepoli non sono altri punti dottrinali che Gesù dovrebbe ancora aggiungere; è invece la piena comprensione della persona e del messaggio di Gesù. Lo Spirito di verità, come una guida dall’assoluta sicurezza, deve «guidare» i discepoli verso la verità integrale. Questo verbo «guidare» è più ricco del semplice docebit (insegnerà) che usa la Volgata. La metafora sembra sia stata improntata direttamente dal Salmo 25,5 (24,5 del testo greco): «Guidami verso la tua verità ed insegnami». Il Salmista domandava a Dio una più perfetta conoscenza della sua verità, dei suoi precetti, della sua Legge. Secondo il testo di Giovanni, la verità verso cui ci deve guidare lo Spirito Santo è la verità di Gesù, quella del suo insegnamento, della sua opera, di tutta la sua persona. Lo Spirito, aggiunge il versetto, deve farci compenetrare di questa verità fin dentro il nostro cuore e deve farcela scoprire nella sua pienezza: lo Spirito svela progressivamente alla fede della Chiesa ed al cuore dei credenti tutte le ricchezze di vita, tutte le virtualità nascoste della parola di Gesù.
Così ulteriormente si precisa la rivelazione propria del Paraclito:
Nella seconda parte dell’ultima promessa (16,13b-14) vengono date
ancora nuove precisazioni: Gesù vi insiste tanto sull’aspetto ministeriale
dell’opera dello Spirito in rapporto al Figlio ed al Padre, quanto sulla
novità grandiosa che costituirà questa illuminazione del Paraclito.
La stessa idea ritorna in tre ondate: «Egli non vi parlerà da se stesso
ma tutto quel ch’egli ascolterà lo dirà»; poi per due volte:
«Egli riceverà del mio». Queste formule sono equivalenti, poiché
«il mio» ossia ciò che è proprio al Cristo Gesù è la
medesima realtà che lo Spirito «ascolta» su di lui. Il testo sottolinea
vigorosamente questo punto dottrinale: la Rivelazione che apporterà lo
Spirito, egli non l’attinge in se stesso, egli non ne è l’origine. E
come Gesù Cristo non aveva parlato da se stesso (7, 17s; 12,49; 14,10), non aveva
parlato altro che di quel che gli aveva insegnato il Padre (8,28; 12,50), quel che egli aveva
udito dal Padre (8,26.38), così lo Spirito non parlerà da se stesso ma
dirà quel che avrà ascoltato. Ma ascoltato da chi? Dal Figlio certamente,
poiché al Figlio questo bene propriamente appartiene (è «il mio»
che ricorre più volte); però anche dal Padre, poiché tutto quel che
possiede il Padre appartiene anche al Figlio (cfr v. 15a). Dunque la Rivelazione ci introduce
al centro stesso del Mistero trinitario: «La Rivelazione è perfettamente una: essa
prende la sua origine nel Padre, viene operata dal Figlio e si perfeziona nello Spirito».
Un’altra espressione viene ripetuta tre volte durante questa promessa: anangelei
hymin. Essa ne costituisce l’elemento più importante poiché precisamente da
esso Gesù spiega come lo Spirito ci introduce fino al centro della verità.
Per lo più la formula viene tradotta seguendo la Volgata: «Egli vi
annuncerà», come se l’azione dello Spirito fosse semplicemente una
proclamazione kerigmatica. Essa invece appartiene a tutt’altro ordine di cose. Il
verbo anangellein qui ha la sfumatura precisa che vi si scopre normalmente nella letteratura
apocalittica: «rivelare, svelare»; esso si trova frequentemente nel testo greco di
Daniele dove ha il significato di «svelare o far conoscere il significato d’un
sogno, d’una visione, d’una profezia». In tal senso va compreso il verbo in
san Giovanni. Così la Samaritana confida a Gesù quel ch’ella si
attende dal Messia: «Quando giungerà, egli ci rivelerà tutte le cose
» (4,25); ugualmente in 16,25 Gesù oppone l’insegnamento «in
parabole» come lui stesso ha praticato, alla spiegazione palese che darà
più tardi per mezzo dello Spirito: «Verrà l’ora in cui... vi
darò sul Padre una rivelazione perfettamente chiara».
Lo stesso verbo anangellein viene usato da Giovanni con insistenza in 16,13 ss per
caratterizzare l’opera futura del Paraclito. Nella tradizione letteraria da cui deriva,
questo verbo non significa «apportare una rivelazione del tutto nuova», ma
piuttosto «dare un’interpretazione d’una rivelazione antecedente restata
fin allora oscura e misteriosa». Precisamente questa è la funzione dello Spirito:
egli avrà come compito d’interpretare per la Chiesa la Rivelazione che ha portato
Gesù e che fin allora era rimasta incompresa. Ed insieme, aggiunge il testo, «egli
vi svelerà le realtà future»: qui il Cristo Gesù non promette
ai discepoli il dono di profezia; il significato è piuttosto che lo Spirito, alla luce
delle parole e dell’opera di Gesù, darà ai discepoli
l’intelligenza dell’ordine escatologico, della nuova Economia della Salvezza,
cioè del «nuovo ordine di cose iniziato con la Morte e con la Resurrezione del
Cristo» (D.Mollat). Insomma, com’è stato detto assai felicemente:
«Dare il senso cristiano della storia, far scoprire in tutte le realtà le tracce
del disegno divino (Atti 20,27), gettare su ogni avvenimento, su ogni epoca, la luce viva della
Rivelazione: questa è la missione dello Spirito presso i
discepoli» [15]. E questo è «condurre alla pienezza della
verità», in questo consiste la Rivelazione del Paraclito. E’ dunque palese
che nell’economia generale della Rivelazione la funzione dello Spirito rimane
essenzialmente subordinata a quella del Cristo Gesù, l’Unico Rivelatore. Il
compito dello Spirito di verità sarà quello di far penetrare il messaggio di
Gesù nel cuore dei credenti affinché questi ne vivano.
La terza e la quarta promessa del Paraclito fanno, invece, riferimento alla testimonianza di Gesù che è propria dello Spirito:
Fino a questo punto si trattava unicamente della missione d’insegnamento propria allo Spirito. Le due promesse del Paraclito che esamineremo adesso evidenziano un altro aspetto della sua attività: la sua funzione di testimone. In tal modo siamo improvvisamente introdotti nel contesto d’un processo. Viene largamente riconosciuto — e vi torneremo sopra — che Giovanni presenta la vita di Gesù assegnando un posto essenziale alla nozione di processo. Inoltre qui occorre richiamare quanto all’inizio abbiamo anticipato sull’origine giuridica del titolo di Paraclito; allora si comprenderà perché Giovanni ha dato tale importanza a questo tema dello Spirito-Paraclito, Difensore di Gesù. Ma leggiamo il testo della terza promessa:
«Ma quando verrà il Paraclito, che vi invierò da presso il Padre, lo Spirito di verità che proviene dal Padre, egli mi renderà testimonianza. Ma anche voi testimonierete, poiché voi siete con me fin dall’inizio» (Giovanni 15,26ss).
P.de la Potterie mostra come qui si inserisca il grande tema dell’ “odio del mondo”:
Un esame attento del contesto aiuta notevolmente
l’interpretazione del passo. La sezione precedente (15,18-25) e la sezione seguente
(16,1-4) trattano ambedue dell’odio del mondo e delle persecuzioni. Un tale contesto di
ostilità spiega la funzione di testimone che deve esplicare lo Spirito di
verità.
Allora spontaneamente risaltano nella memoria i versetti dei Vangeli sinottici nei quali
Gesù promette ai suoi discepoli l’assistenza dello Spirito durante le
persecuzioni che verranno. Si pensi ai passi del discorso di missione di Matteo, dove si
descrivono i maltrattamenti dei discepoli davanti ai tribunali (10,17-25); inoltre, si pensi ad
un passo molto simile nella sezione del grande viaggio in Luca (12,11s), e soprattutto ad un
passo del grande discorso escatologico (Matteo 24,9-14 e suoi paralleli). In tali testi si
trovano i paralleli a quasi tutti i temi di Giovanni 15,18; 16,4, e cioè: l’odio
del mondo (Giovanni 15,18ss.23ss: cfr Matteo 20,22; 24,9 e paralleli); il richiamo alla
massima: «Il servitore non è più grande del suo maestro»
(Giovanni 15,20: cfr Matteo 10,24; Luca 6,40); l’annuncio delle persecuzioni (Giovanni
15,20: cfr Matteo 10,23; Luca 21,12), che saranno scatenate a causa del Nome di Gesù
(Giovanni 15,21: cfr Matteo 10,22; 24,29 e paralleli); l’avvertimento contro lo
scandalo (Giovanni 16,1: cfr Matteo 24,10); i maltrattamenti davanti le sinagoghe (Giovanni
16,2: cfr Matteo 10,17; Marco 13,9; Luca 12,11; 21,12); la testimonianza dei discepoli
(Giovanni 15,27: cfr Matteo 10,23; Luca 21,13). I Sinottici in tali testi sottolineano
potentemente l’azione dello Spirito Santo presso i discepoli durante le
persecuzioni: quand’essi saranno trascinati davanti ai tribunali dei re, egli
parlerà per loro mezzo o in essi (Marco 13,11; Matteo 10,20). Luca arriva a precisare
che lo Spirito Santo stesso insegnerà loro quel che dovranno dire (Luca 12,12). Tuttavia
mai i Sinottici considerano lo Spirito Santo come un testimone. Invece nel quarto
Vangelo, Gesù dice esplicitamente: «Egli mi renderà
testimonianza». Ecco dunque un particolare del Vangelo di Giovanni che sarà
nostro compito spiegare...
