Mettiamo a disposizione la trascrizione del I incontro,
dedicato agli Atti degli Apostoli, del corso di formazione per catechisti sulla
storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico e Servizio
per il catecumenato della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 20/10/2007, presso
la chiesa di Santa Prisca all’Aventino. Appena possibile saranno on-line
anche le trascrizioni delle successive lezioni. Il calendario degli incontri
con l’indicazione dei luoghi nei quali si svolgono è on-line sul
sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it.
Il testo è stato sbobinato dalla viva voce degli autori e conserva uno
stile informale.
La trascrizione del secondo incontro del corso, dedicato alla basilica di Santa
Maria in Aracoeli ed alla Lettera di san Paolo ai Romani è già
disponibile on-line. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in
questo testo sono on-line nella Gallery L’Aventino:
Santa Prisca e Santa Sabina.
Per ulteriore materiale, cfr. la mostra L’ignoranza
delle Scritture, la pagina tematica Sacra
Scrittura in riferimento
agli Atti degli Apostoli e l’Antologia di testi di Benedetto XVI, Perché
Cristo ha voluto la Chiesa?
Il Centro culturale Gli scritti 10/12/2007
Signore Dio nostro che hai scelto san Luca per rivelare al mondo con la predicazione e con gli scritti il mistero della tua predilezione per i poveri, fa’ che i cristiani formino un cuor solo e un’anima sola, e tutti i popoli vedano la tua salvezza.
(dalla Colletta della messa dell’evangelista San Luca)
Iniziamo questi nostri itinerari nella chiesa di Santa Prisca, per immaginare visivamente qui la
vita dei primi due cristiani di Roma dei quali conosciamo il nome, Aquila e Priscilla. Essi, che erano ebrei divenuti
cristiani, come vedremo meglio, furono cacciati da Roma, insieme a molti altri ebrei e cristiani, nell’anno 49
d.C. Questo avvenne per decreto dell’imperatore Claudio che intervenne presso le sinagoghe perché solo
venti anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo la discussione sul nome di Gesù il Cristo era così
accesa da attirare l’attenzione delle autorità romane. Questa chiesa ci riporta, nella memoria, a
loro.
Santa Prisca fu costruita probabilmente agli inizi del V secolo ed è, quindi, contemporanea della chiesa di
Santa Sabina che visiteremo più tardi, anche se quest’ultima si presenta nelle sue vesti originarie
paleocristiane, mentre Santa Prisca ci appare nella forma che ricevette in età tardo barocca. Le colonne che
sono state riportate alla luce nei restauri e che sono visibili all’interno dei pilastri della navata centrale
della chiesa risalgono appunto alla costruzione paleocristiana.
Santa Prisca, interno: nei pilastri sono visibili le colonne originarie del V secolo |
Come ci spiegherà subito don Marco a quei tempi le chiese dei differenti quartieri si
chiamavano tituli ed ognuno di essi portava il nome del personaggio che aveva beneficato quella chiesa. Santa
Prisca figura negli antichi documenti come titulus Priscae, ma troviamo nell’alto medioevo anche la
denominazione di titulus Aquilae et Priscillae.
Non saremo certo noi a dirimere questa antica questione: Prisca è la stessa persona che conosciamo nel Nuovo
Testamento con il nome di Priscilla, moglie di Aquila, oppure è la figlia Prisca di Priscilla, oppure è
colei che ha dato il nome alle catacombe di Priscilla, oppure è una martire che porta tale nome?
Sapete che Prisca in latino vuol dire antica. La bellissima pala d’altare del Passignano
(ca.1600), anch’essa senza sciogliere il dilemma, ci rappresenta Pietro che battezza santa Prisca, cioè
vuole porci dinanzi all’evidenza che il battesimo che è giunto qui agli antichi cristiani di Roma, ai
primi cristiani di Roma, è il battesimo iniziato degli apostoli su comando del Cristo.
Questo antico titulus è edificato sopra una casa romana, una domus, dove possiamo immaginare si
siano riuniti Aquila e Priscilla, con la loro famiglia, e dove la tradizione vuole che essi abbiano ospitato anche
san Pietro per questo battesimo, oltre a san Paolo e san Luca. Se anche non fosse questo il luogo preciso di questi
avvenimenti e questa fosse solo la chiesa di una benefattrice o di una martire di nome Prisca, la casa di Aquila e
Priscilla sarà comunque stata da qualche parte in Roma o addirittura qui vicino. Questo non è per noi
così importante. Vedremo, comunque, come non vi sia dubbio alcuno che tutti i personaggi del Nuovo Testamento
che oggi vogliamo ricordare in questo nostro incontro siano almeno transitati qui vicino.
Se volete che questi incontri portino più frutto, vi invito fin d’ora a leggere poi a casa per intero i
testi dei quali parleremo. Se l’incontro di oggi vi conducesse a leggere per intero il libro degli Atti degli
Apostoli vorrebbe dire che non abbiamo sprecato queste ore che il Signore ci dona di vivere insieme.
Il programma di oggi prevede una introduzione a questa chiesa da parte di don Marco Valenti, poi una introduzione
che farò agli Atti degli Apostoli, con riferimento particolare ad Aquila e Priscilla ed a Paolo e Luca ed alla
realtà teologica della Chiesa che ci è madre. Seguirà poi una visita a questa chiesa, alla
chiesa di Santa Sabina ed, infine, al Giardino degli Aranci.
Prima della pace costantiniana, prima del 312, era cresciuta a Roma una comunità cristiana
sempre più grande che possedeva ormai degli spazi funerari e aveva dei suoi luoghi di culto, nei quali si
faceva la catechesi, si celebrava l’eucaristia, ci si radunava. Ma erano luoghi non centrali, non costruiti
ex novo a questo scopo.
In quel primo periodo nel quale i cristiani erano perseguitati non c’erano ancora, infatti, chiese nel senso
moderno della parola ed i cristiani si ritrovavano nella sala da pranzo della casa di qualcuno, lì facevano la
catechesi, amministravano il battesimo, celebravano l’eucaristia. Erano quindi ambienti privati che alcune
persone mettevano a disposizione. Questo sistema viene oggi chiamato, dagli studiosi, delle domus ecclesiae.
Una domus ecclesiae di solito era una casa, ma poteva essere una scuola, un edificio termale; erano
cioè degli spazi che non erano necessariamente sempre gli stessi, che non erano spazi fissi.
Queste domus ecclesiae non intralciavano minimamente lo spazio cittadino e si confondevano con le altre
abitazioni. Prima dell’editto di Milano del 313, con il quale Costantino concesse la libertà ai
cristiani, la presenza cristiana era consistente, ma non visibile. Con l’editto del 313 vediamo i primi edifici
di culto. Il primo di essi è S.Giovanni in Laterano, chiesa dedicata al SS. Salvatore. I luoghi di culto
cristiani diventano visibili.
Poiché la comunità cristiana diventa più numerosa, la liturgia si adatta a queste mutate
condizioni, pensate alla messa domenicale ed alle diverse liturgie, e matura l’idea di un itinerario di
iniziazione alla fede più strutturato, pensate alla catechesi in preparazione ai sacramenti. Non si può
più utilizzare uno spazio provvisorio, ma si sente l’esigenza di trovare degli spazi fissi dove poter
vivere tutte queste esigenze. Questi spazi vengono chiamati tituli, le chiese di quartiere, il germe delle
nostre parrocchie. Dal IV secolo noi abbiamo persone che pagano per costruire questi luoghi liturgici visibili ed
aperti a tutti.
I tituli sono così chiamati dalla tabella che veniva messa fuori con il nome del proprietario, il
titulus. Bisognava avere l’autorizzazione del prefetto di Roma perché era un luogo pubblico.
Sicuramente un titulus necessita di un atto pubblico con il quale si costruisce fisicamente e giuridicamente,
con i fondi necessari a questo, un luogo dove le persone si possono ritrovare, luogo di culto di cui si sa chi
è il proprietario e chi ha chiesto l’autorizzazione (probabilmente la stessa persona che ha pagato per
costruire questo edificio).
Qui siamo nel titulus di Santa Prisca, tra poco andremo nel titulus di Santa Sabina. Chi sono questi
personaggi? Sono persone facoltose che hanno consentito, mettendo a disposizione i loro beni, la fondazione di questi
luoghi e hanno costruito materialmente un ambiente di culto come quello che state vedendo. Con il tempo questi
personaggi sono stati dichiarati tutti santi.
Abbiamo così, per la prima volta, dei luoghi visibili, grandi, fissi, spesso edificati sopra le precedenti
domus ecclesiae, nate quando il contesto e le esigenze erano diversi, durante le persecuzioni. È
certamente vero che noi siamo qui –si potrebbe dire- al II piano di un antico edificio romano. Sotto di noi,
sotto il piano di calpestio, ci sono le murature del piano terra delle antiche case romane.
Non è detto che negli ambienti sottostanti gli attuali tituli sia possibile documentare una domus
ecclesiae certa. Anzi queste evidenze archeologiche sono molto labili e non riusciamo a dimostrare chiaramente
che vi sia una precedente domus ecclesiae in nessuno dei 24 tituli tradizionalmente riconosciuti (ma
forse erano 25 o 26), tra il IV e il V secolo. Non necessariamente perché questo non sia vero, ma
perché è estremamente difficile distinguere a livello archeologico una domus ecclesiae da una
abitazione non utilizzata a questo scopo, proprio perché essa si presentava come una comunissima casa.
La tradizione vuole che qui sotto fosse situata la casa di Aquila e Priscilla, la domus nella quale, come ci
dicono la lettera ai Romani e gli Atti, erano soliti riunirsi i cristiani. Se, comunque, questo non fosse vero,
potremmo lo stesso immaginarla qui nei dintorni, di fronte o dietro l’attuale chiesa. Cerchiamo anzi, proprio
qui, di immaginare una casa romana, con il suo atrio porticato, e, nella sala da pranzo, nella sala più
capiente, le celebrazioni e le riunioni dei cristiani del I secolo d.C.
Possiamo immaginare con buona probabilità, per colmare le tappe che conducono da questa prima domus
ecclesiae alla chiesa attuale, che i due coniugi od i loro successori abbiano poi donato questo ambiente alla
comunità cristiana. La comunità cristiana si è ritrovata pian piano proprietaria di queste
domus ecclesiae e di altri luoghi per il culto, un po’ perché sono stati a lei donati o lasciati
in eredità, un po’ perché li ha comprati con le offerte dei fedeli, un po’ perché,
ma qui ci avviciniamo nel tempo, l’imperatore, non avendo i soldi per mantenere alcuni edifici pubblici, li ha
ceduti al vescovo di Roma. Fatto sta che la Chiesa si è ritrovata proprietaria di questi immobili. Cosa
è avvenuto allora di tutti questi spazi? Essi sono stati destinati col tempo all’uso come chiese o
monasteri.
Allora la domus ecclesiae di Santa Prisca, precedente l’editto di Costantino, probabilmente è
qui intorno se non proprio sotto di noi, e solo poi si è trovata la collocazione per costruire questa chiesa
pubblica. Abbiamo così adesso una chiesa titolare. Queste chiese sicuramente sono state collocate dove si
è trovato spazio e, soprattutto, dove c’era l’esigenza e se ne avvertiva la necessità. Qui
vicino, in particolare, c’era il porto e c’erano così tante persone che affluivano.
I tituli corrispondono a quelle che sono le nostre parrocchie, ma a differenza delle nostre parrocchie non
avevano un confine territoriale. Le nostre parrocchie operano in un territorio delimitato, la giurisdizione del
parroco è legata a quel territorio specifico.
I tituli venivano affidati a dei presbiteri. Ma non solo: c’erano con loro diaconi, lettori e gli altri
ministeri. Nei tituli venivano celebrati i battesimi. Il battesimo inizialmente era riservato al vescovo ed
era celebrato in cattedrale, nel battistero principale della città, ma poi divenne normale amministrarlo nei
tituli. In S.Sabina, che è del V secolo, troviamo negli scavi un fonte battesimale.
Nelle chiese titolari c’erano anche delle biblioteche, inoltre vi si amministrava la penitenza, vi era
organizzata l’assistenza agli infermi e ai poveri. Oggi a noi rimangono solo i luoghi di culto, mentre tutti
gli spazi annessi, le case per ospitare il clero, le mense dei poveri, con il tempo sono state sostituite da edifici
più recenti.
Noi siamo così in questa chiesa di Santa Prisca e sotto c’è una domus del I secolo d.C.
Questa casa del I secolo viene ampliata nel II secolo aggiungendo un ninfeo che è sempre nel piano sottostante
-noi siamo al secondo piano. Questa domus che oggi è visitabile solo con il permesso della
Sovraintendenza era una casa ricca ed i proprietari antichi vi hanno fatto dei lavori di abbellimento, di
sistemazione, così come facciamo anche noi oggi nelle nostre case. Nel III secolo dietro l’odierna
abside si costruì un mitreo, segno che almeno quella parte della domus non era abitata da cristiani. Il
mitreo, uno dei meglio conservati in Roma dopo i recenti restauri, venne comunque devastato agli inizi del V secolo,
cioè nel periodo delle prime invasioni barbariche che saccheggiarono il colle Aventino; secondo altri studiosi
i danni all’edificio sarebbero stati, invece, inferti da mano cristiana, ma non possediamo alcuna evidenza
archeologica su questo.
Iniziamo questi nostri itinerari di conoscenza della storia della Chiesa di Roma con una premessa.
Nei nostri appuntamenti visiteremo diversi luoghi senza preoccuparci troppo se sono con certezza quelli nei quali si
sono verificati i fatti che racconteremo
Ho imparato nei pellegrinaggi in Israele che è molto più importante dell’esattezza millimetrica
la consapevolezza che, comunque, quegli eventi sono accaduti in quell’area anche se più allargata, se
non esattamente lì dove c’è una chiesa che li ricorda, almeno vicino ad essa. Ho molto
apprezzato, nel tempo, alcune guide che ci portavano su di una altura, dove si dominava il panorama, e spiegavano poi
che in quell’ambiente naturale, in quel villaggio, in quel paesaggio che potevamo abbracciare con lo sguardo
quel fatto era avvenuto.
Vogliamo così oggi innanzitutto renderci conto che sicuramente sono passati di qui, più o meno dove
è ora la parrocchia di Santa Prisca, Aquila e Priscilla, questa coppia di sposi di cui si parla negli Atti e
nelle lettere di Paolo, e poi lo stesso san Paolo accompagnato da san Luca.
Molti nostri concittadini non sanno nemmeno che san Luca, che è l’autore del terzo vangelo ma anche
degli Atti degli Apostoli, è stato a Roma. Gli Atti degli Apostoli hanno delle pericopi, le cosiddette
“sezioni-noi”, nelle quali Luca, dopo aver raccontato alla terza persona singolare ciò che hanno
fatto Paolo o Pietro, cambia il soggetto del racconto e dice: “Noi partimmo per Filippi...” e in seguito:
“Noi arrivammo a Roma”. Nelle “sezioni-noi” (At 16ss; 20,6ss; 27,1ss) utilizza la prima
persona plurale, il “noi” appunto, per indicarci che era presente proprio lui con Paolo. Quindi Luca
è stato sicuramente a Roma ed è stato la persona più fedele a Paolo.
Questo è confermato anche dall’attestazione delle lettere paoline. In due luoghi si ricorda che Luca
è vicino a Paolo, nei suoi viaggi missionari:
Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù, con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei
collaboratori (Filemone 1,23-24).
Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema (Col 4,14)[1].
Ma, in un testo della seconda lettera a Timoteo, che è affidabile storicamente anche se le lettere fossero
della scuola paolina, si dice espressamente della presenza di Luca con Paolo a Roma, come dell’unico che gli
è rimasto accanto:
Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed
è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con
me (2Tm 4,9-11).
Abbiamo così la certezza che l’autore del terzo vangelo, che era anche lui un predicatore del vangelo
prima di esserne scrittore, seguiva Paolo ed annunziava con lui il Cristo. E quando Paolo si trovò in
difficoltà qui nella capitale Luca, come abbiamo ascoltato, si fermò anch’egli a Roma per
prestargli aiuto.
La casa di questa coppia cristiana Aquila e Priscilla, come ci è già stato spiegato, poteva essere
proprio in questo luogo, sotto l’attuale chiesa di Santa Prisca o anche essere qui vicino. Ma era, comunque, da
qualche parte in Roma. È interessante rendersi conto che comunque non distante da qui sono certamente passati
anche san Paolo e san Luca e chissà quante volte noi mettiamo i piedi, in qualche zona di Roma, dove, senza
che lo sappiamo, duemila anni fa li hanno posti anche l’apostolo ed il suo compagno di annuncio.
