Mettiamo a disposizione la trascrizione del II incontro, dedicato alla Lettera di san Paolo
apostolo ai Romani, del corso di formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma proposto
dall’Ufficio catechistico e Servizio per il catecumenato della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 10/11/2007,
presso la basilica di Santa Maria in Aracoeli al Campidoglio. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce degli
autori e conserva uno stile informale. Sono già on-line le trascrizioni degli incontri precedenti e, appena
possibile, lo saranno anche le successive. Il calendario degli incontri con l’indicazione dei luoghi nei quali
si svolgono è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it.
Per una introduzione agli altri luoghi paolini romani, vedi La
Basilica di San Paolo fuori le mura, capitolo del volume I luoghi
giubilari a Roma, a cura di Andrea Lonardo.
La trascrizione del primo incontro del corso, dedicata alle chiese di Santa Prisca
e Santa Sabina all’Aventino ed agli Atti degli apostoli, con particolare riferimento ad Aquila è
Priscilla è disponibile on-line. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono
on-line nella Gallery Santa Maria in Aracoeli, piazza del Campidoglio e
carcere Mamertino. Per ulteriore materiale, cfr. la mostra L’ignoranza delle Scritture e la pagina tematica Sacra Scrittura in riferimento all’epistolario
paolino.
Il Centro culturale Gli scritti 10/12/2007
Perché questo luogo, Santa Maria in Aracoeli, per presentare la Lettera ai Romani?
L’odierna chiesa sorge nel luogo più sacro dell’antica Roma pagana. È difficile oggi
rendersene conto a motivo degli edifici famosi che sorgono in Campidoglio ed i romani di oggi a volte non conoscono
nemmeno l’antica funzione di questo colle.
Ai tempi di san Paolo gli edifici del Campidoglio erano volti verso i Fori, mentre adesso la piazza è volta
verso il centro-città perché nel Medioevo e nel Rinascimento la città si è chiusa
nell’angolo del Campo Marzio e dei rioni maggiormente protetti da Castel Sant’Angelo. Ai tempi di Paolo
–lo vedremo dalla terrazza panoramica- i templi del Campidoglio avevano, invece, le facciate visibili dai Fori,
perché era nei Fori che si svolgeva la vita cittadina.
Il colle Campidoglio comprende due cime che si chiamano l’Arx, l’Arce -dove siamo noi ora, dove sorge
Santa Maria in Aracoeli- e, dall’altra parte, il Capitolium.
Sulle due sommità c’erano i due grandi templi capitolini. Sul Capitolium c’era il tempio di Giove
Ottimo Massimo, che è l’equivalente latino dello Zeus greco, il dio supremo del pantheon romano (da
Zeus/Giove viene la nostra parola Dio, attraverso il latino Deus) venerato con le sue due donne, la moglie Giunone e
la figlia Minerva che, con lui, formano la triade capitolina.
Deus è la divinità paterna, divinità solare, dio del cielo, dei fulmini e del tuono, Giunone
è divinità lunare, femminile, protettrice dei parti e della fecondità, Minerva è la dea
dell’intelligenza e delle arti. Se visiterete i Musei Capitolini, potrete vedere i resti del maestoso basamento
di questo tempio che sono stati riportati alla luce nei recenti scavi, subito dietro l’esedra sistemata
dall’architetto Aymonino dove è stata collocata la statua equestre di Marco Aurelio.
Sull’Arx, cioè proprio dove ora è la chiesa dell’Aracoeli, era l’altro grande
tempio, quello dedicato a Giunone Moneta, cioè a Giunone venerata come l’ammonitrice, la consigliera.
Siccome vicino a questo tempio sorgeva la zecca romana ne è derivata la nostra parola moneta ad
indicare il denaro, dall’attributo di Moneta dato a Giunone.