Questa testimonianza del Paraclito non è destinata al mondo, ma direttamente ai
discepoli: «il Paraclito che io vi invierò» (v. 26); egli sarà loro
inviato precisamente a motivo delle persecuzioni che essi subiranno. Inoltre, la
testimonianza dello Spirito qui viene formalmente distinta da quella propria ai discepoli (cfr
v. 27): essa dunque non può essere ricondotta alla testimonianza esteriore che i
discepoli perseguitati saranno chiamati a rendere davanti ai tribunali; essa è
anteriore a quest’ultima, e soprattutto è di un’altra natura. Il suo
scopo vero non è come nei Sinottici di ispirare direttamente la difesa o la
testimonianza vera e propria dei discepoli, ma di preservarli dallo scandalo nel momento
stesso in cui la loro fede sarà pericolosamente posta alla prova. Perciò si deve
insistere soprattutto sull’aspetto interiore di questa testimonianza del Paraclito:
ufficio dello Spirito di Dio sarà quindi quello di illuminare la coscienza degli
Apostoli in mezzo alle avversità, di confermarli nella loro fede. Nel momento in
cui essi sperimenteranno la tentazione del dubbio, il Paraclito agirà segretamente in
loro: egli stesso davanti alle loro coscienze testimonierà in favore di
Gesù.
C’è, infatti, un processo di Gesù che si deve compiere:
Perché, in ragione della sua operazione illuminatrice, lo Spirito
viene considerato come un testimone di Gesù? La risposta è netta:
perché il Paraclito svolge una funzione decisiva in quel che si è chiamato
«il grande processo» della vita di Gesù. Ma una testimonianza non ha un
necessario carattere pubblico? Occorre tener presente che in Giovanni la maggior parte
delle grandi nozioni teologiche hanno subito una trasformazione, e quindi l’hanno
subita anche i temi del processo e della testimonianza. I diversi testimoni di cui parla il
quarto Vangelo non debbono deporre su fatti storici davanti a tribunali umani; essi
testimoniano quasi sempre sulla persona stessa di Gesù: lo scopo per cui
testimoniano è di far accettare Gesù, di condurre gli uomini a credere in lui.
Qui esiste pertanto una notevole interiorizzazione e spiritualizzazione della nozione di
testimonianza. La nozione di processo porterà a constatazioni analoghe. Secondo i
Sinottici Gesù annuncia che i discepoli saranno coinvolti in reali processi davanti agli
uomini: essi saranno consegnati ai sinedri, saranno trascinati davanti a governatori ed a
re (Matteo 10,17ss; Marco 13,9). Giovanni non dà altri dettagli su questi tribunali o
sui loro giudici. Il gran processo al quale pensa l’Evangelista è di
tutt’altro ordine: è il grande conflitto teologico che fa da sfondo alla vita di
Gesù; è il processo che pone alle prese Gesù Cristo ed il mondo, e che si
conclude con la condanna del mondo e l’esaltazione di Gesù Cristo sulla croce. A
Giovanni importa meno quali siano, nel corso della storia, le corti di giustizia che
condanneranno i discepoli; questi tribunali scompaiono completamente dietro una potenza
unica, misteriosa e senza volto: il mondo. Questo tema del mondo fa percepire tutta
l’estensione della causa che in esso si svolge in favore di Gesù o contro di lui.
Questa opposizione trascende sconfinatamente l’opposizione dei Giudei contro
Gesù durante la sua vita terrena; essa si prolunga ben oltre, nella Chiesa.
In questo immenso processo religioso in cui Gesù ed il mondo vengono posti a
confronto, la testimonianza del Paraclito assume il suo vero significato: davanti
all’ostilità del mondo i discepoli di Gesù saranno esposti allo scandalo,
momento per momento, saranno portati a defezionare, conosceranno il dubbio, lo
scoraggiamento. Precisamente allora interverrà lo Spirito di verità, il Difensore
di Gesù: egli stesso nell’interna coscienza dei discepoli renderà
testimonianza su Gesù; egli stesso li confermerà nella loro fede e
renderà loro tutta la sicurezza cristiana.
Compresa in tal modo, la terza promessa del Paraclito resta in perfetta
continuità con le altre promesse che abbiamo esaminato finora. Secondo 14,26 e 16,13
l’opera dello Spirito deve consistere in un insegnamento; egli deve far comprendere
le parole di Gesù e deve condurre i discepoli verso la pienezza della verità. Il
testo esaminato adesso precisa ulteriormente quest’attività dello Spirito quando
avverranno le crisi: l’ufficio del Paraclito consiste nel fare da testimone a
Gesù; egli svelerà interiormente ai discepoli la vera portata del messaggio
di Gesù e li inviterà a restare incrollabilmente fedeli ad esso, malgrado le
persecuzioni da cui saranno travolti. In ogni caso si tratta sempre di un’opera
interiore del Paraclito presso i discepoli: essa è essenzialmente ordinata allo sviluppo
e all’affermazione della loro fede.
Il Paraclito non solo è testimone di Gesù, ma è anche,
in questo processo, accusatore del mondo:
La terza e la quarta promessa del Paraclito formano un dittico. Anche qui osserveremo che
il Paraclito adempie il suo ufficio di testimone, ma in questo caso in una visuale
complementare alla precedente: egli sarà il teste a carico contro il mondo
peccatore.
All’annuncio della partenza di Gesù il cuore dei suoi discepoli si
riempie di tristezza (16,6). Però Gesù li conforta annunciando loro che
verrà il Paraclito:
“Io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta; poiché se non parto il Paraclito non giungerà a voi; ma se io parto ve lo invierò. E quando egli verrà, confermerà la colpevolezza del mondo in materia di peccato, in materia di giustizia e in materia di giudizio; di peccato perché essi non credono in me; di giustizia perché io vado al Padre e voi non mi vedrete più; di giudizio perché il Principe di questo mondo ormai è condannato” (16,7-11).
Il Paraclito accusa così il mondo dimostrando il suo torto:
In questa promessa, Gesù precisa l’attività futura
del Paraclito in rapporto al mondo. Il termine elenchein qui usato, in sé può
assumere significati vari, e perciò il testo è abbastanza oscuro.
Le differenti accezioni del verbo sono strettamente imparentate tra loro:
1.«eseguire un esame, una ricerca»; 2. «interrogare, domandare con
insistenza, mettere alla prova»; 3. può anche indicare il risultato
dell’inchiesta: «porre in luce un fatto, esporlo palesemente, svelarlo»; 4.
se si tratta di persone, il verbo significa piuttosto: «convincere qualcuno
d’errore, dare la prova della sua colpevolezza»; 5. vi sono anche alcuni
significati derivati: «biasimare», «ammonire»,
«punire».
Per Giovanni 16,8 la maggior parte degli interpreti ammettono rettamente il
significato: il Paraclito dimostrerà il torto del mondo. Tuttavia questa formula resta
ancora ambigua, poiché si può pensare sia ad una semplice presentazione
oggettiva degli argomenti contro il mondo, sia anche ad una persuasione soggettiva creata nello
spirito dell’accusato; questo significherebbe che sotto l’azione convincente
del Paraclito i peccatori riconosceranno finalmente il loro peccato e si convertiranno. Ma se
il verbo viene preso unicamente nel significato oggettivo come usano i commentatori, si pone
un’altra questione: questa prova della colpevolezza del mondo davanti a chi sarà
data? Normalmente l’elenxis si pratica alla presenza del colpevole; allora si
dovrebbe comprendere che il Paraclito confermerà il torto del mondo davanti a questo
stesso e per bocca degli Apostoli: per mezzo della loro intrepida testimonianza questi
confonderanno il mondo in modo che questo nulla più avrà da obiettare.
Però questo tema della confusione dei peccatori non è tipicamente
escatologico? Non trova il suo vero posto nel contesto del giudizio finale? Nella vita
quotidiana della Chiesa i discepoli di Gesù sono in costante contatto col mondo e quindi
un’azione cosi drastica del Paraclito non sembra adatta; e poi essa non corrisponde per
nulla ai fatti. Tuttavia il testo non richiede simile spiegazione. In sé l’elenxis
indica soltanto l’esposizione oggettiva delle prove; e soltanto dal contesto si desume se
il colpevole è presente o contumace, se la dimostrazione della sua colpa avviene
pubblicamente, e se infine sia diretta a lui. In ogni modo questo particolare resta alieno dal
significato del verbo preso in se stesso.
Nel caso nostro, nulla nel contesto fa pensare ad una requisitoria pubblica. Il
Paraclito dimostrerà l’iniquità del mondo ma lo farà nella coscienza
intima degli Apostoli. Infatti secondo il versetto d’introduzione, il Paraclito
verrà a loro e per loro: «Se io non parto, il Paraclito non giungerà a voi;
ma se io parto, ve lo invierò» (v. 6). Anche nei versetti che seguono si
tratta soltanto dei discepoli di Gesù: «Egli vi guiderà verso la
verità integrale» (v. 13). E infine, nella nostra stessa pericope anche il v. 10
mostra che si tratta soltanto di credenti: «Poiché... voi non mi vedrete
più».