Perché Paolo e Luca debbono essere passati qui vicino all’Aventino? Non solo perché se questa
era la casa di Aquila e Priscilla sicuramente qui saranno stati ospitati ed avranno vissuto riunioni e liturgie, ma
anche perché qui vicino passano le due vie di percorrenza, una marina e l’altra terrestre, dalle quali
si arrivava a Roma provenendo dal sud e dall’oriente.
Quando più tardi arriveremo al Giardino degli aranci, da lì vedremo il Tevere. Lo vedremo precisamente
nel punto dove c’era l’antico porto fluviale romano. Le persone che arrivavano via mare dal Mediterraneo
attraccavano al porto di Ostia Antica e poi navigando lungo il fiume sbarcavano qui vicino nell’antico porto.
Da qui proviene l’origine dei nomi di questi luoghi: via Marmorata perché è lì che si
scaricava il marmo, Testaccio che viene dal latino testae, cocci, una collinetta cioè formata dai resti
delle anfore usate per trasportare le merci, foro Boario, cioè il mercato del bestiame, foro Olitorio,
cioè il mercato della frutta e verdura, arco degli Argentari, cioè dei cambiavalute. Noi
dall’alto vedremo così questo luogo nel quale potrebbero essere sbarcati i primi cristiani che hanno
evangelizzato poi la città. Forse da lì sono partiti in esilio o sono giunti Aquila e Priscilla, forse
lì è sbarcato anche san Pietro.
L’altra via per giungere a Roma dal sud, via questa volta terrestre, è la via Appia che giunge a Roma
oggi attraverso Porta San Sebastiano. Ai tempi di Paolo e Luca, quando ancora questa porta non esisteva, si entrava
attraverso Porta Capena, che era vicina al Circo Massimo. Quindi questa porta era proprio qui sotto, non lontano
dall’Aventino. Quasi sicuramente per questa via sono giunti a Roma Paolo e Luca, poiché sappiamo dagli
Atti degli Apostoli che hanno percorso la via Appia, dopo essere sbarcati a Pozzuoli, probabilmente fino
all’ingresso della capitale.
In questi nostri incontri cercheremo anche di situare cronologicamente i fatti, per renderci conto della
solidità degli elementi storici in nostro possesso. Sappiamo che c’erano diverse comunità
ebraiche in Roma, con diverse sinagoghe, a seconda della provenienza degli ebrei della capitale. I cristiani che
giungevano qui, nei primi decenni quando ancora non si era rotto il legame che univa le due realtà, si
presentavano sempre nelle sinagoghe per esserne ospitati. A Trastevere, proprio dinanzi a noi, ne sorgevano alcune,
ma la presenza era ramificata in vari quartieri.
Il culto di Mitra invece, nella forma che si diffuse attraverso i soldati dell’esercito romano che vi
aderirono, è chiaramente successivo al cristianesimo e ne possediamo attestazione a partire dal II secolo d.C.
Il mitreo sottostante a questa chiesa viene datato circa alla fine del II secolo/inizi del III secolo d.C.
Cerchiamo di precisare meglio, allora, le coordinate storiche del cristianesimo in relazione agli eventi
dell’impero romano. Come sapete benissimo, Gesù nasce sotto l’imperatore Augusto. Luca ci tiene a
situare la nascita di Gesù in riferimento ad Augusto, quando racconta del censimento (Lc 2,1). È una
esigenza dell’incarnazione che gli eventi avvengano in un determinato tempo, ma forse l’evangelista
voleva mettere anche in rilievo che la salvezza non veniva dal potere imperiale, poiché Gesù è
il vero Salvatore. Lo stesso termine vangelo era, infatti, usato dagli imperatori per annunciare le notizie,
le leggi da loro date. Erano le notizie di bene che portavano l’ordine nel mondo. Il libro Gesù di
Nazaret del papa si sofferma su questo punto. Augusto si faceva chiamare il principe della pace, colui che
aveva portato la pace. Ricorderete l’Ara pacis, l’altare che rappresenta questa pretesa, eretto
nel 9 a.C. ad indicare Augusto come il pacificatore di Roma e del mondo. Con Augusto, scrive Virgilio, inizia
l’età dell’oro ("Ecco l’uomo, ecco è questo che spesso ti senti promettere, /
l’Augusto Cesare, il figlio di Dio, che aprirà / di nuovo [...] il secolo d’oro"; Eneide,
VI 791-793).
Subito prima di Augusto dobbiamo collegare a Roma anche la figura di Erode il Grande. Erode è stato a Roma,
per ottenere nell’anno 40 a.C. il regno dal Senato romano, poiché la Giudea era già
nell’orbita di influenza romana.
Come Erode il grande anche Erode Antipa venne poi a Roma, al momento della successione del regno. Fu proprio
Augusto, nel 4 a.C., a decidere la divisione del regno di Erode il grande appena morto fra Archelao, Erode Antipa e
Filippo. Flavio Giuseppe ci racconta che Augusto li convocò al Palatino, dinanzi al tempio di Apollo,
all’interno della domus augustana. Da quel momento la Giudea con Gerusalemme, insieme a Cesarea
Marittima, furono governate da un prefetto romano (detto poi procuratore). È la divisione della terra santa in
quattro parti, che è quella che conobbe Gesù, motivo per il quale egli al momento di essere processato
fu condotto anche da Erode Antipa, perché era cittadino della sua parte di regno.
Ad Augusto successe Tiberio, come potete vedere nei fogli che vi sono stati distribuiti. Sotto di lui fu
praefectus della Giudea il famoso Ponzio Pilato, il non credente che è citato dal nostro Credo, ad
indicare la storicità della fede cristiana. Più volte Pilato sarà salito al Palatino o si
sarà recato al Tempio di Marte ultore nei Fori, innanzitutto per prendere le consegne al momento della sua
designazione e poi chissà quante volte per riferire a Tiberio sugli avvenimenti della Giudea.
Sotto Tiberio, il secondo imperatore, noi abbiamo sicuramente la predicazione di Giovanni Battista e la vita
pubblica, la morte e la resurrezione di Gesù. Tiberio è esplicitamente citato in Lc 3,1-2, dove si
dice, in riferimento al Battista ed all’inizio della predicazione pubblica di Gesù:
Nell’anno decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della
Giudea, Erode tetrarca della Galilea e Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide e Lisania
tetracra dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni [...] nel
deserto.
Vedete la divisione in quattro parti della terra santa, che fu decisa da Augusto qui a Roma sul Palatino, ricordata
anche nel vangelo.
Anche la conversione di Paolo avviene sotto Tiberio, probabilmente intorno all’anno 36 d.C. Possiamo indicare
questa data con relativa sicurezza a motivo di un dato cronologico che viene riferito dagli Atti. Essi, infatti,
raccontano che a Damasco Paolo, poco dopo la conversione, fuggì per salvarsi da un complotto mirante ad
ucciderlo facendosi calare dalle mura con una cesta:
Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a
conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per
sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta (At
9,23-25).
La stessa circostanza viene raccontata da Paolo in 2Cor 11,32-33 e qui viene aggiunto anche chi fu colui che voleva
farlo catturare:
A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da
una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.
Areta era il re di Petra, quella città caratterizzata dalle magnifiche costruzioni in pietra scavate nella
roccia, attualmente in Giordania. La sua morte è da collocarsi nel 39/40 d.C., per cui la conversione di san
Paolo è sicuramente avvenuta prima di quella data, probabilmente intorno al 36 d.C., come dicevamo, quindi
ancora sotto Tiberio. La fuga da Damasco avviene, quindi, probabilmente ancora sotto Tiberio o già sotto
Caligola, poiché Tiberio muore nel 37 d.C.
Dopo Tiberio abbiamo quindi l’imperatore Caligola, un personaggio terribile. Sotto di lui Filone di
Alessandria verrà ad implorare senza successo l’incolumità per gli ebrei di Alessandria
d’Egitto, ma non possiamo ora entrare nei dettagli del suo regno.
Dopo Caligola diviene imperatore Claudio, che è importantissimo nella storia di Aquila e Priscilla. Un famoso
testo di Svetonio ci informa che:
I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli (= Claudio) li scacciò
da Roma (Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit) (Claudius 25).
Questo testo di Svetonio si riferisce ad eventi accaduti nel 49 d.C. Io sono convinto che sia giusta la tesi dei
massimi studiosi di Svetonio, i quali dicono che questo Cresto è Cristo. Per il fenomeno dello iotacismo le
vocali e ed i si trasformano l’una nell’altra, nell’evoluzione delle lingue (ad
esempio in greco moderno amen si pronuncia amin). Svetonio probabilmente, non conoscendo bene la storia
del cristianesimo primitivo, aveva trovato il nome di Cresto nelle fonti e aveva pensato che un agitatore che
così si chiamava avesse messo in subbuglio gli ebrei di Roma.
Era, invece, la memoria di Cristo, cioè la predicazione dei cristiani nelle sinagoghe romane, che aveva
destato tale scalpore e suscitato tale agitazione da attirare l’attenzione dell’imperatore Claudio. Egli
era allora intervenuto cacciando in blocco gli ebrei (cioè gli ebrei rimasti fedeli alla Legge e quelli
divenuti cristiani) da Roma. Questo vuol dire che solo 20 anni dopo la morte e la resurrezione di Gesù
l’annuncio del vangelo era così dirompente in Roma da provocare discussioni e liti nelle sinagoghe
romane.
Siamo in presenza, con questo evento, della prima notizia sul cristianesimo a Roma. Non sappiamo così chi
abbia portato la fede cristiana a Roma; possiamo ipotizzare che non siano stati missionari venuti espressamente, come
avverrà poi per Paolo, ma che la fede sia stata portata da mercanti o uomini d’affari o ancora personale
dell’amministrazione, divenuti cristiani. Probabilmente ebrei divenuti cristiani, dato che l’annunzio
destava scalpore, sotto Claudio, proprio nelle sinagoghe romane. È per i canali semplicissimi della vita
ordinaria che la fede si diffonde.
Dunque: nel 49 d.C. la fede cristiana a Roma è già presente in maniera da far notizia. Vuol dire che
sarà stata portata a Roma negli anni precedenti, per avere il tempo di diffondersi, tramite la conversione di
cittadini della capitale.
A questa notizia di Svetonio deve essere collegata una notizia degli Atti, che ci raccontano come Aquila e
Priscilla, questa famiglia cristiana di Roma che Paolo incontra a Corinto per esserne poi ospitato, proveniva proprio
da Roma, essendo stata espulsa a motivo dell’editto di Claudio.
At 18, 1-2 dice infatti:
Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, arrivato poco
prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti
i giudei.
È per questo che oggi siamo qui a Santa Prisca. Vogliamo immaginare qui Aquila e Priscilla, marito e moglie,
i primi due cristiani abitanti a Roma dei quali ci sia conservato il nome. Ma essi non erano soli, se la notizia di
Cristo/Cresto generava tanta agitazione. Un particolare della loro vita, così come è raccontata dagli
Atti e dai saluti finali della lettera ai Romani, ci fa conoscere più da vicino questa coppia. Aquila e
Priscilla aprivano la loro casa per ospitare la comunità cristiana per le riunioni e, quindi, per la
liturgia.
Sappiamo così che le persone divenute cristiane che avevano abitazioni spaziose le mettevano a disposizione
per far incontrare insieme i cristiani –è in nuce l’istituzione delle domus
ecclesiae! Gli Atti ci dicono che Aquila e Priscilla, che Paolo incontra a Corinto, facevano questo: la casa dei
due coniugi a Corinto era luogo di ospitalità, di annuncio e di catechesi. A Corinto, appunto, ospitarono
Paolo in casa loro. I due si trovavano a Corinto proprio perché Claudio li aveva mandati via da Roma.
La lettera ai Romani ci dice che questo continuò anche quando Aquila e Priscilla rientrarono a Roma (se la
finale di Rm è indirizzata a Roma e non è, invece, un biglietto autonomo):
Salutate Aquila e Priscilla, [...] salutate tutta la comunità che si riunisce nella loro casa (Rm 16,
3-5).
Sotto Claudio avvengono il primo e il secondo viaggio di Paolo. A tale riguardo, per fissare un’altra data
certa del Nuovo Testamento, gli Atti raccontano che Paolo viene condotto in tribunale davanti a Gallione, il fratello
del famoso filosofo Seneca.
Mentre era proconsole dell'Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo e lo condussero al tribunale
dicendo: «Costui persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge» (At
18,12-13).
Noi sappiamo da un’iscrizione dell’imperatore Claudio trovata a Delfi che Gallione è stato
proconsole dell’Acaia tra il 50 e il 52. È allora in questo breve arco di tempo, possiamo dirlo con
precisione, che Paolo è stato a Corinto e proprio lì, in quei mesi ha incontrato Aquila e Priscilla che
si erano appena allontanati da Roma nel 49 d.C.
Dopo la morte di Claudio diventerà imperatore Nerone, con il quale si chiuderà la dinastia
giulio-claudia, a motivo dell’odio che egli si attirerà. Sotto di lui, nel 64, ci sarà la prima
grande persecuzione dei cristiani per mano romana, nella quale moriranno i primi martiri della città, i santi
Protomartiri romani, con Pietro e, probabilmente, anche Paolo.
Dopo aver cercato di collocare topograficamente, con l’aiuto dell’immaginazione, Aquila e Priscilla e
Paolo e Luca qui in Roma ed aver dato le coordinate cronologiche, veniamo ora al testo degli Atti degli Apostoli ed
al tema della Chiesa che ci è madre che vogliamo presentare, proprio qui a Santa Prisca.
Vediamo una prima cosa straordinaria, di una grandissima importanza, forza e bellezza. Sapete che
Luca è autore del vangelo di Luca, ma egli è anche autore di un secondo libro, quello degli Atti. Molti
non ne sono consapevoli, perché tra il vangelo di Luca e gli Atti, nel Nuovo Testamento, troviamo interposto
il vangelo di Giovanni; quindi non abbiamo uno sguardo d’insieme immediato sull’unità delle due
opere di Luca.
Immaginate, però, che all’inizio i due libri Lc e At, essendo stati pensati insieme dallo stesso
autore, erano uno accanto all’altro. Chi aveva una biblioteca li avrebbe messi subito uno dopo l’altro.
La Chiesa decise poi di mettere come prima sezione –potremmo dire- del Nuovo Testamento i quattro vangeli, per
la loro eccellenza ed importanza, e così il rapporto Lc-At non appare immediatamente nelle nostre Bibbie.
Il fatto che provengano dalla stessa mano è evidente per motivi linguistici; fin dagli inizi tutti si sono
resi immediatamente conto che le due opere provenivano dalla stessa persona. Sono entrambi dedicati ad un certo
Teofilo (Lc 1,1 e At 1,1) che potrebbe essere una persona concreta, ma anche un nome indicatore di chiunque cerchi
Dio, perché Teofilo vuol dire semplicemente amico di Dio, Theo-philos, philos tou
Theou.
Il secondo dei due libri, gli Atti, cita espressamente il primo:
Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e
insegnò (At 1,1).
Ma il legame non è solo letterario. È molto di più: è sostanziale e teologico. Luca
vuole mostrare l’assoluta continuità tra la storia del Cristo e quella della Chiesa che Gesù ha
istituita: non c’è alcun dubbio che Cristo e la Chiesa, per il Nuovo Testamento, sono in un rapporto
necessario e indissolubile.
Per Luca è evidente che non si può raccontare compiutamente la storia di Gesù se non si
racconta anche la storia della Chiesa. Per lui sono una unica ed identica storia, sono la stessa realtà.
Già il vangelo di Luca sottolinea come Gesù, ascendendo al cielo, benedicesse gli apostoli.
L’ultimo gesto che compie Gesù, prima di tornare al Padre, è un gesto che esprime il suo amore
per i suoi Apostoli, per coloro che si era scelti: e li benedice. Così l’ultimo versetto del terzo
vangelo non parla di Gesù, ma della Chiesa. Il vangelo si conclude con l’affermazione che gli Apostoli
stavano nel tempio e lodavano Dio.
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si
staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande
gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24, 50-53).
Gli Atti cominciano dallo stesso punto, aggiungendo ulteriori sottolineature di questo distacco di Gesù dagli
Apostoli che è, insieme, la loro missione. Subito dopo l’apertura che abbiamo già visto, il testo
continua, infatti, dicendo:
Nel mio primo libro ho gia trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal
principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli
fu assunto in cielo (At 1,1-2).