Ecco dunque il senso della promessa: quando dimostrerà la colpevolezza del mondo, il
Paraclito agirà in un modo del tutto interiore, nel segreto della coscienza dei
discepoli. Nella prova alla quale sarà sottoposta la loro fede, il Paraclito
darà loro la certezza che il mondo è peccatore e che la verità sta dalla
parte di Gesù. E se tale è il preciso significato della promessa fatta da
Gesù, allora per gli Apostoli essa diverrà eminentemente pratica:
“Espulsi dalla comunità ebraica a causa del loro attaccamento al Maestro, considerati come talmente empi che la loro esecuzione capitale sarà guardata come un atto di culto verso Dio, gli Apostoli, da Giudei devoti quali sono, troveranno in questo la loro più grave tentazione di scandalo. Ma precisamente su tale punto sarà loro utile in particolare questo Difensore che rimarrà sempre presso di loro ed in loro... - poiché proprio lui darà la sicurezza incrollabile ch’essi si trovano realmente nella verità e che la loro fede è gradita a Dio, proprio cosi porterà la luce totale sulle ingiuste pretese del mondo persecutore” [16].
Anche qui allora l’azione del Paraclito consisterà nel
confermare i discepoli nella loro fede al momento della crisi: positivamente, facendoli
aderire sempre di più a Gesù; negativamente, dando loro la certezza che
proprio il mondo sta nell’errore. La loro fede in tal modo risulterà pugnace ed i
discepoli potranno trionfare sullo scandalo che li attende all’agguato, insomma
vinceranno il mondo: «E questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra
fede» (1 Giovanni 5,4). La dimostrazione che darà a loro lo Spirito di
verità consumerà la vittoria dei credenti sul mondo peccatore; ma sarà una
vittoria perfettamente interiore e spirituale: nell’opera segreta del Paraclito i
discepoli potranno trovare la forza necessaria per non lasciarsi travolgere dalla
menzogna del mondo e per restare fedeli al Cristo Gesù.
Come si vede, riappare ancora la nozione giovannea del grande processo, che abbiamo
incontrato nella terza promessa. Mentre sul piano storico i discepoli di Gesù sono
condannati dai tribunali degli uomini, sul piano della fede invece e nei confronti con Dio essi
giudicano il mondo e il mondo risulta condannato:
Il giudizio avviene sulla terra ma avviene nella coscienza di coloro ai quali viene inviato lo Spirito. Davanti a questi viene introdotta la causa di Gesù e dietro l’indicazione del Paraclito che rivela loro il significato dei fatti, essi si schierano con colui che il mondo ha condannato e vanno a far parte dei suoi discepoli. Il mondo perciò perseguita anche loro; essi diventano accusati davanti ai tribunali del mondo, pur continuando ad essere i giudici del mondo nell’interno della loro coscienza. In tal modo avvengono come due giudizi contemporaneamente: il giudizio dei cristiani davanti ai tribunali umani costituiti dal mondo, il giudizio del mondo nel cuore dei cristiani sotto la luce dello Spirito [17].
Il giudizio del mondo avviene dinanzi a tre grandi temi, il peccato, la giustizia, il giudizio:
Secondo il v. 8, una tale dimostrazione della colpevolezza del mondo,
operata dal Paraclito, deve avvenire per via di una triplice dimensione: «In materia di
peccato, in materia di giustizia ed in materia di giudizio». Durante la sua vita
terrena Gesù era stato respinto dai Giudei ed ora stava per essere condannato durante i
fatti della Passione.
Il Paraclito però condurrà la revisione di questo processo e mostrerà
ai discepoli che il peccato sta dalla parte del mondo, che la giustizia sta dalla parte di
Gesù e che il vero condannato in questo confronto religioso è il Principe di
questo mondo. Ognuno dei tre aspetti dell’accusa che al mondo rivolgerà il
Paraclito viene ripreso e spiegato nei particolari dai versetti che seguono.
“In materia di peccato,
perché essi non credono in me”.
Nel pensiero di Giovanni ecco dunque l’essenza dei peccato: il mondo ha rifiutato di credere in Gesù, Messia e Figlio di Dio.
“In materia di giustizia,
perché io vado al Padre
e voi non mi vedrete più”.
Qui la giustizia non è quella dei cristiani ma del Cristo Gesù stesso. Spesso si comprende come se «giustizia» fosse la santità personale di Gesù, la sua amicizia con Dio, o anche il suo buon diritto nella contesa che l’oppone al mondo. Però la spiegazione che ne dà Gesù nella proposizione che segue, richiede piuttosto un’altra esegesi: «giustizia» deve prendersi nel significato di «trionfo», di vittoria o di gloria, significato che talvolta essa ha nei testi biblici. La giustizia di Gesù è la sua giustizia trionfante, che esploderà al momento della sua Glorificazione celeste, quando sarà tornato dal Padre. Dando ai discepoli la certezza che Gesù sta nella gloria, il Paraclito contribuirà potentemente a mostrar loro il tragico errore del mondo.
“In materia di giudizio,
perché il Principe di questo mondo
è ormai condannato”.
Nel processo che avviene tra il Cristo Gesù ed il mondo, la conclusione storica si trova all’ora della Passione e della Morte di Gesù: la sua esaltazione sulla croce ed il rifiuto del mondo peccatore a credere in lui, costituiscono precisamente la condanna di questo mondo e del suo capo, il demonio. L’azione illuminatrice dello Spirito Santo permetterà agli Apostoli di scoprire dietro agli avvenimenti della Morte del Cristo Gesù, colui che ne è il vero istigatore, il Principe di questo mondo; il Paraclito denuncerà l’azione di questo davanti al tribunale della coscienza degli Apostoli:
“Agendo veramente da «Paraclito», cioè da Difensore, da Avvocato, lo Spirito Santo per cosi dire ha ricelebrato il processo di Gesù; egli, lo Spirito di verità, ha ristabilito la piena verità in questo terribile dramma” [18].
Così conclude p.de la Potterie la sua riflessione sul Paraclito:
Ormai si comprende meglio come il Paraclito possa ricevere qui, a più riprese, il titolo di Spirito di verità (14,17; 15,26; 16,13). Il determinativo “di verità” serve a caratterizzare il dominio in cui si esercita l’opera dello Spirito: la sua funzione secondo la teologia di Giovanni è di comunicarci la verità, cioè la rivelazione di Gesù, d’insegnarcela interiormente, di introdurla sempre più profondamente nel cuore dei cristiani. In tal modo in virtù dell’opera segreta del Paraclito, nella Chiesa è assicurata per sempre la permanenza e l’efficacia della Parola di Gesù.
In un altro studio [19] p.de la Potterie cerca di penetrare alcuni aspetti
dell’identità stessa del “discepolo amato”. Perché questo modo
di autodefinirsi? In cosa consiste la differenza con gli altri apostoli?
P.de la Potterie presenta innanzitutto i due titoli che Giovanni riceve nella tradizione
patristica: “il teologo” e l’ “episthetios”.
(«Il teologo») è precisamente il titolo che (incontriamo) nella lettera mandata dal Concilio di Efeso alla chiesa di Costantinopoli, dopo la condanna di Nestorio. Si legge anche, in forma rozza e popolare, su un graffito molto pio di un pellegrino nella basilica di S. Giovanni, qui ad Efeso:
«Signore, tu, Dio e Salvatore nostro, e tu, santo Giovanni, evangelista suo e teologo, vieni in aiuto a me, tuo servo peccatore, Nicolao».
Però, il titolo «il teologo» è probabilmente di origine alessandrina: appare per la prima volta nel commentario di Origene a S.Giovanni. Si comprende tuttavia che sia stato ripreso qui ad Efeso, nella lettera del Concilio nel 431, perché si trattava lì, contro Nestorio, di legittimare l’uso del titolo Theotòkos dato a Maria, e quindi di difendere la teologia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che sta proprio al centro del pensiero teologico di Giovanni (questo spiega forse anche che, nella lettera che parla di Nestorio, «il rinnovatore dell’eresia empia», di Ario, venga ricordata la venuta qui di Giovanni e di Maria: è la venuta del theológos dell’Incarnazione; ora l’Incarnazione si è fatta nella Theotòkos Maria). Però bisogna tener presente che l’autore di quella lettera era un alessandrino, S.Cirillo, un grande commentatore di Giovanni; egli, in quel momento presiedeva il Concilio. Altri alessandrini ancora, prima o dopo, hanno usato questo titolo «il teologo»: S.Atanasio al tempo di Nicea, più tardi Didimo il Cieco e S.Anastasio Sinaita ma si ritrova poi anche nella tradizione occidentale, fino al medioevo latino. Secondo l’interpretazione più comune, la ragione per cui Giovanni veniva chiamato «il teologo» era che egli aveva scritto il prologo, in cui veniva proclamata la divinità di Cristo. Scriveva per esempio S.Atanasio: «Il Logos era ed è Dio, come dice il teologo Giovanni»(si osservi qui il bel gioco di parole: θεòς ην ό Λόγος, detto da Giovanni, per Cristo; ό θεο-λόγος, detto da Atanasio, per Giovanni). Aggiungiamo un esempio della tradizione occidentale, il commentario al Prologo di Giovanni Scoto, grande teologo del tempo carolingio, ma profondamente penetrato dalla tradizione alessandrina. In questa celebre omelia, che comincia con le parole: «La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della chiesa» (1, 1), egli usa diverse volte il titolo theologus; citiamo il testo di 5, 13-18: «Il santo teologo, trasmutato in Dio, partecipe della verità, afferma con la sua parola che il Dio Verbo sussiste nel Dio Principio, cioè il Dio Figlio sussiste nel Dio Padre: In principio, dice, era il Verbo. Ecco il cielo si è aperto, ecco rivelato al mondo il mistero della suprema e santa Trinità nella sua unità». Tuttavia la spiegazione del titolo «il teologo» con un riferimento a Cristo-Dio del prologo, veniva talvolta anche messa in relazione con l’episodio dell’ultima cena di cui parliamo subito, il fatto cioè che Giovanni era chinato sul petto di Gesù; così p. es. in un testo liturgico della chiesa bizantina: «Riposando sul petto di Gesù, tu, come discepolo, hai avuto l’audacia di chiedere: chi è il traditore, Signore? E perché tu eri molto amato, egli te l’ha mostrato con un pezzo di pane. Iniziato così alle cose ineffabili, tu hai intravveduto l’Incarnazione del Verbo e tu l’insegni, o teologo apostolo; intercedi per noi, che celebriamo con amore la tua santa memoria, intercedi presso Cristo Dio affinché ci conceda il perdono delle nostre colpe».
Epistethios è, invece, l’espressione greca che significa «colui che si è chinato sul petto del Signore»:
A differenza del titolo precedente, questo non ci invita a volare in alto
con «l’aquila spirituale» fino al Logos in Dio; questa nuova espressione, che
ebbe una larghissima diffusione in tutta la tradizione patristica e medievale, ci rimanda ad un
dettaglio preciso della vita terrestre di Gesù, nel racconto dell’ultima cena (Gv
13, 23.25). Ne riparleremo... al livello esegetico; ma vorremmo prima esaminare quale risonanza
ha avuto quell’episodio nella tradizione. Ricordiamo che, sul discepolo che Gesù
amava, il IV vangelo descrive per quella circostanza due particolari: per rivolgere a
Gesù la domanda sul traditore, viene detto prima che il discepolo era «in sinu
Iesu» (13, 23), e un po’ dopo che egli «recubuisset... supra pectus
Iesu» (13, 25). Da un versetto all’altro, c’è quindi un doppio
cambiamento, sia per i verbi sia per i sostantivi: per il discepolo, si passa da
«adagiato» a «chinatosi» (in dietro); per Gesù, il testo parla
prima del suo «seno» poi del suo «petto». Questi due fatti sono stati
fortemente allegorizzati e simbolizzati nella tradizione e hanno lasciato delle tracce
molteplici anche nelle raffigurazioni di Giovanni nell’arte cristiana.
Molti anni prima, il P.VACCARI e J.MEHLMANN avevano analizzato il fatto suggestivo che
dal nostro versetto di Gv 13, 25 (dove si parla del «petto» di Gesù) era
nato l’uso nella patristica greca, di dare all’apostolo Giovanni il soprannome di
epistêthios: «(colui che ha riposato) sul petto di Gesù
(επί τò στηθος
του ‘Іησου)». Ma al punto di
partenza di tutte queste ricerche moderne, sta un articolo di H.RAHNER nel 1931 sullo sfondo
patristico dell’antifona liturgica per la festa di san Giovanni: «De Dominici
pectoris fonte potavit». Presentiamo qui, sulla base di questo materiale, una breve
sintesi di tutta quella tradizione. Diversamente da altri autori, pensiamo, in questo
caso, che bisogna risalire non solo ad Origene, ma più in alto, alla tradizione asiatica
ed efesina del secondo secolo. Andando a ritroso, citeremo qui quattro nomi di vescovi
dell’Asia: Ireneo, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, per
raggiungere così Giovanni l’Apostolo, all’inizio della tradizione. Nel testo
di Ireneo, a cui abbiamo già accennato, si legge questa testimonianza: «Giovanni,
il discepolo del Signore, che si era pure chinato sul suo petto, ha pubblicato anch’egli
il Vangelo, durante la sua permanenza ad Efeso, in Asia». Si descrivono qui, nella
vita di Giovanni, tre tappe, che si susseguono in ordine cronologico: prima, Giovanni fu
discepolo del Signore; poi, all’ultima cena, si chinò sul suo petto;
finalmente scrisse il Vangelo a Efeso. Si direbbe che Ireneo ha voluto suggerire un progresso:
che il discepolo di Gesù abbia scoperto il mistero del Signore, viene suggerito dal suo
gesto alla cena, ed è proprio ciò che ha voluto far conoscere nel suo vangelo.
Possiamo qui forse fare un confronto col modo in cui fu proprio la tradizione efesina, e
specialmente Ireneo, a leggere in senso cristologico il passo di Gv 7,37-38: «Dal suo
intimo scaturiranno fiumi d’acqua viva». Fra «l’intimo»
(κοιλία) di Gesù in 7, 38 e il suo
«petto» (στηθος) in 13, 25, non sembra che la
tradizione abbia fatto grande differenza, anche se non abbiamo nessun testo di Ireneo per
mostrare che egli abbia sottolineato il parallelismo tra i due passi.
Risalendo ancora più in alto, incontriamo finalmente la figura del
misterioso Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (verso il 130), mezzo secolo prima di
Ireneo, e solo trent’anni dopo la morte di Giovanni. Ma, come Policarpo, anche lui aveva
bene conosciuto l’Apostolo. Dai dati faticosamente raccolti dall’erudizione
moderna, ecco ciò che sappiamo su di lui: era ‘stato «uditore di
Giovanni», dice Ireneo; un’altra tradizione del II secolo lo presenta come
«un discepolo molto caro di Giovanni» e un testimone posteriore, Anastasio Sinaita,
che rappresenta la tradizione alessandrina, si riconnette anche lui a Papia; lo chiama:
«il famoso Papia di Gerapolì, che frequentò come maestro
l’Epistêthios» (cioè l’Apostolo che aveva chinato il
capo «sul petto» del Signore). Si sente ancora in Papia, «uditore di
Giovanni», la preoccupazione di riconnettere la vita della sua Chiesa con la
testimonianza dei primi discepoli del Signore; voleva conoscere «i precetti dati dal
Signore alla fede e scaturiti dalla stessa Verità» (cioè da Cristo);
infatti aggiungeva: «Non pensavo che le cose (conosciute) dai libri mi giovassero tanto,
quanto le cose che vengono da una voce che vive e che rimane». Questa ultima
espressione di Papia esprime ottimamente il clima teologico e spirituale che dominava nelle
chiese dell’Asia al secondo secolo: rimanere nell’alveo della teologia del IV
vangelo. Perciò è stata un’intuizione felice di L.CERFAUX di scegliere
questa espressione di Papia come titolo del suo prezioso libretto “La voix vivante de
l’évangile au début de l’Eglise”. Possiamo ora compendiare in
poche parole l’essenziale di quella tradizione asiatica su S.Giovanni. I vescovi
dell’Asia, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, a cui si deve
aggiungere Ireneo di Lione, che veniva dall’Asia, sono l’eco unanime di una
tradizione che risale a Giovanni. E la ragione era che l’apostolo Giovanni era stato un
testimone, un discepolo del Signore, un maestro; attraverso di lui le chiese
dell’Asia volevano risalire «alla stessa Verità», secondo la bella
formula di Papia. Come non ricordare qui che, nel IV vangelo, Gesù stesso aveva detto:
«Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Ciò che simboleggiava
l’importanza della testimonianza di Giovanni era il fatto che egli «aveva chinato
il capo sul petto di Gesù»: questo fatto, col suo simbolismo, è stato
tramandato attraverso tutta la tradizione cristiana, ed è anche la ragione per cui
è stato dato a Giovanni il soprannome «ho Epistêthios».
Ora — fatto sconcertante — su questo gesto del discepolo amato i commentatori
moderni non trovano quasi niente da dire. A.JAUBERT però osserva giustamente:
«L’insistenza dell’evangelista (su questo gesto) all’ultima cena (13,
23-25) e il ricordo che ne fa al cap. 21 mostrano che questo particolare è significativo
ad un livello più profondo (...). La prossimità fisica tra Gesù e il
discepolo che egli amava mira a manifestare che il discepolo penetra in un modo
particolare il messaggio di Gesù e che può trasmettere il suo senso
profondo (...); così diventa il “testimone” a cui (i cristiani) possono
far riferimento». Ma in che cosa consisteva quel «penetrare» nel messaggio di
Gesù? Non viene spiegato.
Infine p.de la Potterie si rivolge ad analizzare le cinque ricorrenze
dell’espressione “il discepolo che Gesù amava” ed, attraverso questa
analisi, ci guida, come vedremo, a comprendere ulteriormente il titolo stesso di
“epistethios”.
“Il discepolo che Gesù amava” viene nominato esplicitamente innanzitutto
nel racconto dell’ultima cena, proprio nel luogo dove si dice, insieme, del suo
“chinarsi sul petto di Gesù”. Per il gesuita belga l’espressione
è qui da mettere in relazione con il valore rivelativo dell’essere Gesù
stesso rivolto verso il seno del Padre. L’evangelista a partire
dall’intimità del petto di Gesù ha accesso all’intimità del
seno del Padre. Ed in questa rivelazione del mistero si trova dinanzi all’aspetto
più intimo e sconvolgente della rivelazione cristiana: il Figlio è colui che ama
con l’amore di Dio dinanzi al male che si manifesta nella sua forma più totale,
nel tradimento di Giuda che si fa servitore del Maligno stesso. Questo è l’amore
di Dio, amante non amato, che si manifesta nella pienezza del suo amore che non cessa di essere
se stesso neanche dinanzi al rifiuto più radicale del non amore.