Ed ancora, pochi versetti dopo :
Avrete forza dallo Spirito Santi che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1,8).
Tutto ciò che gli Atti racconteranno è l’adempimento della volontà di Gesù.
È Gesù che vuole la missione dei Dodici e della Chiesa, è lui a volere che l’annuncio del
vangelo raggiunga non solo il popolo ebraico, ma anche i samaritani e gli “estremi confini della terra”,
cioè i popoli pagani di ogni luogo. Gli Atti seguiranno l’annuncio di Pietro e Giovanni fino alla
Samaria ed alla conversione del primo pagano, il centurione Cornelio con tutta la sua famiglia, e la continuazione di
questa testimonianza verso i pagani nella persona di Paolo fino a Roma, uno dei tanti raggi di questa missione che, a
360°, deve raggiungere tutti i confini della terra.
Insomma: come Lc ed At formano una unica opera, così –anzi questa seconda realtà è la
causa dell’altra- Cristo e la Chiesa sono una unica cosa.
Vedete come sia evidente, per il Nuovo Testamento, che la volontà di Gesù non
è che si scriva la Bibbia, che si scrivano i libri della nuova alleanza. Potete accettare da me questa
provocazione, perché io provengo da studi biblici; capite bene allora come non sia una affermazione per
deprezzare la Bibbia, ma per collocarla al suo giusto posto! Gesù ha voluto espressamente la nascita della
Chiesa, come la prosecuzione della sua parola. Non ha detto ai suoi “Ora scrivetemi dei testi che si possano
poi leggere su di me”, ma piuttosto “Andate, annunciate, predicate, insegnate, battezzate, fate
l’eucarestia in memoria di me”. La scrittura del Nuovo Testamento sarà, innanzitutto, una
espressione di questa multiforme predicazione della Chiesa che, ad un certo punto, non sarà più solo
sacramentale, esistenziale, e attraverso la parola detta da persona a persona, ma si avvarrà anche della
composizione di testi scritti e, perciò, fissati. La Chiesa, parola nella quale risuona la parola vivente e
completa che è Cristo, sarà allora madre del Nuovo Testamento.
È importante sottolineare questo per poter comprendere e spiegare perché esiste la Chiesa,
perché Cristo l’ha voluta. Il Signore, Cristo, non ha chiesto agli Apostoli di scrivere il Nuovo
Testamento, perché ha chiesto loro una cosa molto più importante, che li porterà poi a scrivere
anche i vangeli, le lettere, gli Atti, ecc. Ha chiesto e donato loro di essere la trasmissione viva, la tradizione di
Lui, parola vivente di Dio. Abbiamo riscoperto negli ultimi secoli l’importanza della Scrittura e dobbiamo
continuare su questa via, ma senza mai dimenticare la cosa ben più importante che Gesù ha fatto -questo
è il cuore della fede- cioè la nascita della Chiesa. La Chiesa è nostra madre, perché
è essa a salvarci, potremmo dire che è essa stessa la salvezza, cioè la comunione dei salvati,
di coloro che hanno incontrato Cristo. Certamente è Cristo la salvezza, ma noi incontriamo Cristo attraverso
la Chiesa, le parole della Chiesa, i sacramenti della Chiesa, i libri della Chiesa, la sua liturgia, la sua
carità, ecc.
La Scrittura è così una conseguenza della Chiesa. Siccome la Chiesa insegna attraverso la catechesi,
predica, celebra il battesimo, pratica la carità, siccome nella Chiesa si vivono le nozze e l’impegno
culturale e laicale, siccome, però, anche si discute e si litiga e si hanno problemi, allora serve poi anche
un testo scritto che sia la verifica che quello che si fa avviene sempre nel nome del Signore così come gli
Apostoli lo hanno trasmesso. Ma la cosa più importante è la nascita della Chiesa. Luca, attraverso il
libro degli Atti, ci dice così che l’opera con la quale continua la presenza di Cristo del mondo
è la vita della Chiesa: per questo egli ha benedetto gli Apostoli e li ha mandati.
Il recente film di E.Olmi, Centochiodi, si potrebbe rileggere proprio in chiave cattolica. Sapete che in
questo film c’è il tema del rapporto fra i libri (ed i libri sacri in particolare) e la vita. Olmi fa
intuire che il luogo dove si trova innanzitutto il Cristo non è il testo sacro, ma la viva vita della
tradizione. Olmi dice questo con la sua visione particolare ed anche discutibile, se volete, per cui la trasmissione
viva della vita è rappresentata da quei fiumaroli che conservano i valori della bella civiltà semplice,
legata ai cicli della natura e della fede popolare; ma dice esattamente questo, che la viva vita della chiesa
è più importante dei libri sacri! Dice cioè, a suo modo, che la cosa più importante che
Gesù ha fatto è chiamare a sé i Dodici e continuare a chiamare un popolo che gli appartenga. Il
libro è a servizio di quella storia, non è la realtà più importante che ha fatto il
Signore.
Anche nel dialogo interreligioso è importante questo aspetto, pensate solo al confronto teologico con
l’Islam, che evidenzia le specificità delle due diverse fedi. Non è adeguato alla realtà
l’affermazione che i cristiani sono un popolo del Libro –è la visione islamica sul cristianesimo-
perché noi crediamo nel Cristo parola vivente che ha generato la Chiesa, sua parola vivente. Nella fede
cristiana Cristo ha amato gli uomini ed è morto per tutti, per quei Dodici e perché quei Dodici
annunziassero che il suo dono era per noi.
Gli Atti raccontano – è un ulteriore approfondimento che ci riporta a Dio stesso, al Padre- che
l’opera che Cristo compie è il disegno di Dio. Pietro, Paolo, e così i molti discorsi che
troviamo negli Atti, ci dicono: “Oggi si è compiuto ciò che Dio aveva annunziato ad Abramo, aveva
annunziato a Mosè, a Gioèle, ad Isaia, ecc.”. Nella Pentecoste, quando non si capisce cosa stia
succedendo, Pietro spiega a tutti che si sta compiendo la profezia di Gioèle, cioè ciò che Dio
aveva predisposto nel suo eterno disegno: verrà un tempo nel quale i figli, le figlie, gli anziani, tutti
profeteranno, tutti diventeranno testimoni del Cristo (At 2,17-21).
È l’antico disegno di Dio che ora diventa realtà. Quando gli uomini cominciano a profetizzare, a
parlare di Cristo, diventa realtà quel dono che il Padre aveva promesso. È straordinario: si annunzia
così anche che la storia ha un senso, perché Dio la tiene nelle sue mani. Non è a caso che viene
Cristo, non è a caso che siano chiamati gli Apostoli, non è a caso che viene donato il battesimo, non
è a caso che un bambino riceve la comunione. È la volontà di Cristo, perché è la
volontà del Padre.
Un vescovo, se voi andate a ritroso, è stato ordinato da un vescovo che a sua volta è stato ordinato
da uno che lo ha preceduto e così fino ad arrivare agli Apostoli e a Cristo.
La Chiesa è madre perché attraverso questa sequenza ininterrotta, composta da tanti anelli di una
unica catena che legano l’eucarestia che celebriamo oggi a quell’ultima cena che Gesù fece prima
di morire fa giungere a noi i doni di Cristo. È lei che ci genera alla fede.
È la grande differenza con le sètte sorte nei secoli che si richiamano al cristianesimo, oppure con i
Testimoni di Geova. Tu puoi chiedere dove erano nel 1600, nel 1400, nel Medio Evo, nell’800: non possono
risponderti. Nel cristianesimo è fondamentale, invece, che quella trasmissione di vita non si sia mai
interrotta. Il singolo anello della catena può avere difetti, essere non perfetto, però è un
anello della vita che da Cristo procede ed arriva a noi senza interruzioni. E quell’anello risale non solo fino
a Cristo stesso, ma risale indietro fino al grande disegno di Dio, fino al suo stesso desiderio che ha creato ed ha
voluto salvare: questo è il grande annunzio della fede. Dio ha pensato gli uomini perché lo potessero
trovare dentro la Chiesa.
I Padri della Chiesa hanno espresso questa necessità della mediazione della Chiesa che Cristo ha voluto per
giungere fino a noi con il paragone del rapporto fra la luna ed il sole. Nei testi che vi sono stati distribuiti lo
trovate riassunto in un bellissimo testo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (da Joseph Ratzinger,
Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U.von Balthasar-Joseph Ratzinger, Due saggi. Perché
sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia):
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla Chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto
luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, senza del quale essa
sarebbe completamente buia. La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro. È
tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di
cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per
sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù
Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un’altra terra), è
ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di
Cristo» (Ambrogio, Exameron, IV 8,23).
I Padri della chiesa dicevano che solo Cristo è il sole, non la Scrittura. non la chiesa. Analogamente, per
esprimerci con un linguaggio moderno, noi oggi sappiamo che il sole è una stella e la luna non lo è.
L’energia, la luce, propriamente ci viene dal sole, ma di notte noi vediamo quella luce solo attraverso la
luna. I Padri volevano dire con questo paragone che la Chiesa è necessaria perché la luce di Cristo
arrivi a noi. Noi non possiamo nella notte della vita vedere il sole, vedere Cristo direttamente. Cristo ha voluto la
Chiesa perché noi vedessimo la sua luce. Vedere la luce della luna, vedere la luce della chiesa vuol dire
vedere la luce di Cristo stesso. Se continuate per conto vostro la lettura di questo brano di Ratzinger, vi
accorgerete di una sottolineatura che è oggi possibile, proprio perché conosciamo più
precisamente come è fatta la luna.
Il cardinal Ratzinger spiega che quando i primi astronauti sono sbarcati sulla luna si sono accorti con ancor
più evidenza, guardandola da così vicino, che la luna è solo sabbia e sassi! Non
c’è niente di luminoso! Se uno si avvicina ad un catechista, ad un prete, ad un credente, se si limita a
guardarlo solo nei suoi particolari, solo da vicino, potrebbe affermare analogamente che è “solo
sassi”, potrebbe parlare solo dei suoi peccati, solo delle sue debolezze. Anche un figlio che conosca bene i
suoi genitori potrebbe metterne in evidenza i difetti meglio di chiunque altro e qualcuno potrebbe credere che quella
madre e quel padre siano “solo sassi”. Eppure è proprio attraverso quei “sassi” che
è arrivata a lui la vita, che è arrivata a lui la possibilità di amare e, se è stato
battezzato, la stessa fede, la stessa conoscenza di Cristo. È attraverso quella realtà opaca che arriva
a noi la luce. È vero che la luna è solo terra e sassi, ma è vero anche che è luce,
è vero che tramite lei ci arriva la luce del sole, di notte. È vero che la Chiesa è terra e
sassi, eppure è altrettanto vero che di questa terra Dio si serve per farne strumento di luce.
La Chiesa è così veramente terra ed, insieme, veramente opera luminosa di Dio. Quella luce che
illumina la Chiesa, che la trasforma e la rende luce a sua volta, ci fa vedere la meraviglia dell’opera di Dio,
a condizione che noi non ci fermiamo al singolo particolare, ma abbracciamo l’intera tradizione nella quale
generazioni di cristiani hanno fatto sì che giungesse a noi il battesimo, la fede, i vangeli, le Scritture, la
carità, l’arte cristiana, ecc. Tutto questo che noi riceviamo ci viene mediato dalla Chiesa. Fra Cristo
e noi c’è il noi della Chiesa. La Chiesa è questo dono che Cristo ci fa perché, in ogni
tempo, sia possibile trovarlo ed, in lui, trovare Dio.
Se noi andiamo a ritroso negli Atti, ci accorgiamo di questa dinamica. Gli Atti si concludono a
Roma, con Paolo che annuncia il vangelo. Ma proprio gli Atti, prima di parlarci della sua missione, ci raccontano che
egli è un convertito, che egli è stato convertito. È come se ci dicessero che egli è
figlio, prima di essere padre. Paolo riceve la fede, prima di annunciarla in tutto il Mediterraneo e fino a Roma.
È per questo che negli Atti ci sono tre racconti della conversione di Paolo! La seconda (At 22,1-21) e la
terza volta (At 26,1-23) è Paolo stesso che la racconta in prima persona, una volta –potremmo dire-
davanti al popolo ebraico (e qui si sottolinea negli Atti che tenne il discorso in ebraico) ed un’altra dinanzi
al re Agrippa e, soprattutto, dinanzi al governatore Festo, che rappresenta il potere romano, cioè i pagani
(è il discorso legato all’appellarsi a Cesare per poter andare a Roma). Ma la prima volta, in At 9,1-30,
non è lui a raccontare la sua conversione in prima persona, ma è Luca stesso che si fa voce della prima
Chiesa. Appunto perché Paolo, prima di essere un predicatore, è stato convertito. E, quando in questo
capitolo 9 si descrive il momento in cui Paolo riceve il dono di entrare nella Chiesa, si sottolinea con evidenza che
l’apostolo, pur ricevendo in prima persona l’apparizione del Cristo risorto, ha bisogno di Anania che lo
accolga nella Chiesa. È Anania che, a nome della Chiesa, gli impone le mani, gli restituisce la vista e lo
battezza.
Anania ha paura, in un primo momento di recarsi da Paolo perché sa che si preparava ad uccidere i cristiani,
ma capisce che è il Signore che vuole che si rechi da Paolo. È necessario questo passaggio ecclesiale,
perché l’apostolo deve entrare nella comunità cristiana che lo accoglie e lo genera tramite
Anania. Paolo, perseguitando la Chiesa ha in realtà perseguitato Cristo stesso, tale è l’osmosi
fra il Signore ed il suo corpo:
“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” . Rispose: “Chi sei, o Signore?” E la voce:
“Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9,4-5).
Poi è la Chiesa stessa che viene chiamata dal Cristo a servire Paolo, attraverso Anania che gli dice:
“Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù” (At 9, 17).
Se procediamo ancora più indietro in questa riflessione sulla Chiesa che genera alla fede
negli Atti degli Apostoli, giungiamo al secondo capitolo degli Atti, nel quale è raccontata la Pentecoste.
È qui che incontriamo, nella maniera più evidente, la realtà della Chiesa che è
madre.
In At 2 è narrata la Pentecoste, il momento in cui secondo la promessa di Gesù sui Dodici, che sono
ancora chiusi tra le quattro mura del cenacolo scende lo Spirito Santo. All’esterno del cenacolo sono presenti,
quasi fossero rappresentati, tutti gli uomini di tutti i popoli della terra. Sono sì ebrei e proseliti, ma
sono già parti, medi ed elamiti, stranieri di Roma, arabi, cretesi, ecc. C’è il mondo intero in
attesa che quelle porte si aprano. Per 4 volte si ripetono in questo capitolo le espressioni “nelle diverse
lingue” a mostrare che tutti capiscono il vangelo “nella propria lingua”, che esso è
annunciato tramite il prodigio della Pentecoste a tutti, a ciascuno nella propria lingua nativa.
L’esegesi e la teologia ci fanno capire che la chiesa chiusa nel cenacolo che si apre non è la
chiesa-madre di Gerusalemme, come alcuni dicono. Se si considerasse la Chiesa di Gerusalemme come chiesa
diocesana, allora sarebbe vero che non Pietro e gli apostoli, ma Giacomo ne sarebbe il vescovo (per utilizzare una
terminologia successiva). Ma non è questo che vogliono dirci gli Atti. Non vogliono descriverci la
chiesa-madre di Gerusalemme, ma piuttosto, la chiesa apostolica che è già Chiesa universale, come madre
di tutti i cristiani. Non è una chiesa diocesana, una chiesa di un luogo particolare, quella che ci è
innanzitutto madre. È la Chiesa cattolica che è nostra madre.
È la Chiesa apostolica nella quale è stato ricostituito il numero di dodici, con la scelta di Mattia.
Debbono essere dodici, non uno di più, né uno di meno, perché è il numero dei dodici
figli di Giacobbe, è il numero dell’unico popolo di Dio dell’Antico Testamento, che ora viene
allargato a comprendere tutte le genti. È il nuovo popolo di Dio. Di esso noi siamo figli, da esso noi
riceviamo la fede, esso è nostra madre.
La Chiesa che è nostra madre è la chiesa una, cioè la chiesa che Cristo ha voluto perché
noi ne fossimo figli. Questo negli Atti è chiarissimo. Tutte le persone che avranno la fede, l’avranno a
partire da questi Dodici. Cristo è chiaramente l’autore di questa fede, ma senza questa origine
apostolica noi, lo stesso, non potremmo averla. Qui si compie il Salmo 87:
Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono;
ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia:
tutti là sono nati.