Nell’introdurci a questo p. de la Potterie analizza innanzitutto il problema della
lettura simbolica, e non solo realistica – siamo nuovamente dinanzi alla
continuità giovannea fra la verità storica da lui “vista” in prima
persona e l’approfondimento contemplativo che “vede” dentro ciò che
è già stato visto – del “chinarsi sul petto di
Gesù”:
A prima vista, non c’è nessun fondamento per l’interpretazione simbolica che tanti autori antichi propongono per questi due versetti. S.Tommaso p.es. dice per il primo: “quel seno di Gesù... indica in secondo luogo la conoscenza dei segreti che Cristo gli rivelava, e specialmente per mezzo della redazione di questo vangelo; perciò dice che era adagiato nel seno di Gesù: seno infatti significa segreto”; e per il versetto 13,25, ecco un commento di sant’Agostino: «Attingeva dal petto del Signore i segreti di alti misteri; attingendo dal suo petto, fu lui a portare in luce la Divinità del Signore: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio». Ma niente nel nostro brano fa pensare al Verbo oppure a Dio! Quel tipo di interpretazione non è puro allegorismo? Rileggiamo attentamente il testo. Che si tratti della delucidazione di un segreto, non si può negare; però viene rivelata qui, non l’identità del Verbo, ma quella del traditore. Ma è solo al discepolo amato che Gesù ha spiegato il senso del gesto simbolico che stava per compiere: la consegna di un boccone ad uno dei commensali. Quindi, solo il discepolo amato comprese in quel momento che il traditore era Giuda. Bisogna partire da lì. Ma attraverso il fatto esteriore della designazione del traditore, si apre un ampio orizzonte teologico su tutta la missione di Gesù e sul senso del fatto che uno dei suoi lo tradì.
Al centro del testo giovanneo, nel chinarsi del discepolo su Gesù, sta la questione su chi sia il traditore:
Giovanni è l’unico evangelista che, più volte durante la vita pubblica, parla di Giuda, presentandolo sempre come il traditore di Gesù: «colui che lo avrebbe tradito» (6, 64; cfr. 6, 71; 12, 4); e all’inizio della Passione: «Giuda che lo stava tradendo» (18, 2.5). All’ultima cena, prima ancora del versetto sull’annuncio (13,21), due volte già Gesù aveva accennato al tradimento che stava per compiersi (13, 11.18). Ma per comprendere quale ampia dimensione simbolica e storico-salvifica il tradimento di Gesù aveva preso agli occhi di Giovanni, bisogna risalire all’introduzione solenne che egli premise al racconto dell’ultima cena; in questi tre versetti, l’atto di tradire Gesù viene inquadrato in una visione quasi apocalittica su tutto il mistero dell’incarnazione, sul fatto cioè che Gesù era uscito da Dio e adesso a Dio tornava; ecco il testo, con al centro proprio il versetto su Giuda:
A |
«Prima della festa di Pasqua sapendo
Gesù che era venuta la sua ora per passare da questo mondo AL
PADRE, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al
segno supremo. |
B |
E durante la cena, avendo già il DIAVOLO messo in
cuore a GIUDA di Simone Iscariota di TRADIRLO, |
A’ |
sapendo che IL PADRE gli aveva dato tutto nelle mani, e che, uscito da Dio, A DIO tornava, si alza da tavola...» (13, 1-4). |
Nella costruzione del IV vangelo, questo brano, col quale comincia
il libro della Passione (13, 1-4), ha diversi punti di contatto col prologo di tutto il
vangelo; ivi, nel versetto centrale sull’Incarnazione del Verbo, l’evangelista lo
aveva designato come «l’Unigenito venuto da presso il Padre» (1,14),
ma poi, nel versetto finale, come «il Figlio unigenito tornato nel seno del
Padre» (1,18); similmente, nell’introduzione all’ultima cena vengono
presentati quei due grandi momenti dell’Incarnazione, ma stavolta attraverso la
profonda coscienza che ne aveva Gesù: «sapendo (...) che da Dio era
uscito» (13,3); «sapendo che era venuta la sua ora di
passare da questo mondo al Padre» (13,1).
Di fronte al tradimento, proprio dinanzi ad esso, sta all’opposto l’amore del
discepolo che comprende fino in fondo cosa sia l’amore di Gesù e cosa significhi
accoglierlo:
Ma è tempo ormai di vedere nel nostro brano tutto ciò che
di fronte a Giuda c’è di positivo, particolarmente in relazione al discepolo
che Gesù amava. Non potendo entrare nei dettagli, dobbiamo accontentarci di far
osservare brevemente diversi parallelismi tra due brani distanti che abbiamo chiamato i
due prologhi, quello dell’ultima cena (13,1-3) e quello di tutto il vangelo
(1,1-18).
In primo luogo c’è il tema dei discepoli, legato al tema
dell’amore di Gesù per loro. La formula «i suoi» si trovava già
nel prologo (1,11). Si legge anche in 13,1: «...avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino alla fine (= fino al segno supremo)»; e in 13,23, il
versetto precisamente dove appare per la prima volta la formula che stiamo
analizzando:
«uno dei suoi discepoli (...), quello che Gesù amava». La
tecnica dell’anonimato, cara all’evangelista, serve a far comprendere che il
discepolo che Gesù amava ha anche lui un valore rappresentativo; per Gesù stesso,
egli simbolizza tutti «i suoi che erano nel mondo» e che egli «amò
fino alla fine». E’ anche significativo che nel brano seguente, Gesù
riprenda due temi della pericope di apertura: il suo ritorno presso Dio e il suo amore per i
suoi. Poi viene il testo famoso sul comandamento nuovo dato ai discepoli: «Un
comandamento nuovo do a voi: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, che
anche voi vi amiate gli uni gli altri» (13,34).
In secondo luogo si deve sottolineare con diversi commentatori il parallelismo suggestivo
ma audace tra 13,23 e 1,18: all’ultima cena il discepolo amato era «adagiato
nel seno di Gesù»; secondo la finale del prologo, Gesù stesso
ormai è «tornato nel seno del Padre». Come si deve comprendere questa
analogia? Sentiamo la spiegazione recente di J. KÜGLER nella sua grande tesi:
«Viene data al discepolo rispetto a Gesù la posizione che Gesù occupa
presso il Padre. Gesù come Figlio (...) è amato dal Padre. Pertanto, se la
caratteristica essenziale del discepolo è l’amore di Gesù per lui, ne
segue che egli viene messo nella medesima relazione con Gesù, quanto Gesù con il
Padre». Ma questo commento non può soddisfare: suppone che la vita di Gesù
nel seno del Padre sia già a noi conosciuta, e venga presentata poi come modello della
relazione del discepolo con Gesù; ma così, si va dall’alto in
giù. Bisogna invece fare proprio l’inverso: il movimento ci porta dal basso verso
l’alto, dal visibile all’invisibile; vale a dire che la situazione
storica del discepolo «nel seno di Gesù», alla cena, è
diventata un modello, un simbolo per descrivere la vita misteriosa, trascendente
di Gesù «nel seno del Padre»...
Che il movimento vada dal basso verso l’alto appare da tre grandi testi giovannei;
l’uno, alla fine del prologo: «Egli ha aperto la via» (1,18); l’altro,
nella dichiarazione di Gesù alla cena: «Nessuno va al Padre se non
attraverso di me» (14,6); il terzo è all’inizio di tutta la nostra sezione:
«era venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre» (13,1).
Così conclude, allora, p.de la Potterie l’analisi di questo primo brano sul discepolo amato:
Si vede da una parte la novità di questa interpretazione, ma dall’altra anche una certa continuità con la tradizione antica. L’elemento più nuovo è l’insistenza su un fatto storico: ciò che fu dato di scoprire al discepolo amato era l’identità del traditore. Ma quello svelamento di Giuda – in cui “entrò Satana” (v.27), e perciò si poteva dire di lui: “era notte” (v.30) – apre largamente la prospettiva su tutto il mistero di Cristo, che era venuto da Dio e che tornava nel seno del Padre... Al centro di questa visione allo stesso tempo storica e teologica sta il mistero, non direttamente quello di Gesù, il Verbo in Dio, ma quello del Verbo incarnato, “pieno della grazia della verità” (Gv 1, 14), che però non è stato accolto dai suoi (cfr. 1, 12), come lo ha mostrato drammaticamente Giuda. Quello è il dramma che ha così fortemente colpito il discepolo che Gesù amava.
In un secondo passaggio il gesuita si sofferma dinanzi al testo della crocifissione, sotto la quale stanno Giovanni e la Madre. L’esegesi lo porta a concludere che Giovanni comprende il suo essere amato non solo perché è a lui donata la Madre di Gesù, ma - ancora una volta con uno slittamento di piani – ancor più perché riceve in questo anche “l’essere figlio della Chiesa”. Così p. de la Potterie argomenta:
Prima cosa da notare: oltre Gesù e il discepolo, che erano già in dialogo alla cena, è presente qui una terza persona, la madre di Gesù (per abbreviare, chiamiamola Maria). Osserviamo attentamente le loro posizioni rispettive; formano quasi un triangolo:
|
Gesù in croce |
|
sua madre |
|
il discepolo |
Secondo questa disposizione, Maria si trova in una posizione intermedia tra Gesù e il discepolo: da una parte occupa «presso la croce» un posto subordinato rispetto a Gesù in croce; ma dall’altra esercita in un certo senso una funzione più alta di quella del discepolo. Lo stesso risulta dal fatto che Gesù, usando un titolo, si rivolge prima a sua madre che sta presso la sua croce: «Donna, ecco il tuo figlio»: poi al discepolo, che sta presso sua madre, dandogli semplicemente il suo programma dì vita: «Ecco la tua madre».