Si dirà di Sion: «L'uno e l'altro è nato in essa
e l'Altissimo la tiene salda».
La Chiesa non è prima locale e solo poi universale, ma, al contrario, la Chiesa è prima una e solo poi
si concretizza nei luoghi particolari nei quali vive. Ogni credente nascerà alla fede, attraverso i
sacramenti, dall’unica Chiesa apostolica e madre. Possiamo dire che gli Atti fanno eco a questo Salmo 87: tutti
sono nati da un’unica madre che è la Chiesa, che è questa Chiesa che ha all’origine gli
apostoli.
Quando nel Credo noi diciamo: “Credo la Chiesa una... apostolica”, diciamo proprio questo: la nostra
fede l’abbiamo ricevuta, la nostra fede è una fede che è stata partorita in noi.
È qualcosa di fondamentale, di importantissimo. Ed è vero, nonostante tutti i peccati dei cristiani.
Alcuni hanno un’idea mitizzata della Chiesa apostolica, come se il peccato fosse sopraggiunto dopo. Si
immaginano che gli Atti ci descrivano una Chiesa perfetta, quasi che tutti fossero senza macchia, in contrapposizione
con la storia successiva, fino ai piccoli pasticci delle nostre parrocchie dove invece quel prete non ci sembra
adatto, quella catechista è pettegola, ecc. Se voi rileggete, invece, gli Atti vi rendete conto che non
è così. Ci sono Anania e Saffira che muoiono perché ingannano gli apostoli sui soldi, ci sono i
litigi di Paolo e Barnaba per Giovanni Marco, ci sono le tensioni fra i cristiani provenienti dall’ebraismo e
quelli provenienti dal paganesimo, ecc.
La Chiesa è piena di tensioni, è piena di “terra e sassi” fin dall’inizio, è
come le nostre madri. Ma è nostra madre. Chi conosce la propria madre conosce benissimo le sue magagne e se la
ama veramente sa che non è perfetta. Eppure la bellezza della vita è che proprio lei, con le sue
magagne, è mia madre e senza di lei io la vita non l’avrei ricevuta. Quei Dodici sono coloro che hanno
dato il vangelo al mondo, che hanno trasmesso ogni sacramento, ogni catechesi. E questa Chiesa madre è quella
che ha scritto per noi il Nuovo Testamento e così via.
Pala dell'altare maggiore: Battesimo di Santa Prisca da parte di San Pietro, di Domenico Cresti detto il Passignano (ca.1660) |
Guardate questa immagine, questa pala d’altare qui a Santa Prisca, opera del Passignano. Vi
è raffigurato Pietro che battezza Prisca. Non è così importante sapere con certezza se qui
è stata battezzata Priscilla, la moglie di Aquila, oppure la loro figlia che, secondo la tradizione, si
chiamava Prisca. Cosa vuol dire, per noi, questa tradizione secondo la quale Pietro battezza qui Prisca? Che la
Chiesa apostolica è colei che dà il battesimo. Aquila e Priscilla hanno abitato qui, ma qualcuno li ha
preceduti nella fede ed ha donato loro la fede, perché la fede non comincia con loro; qualcuno è giunto
fino a Roma perché Aquila e Priscilla e tanti altri potessero ricevere la fede, perché, comunque, la
ricevessero nell’unico modo possibile, attraverso la predicazione ed i sacramenti della Chiesa, della Chiesa
apostolica che è madre. Se anche non fosse stato Pietro in persona a battezzare Prisca, colui che l’ha
realmente battezzata ha potuto farlo avendo ricevuto, a sua volta, un battesimo che, in ultima analisi, risale a
Pietro stesso ed agli altri apostoli, che risale fino a quel giorno benedetto di Pentecoste.
Tutto il libro degli Atti mostra questa vita cristiana che nasce dal Cristo tramite gli apostoli, pensate ancora
all’episodio di Filippo che incontra l’eunuco, ministro della regina etiope, e avendogli domandato se
capisce la Scrittura si sente rispondere: “E come lo potrei se non c’è chi mi istruisce?”
(At 9,31).
Potete ancora leggere uno dei testi che avete nell’antologia, dove l’allora cardinal Ratzinger spiega
come sia sbagliato dire che noi facciamo la Chiesa, mentre, molto più realmente, noi innanzitutto la
riceviamo, in particolare quando ci è donato il sacramento dell’eucarestia:
La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già,
da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la
storia.
L’unica chiesa locale che sarà chiamata Chiesa-madre sarà la Chiesa di Roma, non perché
fisicamente partorisca tutti i credenti, ma perché Pietro, come segno di unità del collegio apostolico,
può rappresentare tutti gli apostoli. Chi è in comunione con Roma è in comunione con la Chiesa
tutta, con la Chiesa generata dagli apostoli, con l’unica Chiesa cattolica che è madre di tutti i
cristiani.
Nei primi capitoli degli Atti Paolo è un figlio della Chiesa, riceve la fede e la deve
imparare. La chiesa madre, prima di lui, è costituita solo dai Dodici, e dalla loro tradizione Paolo viene
generato come cristiano. Ma poi Paolo, una volta assunto da Cristo risorto, da Anania, dallo Spirito, essendo stato
incorporato nella chiesa, diviene a sua volta annunziatore.
La Chiesa non può limitarsi a ricevere la vita, ma la deve donare. E Paolo dona tutto quanto se stesso per
questo. C’è un esegeta, Lorenzo De Lorenzi, che ha calcolato i chilometri che Paolo ha fatto a piedi e
in barca a vela, nei suoi viaggi missionari, fino al suo arrivo a Roma: secondo i suoi calcoli ha percorso 16.500 km
nei suoi quattro viaggi. Se pensiamo alla pigrizia dei nostri ragazzi, se pensiamo alla nostra pigrizia, per cui ci
costa fatica anche fare un solo tratto di strada, possiamo capire come quest’uomo sia stato conquistato da
Cristo per percorrere 16.500 km per annunciarlo a chi ancora non lo conosceva. E non solo la lunghezza, ma durante
questi viaggi fa naufragio, rischia di morire, viene perseguitato... ma non si arresta. Di nuovo pensiamo a quante
volte noi ci fermiamo per un ostacolo, anche piccolo, per una critica, per una incomprensione. C’è un
brano in cui Paolo racconta quante volte è stato perseguitato, gli hanno tirato pietre, ha rischiato la morte,
ci racconta la sua stanchezza, la difficoltà a trovare cibo:
Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta
sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi
innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli
nelle città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli, fatica e travaglio,
veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo il mio assillo
quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese (2Cor 11,24-28).
Chi è generato alla fede diviene a sua volta padre e madre di nuovi credenti.
Lc fa eco a suo modo a Paolo, anche letterariamente. Pensate che l’autore degli Atti cita 102 nomi di luoghi e
li conosce bene, sapendo indicare, ad esempio, le diverse cariche politiche che differenziavano le diverse
città, i proconsoli a Corinto ed a Pafo, i politarchi a Tessalonica, il “primo” a Malta.
Torniamo allora ad immaginare Paolo e Pietro in questa casa di Aquila e Priscilla arrivati qui dopo chilometri e
fatica. E pensiamo anche a questa coppia di sposi che, espulsi da Roma, giungono a Corinto e lì riprendono ad
annunciare il vangelo!
Non conosciamo con precisione i viaggi di Pietro, per quale via egli sia arrivato a Roma. Negli Atti, dopo che egli
ha parlato in favore di Paolo al momento dell’incontro di Gerusalemme, sull’atteggiamento da tenere verso
i non circoncisi, scompare di scena (At 15,7-11).
Gli Atti, invece, ci descrivono i viaggi di Paolo. Sono almeno quattro. Non sappiamo, infatti, con certezza se, dopo
il suo arrivo a Roma, abbia poi potuto raggiungere la Spagna, come era suo desiderio.
Il primo viaggio (At 13) precede il cosiddetto concilio di Gerusalemme; Paolo e Barnaba vanno a Cipro, Iconio e
Listra. Subito dopo c’è il Concilio di Gerusalemme (At 15,1-35) in cui Paolo riceve il consenso alla sua
predicazione ai pagani.
Il secondo viaggio (At 15,36 - 18,22) è verso Antiochia di Siria, in Cilicia, a Derbe e a Listra, e da qui
nella Frigia, Galazia (nord), Misia e Troade. Da Troade (Troia) a causa di una visione avuta in sogno, attraversa il
mare e passa in Europa; poi ancora a Neapoli, nella Macedonia, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessalonica e Berea. Da
qui prosegue verso l’Acaia, ad Atene e Corinto. Infine salpa dal porto di Cencre e via mare si dirige verso
Efeso, Cesarea Marittima, Gerusalemme e Antiochia. La missione dura approssimativamente dal 49 al 52 d.C.
Nel 53 o 54, inizia il terzo grande viaggio di Paolo (At 18,23 - 26,32) che si incentra in particolare, nel racconto
degli Atti, nella città di Efeso.
L’ultimo viaggio è quello che porterà Paolo a Roma. È un viaggio nel quale Paolo è
condotto prigioniero, per essere giudicato dal tribunale imperiale, ma anche questo è chiaramente un viaggio
per poter annunciare il vangelo fino a Roma. Anche le circostanze avverse divengono occasione per la nascita alla
fede di nuovi cristiani.
È nel secondo di questi viaggi, nel viaggio nel quale per la prima volta Paolo passa il mare che divide
l’Asia dall’Europa, che Aquila e Priscilla vengono in contatto con l’apostolo e, precisamente, a
Corinto, dopo che Paolo ha predicato ad Atene.
L’Europa è figlia di questa predicazione, di quella paolina e di quella che già aveva raggiunto
Roma, a partire dai fatti della Pentecoste.
Mi piace sottolineare ancora una volta questo: quando diciamo “noi siamo la Chiesa” noi annunciamo una
realtà di una straordinaria importanza, ma dobbiamo comprendere bene che cosa voglia dire questo
“noi”. Non è un “noi” che comprende semplicemente le persone che si conoscono di una
stessa generazione e di uno stesso luogo (ad esempio, quelli della mia parrocchia o della mia comunità).
Noi siamo la Chiesa perché siamo in comunione con 2000 anni di storia. La nostra comunione abbraccia non solo
tutti luoghi nei quali esiste la Chiesa cattolica, ma abbraccia anche tutti i tempi. La nostra fede è la
stessa di Pietro e Giovanni, di Paolo, di Aquila e Priscilla e deve essere manifesto che questa fede è la
stessa e che la nostra fede corrisponde all’annuncio che noi da loro abbiamo ricevuto. È la Chiesa della
terra sempre unita alla Chiesa del cielo. I nostri nonni, i nostri bisnonni, i papi che hanno preceduto nei secoli il
papa attuale, i vescovi che hanno preceduto nei secoli i vescovi di oggi, i catechisti ed i martiri di tutti i
secoli, con i loro pregi ed i loro peccati.
La Chiesa siamo noi di questa generazione inseparabilmente uniti a tutte le altre generazioni che hanno fatto
sì che noi avessimo questa fede. In questo “noi” c’è anche il Cristo, egli che
è il risorto ed è il vivente, che rende tutti –potremmo dire- contemporanei gli uni agli altri,
nel corpo mistico che è la Chiesa, il suo stesso corpo. Il “noi” della Chiesa comprende
così la generazione presente, tutta la storia della Chiesa ed il Cristo stesso. La Chiesa vive in questa
unità di fede e di amore dove la fede è la fede donata a noi dal Cristo, donata a noi attraverso la
Chiesa che ci è madre, la fede donata a noi; nostra, proprio nostra, senza per questo essere di meno la fede
di tutti. Nostra perché è stata generata in noi.
Abbiamo già visto come nel racconto degli Atti sia Gesù stesso a voler che la fede
raggiunga non solo la Giudea e la Samaria, ma “gli estremi confini della terra”. Gli Atti non descrivono
come la fede abbia raggiunto tutti i popoli rappresentati da coloro che sono fuori del cenacolo nel giorno di
Pentecoste.
Dopo aver descritto l’evangelizzazione della Giudea e della Samaria per opera della chiesa apostolica ed, in
particolare, di Pietro e Giovanni segue, gli Atti descrivono attraverso Paolo, la via che giunge ad uno degli estremi
confini, la via che giunge fino a Roma.
Roma è presente a più riprese nell’opera lucana. Abbiamo già visto come Luca sia
l’evangelista che sottolinea maggiormente il contesto storico nel quale si svolgono i fatti del Nuovo
Testamento. Egli ha, per così dire, sempre un occhio rivolto a Roma.
Gli Atti sottolineano che stranieri di Roma siano presenti a Pentecoste e, soprattutto, che un centurione della
coorte Italica –un italiano, cioè!- sia il primo pagano a ricevere il battesimo ad opera di Pietro.
Man mano che Luca ci racconta i viaggi di Paolo, sempre più evidente diventa il desiderio paolino di giungere
a Roma, per raccogliere anche lì dei frutti dalla sua predicazione. Ma è soprattutto in At 23,11 che ci
troviamo dinanzi ad un passaggio straordinario, poiché Paolo riceve una visione, in un contesto di timore e
persecuzione, nella quale è lo stesso Signore che gli appare e gli dice:
La notte seguente gli venne accanto il Signore e gli disse: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a
Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma».
Troviamo così la parola Roma nella bocca di Gesù risorto. È il Signore, cioè il
Cristo risorto, che ha voluto che Paolo venisse a Roma, dove troverà la morte per rendere testimonianza con il
sangue versato al suo Signore.
In At 25,11-12 Paolo si appella ad Augusto (cioè a Nerone; qui Augusto è il titolo imperiale), non
solo per sfuggire ai 40 che hanno fatto voto di non mangiare finché non lo abbiano ucciso (At 23, 13), ma,
soprattutto, per dare corpo alla chiamata del Signore di predicare anche a Roma
Gli Atti si concludono proprio con Roma, mostrando che, nonostante Paolo vi sia giunto come un uomo da giudicare,
l’annunzio del vangelo è libero e compie la sua corsa, anche nelle difficoltà:
Paolo trascorse due anni nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui,
annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e
senza impedimento (At 28,30-31).
Ultimo punto su cui ci soffermiamo: negli Atti si sottolinea un aspetto che è
importantissimo in tutte le lettere paoline, e cioè l’universalità del Cristo venuto per tutti
gli uomini. Questo ha come conseguenza che la predicazione debba essere rivolta sia a coloro che appartengono
all’ebraismo sia a coloro che sono pagani, perché a tutti deve essere predicato il Cristo. Tutti gli
uomini ne hanno bisogno, perché solo in lui c’è la salvezza di tutti e senza di lui manca ad ogni
uomo la salvezza e la rivelazione di Dio.
Gli uomini appaiono all’inizio degli Atti come distinti nei due grandi gruppi che costituiscono
l’umanità secondo lo sguardo della fede ebraica: ci sono da un lato gli ebrei, coloro che hanno il
tesoro della rivelazione divina veterotestamentaria e dall’altra i popoli, le genti –nelle nostre
traduzioni del Nuovo Testamento vengono chiamati i Gentili- cioè tutte le etnie che, pur diverse, sono
accomunate dal non avere ricevuto la rivelazione di Mosè.
Il vangelo è per entrambi i gruppi e la meraviglia del vangelo è che quei due distinti blocchi
divengono una unica nuova realtà, la Chiesa. Gli Atti descrivono gli apostoli che si rivolgono agli uni ed
agli altri e che chiedono a tutti di conservare l’unità che il Cristo ha creato.
Gli Atti giungono fino a Roma, proprio per dire che questo vangelo è per tutti. Dire Roma significa
dire che Paolo e Luca hanno capito che Cristo è venuto per tutti gli uomini e non può essere rinchiuso
in nessun ambiente, ma deve essere donato a tutti.
L’annuncio come ci è descritto negli Atti non è semplicemente kerygmatico, non è la
semplice enunciazione degli eventi straordinari della morte e della resurrezione di Gesù per noi. Paolo,
invece, cerca continuamente di spiegare cosa questo voglia dire, cosa significhi, come possa essere compreso da chi
lo ascolta[2].
Quando lo vediamo parlare ad ebrei, in particolare nelle sinagoghe o nei dibattimenti processuali nei quali è
costretto, egli comincia a discutere a partire dalle Scritture. Se facciamo un paragone con i nostri tempi, potremmo
dire che Paolo non si limita a buttar là l’affermazione “Dio ti ama!”, “Dio
c’è!”, come vediamo a volte scritto sui muri, frasi alle quali l’altro potrebbe rispondere:
“E allora?”.
Paolo, invece, quando parla con chi proviene dall’ebraismo cerca di spiegare tutti gli elementi che, nella
Scrittura, indicano già l’attesa del Cristo e come sia proprio Gesù colui che ci ha rivelato Dio,
colui con il quale finalmente la storia dell’Antico Testamento si apre alla sua pienezza. Paolo cerca
così di mostrare come Cristo sia il compimento della storia sacra. Manifesta così, dinanzi
all’ebraismo, questo doppio atteggiamento che è da un lato di accoglienza dell’Antico Testamento,
ma dall’altro di superamento, di compimento e, quindi, di novità. “Voi non dovete più
circoncidervi, la circoncisione non è più necessaria”: Pensate che cambiamento incredibile! Per
questo lo vogliono uccidere. Non c’è più bisogno della circoncisione, la fede ebraica viene
assunta, ma insieme viene rinnovata.
Dinanzi a coloro che provengono dal paganesimo, Paolo non parte, invece, dalle Scritture, ma dagli agganci che trova
nella stessa mentalità di quel mondo, ma anche qui giunge a superare completamente le prospettive del pensiero
pagano. Possiamo considerare l’episodio dell’Areopago, ad Atene (At 17, 16-34), come un momento
paradigmatico di questo annuncio.
Negli Atti si dice, infatti, che Paolo comincia a discutere con gli epicurei e gli stoici sulla “piazza
principale” di Atene (At 17, 17; dovrebbe essere il luogo dove sorgeva il porticato della Stoà). Gli
epicurei erano famosi perché volevano cercare la felicità. Dicevano che bisogna essere felici e si
chiedevano come realizzare ciò. Tra l’altro è importante sottolineare come gli Epicurei non
fossero quei rozzi materialisti, sessuomani, goduriosi, che i nostri ragazzi a volte si raffigurano. Epicuro diceva
che solo la bontà rende veramente felici. Una persona che non fosse intimamente buona e cercatrice della
verità, secondo Epicuro, non potrebbe essere felice. Solamente la ricerca della verità e della
virtù può portarti la felicità. Epicuro non sapeva quale fosse la verità, ma la riteneva
necessaria per essere felici. Gli stoici affermavano, invece, che c’era un logos divino, un senso ed una
ragione di tutto ciò che esiste.
In questo contesto culturale, Paolo, dopo aver visto un altare dedicato “al dio ignoto”, inizia a
spiegare (At 17,22-23):
Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti
del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io
ve lo annunzio.
Per il politeismo pagano il mondo era pieno della presenza divina, ma la tarda antichità cominciava a provare
una profonda sfiducia verso tutte le forme religiose precedenti. L’apparire di nuove divinità aveva
portato con sé l’edificazione di templi ed altari dedicati non solo a divinità conosciute, ma
anche ad altre che eventualmente esistessero anche se non era possibile nominarle. Nell’Antiquarium del
Palatino, qui a Roma, abbiamo, ad esempio, un altare eretto ad una divinità “sia che sia un dio sia che
sia una dea”. C’era stanchezza nel mondo religioso in cui Paolo e Pietro camminano. Si facevano altari a
tutti gli dei. Negli Atti è raccontata anche la superstizione, ci sono molti maghi, spesso sbugiardati da
Pietro e Paolo (pensate solo a Simon Mago che vuole pagare per operare anch’egli miracoli in At 8, 9ss, al mago
Elimas in At 13, 4ss., alla schiava incontrata a Filippi in At 16,16).
G.K.Chesterton, il grande autore inglese, dice che chi non crede in Dio comincia, purtroppo, a credere a tutto.
Pensate a quante persone sono atee, ma non passano se un gatto nero attraversa loro la strada, o magari credono
all’astrologia. Trovo interessante che nessuno dica mai che è gravissimo che in televisione si parli
dell’oroscopo. La superstizione attecchisce dove non c’è una fede matura, dove non si crede alla
verità, dove non c’è una verità più grande.
Paolo mostra che questo dedicare un altare ad un dio che non si sa chi sia, ad un dio ignoto, vuol dire ammettere
che lo si sta ancora cercando, che non lo si è trovato. E, su questo, innesta l’annuncio che in Cristo e
nella sua resurrezione il vero Dio ci ha salvato. Paolo guarda questo altare e dice: vedete che siete cercatori di
Dio? Ma non conoscete il vero Dio. Può credere solo chi conosce bene colui nel quale crede. Come dirà
2Tm 1, 11: “So a chi ho creduto”.
Come agli ebrei, così ai pagani è chiesto di convertirsi. Se l’annuncio si appoggia sugli
elementi favorevoli per una sua comprensione, nondimeno il vangelo si caratterizza anche per i pagani come
novità e come esigenza di abbandonare i modi precedenti di pensare e di vivere per giungere alla fede. Siamo
dinanzi alla stessa dinamica che caratterizza la lettera ai Romani. La predicazione e la catechesi si ancorano alla
ricerca che è nel cuore di ebrei e pagani, ma per mostrare che questa ricerca, rivelativa di una sete di
verità e di bene, di un desiderio radicato nel cuore dell’uomo, non approda a nessuna meta senza la
presenza del Cristo. All’uomo viene così richiesto di abbandonare una pretesa auto-salvezza, per
volgersi a quella salvezza che viene solo da Dio.
Il risultato straordinario della predicazione apostolica mostrataci dagli Atti è che questi due differenti
gruppi, raggiunti diversamente dalla predicazione, conquistati i primi, gli ebrei, dalla spiegazione in Cristo delle
Scritture ed i secondi, i pagani, dalla comprensione che solo in Cristo si raggiunge la verità di Dio, vengono
a formare un solo popolo, la chiesa. Vedremo la rappresentazione iconografica di questo nei mosaici di Santa
Sabina.
Vorrei a questo punto richiamarvi alla mente, per concludere, i famosissimi affreschi che ci
parlano degli Atti degli apostoli, dipinti per la cappella Brancacci da Masaccio, nella chiesa di Santa Maria del
Carmine a Firenze. Nel Tributo, il più famoso di essi, Cristo è circondato dagli apostoli e Pietro
già ripete il gesto del maestro. La compagnia chiamata a vivere da Cristo gli sta stretta intorno; gli
apostoli sono tutti lì, pendono dalle sue labbra per ascoltarlo. Le due scene di Pietro che prende il denaro
dal pesce e che lo porta al Tempio sono quasi insignificanti, rispetto all’evento dell’amicizia che
Gesù ha creato con i suoi. Non è importante il miracolo che si compie, ma la compagnia della Chiesa che
Gesù ha generato. Gli altri affreschi mostrano Pietro e Giovanni che continuano l’opera di Cristo, che
battezzano nel suo nome e nel suo nome annunziano il suo vangelo.
Per Paolo e Luca è assolutamente evidente che non c’è salvezza se non in Gesù -
In nessun altro c’è salvezza. Non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo
nel quale è stabilito che possiamo essere salvati (At 4,12)
- ma questo Gesù ci è donato dalla chiesa e nella chiesa. Di questo ci parlano gli Atti e per questo
siamo qui oggi sull’Aventino.
Passiamo ora alla nostra visita dei luoghi dell’Aventino, immaginando su questo colle Aquila e Priscilla e,
nella loro casa, insieme agli altri cristiani, Luca, Paolo e Pietro. Se non qui, almeno qui vicino essi hanno
camminato così come noi facciamo oggi.
Cominciamo con l’ammirare la pala d’altare del Passignano (che si chiamava in
realtà Domenico Cresti). Il dipinto è del 1600 ca. ed è quindi contemporaneo delle tre opere
dipinte dal Caravaggio per la cappella di San Matteo in San Luigi dei Francesi. Vediamo Pietro che battezza Prisca
(la moglie di Aquila o la figlia), mentre altri personaggi assistono alla scena.
La tradizione vuole che Prisca sia stata battezzata in un capitello romano adattato a fonte battesimale. Lo trovate
nella cappella del battistero, che è al fondo della navata destra. Lì una iscrizione medioevale recita
Baptismus Santi Petri. Il capitello-fonte era, fino al 1948, collocato nella cripta, oggi non visitabile,
sotto l’altare maggiore. È, in realtà, un capitello del periodo degli Antonini.
Nei due grandi affreschi nelle pareti dell’abside sono rappresentati a sinistra il martirio di Santa Prisca
ed, a destra, la traslazione delle sue reliquie da parte di papa Eutichiano. Entrambi sono opera di Anastasio
Fontebuoni (inizi del XVII secolo).
Del Fontebuoni sono anche gli affreschi di santi e di angeli che reggono gli strumenti della passione sopra le
colonne della navata centrale.
Siamo in un altro titulus di Roma, quello di Santa Sabina. Il colle Aventino era
originariamente il luogo di ritrovo della plebe, ricorderete certamente l’episodio di Menenio Agrippa che
è ambientato su questo colle.
Il colle divenne, però, pian piano residenza dell’aristocrazia e questa sua destinazione era ormai
quella prevalente già in età augustea. Ai tempi di Aquila e Priscilla c’erano, quindi, numerose
case aristocratiche. Con il tempo vi vennero edificati anche i primi luoghi di culto cristiani.
Santa Sabina è una costruzione del V secolo. Ci appare in tutta la sua armoniosità e ci fa comprendere
come si dovessero presentare le chiese paleocristiane dell’epoca. Infatti è uno dei luoghi romani in cui
è possibile scorgere maggiormente lo stato originario di una chiesa paleocristiana. Santa Sabina, infatti,
è stata riportata –si potrebbe dire- al suo stato originario, con la demolizione di tutte le strutture
successive, nei due interventi di restauro di Antonio Muñoz avvenuti negli anni 1914-1919 e 1936-1937).
È bene cominciare la visita dalla porta lignea che si è conservata quasi intatta nei secoli, grazie al
fatto che, quando la chiesa è stata trasformata in convento affidato ai domenicani, essa è rimasta
all’interno delle strutture conventuali e non è più stata la principale porta d’accesso
all’edificio. Il portico originario è stato, infatti, inglobato nella clausura del convento.
Nel muro di fronte alla porta si trova un buco dal quale si possono vedere i resti dell’originario
quadriportico di accesso alla basilica. Potete vedere attraverso questa piccola apertura una pianta di arancio che si
dice sia stata portata a Roma da san Domenico dalla Spagna. È simbolo della fecondità dell’ordine
domenicano e, forse, da questo albero furono tratti i frutti delle arance candite che santa Caterina da Siena
offrì ad Urbano VI nel 1379 (lettera 19). Il Comune di Roma ha incamerato quello che noi chiamiamo il Giardino
degli Aranci e, negli anni ’30, ha ricevuto questo nome proprio per rispetto a san Domenico che portò
questa pianta a Roma e sotto di essa avrà trovato ristoro ed avrà insegnato.
Ma veniamo alla nostra porta. Con questa porta siamo dinanzi ad un manufatto che è del tempo di papa
Celestino I (422-432), cioè del tempo dell’edificazione della chiesa stessa, secondo alcuni studiosi, o
al massimo della II metà del V secolo, secondo altri.
Questo portale è bellissimo ed importantissimo per la storia dell’arte, poiché noi abbiamo
pochissime porte antiche di chiese, perché quelle di bronzo venivano fuse, mentre quelle di legno spesso
finivano bruciate. Nelle chiese si usavano come oggi candele e gli incendi erano frequenti.
La porta di una chiesa non ha solo una funzione pratica, ma anche e soprattutto una funzione simbolica e
catechetica. La porta indica che c’è un dentro e un fuori. Che per entrare all’interno della
chiesa bisogna superare una soglia. Il programma iconografico di questa porta dice già di per se stesso che il
cristiano conosce il Dio a cui ha creduto e lo può rappresentare e può rappresentare la concezione
della vita e della morte che ne deriva.
Vedete, per operare una contrapposizione, che qui, in questo stesso portico, troviamo delle lastre tombali
medioevali che hanno riutilizzato le lastre di sarcofagi pagani. Potete vedere uno di questi che rappresenta il
passaggio dalla vita alla morte proprio con una porta socchiusa. Con questa immagine la religione pagana voleva
affermare che la morte era un viaggio verso l’aldilà, ma cosa ci fosse dall’altra parte quella
stessa religione non era in grado di mostrarlo. La porta socchiusa fa intendere che con la morte si deve passare in
un’altra situazione, ma la porta non è aperta in modo che si possa sapere cosa vi si troverà una
volta attraversatala. È solo socchiusa perché oltre la porta c’è solo un grosso punto
interrogativo.
La porta cristiana rappresenta una diversa concezione. Pensate anche all’utilizzo del simbolo della porta
negli anni giubilari. Nell’iconografia cristiana, la porta è Cristo: per poter incontrare Dio, noi
cristiani abbiamo Cristo che è la porta. Immaginatevi allora i fedeli del V secolo che arrivavano davanti a
questa porta e, osservandola, potevano leggervi già una introduzione a ciò che avrebbero trovato
attraversandola ed entrando all’interno della chiesa.
La porta è composta da diversi pannelli; purtroppo quelli che erano collocati in basso sono andati distrutti.
Non riusciamo oggi a cogliere perfettamente tutto il filo rosso che lega i vari pannelli, ma almeno le grandi linee
sono evidentissime.
Abbiamo ripetuti riferimenti eucaristici, proprio perché la porta ci introduce al luogo che ha la precipua
funzione della celebrazione liturgica. Questi riferimenti sono al Nuovo Testamento, ma anche all’Antico che
viene letto come una prefigurazione del Nuovo. Infatti possiamo vedere i tre grandi pannelli che raffigurano
l’Esodo. Nel primo, da leggere dal basso in alto, vediamo Mosè che fa pascolare il gregge, poi
Mosè che, al cospetto di Dio, si leva i sandali, perché è su terra santa ed, infine, Mosè
che riceve un rotolo, che rappresenta la sua vocazione e le consegne per la sua missione. Nel secondo pannello
dedicato a Mosè troviamo la lotta con il faraone e la Pasqua: in basso vediamo Aronne che cambia i bastoni in
serpenti spaventando il Faraone, vediamo poi l’esercito egiziano che annega nel mare ed, in alto il popolo che
passa il mar Rosso, illuminato dalla colonna di fuoco e difeso dall’angelo del Signore che lo guida.
Il terzo pannello, l’ultimo che nella porta riguarda le storie mosaiche, vediamo invece, dall’alto in
basso il nutrimento del popolo nel deserto, chiaro riferimento al nutrimento che si riceve nell’eucarestia:
Mosè obbedisce a Dio, poi il popolo dinanzi alle quaglie arrostite, poi il popolo che raccoglie la manna nel
deserto ed, infine, lo sgorgare l’acqua dalla rupe.
Il passaggio del Mare è chiaramente, invece, un richiamo al tema battesimale, alla rinascita alla vita eterna
operata dalla grazia.
Uno dei pannelli più piccoli è dedicato ancora alla prefigurazione eucaristica dell’Antico
Testamento. Possiamo vedere il profeta Abacuc con tre pani, preso per i capelli dall’angelo per portarli a
Daniele che è nella fossa dei leoni (Dan 14, 33-39).
L’eucarestia è richiamata anche dal pannello lungo con alcuni miracoli di Cristo: dall’alto in
basso abbiamo prima la guarigione del cieco, poi, la moltiplicazione dei pani e dei pesci ed, infine, il miracolo di
Cana, con l’acqua trasformata in vino (per similitudine con l’immagine precedente le idrie d’acqua
diventano 7 invece delle 6 del testo evangelico!).
Il portale non ci parla solo dei sacramenti, ma, prima ancora, della Chiesa che li dona. Un pannello, fra i
più famosi, è proprio quello che potremmo intitolare del trionfo di Cristo e della Chiesa. Qui vediamo
una unica scena nella quale è rappresentato in alto il Cristo trionfante, con i simboli dell’alfa e
dell’omega e con i simboli quattro evangelisti agli angoli, perché tramite loro l’annuncio
evangelico giunge ai quattro angoli della terra. Il Cristo ha in mano il rotolo della nuova legge divina che
consegna. In basso stanno ai due lati della scena san Pietro e san Paolo che alzano le braccia per reggere sulla
testa di una figura femminile una corona d’oro e la spada, segni di vittoria. La figura al centro è,
appunto, la Chiesa che guarda al Cristo e che viene incoronata. Sopra di lei i simboli del sole e della luna, con
alcune stelle, simboli del tempo.