Seconda osservazione: l’evangelista adopera qui il cosiddetto «schema di rivelazione», di cui si era già servito all’inizio del vangelo per parlare di Giovanni Battista, il testimone di Gesù. Questo schema consta dì quattro elementi: 1) una persona (A) scorge un’altra persona (B); 2) la persona A dichiara qualcosa a proposito di B; 3) dicendo questo, A designa B con «ecco...»; 4) poi segue un titolo, che contiene la rivelazione. Quel caso parallelo di Giovanni Battista è molto chiaro: «Fissando lo sguardo su Gesù che passava egli dice: “Ecco l’agnello di Dio”» (1,36). Poco prima, il precursore aveva detto che era venuto proprio per rivelare il Messia ad Israele (1,31). Infatti, lo rivela, dicendo a proposito di Gesù che gli viene incontro: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29). Nel nostro episodio del Calvario, c’è un altro esempio di questo schema, anzi viene raddoppiato. Perciò le parole di Gesù: «Ecco il tuo figlio, ... ecco la tua madre» sono veramente una rivelazione: i due titoli «tuo figlio», «tua madre», indicano che, per volontà di Gesù in croce, ci saranno ormai nuove relazioni tra quelle due persone, tra Maria e il discepolo.
Terzo, ritroviamo anche qui il fenomeno dell’anonimato: sia per la
madre di Gesù sia per il discepolo, l’evangelista evita di designarli con il loro
nome, per mettere piuttosto in luce il loro valore rappresentativo e l’importanza della
loro funzione. Per il titolo «Donna», usato già a Cana (2,4), ma ripreso qui
alla croce (19,26), sono state proposte diverse spiegazioni. La migliore sembra essere di
vedere in quell’appellativo un riferimento alla Figlia di Sion, quella donna simbolica
che nella tradizione profetica rappresentava Israele nei suoi rapporti di Alleanza con
Dio. Siamo qui all’inizio della nuova Alleanza, al momento in cui nasce il nuovo popolo
di Dio, il popolo messianico, che diventerà la Chiesa. Giovanni, interpretando la
profezia di Caifa, aveva detto che Gesù doveva morire «per radunare
nell’unità i figli di Dio dispersi» (11,52). Quel raduno messianico si
realizza nelle due persone presenti alla croce. Maria rappresenta qui il popolo escatologico
nella sua funzione materna, ma diventa nello stesso tempo icona della Chiesa. Come ha
detto ottimamente un autore medievale a proposito di Maria presso la croce: ella è
«Consummatio Synagogae et Ecclesiae sanctae nova inchoatio».
Ma dobbiamo fermarci specialmente al titolo «madre» che è la parola
tematica del brano. Il sostantivo «madre» viene cinque volte in tre versetti (sei
volte, se si aggiunge il pronome personale del v. 27c). Ma proprio l’uso dei pronomi
è sorprendente: al v. 25 si tratta due volte della «madre di
Gesù» (o «sua madre»); al v. 26 invece, il greco (non le
versioni!) menziona due volte «la madre» (senza possessivo); al v. 27
invece troviamo «la madre tua». L’idea dominante, certo, è
quella della funzione materna di Maria, ma c’è una dinamica nel testo: va dalla
sua funzione materna rispetto a Gesù, alla sua maternità verso il discepolo. Qui
comincia la maternità spirituale di Maria: da madre di Gesù, per
volontà dello stesso Gesù, diventa madre del discepolo, di tutti i
discepoli.
Ma se l’anonimato suggerisce il valore rappresentativo di una persona, chi è rappresentato dal discepolo che Gesù amava? Si può rispondere con una parola: tutti i discepoli, tutti i credenti nella Chiesa. Lo ha detto in termini precisi il protestante M.DIBELIUS: «il discepolo che Gesù amava» è «il tipo stesso del discepolo (...). (Egli) è l’uomo di fede che non ha bisogno di prove (20, 8). Egli è testimone del mistero della croce (19,35) e ai piedi della croce diviene il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, nella loro relazione con Dio, sono divenuti i fratelli di Gesù (20,17)».
Dobbiamo ancora chiederci che cosa significhi la frase di
conclusione dell’episodio; siccome il suo senso e la sua traduzione sono state
oggetto di lunghe controversie, citiamo provvisoriamente il testo della Vulgata: «Et
ex illa hora accepit eam discipulus in sua» (19,27b).
Di solito si traduce: «Da quel momento il discepolo la prese in casa sua». Ma
quella versione è inesatta per diversi motivi: il verbo
λαμβάνειν, applicato a una persona, non
significa «prendere» o «ricevere», ma «accogliere» (cfr.
per es. 1,12). L’espressione είς τά
ιδια (in sua), altrove nel IV vangelo, è sempre presa in
senso spirituale. Ha intuito bene il senso il card. Toledo (XVII sec.): «Accepit eam
discipulus in sua, id est inter spiritualia bona». Il testo significa
che il discepolo ha perfettamente eseguito la volontà di Gesù: ha accolto la
madre di Gesù nella propria vita di fede, l’ha accolta come sua
madre. «Da quell’ora» è cominciata la maternità spirituale di
Maria nella comunità cristiana. Però Maria non è soltanto la madre dei
discepoli, la madre della Chiesa; in quanto «Donna», «Figlia di Sion»,
Maria stessa è la Chiesa. «Tutta la Chiesa è mariana», diceva il
card. Journet. E perciò H.URS VON BALTHASAR ci ha invitato a riscoprire «il
volto mariano della Chiesa».
Come si vede, «il discepolo che Gesù amava» non viene presentato qui
come apostolo o come testimone di Gesù, ma come figlio di Maria, quindi anche
figlio della Chiesa. Anche sotto questo aspetto, il discepolo amato è la
personificazione di tutti i discepoli e un modello per tutti.
Nell’articolo che stiamo analizzando p.de la Potterie, dopo aver toccato gli altri due versetti in cui si parla del “discepolo che Gesù amava”, nei brani degli incontri degli apostoli con il Risorto – e che già abbiamo visto precedentemente in questa nostra rassegna – si sofferma, infine, sulla misteriosa espressione del capitolo finale del IV evangelo: il discepolo che Gesù amava è il discepolo “che rimane”. La sua riflessione tende a sottolineare come la presenza e la testimonianza dell’evangelista Giovanni non si esauriscano nelle parole che ha scritto nel suo Vangelo, ma come egli “rimanga”, dopo aver scritto, come l’invito ad un approfondimento ulteriore della divino-umanità del Figlio:
Ed eccoci arrivati all’ultimo brano del vangelo (21, 20-25):
all’inizio, paradossalmente, l’evangelista fa un richiamo a ciò che era
accaduto all’ultima cena; è come un elemento interpretativo; poi viene ancora una
parola di Gesù (21,22), l’ultima del vangelo, in cui egli annuncia un
misterioso «rimanere» del discepolo amato.
E’ molto utile leggere almeno i vv. 20-23:
20 «Pietro, voltatosi vide che gli veniva dietro
il discepolo che Gesù amava.
quello che nella cena si era chinato
sul petto di lui e gli aveva domandato:
“Signore, chi è che ti tradisce?
21 Ora, vedutolo, Pietro chiese a Gesù:
“Signore, e di lui che ne sarà?”
22 Gesù gli rispose:
“Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”
23 Si sparse perciò tra i fratelli la voce
che quel discepolo non doveva morire.
Però, Gesù non aveva detto che non doveva morire,
ma: “Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”»
Concentriamoci su una sola domanda: cosa significa quel
«rimanere» del discepolo? L’evangelista ci avverte che
un’interpretazione sbagliata si era sparsa tra i fratelli: che quel discepolo non doveva
morire. Però, dopo aver scartato quella interpretazione, l’evangelista si limita a
ripetere con una certa insistenza la frase dì Gesù; non si tratta dunque
dì un rimanere vivo in senso fisico (così sono nate diverse leggende,
specialmente ad Efeso). Però, in un certo qual modo, il discepolo che Gesù amava
deve veramente «rimanere», quindi rimanere «vivo». Ma come bisogna
comprendere quelle parole misteriose? La risposta si trova negli ultimi due versetti, dove si
parla del discepolo che ha scritto queste cose; e la conclusione aggiunge che se si dovesse
scriverle ad una ad una, ci vorrebbe quasi un’infinità di libri. In che
senso? Nella storia dell’esegesi troviamo due interpretazioni. Quella di Origene è
la più giusta e la più profonda: l’impossibilità per il mondo di
contenere tutti i «libri» che si dovrebbero scrivere non è dovuta alla
«quantità dei fatti» che sarebbero da raccontare, ma alla loro
«grandezza» spirituale; ecco la spiegazione di Origene, in un testo della
Filocalia (si osservi l’assonanza tra le due formule messe in contrasto; sono state
indicate in corsivo). «Se “il mondo non può contenere i libri che si
dovrebbero scrivere”, non è, come lo pensano alcuni a ragione
dell’abbondanza dei testi, ma della grandezza delle realtà: la
grandezza della realtà non solo non può essere consegnata per iscritto, ma non
può nemmeno essere proclamata dalla lingua di carne, né essere espressa con...
parole umane».
Si comprende adesso in che senso il discepolo che amava deve «rimanere»:
egli, l’uomo della fede, rimane, anzi rimane vivo, ma attraverso le cose che ha
scritte, nelle quali egli si presenta come il testimone di ciò che ha
fatto Gesù; la sua testimonianza rimane, come un invito costante a cogliere la
profondità di ciò che ha fatto Gesù e di cui egli rende testimonianza nel
vangelo scritto da lui.
È forse lecito fare di nuovo qui un confronto con Papia di Gerapoli, che era stato
uditore e caro discepolo di Giovanni, e che 30 anni più tardi userà una formula
sorprendentemente simile a questa finale del IV vangelo: ciò che al vescovo della chiesa
di Gerapoli premeva di fare era di raccogliere le cose che venivano «dalla voce viva e
permanente». Quella voce, anche per noi, è quella del discepolo che
Gesù amava; egli aveva visto e aveva creduto; aveva colto «la grandezza delle
cose» fatte e dette dal Signore; nel suo vangelo, ne rendeva testimonianza, ed egli
stesso ci ammonisce di aver scritto queste cose affinché «crediamo»
(cf. 20,31).