Un altro pannello è chiaramente connotato ancora da un significato ecclesiale, ma questa
volta più specificato storicamente. È una scena di acclamazione che avviene all’interno di una
basilica cristiana, con la presenza di un angelo che accompagna la figura umana che vi è posta
all’interno. Non c’è una spiegazione definitiva che chiarisca di chi si tratti con precisione, ma
la scena mostra evidentemente l’assistenza divina all’opera che viene compiuta dai ministri della
Chiesa.
Infine, l’iconografia della porta ci rimanda al motivo originario della fede, la stessa vita del Cristo, la
sua stessa persona. Possiamo vedere la scena dell’epifania, con i tre magi che adorano i bambino seduto sulle
ginocchia di Maria, e poi le scene della passione e della resurrezione:
Cristo che preannunzia la negazione di Pietro con il simbolo del gallo, Cristo alla presenza di Caifa, Cristo
condannato da Pilato, la crocifissione, l’angelo e le due donne al sepolcro, Cristo risorto che si manifesta
loro, Cristo sulla via di Emmaus, Cristo che rimprovera Tommaso. Di queste scene la più famosa è la
crocifissione sulla quale torneremo subito.
Due ultime scene, infine, sono simboli della resurrezione. Una più difficile da determinare, nella quale si
vede un uomo fatto salire al cielo –potrebbe trattarsi di Enoch - l’altra che indica chiaramente
l’ascensione al cielo di Elia in un carro di fuoco, con il discepolo Eliseo che ne prende il mantello per
continuarne in terra la missione.
N.B. Qui di seguito la sequenza dei pannelli, per poterli individuare più facilmente:
Cristo in Croce | L'angelo e le donne al sepolcro | L'Epifania | Cristo sulla via di Emmaus |
Tre miracoli di Cristo | Mosè e gli Ebrei nel deserto | Ascensione di Enoch? | Il trionfo di Cristo e della Chiesa |
Cristo rimprovera Tommaso | Cristo risorto si manifesta alle due Marie | Cristo preannuncia la negazione di Pietro | Abacuc è portato dall’angelo a nutrire Daniele |
Mose al monte Sinai | Scena di acclamazione | Mosè e l'esodo dall'Egitto | Ascensione di Elia |
Cristo condannato da Pilato | Cristo alla presenza di Caifa |
Porta lignea della Basilica di Santa Sabina in Roma |
Come dicevamo, il pannello più famoso della porta è in alto a sinistra, è la crocifissione di Gesù.
Vi ricordo che siamo nel V secolo. Vedere rappresentato Cristo nudo, crocifisso insieme a due
ladroni è, per la sensibilità della comunità cristiana primitiva, non facilmente accettabile. La
crocifissione era il segno del fallimento totale, ci voleva del tempo per assimilare questa immagine. Il Cristo in
croce, pensate ad alcune crocifissioni antiche, è sempre raffigurato come Cristo glorioso, Cristo che indossa
una veste rossa con delle fasce, abiti da vincitore, è Cristo glorioso, addirittura con la corona in testa,
anche se sta sulla croce. La croce è segno di vittoria.
Nelle prime basiliche paleocristiane fatte fare da Costantino si metteva sempre la croce gemmata. Da questo albero
che era segno della morte è fiorita la vita. Mettere il segno della sofferenza, della passione, ad indicare
Gesù vero Dio, ma vero uomo, che quindi è morto, ha patito, ha sofferto, era una rappresentazione
difficile da accettare. Avremo solo poi Cimabue e gli altri pittori che faranno vedere la sofferenza di Cristo, ma
questo sarà un passaggio successivo.
Questa è una delle prime rappresentazioni del crocifisso che possediamo. Il Cristo è più grande
dei due ladroni a manifestare la sua importanza. Ha gli occhi aperti, segno di vittoria, segno di vita, ma la
nudità è evidente a dire la sua debolezza e la sua mortalità.
La più antica raffigurazione della crocifissione del Cristo che possediamo -si trova ora
nell’Antiquarium del Palatino- è un graffito anticristiano nel quale si vede un asino sulla croce ed in
basso il graffito di un uomo che reca scritto a fianco: “Alexamenos sebete Theon”, cioè
Alexamenos adora dio. Probabilmente si tratta di un paggio imperiale pagano che prende in giro un paggio
imperiale cristiano dicendogli che il suo Dio è come un asino. È una specie di insulto paragonabile a
quelli che i ragazzi si scambiano oggi sui muri. Il graffito viene datato alla prima metà del III secolo
d.C.
La raffigurazione della crocifissione nel portale di Santa Sabina è così successiva a questo graffito
di circa 200 anni. Siamo al tempo del Concilio di Efeso, subito dopo il Concilio di Calcedonia, oppure solo alcuni
decenni dopo.
Entriamo ora all’interno della basilica per ammirarla. Colpisce immediatamente il senso di armonia di questo
edificio e la sua luminosità. Le basiliche paleocristiane riprendono la forma delle basiliche pagane e non
quelle dei templi. nei templi, infatti, il popolo restava fuori e non poteva accedere all’interno. Nelle chiese
cristiane fin dall’inizio, invece, il popolo che è santo deve trovare posto dentro l’edificio.
Ma rispetto alle basiliche civili pagane c’è un cambiamento estremamente significativo. La basilica
viene ruotata in senso longitudinale, in maniera che l’abside non stia su di un lato corto, ma su quello lungo,
conferendo alla costruzione un fuoco, un luogo a cui guardare e verso cui tendere. L’abside sarà, per lo
più, rivolta ad oriente, cioè verso il sorgere del sole ad indicare che camminiamo verso Cristo, la
vera luce del mondo, più luminosa del sole stesso.
L’armonia di Santa Sabina è data da una precisa disposizione che gli architetti le dettero. la
struttura è basata su di un modulo che si ripete in senso orizzontale ed in senso verticale. Il modulo
corrisponde al diametro della circonferenza sulla quale è disegnata l’abside. La larghezza
dell’edificio è il modulo moltiplicato per due, la lunghezza delle navate è il modulo
moltiplicato per quattro, la navata centrale è larga quanto un modulo, mentre le due laterali sono larghe
mezzo modulo ciascuna. Il quadriportico, come risulta dagli scavi, era largo cinque moduli e lungo quattro. Lo
sviluppo in altezza corrisponde similmente a questa impostazione rigorosissima: il modulo si ripete tre volte, una
prima volta fino alla sommità delle colonne, una seconda volta fino al davanzale delle finestre ed una terza
volta fino al primitivo appoggio del soffitto.
Iscrizione dedicatoria del V secolo di papa Celestino I e Pietro d'Illiria |
L’edificazione così armoniosa di questa chiesa avvenne durante il pontificato di papa
Celestino I, ad opera di un prete del clero di Roma che però proveniva dall’Illiria, che finanziò
la costruzione. Il suo nome era Pietro d’Illiria. Sappiamo con certezza tutto questo dal mosaico che è
nella controfacciata d’ingresso, mosaico che risale appunto ai tempi della fondazione della chiesa.
L’iscrizione recita:
CULMEN APOSTOLICUM CUM CAELESTINUS HABERET PRIMUS ET IN TOTO FULGERET EPISCOPUS ORBE HAEC QUAE MIRARIS FUNDAVIT
PRESBYTER URBIS ILLYRICA DE GENTE PETRUS VIR NOMINE TANTO DIGNUS AB EXORTU CRHISTI NUTRITUS IN AULA PAUPERIBUS
LOCUPLES SIBI PAUPER QUI BONA VITAE PRAESENTIS FUGIENS MERUIT SPERARE FUTURAM
che tradotto significa:
Quando Celestino aveva il sommo grado della dignità apostolica e rifulgeva nel mondo intero come il primo
dei vescovi, questa meraviglia è stata edificata da un prete di Roma, oriundo di Illiria, Pietro, uomo ben
degno di portare tale nome perché dalla nascita nutrito nell'aula di Cristo, ricco per i poveri, povero per
sé stesso, fuggendo i beni della vita presente ha ben meritato sperare di ricevere la vita futura.
Capiamo qui ancora meglio come nascono i tituli: vengono costruiti su indicazione del papa, cercando
attraverso collette dei fedeli o attraverso benefattori, come in questo caso, i fondi per l’edificazione.
Questa iscrizione all’interno della chiesa è così uno dei documenti più importanti
perché ci dà dei dati certi sulla costruzione. Siamo, insomma, intorno al 420, e lo sappiamo con
precisione perché è rimasta scritta su questo fregio in mosaico una documentazione storica attendibile,
certa.
L’iscrizione ci riporta così ai tempi del concilio di Efeso, il concilio che ha proclamato Maria madre
di Dio, Theotokos (431), poiché papa Celestino è stato papa dal 422 al 432. È importantissimo
notare, ai fini del nostro discorso sulla chiesa, le due figure femminili che sono ai lati dell’iscrizione:
rappresentano la chiesa ex circumcisione a sinistra, cioè i cristiani che provengono
dall’ebraismo, e, a destra, la chiesa ex gentibus, cioè i cristiani che si convertono al
cristianesimo provenendo dal paganesimo. La diversità delle due figure è sottolineata dai diversi abiti
e dal modo differente di rappresentare simbolicamente le scritture dei due libri che hanno in mano. Tutte e due le
figure, infatti, fanno riferimento ad un testo che hanno in mano, probabilmente l’Antico Testamento ed il Nuovo
Testamento.
Questo appunto è il grande problema degli Atti degli Apostoli, così come dell’epistolario
paolino. Prima dell’arrivo di Cristo c’era un solo Dio, ma questo Dio era stranamente il Dio di un solo
popolo, del popolo ebraico e non del mondo intero -è un paradosso evidenziato più volte dalla teologia,
è il paradosso di un Dio che è uno solo, ma che non è per tutti, che non si manifesta a tutti
allo stesso modo, che non rivolge i suoi comandamenti a tutti nello stesso modo. Perché l’Antico
Testamento non era per i greci? Perché solo gli ebrei erano tenuti alla circoncisione e non tutti i popoli?
Perché l’ebraismo non è diventato missionario per far conoscere a tutti l’unico Dio,
invitando ad entrare nell’ebraismo?
Questo paradosso si scioglie solo con la venuta di Gesù. Gesù afferma che per trovare l’unico
Dio non è più necessario essere ebrei, poiché l’unica cosa necessaria è divenire
discepoli del Cristo: “Seguitemi”. Non è più importante l’appartenenza ad un popolo,
poiché la presenza del Cristo apre l’Antico Testamento all’universalità. Queste due donne
rappresentano allora questa doppia provenienza, dall’ebraismo e dal paganesimo dei credenti che divengono ora,
in Cristo, una unica chiesa.
La Chiesa è un’unica madre. Proprio negli Atti abbiamo il conflitto tra queste due differenti
realtà, differenti quanto alla provenienza, ma che debbono essere una unità poiché Cristo ha
ormai abbattuto il muro di separazione che era frammezzo fra ebrei e cristiani.
Pensate a che diversità c’era allora e quanti conflitti ne nascevano all’interno della chiesa,
conflitti ben più duri –potremmo dire- di quelli che conosciamo oggi: c’erano allora nella chiesa,
infatti, persone che si circoncidevano, che osservavano le leggi alimentari ebraiche, ecc. ecc. ed altri,
all’opposto, che non facevano nulla di tutto ciò.
Negli Atti si racconta questa apertura della fede ai pagani ed il primo che battezza i pagani non è san
Paolo, ma san Pietro, ad indicare ancora una volta il suo primato. San Paolo viene sempre chiamato l’Apostolo
delle Genti (genti o Gentili viene dall’ebraico goim, usato dagli ebrei per designare le
genti, cioè tutti coloro che non facevano parte del popolo ebraico, i pagani; c’è un solo
popolo, nel linguaggio rabbinico, quello di Israele, gli altri sono le genti). Nel Tempio di
Gerusalemme è stata rinvenuta un’antica iscrizione nella quale si avvertivano i pagani che non potevano
avvicinarsi al cuore del santuario che era riservato agli ebrei; potevano arrivare solo fino ad una porta di
separazione oltrepassando la quale sarebbero stati uccisi.
Era una divisione rigorosa. Negli Atti Paolo viene catturato perché accusato di aver introdotto dei Gentili
nel Tempio. Timoteo era stato fatto circoncidere da Paolo perché potesse andare con lui senza che si creassero
problemi. Non è però Paolo a battezzare il primo pagano. Pietro ha una visione (At 10) in cui gli
appare un lenzuolo con animali impuri e Dio gli dice: “Uccidi e mangia”.
Pietro risponde di non poter mangiare alimenti impuri. A me piace sempre ricordare che il cristianesimo è
l’unica religione per la quale tutti i cibi e tutte le bevande sono puri. Pensate al vangelo di Marco, quando
Gesù dice che l’impurità è nel cuore, non nei cibi!
Mentre Pietro ha questa visione, Cornelio, un centurione della coorte italica -potremmo dire forse il primo romano
che si converte- che risiedeva a Cesarea con tutta la sua famiglia, riceve anch’egli una visione che gli dice
di mandare a chiamare Pietro.
Quando queste persone arrivano da Pietro lui capisce il significato della visione avuta, capisce che Dio gli aveva
rivelato che la fede cristiana non è solo per gli ebrei, ma per ogni uomo, poiché nessun uomo è
impuro. E Pietro battezza Cornelio e la sua famiglia. Lo Spirito Santo scende sui pagani. E’ la prima volta che
dei pagani diventano cristiani, non è più necessario essere ebrei per diventare cristiani. La Chiesa si
manifesta così come luogo dell’unità nella fede di ebrei e pagani divenuti cristiani.
Se ci volgiamo verso l’altare vediamo gli affreschi dell’abside che conservano il tracciato originario
delle raffigurazioni che vi erano rappresentate anche se le pitture sono state ridipinte nei secoli e mostrano ora la
ridipintura operata da Taddeo Zuccari nel 1560, ridipinta poi ancora, successivamente, nel 1836 (dal Camuccini) ed
ancora nel 1919. Rappresenta Cristo assiso sul monte dal quale esce l’acqua della vita alla quale si abbeverano
gli agnelli, simboli dei fedeli. Il Cristo è circondato da apostoli e santi. L’aggiunta iconografica
della figura di san Domenico è chiaramente medioevale.
Santa Sabina, Abside (Taddeo Zuccari, 1560) Cristo assiso sul monte con le pecorelle che si abbeverano. |
Vedete come qui gli agnelli che rappresentano i credenti siano tutti insieme, non più
differenziati per la loro provenienza, ma tutti si abbeverano all’unica sorgente che sgorga dal Cristo.
Ancora ai tempi della fondazione della chiesa risalgono gli intarsi marmorei che possono essere ammirati sopra le
colonne e gli archi della navata principale. Sebbene restaurati, ci riportano in maniera splendida ai tempi della
fondazione della chiesa, permettendoci di ammirarla come era agli inizi.
Sul lato destro potete vedere, invece, una antica colonna addossata ad una parete: è probabilmente la colonna
dell’ingresso della domus precedente, una delle domus su cui è sorta la chiesa. Torniamo
anche qui alla stratigrafia che già abbiamo spiegato a Santa Prisca: queste domus, che erano abitazioni
unifamiliari, nel tempo vengono trasformate in condomini (le insulae), con sotto i negozi e sopra diversi
piani di abitazioni. La chiesa del V secolo ha utilizzato, anche per praticità, per fare economia (a quei
tempi non c’erano ruspe per sbancare il terreno e demolire) degli spazi preesistenti.
Avvicinandoci ora alla schola cantorum, possiamo vedere una lastra marmorea veneratissima perché sopra
di essa, secondo la tradizione, si stendeva san Domenico per pregare. Infatti, nel medioevo papa Onorio III, che
già aveva fondato nel 1216 l’ordine dei frati predicatori (cioè dei domenicani) concesse a san
Domenico la basilica perché vi edificasse un convento. Alcuni studiosi sostengono che in questo convento di
Santa Sabina san Domenico abbia abitato per sei mesi, dal novembre 1220 al maggio del 1221. Qui dette l’abito a
san Giacinto e qui ebbe la visione della Madonna come protettrice del suo ordine. La lastra in pietra reca una
iscrizione relativa alla sepoltura dei martiri Alessandro, Evenzio e Teodulo, i cui corpi sarebbero stati traslati
nella basilica per riposare accanto a quelli di Sabina e Serapia.
Se usciamo all’esterno dall’attuale porta che da sulla piazza, possiamo vedere l’affresco che
riproduce una leggenda domenicana che vuole che san Domenico, rincasando una sera tardi in convento, sia stato
accompagnato dagli angeli che gli avrebbero aperto la porta di Santa Sabina, senza disturbare il padre portinaio. La
finestra dalla quale quest’ultimo guardava chi si avvicinava al convento è situata subito sopra
l’affresco.
Oltre a san Domenico il convento ricorda qui la presenza di san Tommaso d’Aquino che vi abitò nel
biennio 1265-1267, oltre a molti altri santi ed insigni personaggi, fra i quali san Pio V, quando ancora non era
pontefice. All’interno del convento sono venerate, trasformate in cappelle, la cella di san Pio V, appunto, e
quella più antica di san Domenico, dove il santo si sarebbe anche intrattenuto a colloquio con san Francesco
d’Assisi, suo contemporaneo. I due ordini mendicanti dei francescani e dei domenicani segnano insieme una
svolta nella vita della chiesa fra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII. Oggi Santa Sabina è sede
della Curia Generalizia dei Frati Predicatori.
Giungiamo ora all’ultima tappa di questo nostro primo incontro. Entrando nel giardino ci
accorgiamo di entrare in realtà all’interno dei resti di un castello, il castello dei Savelli. Il
giardino porta, infatti, anche il nome di parco Savello. La fortezza fu edificata da Alberico II nel secolo X ed
ereditata poi da Ottone III Savelli, dopo il 1000. Il parco, prima di essere alienato al momento
dell’Unità d’Italia, appartenne per secoli ai domenicani. Al periodo della fortezza ci rimanda
anche una lastra tombale che abbiamo visto in Santa Sabina, appoggiata al fianco della navata destra. Essa riutilizza
l’architrave di una porta della casa di Teofilatto, signore di Roma, marito di Teodora e padre di Marozia, dei
quali parleremo nelle visite dei prossimi anni, quando arriveremo a trattare l’alto medioevo.
Siamo venuti qui al Giardino degli Aranci soprattutto per ammirare il panorama e vedere dall’alto il punto di
attracco dell’antico porto fluviale sul Tevere. Come abbiamo già detto qui arrivavano tutte le merci,
una volta che erano scaricate a Ostia o a Porto ed erano trasferite su navi più piccole che potessero risalire
il fiume. Qui, dall’alto, possiamo immaginare in basso Aquila e Priscilla che partono in esilio al tempo di
Claudio o san Pietro che arriva a Roma o ancora Ignazio d’Antiochia condotto a Roma per il martirio. O per
questa via d’acqua o per la via Appia i cristiani arrivavano a Roma e ne ripartivano.
Possiamo infine ricordare l’apologo di Menenio Agrippa che, secondo la tradizione latina, fu pronunciato
proprio sull’Aventino. Egli ricordò, secondo una immagine comune all’epoca, che patrizi e plebei
erano parte di un unico copro e la morte degli uni avrebbe provocato la fine anche degli altri. Questo ci permette di
dare una ultima pennellata al discorso sulla chiesa che abbiamo voluto affrontare oggi. Se Paolo riprende chiaramente
questo topos letterario dell’unico corpo e delle molte membra, lo fa, però, con una novità
che cambia radicalmente il senso dell’apologo di Menenio Agrippa. I cristiani sono sì membra gli uni
degli altri, ma di quell’unico corpo che non è semplicemente il loro, ma è piuttosto quello di
Cristo. Colui che dà vita all’intero corpo è il Signore stesso e non sono tanto gli uni a dare
reciprocamente la vita agli altri. La Chiesa non è costituita semplicemente dalla comunione dei cristiani, ma
si radica nella relazione che tutti hanno con il Cristo, in quel rapporto che chiamiamo eucaristico, poiché
tutti mangiano dell’unico pane che è l’eucarestia. È questa presenza del Signore
Gesù, è questa presenza sacramentale a costituire la Chiesa in unità.
Ottaviano Augusto (29 a.C.-14 d.C.)
-27 a.C.: OTTAVIANO assume il titolo di AUGUSTO (colui che è venerato, colui che accresce, da
“augeo”)
-4 a.C.: muore ERODE IL GRANDE. Prima di questa data nasce GESU'
-14 d.C.: morte di OTTAVIANO (fine dell’ “età aurea” della cultura latina: nel 19 a.C.
morte di Virgilio e Tibullo, nel 17 a.C. morte di Livio, nel 15 a.C. di Properzio, nel 8 a.C. di Orazio, nel 8 d.C.
di Ovidio, esiliato da Ottaviano sul Mar Nero)
Tiberio (14-37 d.C.)
-TIBERIO, figlio di Livia, moglie di Augusto, ma non figlio naturale di Augusto stesso, poiché nato da un
precedente matrimonio di Livia (gli intellettuali, da ora in poi, legati ai senatori, saranno contro gli imperatori,
così Lucano, Seneca, ma soprattutto Tacito; saranno legati alla filosofia stoica con il suo ideale del saggio
che disprezza il tiranno)
-26-36 d.C.: PILATO prefetto in Giudea
-27 d.C.: ERODE ANTIPA sposa ERODIADE, già moglie di suo fratello ERODE, figlio di Mariamne II
-27-29 ca. d.C.: GIOVANNI BATTISTA comincia la sua predicazione nell’anno XV dell'impero di Tiberio
-29 ca. d.C.: GIOVANNI BATTISTA è arrestato, condotto nella fortezza di Macheronte e decapitato
-30 d.C. ca.: morte e resurrezione di GESÙ; TACITO: “Cristo, suppliziato ad opera del procuratore
PONZIO PILATO, sotto l'impero di TIBERIO”
-36 ca.: CONVERSIONE di PAOLO sulla via di Damasco
Caligola (37-41 d.C.)
-CALIGOLA, figlio di Germanico, nipote di Tiberio, unico sopravvissuto alla repressione di Tiberio; introduce la
proschinesis, “inginocchiarsi al suo cospetto”; muore ucciso dai pretoriani; sotto di lui, pogrom
contro gli ebrei ad Alessandria d'Egitto; Filone d'Alessandria ambasciatore a Roma per intercedere
-39 d.C.: CALIGOLA ordina che una sua statua sia eretta nel Tempio di Gerusalemme (la sua morte impedirà la
realizzazione del progetto)
-40 d.C.: morte di ARETA IV, re dei nabatei con capitale a Petra; prima di questa data FUGA di PAOLO, calato
in una cesta dalle mura damascene per sfuggire al governatore di Areta (2Cor 11, 32-33 e At 9, 23-25)
Claudio (41-54 d.C.)
-Claudio (ha 4 mogli; l’ultima, Agrippina, forse gli è fatale; muore misteriosamente)
-41 ca. o più probabilmente 49 d.C.: Claudio scaccia gli ebrei da Roma (“impulsore Chresto”, in
Svetonio); contro una data più tardiva (così R.Penna), supposta da alcuni in relazione ad AQUILA e
PRISCILLA
-44 d.C.: AGRIPPA I (già nominato re da CALIGOLA sulle tetrarchie di Filippo e di Lisania riceve da CLAUDIO
Giudea e Samaria) fa decapitare l’apostolo GIACOMO, il fratello di GIOVANNI; alla morte di AGRIPPA la Giudea
ridiventa “provincia procuratoria”
-45/46-48 ca. d.C.: I VIAGGIO PAOLINO (Antiochia, Cipro, Antiochia di Pisidia, ecc. Antiochia)
-49-52 ca. d.C.: II VIAGGIO PAOLINO a partire da At 16, 8 ss. (inizio della prima “sezione-noi”); Troade
(sogno del Macedone che chiede aiuto; cfr. i tanti testi su Troade=passaggio in Asia, ad esempio Alessandro Magno che
vi sbarca e vi pianta per primo la sua lancia, come a prenderne possesso); isola di Samotracia; Neapoli (oggi
Kabala); è la prima città di Paolo in Europa; Filippi, tutti cittadini romani, molti veterani di
Antonio; in At 17 Anfipoli, Apollonia, Tessalonica, Berea (Veria, vicino Vergina), Atene (da qui 1Tess “restati
ad Atene”), Corinto (qui proconsolato di GALLIONE, fratello di SENECA; Cencre (porto di Corinto verso l'Egeo),
Efeso (At 18, 19; da qui 1 Cor, vedi 1 Cor 16, 5-8)
-50-52 ca. d.C.: proconsolato di GALLIONE in Acaia
-50-51 d.C.: Prima lettera ai Tessalonicesi, probabilmente il primo scritto del NT (cfr. At 18, 11-18 e 1Tes 3,
1-5)
Nerone (54-68 d.C.)
-NERONE, acclamato dai pretoriani a 17 anni; all'inizio sotto la guida di SENECA, uccide poi la madre; Seneca si
ritira in disparte; cerca il favore della plebe; nel 65, per paura di una congiura, costringe al suicidio SENECA,
LUCANO e PETRONIO; POPPEA, sposa giudea di NERONE)
-53-58 ca.: III VIAGGIO PAOLINO (appena accennato nelle tappe in At), Galazia, Frigia, Efeso (vi resta 3 anni ca.
cfr. 20, 31); ad Efeso si mise in mente di vedere anche Roma (At 19, 21); Macedonia, Troade, Mileto (dove saluta gli
anziani di Efeso; a Filippi, in 20, 5-15 inizio della seconda “sezione-noi”), poi Cos, Rodi, Patara,
Tiro, Acco, Cesarea, Gerusalemme
-60-61 ca.: VIAGGIO DI SAN PAOLO DA GERUSALEMME A ROMA (anche LUCA arriva a Roma con lui) arrestato nel Tempio di
Gerusalemme, poi condotto nella Fortezza Antonia, si dichiara cittadino romano dinanzi alle accuse; giuramento di
alcuni giudei di ucciderlo; si fa portare a Cesarea; dinanzi al governatore Felice (dal 52 al 59 o 60; fratello di
Pallante, il favorito di Agrippina); governatore Porcio Festo dal 60 al 62; Paolo si appella a Cesare partenza per
Roma, Sidone, Mira, Creta, naufragio e sbarco a Malta, Siracusa, Reggio, Pozzuoli, a piedi sull’Appia, Roma
(cfr. S.Paolo alla Regola). Poi???? in Spagna???? in Oriente????; MARTIRIO nel primo o nel secondo ipotizzato
soggiorno a Roma (da dove le lettere dalla prigionia????) fra il 64 ed il 67 (alle Tre Fontane, secondo la
tradizione; il corpo è portato poi nel luogo dove sorgerà la basilica di S.Paolo fuori le Mura)
-62 ca. d.C.: UCCISIONE DI GIACOMO IL MINORE, il “fratello del Signore”, fatto lapidare dal sommo
sacerdote ANAN
-64 d.C.: incendio di Roma cui segue la prima persecuzione dei cristiani con la MORTE DI PIETRO E DEI PROTOMARTIRI
ROMANI
Un dato straordinario che risulta dai testi antichi è la velocità di diffusione del
cristianesimo primitivo, ben prima della stesura definitiva del Nuovo Testamento. Ne abbiamo testimonianza, ancor
prima del racconto degli Atti degli Apostoli, dalle notizie che gli storici romani ci riferiscono sulla presenza dei
cristiani a Roma sotto l’imperatore Claudio (41-54 d.C.).
Così scrive Svetonio:
“I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli (= Claudio) li
scacciò da Roma (Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit)” (Claudius 25).
Questa breve notizia pone almeno tre problemi: chi era “Cresto”, quale ampiezza ebbe il provvedimento di
Claudio e quando esso fu preso. Gli studiosi moderni sono giunti alla conclusione che, per il fenomeno dello
iotacismo (l’evoluzione fonetica del suono “e” in “i” e viceversa), si tratta realmente
di un riferimento al Cristo (spesso, in testi antichi i cristiani sono detti “crestianoi”). Svetonio, non
bene informato, non è in grado di rendersi conto di chi sia questo “Cresto”, ma ha notizia che, a
causa del suo nome, c’era agitazione nelle sinagoghe romane di quegli anni.
Secondo gli Atti degli Apostoli “l’ordine di Claudio allontanava da Roma tutti i giudei” (At 18,
2). Questa descrizione estensiva (che pure ci conferma il fatto) non appare avvalorata da un secondo scritto latino
che si riferisce allo stesso avvenimento. Così, infatti, Dione Cassio, vissuto a cavallo fra il II ed il III
secolo d.C. scrive:
“Quanto ai giudei, i quali si erano di nuovo moltiplicati in così grande numero che, a motivo della
loro moltitudine, difficilmente si potevano espellere dalla città senza provocare un tumulto, egli (Claudio)
non li scacciò, ma ordinò loro di non tenere riunioni, pur continuando nel loro tradizionale stile di
vita. Egli sciolse anche le associazioni ripristinate da Caligola” (Hist 60, 6, 6).
E’ probabile allora che Claudio avesse scacciato solo i giudei ed i giudeo-cristiani (conosciamo, sempre da At
18, 2, i nomi di Aquila e di sua moglie Priscilla, espulsi da Roma in quella circostanza) coinvolti nel tumulto,
mentre per tutti gli altri avesse solo emanato provvedimenti restrittivi.
Lo storiografo cristiano Paolo Orosio, vissuto nel V secolo d.C., attribuisce questi avvenimenti all’anno 49.
Altri, addirittura, abbassano la datazione al 41 d.C. Certo è che, in un solo decennio, già il
cristianesimo era talmente conosciuto da essere motivo di discussione a Roma, nelle sinagoghe.
Fra i difensori della realtà mondana e la reazione di chi è troppo attaccato
all'esteriorità e al passato, fra il disprezzo della tradizione e la fedeltà esagerata alla lettera non
sembra esistere alcuna possibilità di compromesso; l'opinione pubblica assegna inesorabilmente a ciascuno
il proprio posto, ha bisogno di posizioni chiare e precise e non può accettare sfumature di sorta: chi non
è per il progresso è contro di esso; o si è conservatori oppure progressisti. Grazie a Dio la
realtà è naturalmente diversa: ancor oggi esistono, tranquilli e quasi senza voce, coloro che credono
con tutta semplicità e che anche in questo momento di confusione realizzano la vera missione della Chiesa:
l'adorazione di Dio e la sopportazione della vita quotidiana sulla base della parola del Signore. Costoro
però non quadrano bene nell'ideale di Chiesa che ci si prefigge e si continua perciò a lasciarli in
disparte. La vera Chiesa dunque non è invisibile, ma profondamente nascosta dalle potenti manovre degli
uomini...
Una Chiesa che, contro tutta quanta la propria storia e la propria natura, venga considerata soltanto
politicamente, non ha alcun senso, e la decisione di rimanere in essa, se è puramente politica, non è
leale, anche se si presenta come tale. Però di fronte alla situazione presente come si può
giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: la scelta in favore della Chiesa per avere senso deve
essere spirituale; ma su quali motivi può essa oggi far leva?
Approfondiamo questo pensiero rifacendoci ad un esempio, con il quale i Padri nutrirono la loro meditazione sul
mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna è l'immagine di ciò che la
Chiesa rappresenta per la salvezza nel mondo spirituale.
Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli uomini, questo mondo
che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae la propria fecondità non da se
stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere umano, quale si esprime nella figura della donna, che
concepisce ed è feconda in forza del seme che riceve.
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla Chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto
luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, senza del quale essa
sarebbe completamente buia. La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro. È
tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di
cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per
sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù
Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un'altra terra), è
ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di
Cristo» (Ambrogio, Exameron, IV 8,23).
Tuttavia in questa nostra epoca di viaggi lunari viene spontaneo approfondire questo paragone, che, confrontando la
concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra situazione specifica rispetto alla
realtà della Chiesa. La sonda lunare e l'astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e
desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto,
sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane
anche nell'epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo
ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica ed una simbolico-poetica, una non
elimina l'altra. Ciò non è forse un'immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la
sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell'uomo, la polvere, i deserti e le altezze
della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica. Il
fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del
Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa,
anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa
non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, di avere una luce, che pur non essendo
sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è ‘luna' - mysterium lunae - e come tale interessa i
credenti perché proprio così esige una costante scelta spirituale.