In questo senso, «il discepolo che Gesù amava» rimane vivo anche
tra noi; però, dopo aver reso testimonianza e dopo aver scritto, rimane vivo, ma come
«il teologo in silenzio»... Quest’ultima espressione è allusione a una
delle rappresentazioni più espressive e delicate dell’iconografia russa:
“Giovanni il teologo in silenzio”; egli veniva chiamato “il teologo”,
perché aveva descritto gli eventi della vita di Gesù in una luce tale da far
vedere in lui il Figlio di Dio, ed aveva, più degli altri evangelisti, cercato di far
comprendere il significato profondo delle parole di Gesù. Però viene raffigurato
con l’indice ed il dito medio della mano destra sulla bocca, in segno di meditazione:
egli ormai ha reso la sua testimonianza, ha terminato il suo vangelo; adesso gli resta solo il
silenzio, e il suo gesto ci invita a fare come lui: ci invita a leggere e a
contemplare...
In un diverso contributo p.de la Potterie richiama a questo proposito le due figure
complementari di Pietro e Giovanni, come immagini di due modi complementari di essere nella
Chiesa [20]:
Il capitolo 21 di Giovanni... indica due atteggiamenti nei confronti di Gesù, entrambi validi per la vita su questa terra. Perciò altri autori osserveranno che nel brano giovanneo sono contenute in nuce le due vite della Chiesa: la vita attiva nella sequela di Gesù (Pietro) e quella contemplativa, adorante (Giovanni), un po’ come per Marta e Maria secondo Lc 10,38-42...
Leggiamo la traduzione autorizzata dalla Cei: “Quando ebbero finito di mangiare, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Signore, tu lo sai che io ti amo”. Notiamo: “Tu più di costoro”, ecco, la versione classica; ma c’è un rilievo critico da fare. Chi sono infatti “costoro”? E’ il gruppo degli altri discepoli? Per giustificare questo contrasto (tu-costoro) sarebbe necessaria, la presenza formale, nel testo greco, del pronome σύ (tu), che invece non c’è. Mantenendo questa traduzione poi, in un capitolo in cui si cita esplicitamente Giovanni, “il discepolo amato da Gesù” (che “ha scritto queste cose”!), suonerebbe strana. Il testo greco ci viene in aiuto: la domanda richiede un paragone, sì, ma non tra due soggetti: tu (che non compare) e costoro, bensì tra due oggetti, me e queste cose. Propongo quindi di tradurre così: “Simone di Giovanni, ami me più di queste cose?”. Queste cose, vale a dire ciò che Pietro, con tanto impegno, ha fatto fino a quel momento. Pietro ha preso l’iniziativa di pescare, ha condotto la barca in acqua, ha riempito le reti. Che cosa implica questa domanda? Gesù chiede a Pietro di passare ad un altro livello di interesse: amare innanzitutto Gesù. Subito dopo infatti gli affiderà l’incarico di pascere il suo gregge e questo compito nasce come il frutto della sequela e dell’amore di Gesù Cristo. La missione di Pietro è dunque la sequela di Gesù Cristo; la missione pastorale di Gesù, il Buon Pastore, continua nella Chiesa attraverso il suo vicario, il suo rappresentante.
Vogliamo concludere questa nostra rapida rassegna con un ultimo tratto dell’esegesi giovannea di p.de la Potterie, relativa al Prologo del vangelo. Decisa è l’affermazione che il “principio” di cui si parla, non è l’inizio storico, sebbene questo sia illuminato a sua volta, ma il principio eterno della relazione del Padre e del Figlio. E’ per questo che il Figlio è, dall’eternità, rivolto nell’amore verso il Padre [21]:
(E’) il tema dei vv. 1-2, dove si dice due volte che il Verbo di
Dio era εν αρχη: queste parole non rinviano all’inizio del
racconto della creazione (Gn 1,1), ma alla tradizione sapienziale (Pro 8,22-23; Sir 24,9; 4 Esd
6,1-6), dove “il principio” è preso in senso assoluto, e designa il livello
della preesistenza, dell’eternità. Non si tratta evidentemente di questo per
Giovanni Battista. Nondimeno un’analogia esiste, a motivo
dell’εγενετο enfatico del v. 6; deve essere
inteso in senso forte, da cui la traduzione: “Apparve un uomo...”. L’
“apparizione” del Battista, nel vangelo di Giovanni, non è preparata da
niente; essa ha qualcosa di inaspettato, di improvviso, essa è come un
“principio”, un punto di partenza assoluto. Più chiaramente ancora che i
sinottici, il IV vangelo si apre immediatamente sulla testimonianza di Giovanni Battista:
questi versetti del prologo annunciano e preparano la sezione 1,19-34. Con questa
testimonianza, si può dire, “comincia” l’economia cristiana: a quello
che era il principio assoluto della vita del Verbo in Dio corrisponde un principio storico, la
testimonianza di colui che è venuto per “rivelare il Messia a Israele”, per
rivelare colui che era “prima di lui”, nella trascendenza (1,30-31): è
l’inizio della rivelazione di Cristo nella storia, che prepara la rivelazione di Cana,
“l’inizio dei segni” (2,11). Si possono ancora osservare altri contatti... a
questo primo livello. Del Verbo l’evangelista scrive due volte che “era rivolto
verso Dio” (vv. 1-2); di Giovanni Battista, per una curiosa inversione, dice che
“era inviato da Dio”, o più esattamente: “... da presso Dio”.
E’ il solo passaggio in tutto S. Giovanni in cui queste parole sono applicate a un uomo
ordinario; sono invece usate frequentemente per il Cristo. L’evangelista sembra dunque
aver voluto mettere questo versetto in parallelo con i vv. 1-2: se il Verbo, che era
“rivolto verso Dio”, è diventato “la luce degli uomini” (cfr. i
vv. 3-5), la missione storica di Giovanni Battista, il primo “testimone della luce”
(cfr. il v. 7), viene ugualmente “da presso Dio”, perché essa ha “la
sua origine in una decisione di Dio”, come spiega molto bene J.Radermakers. Così
si delinea, come hanno giustamente percepito certi commentatori medievali, una specie di
tipologia tra Giovanni Battista e Gesù...
Ai vv. 1-2 Giovanni ci introduce alla fonte stessa della Vita divina del Verbo che
sarà rivelata e comunicata agli uomini. Il “principio” si ricorderà,
è quello dell’eternità, come nella tradizione sapienziale; ma è
descritto qui dal punto di vista del Logos: dall’eternità “il Verbo era
rivolto verso Dio”, espressione che si può precisare con il passo parallelo della
prima lettera: “la Vita eterna (...) era rivolta verso il Padre” (1Gv 1,2). Fin da
questo momento possiamo dire che questo orientamento del Verbo “verso Dio” è
la sua relazione vivente al Padre. D’altra parte Giovanni afferma anche che il Verbo
“era Dio”. “Doppia affermazione, commenta il P.Lacan, che ci introduce in
seno alla vita trinitaria”.
Più di un autore cristiano del II secolo afferma che Giovanni si stabilì a Efeso, da dove governò le chiese della provincia romana d’Asia. Alle testimonianze già citate riguardanti questo soggiorno, bisogna aggiungere quella – più antica (155-161) – di Giustino, nel suo Dialogo con Trifone. Si può situare la data della venuta di Giovanni, con qualche verosimiglianza, tra il 67 e il 70, dopo l’apostolato di Paolo e Timoteo a Efeso e – se si vuol dar credito ad Eusebio – prima della guerra giudaica. Tornato a Efeso dopo la morte di Domiziano, avrebbe diretto le chiese d’Asia fino alla sua morte. Gerolamo lo descrive, alla fine della sua vita, così decrepito per la vecchiaia, che bisognava portarlo di peso nelle assemblee. Troppo debole per tenere lunghi discorsi, si limitava a ripetere: “Figlioli miei, amatevi gli uni gli altri!”. Poiché i fedeli talvolta si stancavano di questa ripetizione, egli rispondeva: “E’ il comandamento del Signore e, se viene osservato, ciò è sufficiente”. Elemento forse leggendario, ma espressione fedele del pensiero giovanneo. Giovanni morì a Efeso in età avanzata, sotto il regno di Traiano (98-117). L’episodio del martirio che avrebbe subito a Roma in una caldaia di olio bollente, prima del suo esilio a Patmos, riposa sulla sola testimonianza di Tertulliano, ripresa due volte da Gerolamo. Non si può non sottoscrivere le riserve degli storici: nessuno scritto patristico, né alcun calendario antico garantiscono il valore storico di questo episodio.
Meryem Ana è la “Casa della Madonna”, situata sul monte Solmisso, a 9 chilometri da Efeso, nell’odierna Turchia. Il seguente testo è tratto dall’articolo di p.de la Potterie Maria è stata a Efeso? da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.43-48.
Se Maria è stata a Efeso, vorrebbe dire che ha seguito fin qui
l’apostolo al quale suo Figlio l’aveva affidata dalla croce. L’apostolo che,
come ricorda proprio nel suo Vangelo, “da quel momento la prese nella sua casa”.
E’ infatti storicamente accertato che Giovanni ha soggiornato a Efeso.
All’unanimità i grandi vescovi del II secolo, da Papia a Policarpo a Ireneo,
attestano che l’evangelista è morto a Efeso, dove aveva scritto il suo
Vangelo...
Papia, vescovo di Gerapoli verso gli anni 130-140, dice che nel suo tempo alcuni cristiani
erano ancora alla ricerca di quegli anziani che avevano sentito parlare il vecchio Giovanni.
Perché, dicevano, era più importante quella voce viva del Vangelo di tutti i
libri che potevano leggere. E anche Ireneo, che è vissuto attorno al 200 a Lione,
racconta che quando era ancora ragazzo aveva ascoltato il vecchio Policarpo, vescovo di Smirne,
che raccontava di quando lui stesso era giovane e aveva a sua volta ascoltato gli apostoli che
avevano visto il Signore.
Nel II secolo, insomma, c’è stato un netto spostamento dell’interesse da
Paolo a Giovanni. Che è durato anche nei secoli successivi. Ma, accanto a questo, deve
essersi anche affermata una devozione verso Maria. Lo attesta il fatto che esisteva a Efeso,
già prima del 431, data in cui si svolse il terzo Concilio ecumenico, una chiesa
dedicata a Maria. E proprio in questa “grande chiesa chiamata Santa Maria” si
radunarono i vescovi che parteciparono al Concilio. Questa basilica, la prima del mondo a
essere dedicata a Maria, il culto della quale si sviluppò proprio dopo la solenne
definizione del Concilio, testimonia di una speciale e antica devozione degli Efesini verso la
Vergine. Ma da dove proveniva questa devozione? Perché dedicarle una grande chiesa,
proprio come a san Giovanni che ci aveva vissuto a lungo, se Maria non ha mai soggiornato a
Efeso? L’enigma può forse essere svelato da un brano del Concilio di Efeso che per
lungo tempo non ha ottenuto una corretta interpretazione filologica. Il Concilio di Efeso era
stato convocato a causa di Nestorio, che rifiutava a Maria... l’appellativo di Theotokos,
Madre di Dio. Nella lettera ufficiale inviata dal Concilio alla città di Costantinopoli,
dove Nestorio era vescovo, manca il verbo riferibile a Giovanni e a Maria. Vi si legge infatti:
“Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia [l’arianesimo], dopo essere
giunto nella terra degli Efesini, là dove il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la
Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”. Per molto
tempo ci si è arrovellati sul significato di questa proposizione subordinata senza
verbo. Ma in uno studio dal titolo La venue de Marie à Ephèse
d’après le témoignage du Concile de 431, pubblicato in una miscellanea
in onore del mariologo francese Théodore Koehler, Mater fidei et fidelium
(University of Dayton, Dayton, 1991, pp. 218-235), pensiamo di aver mostrato, attraverso una
stringente esegesi filologica, che il verbo è sottinteso, ed è lo stesso che i
vescovi del Concilio avevano riferito a Nestorio. La frase va dunque così intesa:
“Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia, dopo essere giunto nella terra
degli Efesini, là dove erano giunti il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine,
la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato condannato”...
Tutto è cominciato con una mistica tedesca, suor Kathrin Emmerick, morta nel 1824.
Stimmatizzata, è già iniziata la sua causa di beatificazione [22]. Uno dei massimi scrittori del
romanticismo tedesco, Clemens von Brentano, si convertì al cattolicesimo e divenne il
suo fedele segretario. Raccolse le sue “visioni” in un libro molto noto, la Vita di
Maria, pubblicato nel 1865. Questo libro venne tradotto anche in francese, e una copia
arrivò nel convento dei padri lazzaristi di Smirne. Poiché erano vicino a Efeso,
si stupirono molto che una contadina tedesca potesse descrivere con esattezza quei luoghi che
non aveva mai visto. Uno di loro, Eugène Poulin, ironizzò a lungo con i
confratelli su questa stramberia. Poi, per curiosità, organizzò una spedizione
per esaminare la montagna e vedere se c’era un posto che corrispondesse alla descrizione
fatta dalla Emmerick. Sorprendentemente, lo trovarono: in una foresta sul monte Solmisso, tra
Efeso e il mare, scoprirono un punto che concordava perfettamente con la descrizione offerta
dalla mistica tedesca. Si vedeva la città vecchia di Efeso e, nel mare, le due isole che
la fronteggiano. E c’era una sorgente d’acqua che scendeva dal fianco della
montagna. E proprio lì, sul pendio del monte, in un punto da cui si vedeva il mare,
trovarono le rovine di una casa. E’ facile immaginare il loro stupore quando più
tardi, chiedendo a dei contadini del posto cosa fossero quelle rovine, si sentirono rispondere:
“E’ la casa della Madre Maria”. Seguendo un’antica tradizione, infatti,
quei contadini ortodossi abitanti in un villaggio a 17 chilometri di distanza, vi si recavano
tutti gli anni in pellegrinaggio, e proprio nel giorno dell’Assunzione...
Lo scettico Poulin era diventato ormai un convinto assertore del soggiorno di Maria in quella
casa, tanto che scrisse un favorevole libretto con lo pseudonimo di Gabrielovich. Il vescovo di
Efeso informò Roma. Una suora francese organizzò una raccolta di fondi per
comprare il terreno. Si creò un’associazione per salvaguardarlo. Io, con quattro
compagni, passai per Efeso negli anni Cinquanta, e il vescovo, monsignor Giuseppe Descuffi,
interessato a questi fatti, ce ne parlò a lungo. Nel ’52 e nel ’53 fece
compiere delle campagne di scavi. Il professor Adriano Prandi di Bari, che guidò gli
scavi, presentò la relazione in un congresso mariano che si svolse in Portogallo.
“Questi ruderi” disse “sono resti di una chiesa bizantina”. Gli
archeologi avevano infatti individuato che il vestibolo di quella piccola costruzione risaliva
al VII secolo, l’abside al IV, e la parte centrale era stata trasformata in cappella in
un’epoca imprecisata. Ma sotto la chiesa è stata trovata una casa molto più
antica. Le ricerche archeologiche avevano infatti rivelato una casa risalente al I secolo dopo
Cristo. E le ricerche compiute di fronte al piccolo edificio portarono alla scoperta di tre
tombe, due delle quali “orientate”: i corpi cioè erano stati sepolti con il
capo rivolto verso la cappella. Nelle mani stringevano delle monete risalenti agli imperatori
Costante (morto nel 350), Anastasio I (morto nel 518) e Giustiniano (morto nel 565). Indice che
la devozione per questo luogo era già viva in quei tempi. Due anni fa, nel 1991,
poiché ricorrevano i cento anni dalla scoperta di quella Casa, i vescovi della Turchia
hanno proclamato un Anno mariano per tutta la Turchia. La Casa è diventata un luogo di
pellegrinaggio dove vengono anche molti musulmani. Certo, la questione
dell’autenticità della Casa di Maria è ancora aperta. Ma gli scavi, che
furono interrotti per i problemi inerenti al governo turco, andrebbero ripresi e
continuati.
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sul vangelo di Giovanni presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Guardare per credere, Intervista a padre Ignace de la Potterie di Antonio Socci, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.31-39.
[2] Cfr. su questo brano nel nostro sito www.gliscritti.it, alla sezione Approfondimenti, il testo dal titolo: Brani di difficile interpretazione della Bibbia VII, Gv 20,29 “Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto” di Ignace de la Potterie.
[3] I.de la Potterie, Il trofeo della sua vittoria, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.33-37.
[4] I.de la Potterie, La verità del cristianesimo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.159-161.
[5] I.de la Potterie, Perché l’odio del mondo? da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.103-107.
[6] I.de la Potterie, Lo spirito dell’Anticristo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, p.6.
[7] I.de la Potterie, Figli di Dio non si nasce, si diventa da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.169-175.
[8] I.de la Potterie, La stessa esperienza dei primi testimoni, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.80-84.
[9] I.de la Potterie, Lo sguardo e la memoria da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.93-94.
[10] Gianni Valente, Rimanere per crescere. Intervista a padre Ignace de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.49-54.
[11] Gianni Valente, Il Vangelo antignosi. Intervista a de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.44-46.
[12] Il Paraclito di I.de la Potterie (da I.de la Potterie-S.Lyonnet, La vita secondo lo Spirito. Condizione del cristiano, Editrice AVE, Roma, 1992, pp.99-123).
[13] Dal greco parakaleô, chiamare accanto a qualcuno.
[14] La Bible de Jérusalem traduce: «come avvocato presso il Padre». Poiché qui la proposizione greca pros conserva la sua sfumatura di direzione, d’orientamento, abbiamo tentato di conservare quest’aspetto suggestivo del testo traducendo a preferenza: «come avvocato rivolto verso il Padre».
[15] H. Van den Bussche, Le discours d’adieu de Jésus, Tournai-Paris, 1959, p.126.
[16] M.-F.Berrouard, Le Paraclet, Défenseur du Christ devant la conscience du croiyant (Jo. XVI, 8-11), in RSPT 33 (1949) 361-389.
[17] Ibidem, p.373.
[18] G.-M.Behler, Les paroles d’adieux du Seigneur, Coll. Lectio divina, n.27, Paris, 1960, p.187.
[19] I.de la Potterie, Il discepolo che Gesù amava, in Atti del I simposio di Efeso, L.Padovese (a cura di), Roma, 1991, 33-55.
[20] I.de la Potterie, Seguire ed essere prediletti, in I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.67-73.
[21] I.de la Potterie, Struttura letteraria del Prologo di S.Giovanni, in I.de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova, 1986, pp.31-57.
[22] (N.d.C.) Anna Katharina Emmerick è stata beatificata da S.S.Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004.