Io sono nella Chiesa perché credo che, oggi come prima ed indipendentemente da noi, dietro alla
«nostra Chiesa» vive la «sua Chiesa» e che io non posso stare vicino a lui se non rimanendo
nella sua Chiesa. Io sono ancora nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che essa non è
assolutamente nostra, ma 'sua'. In termini molto concreti: è la Chiesa che, nonostante tutte le
debolezze umane in essa esistenti, ci dà Gesù Cristo; soltanto per mezzo suo io posso ora riceverlo
come una realtà viva e potente, che mi arricchisce ed insieme mi impone dei doveri. Henri de Lubac ha
espresso così questa verità: «Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la
Chiesa, non sanno che in ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo?... Gesù è per noi
una persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo di sabbia non
sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la sua influenza vitale, l'efficacia del
vangelo e della fede nella sua divina persona?... 'Senza Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi,
scomparire'. E che cosa sarebbe l'umanità se le si togliesse Cristo?». A fondamento di qualsiasi altra
considerazione dobbiamo porre questa verità molto elementare: qualunque sia o sia stato il grado di
infedeltà della Chiesa, per quanto sia vero che essa abbia continuamente bisogno di misurarsi e
confrontarsi con Cristo, fra Gesù e la Chiesa non c'è alcun contrasto decisivo. E' per mezzo della
Chiesa che egli, superando le distanze della storia, ci parla oggi direttamente e rimane in mezzo a noi come nostro
maestro e Signore, come fratello che ci rende fratelli. Donando a noi Cristo Gesù, rendendolo vivo e
presente in mezzo a noi, rigenerandolo continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini, la Chiesa dà
all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che senza di essi il mondo non sarebbe più
concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in mezzo all'umanità, la può trovare soltanto nella
Chiesa, mai contro di essa.
Da tutto ciò segue logicamente l'altro motivo: io sono nella Chiesa per le stesse ragioni per cui sono
cristiano. Non si può credere da soli. La fede è possibile soltanto in comunione con altri
credenti. Per sua stessa natura essa è forza che unisce. Il suo vero modello è la realtà
della Pentecoste, il miracolo di comprensione che si instaura fra uomini di provenienza e di storia diverse.
Questa fede o è ecclesiale o non è alcunché. Inoltre come non si può credere da
soli, ma soltanto in comunione con altri, così non si può aver la fede per propria iniziativa o
invenzione, ma soltanto se c'è qualcuno che mi comunica questa capacità, la quale non è in mio
potere, ma mi precede e mi trascende. Una fede che fosse frutto della mia invenzione sarebbe una contraddizione in
termini, perché mi potrebbe dire e garantire soltanto ciò che io già sono e so, ma non sarebbe
mai in grado di superare i limiti del mio io. Perciò una Chiesa, una comunità che si facesse da
sé, che fosse fondata soltanto sulla propria grazia, sarebbe una contraddizione in termini. La fede esige
una comunità che abbia autorità, che sia superiore a me, e non una mia creazione, lo strumento e la
realizzazione dei miei propri desideri.
Un uomo vede soltanto nella misura con cui ama. Certo c’è anche la chiaroveggenza della negazione e
dell’odio. Essi però possono vedere soltanto ciò che è loro conforme: gli aspetti
negativi. Ma non sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi
non si inoltra almeno per un po' e con sentimenti benevoli sulla via della fede, chi non accetta di fare
un'esperienza personale della Chiesa e non affronta il rischio di guardarla con gli occhi dell'amore, non
scoprirà altro che motivi di stizza e di rabbia. Il rischio dell'amore è condizione preliminare per
giungere alla fede. Chi lo osa, non ha bisogno di nascondersi nessuna delle debolezze della Chiesa, perché
scopre che essa non si riduce soltanto a queste, perché si accorge che accanto alla storia degli scandali
c'è anche quella della fede forte ed intrepida, incarnatasi lungo tutti i secoli in figure meravigliose, come
Agostino, Francesco d'Assisi, il domenicano Las Casas infaticabile apostolo degli Indios, Vincenzo de' Paoli e
Giovanni XXIII. Chi affronta questo rischio dell'amore scopre che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio
di luce tale da non poter essere dimenticato. Anche l'arte, sorta sotto l'impulso e l'ispirazione del suo messaggio e
visibile ancor oggi in opere impareggiabili, diventa per lui una testimonianza di verità: ciò che si
tradusse in espressioni così nobili non può essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi
cattedrali, l'armonia della musica scaturita al calore della fede, la solenne dignità della liturgia
ecclesiastica, la stessa realtà della festa che non si può fare, ma soltanto accettare,
l'organizzazione dell'anno liturgico, nel quale si fondono insieme l'ieri e l'oggi, il tempo e la eternità -
tutte queste cose non sono, a mio avviso, casi fortuiti e insignificanti. Il bello è lo splendore del vero,
ha detto Tomaso d'Aquino, e potremmo aggiungere che l'offesa del bello è l'autoironia del vero perduto. Le
espressioni, nelle quali la fede ha saputo tradursi lungo i secoli della sua storia, sono testimonianza, e conferma
della sua verità.
Una cosa è comunque certa, che l’amore non è né statico, né acritico.
L’unica possibilità che abbiamo di cambiare in senso positivo un altro uomo è proprio quella di
amarlo, trasformandolo lentamente da ciò che è in ciò che può essere. Non diversamente
avviene per la Chiesa. Basta guardare alla storia più recente: durante il rinnovamento liturgico e
teologico della prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma che ha portato a
trasformazioni positive. Ciò fu possibile soltanto perché sorsero uomini, che amarono la Chiesa con
cuore attento e vigilante, con spirito critico, capace di cogliere i segni dei tempi, e che furono disposti a
soffrire personalmente per essa.
(da Joseph Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U.von Balthasar-Joseph Ratzinger, Due
saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972,
pagg.51-71)
Il simbolismo dei Dodici è [...] di decisiva importanza: è il numero dei figli di
Giacobbe, il numero delle tribù d'Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta
come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva
essere espressa con maggiore chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza
fisica, bensì attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui
vengono inviati a trasmetterlo. Qui è già possibile riconoscere anche il tema di unità e
molteplicità, dove nell’indivisibile comunità dei Dodici che solo in quanto tali realizzano il
loro simbolismo - la loro missione - domina certamente il punto di vista del popolo nuovo nella sua unità. Il
gruppo dei settanta o settantadue, di cui parla Luca, integra questo simbolismo: settanta (settantadue) era,
secondo la tradizione giudaica (Gn10; Es1,5; Dt32,8), il numero dei popoli del mondo. Il fatto che l'Antico
Testamento greco, nato in Alessandria, sia stato attribuito a settanta (o settantadue) traduttori doveva significare
che con quel testo in lingua greca il libro sacro di Israele era diventato la Bibbia di tutti i popoli, come in
effetti è poi avvenuto, avendo i cristiani adottato tale traduzione. Il numero di settanta discepoli manifesta
la pretesa di Gesù nei confronti dell'intera umanità, che come tale deve formare la schiera dei
suoi discepoli; essi stanno a indicare che il nuovo Israele abbraccerà tutti i popoli della terra.
La scena della Pentecoste negli Atti degli apostoli presenta l’intreccio di molteplicità ed
unità, insegnandoci a vedere in ciò la peculiarità dello Spirito Santo. Lo spirito del mondo
vuol dire assoggettamento, lo Spirito Santo apertura. Alla Chiesa appartengono le molte lingue, cioè le
molte culture che nella fede si comprendono e si fecondano a vicenda. In questo senso possiamo dire che qui si
delinea il progetto di una Chiesa che vive in molte e multiformi Chiese particolari, ma proprio così è
l’unica Chiesa. Nello stesso tempo con questa raffigurazione Luca vuole affermare che nel momento della
sua nascita la Chiesa era già cattolica, era già Chiesa universale. Sulla base di Luca è dunque
da escludere la concezione secondo la quale per prima sarebbe sorta in Gerusalemme una Chiesa particolare, a partire
dalla quale si sarebbero formate via via altre Chiese particolari, che in seguito si sarebbero gradatamente
associate. E’ avvenuto al contrario, ci dice Luca: per prima è esistita l’unica Chiesa che
parla in tutte le lingue – l’ecclesia universalis, la quale genera poi Chiese nei luoghi
più diversi, che sono tutte e sempre attuazioni della sola e unica Chiesa. La priorità cronologica e
ontologica appartiene alla Chiesa universale; una Chiesa che non fosse cattolica non sarebbe affatto Chiesa.
(da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31)
Subito dopo la prima guerra mondiale Romano Guardini coniò una formula, che divenne
poi rapidamente uno slogan nel cattolicesimo tedesco: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato:
la Chiesa si risveglia nelle anime». Il frutto di questo risveglio è stato il Concilio Vaticano II;
esso ha espresso nei suoi documenti, e reso così patrimonio di tutta la Chiesa, ciò che in quei quattro
decenni pieni di fermento e di speranze - dal 1920 al 1960 - era maturato quanto a conoscenza attraverso la fede.
[...]
Ora diveniva di nuovo chiaro che la Chiesa è qualcosa di più, che noi tutti la portiamo avanti
nella fede in modo vitale, così come essa porta noi. Era divenuto chiaro che essa vive una crescita organica
attraverso i secoli, che continua anche oggi. Era divenuto chiaro che attraverso di essa rimane attuale il
mistero dell'incarnazione: Cristo cammina ancora attraverso i tempi. Sicché, se noi ci chiediamo quali
elementi restano acquisiti da questo primo punto di partenza e quali siano rifluiti nel Vaticano II, possiamo
rispondere così: il primo aspetto è la definizione cristologica del concetto di Chiesa. J.A.
Möhler, il grande rinnovatore della teologia cattolica dopo la desolazione dell’illuminismo, disse una
volta: una certa erronea teologia potrebbe essere caricaturalmente sintetizzata in questa frase: «All'inizio
Cristo ha fondato la gerarchia e con ciò ha provveduto a sufficienza per la Chiesa fino alla fine dei
tempi». Ma a ciò va contrapposto che la Chiesa è Corpo mistico, cioè che Cristo stesso
è il suo fondamento sempre nuovo; che Egli non è mai in essa solo il passato, ma sempre e soprattutto
il presente e il futuro. La Chiesa è la presenza di Cristo: la nostra
contemporaneità con Lui e la Sua contemporaneità con noi. Essa vive di questo: del fatto che Cristo
è presente nei cuori; è di lì che egli forma la Sua Chiesa. Perciò, la prima parola
della Chiesa è Cristo e non se stessa: essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è
rivolta a Lui. Vaticano II ha collocato questa concezione in modo così grandioso al vertice delle sue
considerazioni, che il testo fondamentale sulla Chiesa comincia proprio con le parole: Lumen Gentium cum sit
Christus: poiché Cristo è la luce del mondo, per questo esiste uno specchio della Sua gloria, la
Chiesa, che trasmette il suo splendore. Se uno vuole comprendere rettamente il Vaticano II, deve sempre di nuovo
cominciare da questa frase iniziale [...]
La Chiesa cresce dal di dentro; questo vuol dirci l’espressione “Corpo di Cristo”; tuttavia
ciò implica immediatamente anche questo altro elemento: Cristo si è costruito un Corpo; se voglio
trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io
sono divenuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conseguenza per l’eternità.
L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe interessante, mentre la Chiesa sarebbe una misera
realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza. Cristo si dà solo nel suo Corpo e
mai in un mero ideale. Ciò vuol dire: si dà insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che
attraversa i tempi, la quale è questo Suo Corpo. La Chiesa non è un’idea, ma un Corpo, e lo
scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti contemporanei di Gesù, continua nella scandalosità
della Chiesa; tuttavia anche a questo proposito vale il detto: Beato chi non si scandalizza di me.
Henri de Lubac, in un’opera grandiosa piena di ampia erudizione, ha chiarito che il termine “corpus
mysticum” originariamente contrassegna la SS.Eucarestia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa,
l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è stata inseparabilmente collegata con l’idea
dell’Eucarestia, in cui il Signore è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come
cibo. Ebbe così origine un’ecclesiologia eucaristica, chiamata spesso anche ecclesiologia di
“communio”. Questa ecclesiologia della “communio” è diventata il vero e proprio cuore
della dottrina sulla Chiesa del Vaticano II, l’elemento nuovo e allo stesso tempo del tutto legato alle
origini, che questo Concilio ha voluto donarci.
Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così come la fede deriva
dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro
con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro.
Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo
rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo
può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da
sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa
struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può
restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente
un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucarestia
e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in
quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium
tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona Christi” e
così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente
dall’accogliere il suo Dono. La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla
da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del
suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere
questo difficile termine “comunità conformi al diritto”: Cristo è dovunque intero.
Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi fratelli ortodossi.
Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo
nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo
Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.9-16)
Agostino ha portato avanti il suo confronto con il donatismo. I donatisti avevano i medesimi
sacramenti della Chiesa cattolica, dove dunque si colloca la differenza? Che cosa c’è in essi di
inadeguato? La risposta di Agostino fa riferimento alle origini della divisione e alla forma che ha assunto. In base
a queste considerazioni egli afferma: essi hanno rotto l’amore. Se ne sono andati, perché ponevano la
loro idea di perfezione al di sopra dell’unità. Hanno mantenuto tutto ciò che costituisce
l’apparato organizzativo della Chiesa cattolica, ma hanno rinunciato all’amore, insieme con
l’unità. E, proprio per questo, tutto il resto è vuoto. La parola “caritas”
riceve qui un significato davvero concreto, ecclesiale; nel linguaggio di Agostino si fa spazio una nuova e pregnante
compenetrazione dei termini proprio dal momento che può dire: la Chiesa è
caritas.
Essere cristiani implica l’accettazione dell’intera comunità dei credenti,
l’umiltà dell’amore, il “sostenersi gli uni gli altri”, diversamente manca, appunto,
lo Spirito Santo, che è Colui che unisce. L’affermazione dogmatica “la Chiesa è
Carità” non resta quindi confinata in un ambito puramente dogmatico-accademico, ma rinvia al dinamismo
che edifica l’unità e che si dimostra nel sostenersi vicendevole della Chiesa. In questo senso, per
Agostino lo scisma è un’eresia pneumatologica, che viene a collocarsi nella concretezza di una
situazione esistenziale: uscire dal permanere che è proprio dello Spirito Santo, dalla pazienza della
Carità; rinuncia all’amore rinunciando alla propria permanenza e, così, negazione dello
Spirito Santo, che è la pazienza del rimanere, della riconciliazione.
(da Joseph Ratzinger, Lo Spirito Santo come comunione. Sul rapporto tra pneumatologia e spiritualità in
Sant’Agostino, in La Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pagg.33-58)
Riceviamo una risposta molto pratica alla domanda: che cos'è questo, quest'unica Chiesa
universale che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo vederla
agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il battesimo: esso è un
evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto più che una socializzazione legata alla Chiesa
locale, come oggi è purtroppo così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola
comunità, ma in esso si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e
può scaturire solo da essa, dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre.
A partire di qui la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla communio può dire che
nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. E' sempre l'unica
Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a
Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato
battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e genera a essa. Chi
parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la Chiesa intera è solo
una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa,
e nondimeno è in essa, affidata a essa come soggetto vivo.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia della Costituzione Lumen Gentium, in La Comunione nella Chiesa,
San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pagg.129-161)
Questo “noi” [della Chiesa] non va inteso solo in senso sincronico, ma anche in
senso diacronico. Il che significa che nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Nel corpo di Cristo il
limite della morte non conta più; in lui passato, presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non
rappresenta mai solo se stesso, né ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo
è un inviato, e in quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che
introduce nel messaggio è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente il “noi”
della Chiesa di tutti i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi una maggioranza contro la fede della Chiesa di
altri tempi, non sarebbe affatto maggioranza: nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte
le epoche, e solo se si ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico.
(da Joseph Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una
comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.55-74)
Per altri articoli e studi su Roma presenti su questo sito, vedi la pagina Roma (itinerari artistici, archeologici, di storia della chiesa e di pellegrinaggio) nella sezione Percorsi tematici
[1] In effetti, l’autore di Lc e At utilizza dei termini medici ignoti agli altri sinottici. La tradizione lo vuole anche pittore della Vergine, per la sua straordinaria capacità di descrivere la vita di Maria in Lc1-2.
[2] Troviamo lo stesso atteggiamento espresso a proposito dei carismi in 1 Cor 14, 19: “In assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue”, perché è necessario che se giunge qualcuno dall’esterno non consideri i cristiani come pazzi, ma venga convinto del suo errore e siano manifestati i segreti del suo cuore, in modo che comprenda che veramente Dio è fra voi (cfr. 1 Cor 14, 24-25). È, al contempo, l’atteggiamento dichiarato nel prologo di Lc (Lc 1, 1-4) nel quale si dichiara che il vangelo è scritto “perché tu ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”.