Qualsiasi corteo trionfale giungesse a Roma, dopo aver percorso la Via Sacra, dopo aver attraversato i Fori, saliva
qui in Campidoglio per rendere onore alla triade capitolina. Noi vediamo oggi la Via Sacra con gli archi trionfali
che sono stati via via aggiunti, fino a Costantino (alcuni sono scomparsi e ne abbiamo solo dei bassorilievi
superstiti nei musei). In ordine, avvicinandoci dal Colsseo al Campidoglio, abbiamo oggi l’arco di Costantino,
poi quello di Tito, poi quello di Settimio Severo. Dopo esser passati sotto gli archi trionfali, i cortei imperiali
salivano al Campidoglio. I prigionieri che erano condotti al seguito del corteo venivano lasciati al carcere
Mamertino, dove qualcuno veniva decapitato. Siamo certi che Giulio Cesare ha fatto questo percorso con Vercingetorige
in catene. Così Tito, dopo aver domato la rivolta ebraica ed aver distrutto il Tempio di Gerusalemme nel 70
d.C., è salito qui con Simone di Giora difensore di Gerusalemme incatenato, portando nel suo trionfo gli
oggetti derubati al Tempio -possiamo vedere ancora il candelabro a sette braccia scolpito sotto l’arco a lui
dedicato.
Il primo che si rifiuterà di salire qui, dopo la sua vittoria, sarà Costantino, sebbene non fosse
ancora diventato cristiano. È un fatto che viene di rado sottolineato, ma che è storicamente certo e
molto importante: egli andò direttamente al palazzo, al Palatino, rifiutandosi di venerare gli dei della
triade capitolina.
La presentazione della Lettera ai Romani nella basilica dell'Aracoeli |
Ancora nel Medioevo e nel Rinascimento l’Aracoeli, che prende il posto, come vedremo, dei
templi pagani, è il luogo più alto; chi giungeva da piazza del Popolo lo vedeva davanti a sé.
Ora non è più così perché Vittorio Emanuele II, con tutta la retorica del Risorgimento,
ha voluto nascondere la chiesa ed il Campidoglio con il suo Vittoriano, che è ora molto più alto degli
edifici precedenti –questa evidenza architettonica vi può dare l’idea del clima culturale che era
sotteso allora all’unità d’Italia.
Ma se uno fosse entrato in Roma prima del 1870 avrebbe visto il fondo a via del Corso, proprio la chiesa
dell’Aracoeli, perché al tempio di Giunone Moneta si sostituì questa chiesa.
San Paolo, dunque, ha abitato per un lungo periodo a Roma, forse tra i 3 ed i 5 anni. È difficile stabilirlo
con sicurezza perché non sappiamo se sono state una o due le permanenze di Paolo a Roma ed, eventualmente,
cosa abbia fatto nel periodo intermedio. Compagno di Paolo, almeno in una gran parte di questa sua presenza a Roma,
è stato san Luca, poiché quest’ultimo è giunto a Roma con l’apostolo ed è
rimasto con lui per aiutarlo, come si è visto nel precedente incontro, secondo il racconto delle
sezioni-noi degli Atti, quando i verbi passano alla prima persona plurale, segno che l’autore degli Atti
era con Paolo: “Noi arrivammo a Roma”. Paolo arriva a Roma dopo aver percorso nei suoi viaggi apostolici
circa 16.500 chilometri (a piedi, in barca a vela ecc.).
Possiamo immaginare quello che avrà provato dinanzi a questi due templi di Giove e di Giunone Moneta leggendo
quello che succede all’Areopago di Atene, come ci raccontano gli Atti 17,16:
Mentre Paolo [...] attendeva ad Atene, fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli.
L’Acropoli di Atene aveva la stessa funzione cultuale e simbolica del Campidoglio in Roma. Dalla Stoà,
la zona porticata sottostante, e dall’Areopago, il tribunale di Ares, Paolo vedeva in alto il Partenone, il
tempio di Atene Parthènos, cioè vergine, e gli altri templi dell’Acropoli. E fremeva! Noi vediamo
oggi la bellezza artistica di quei luoghi e –credo- anche Paolo ne era consapevole. Dice, infatti: “Dio
non dimora in templi costruiti dalle mani degli uomini” (At 17,24). Sta parlando del Partenone!
Egli fremeva perché si rendeva conto che quel modo di venerare gli dei non corrispondeva alla bellezza di
Dio. Il suo fremere era proprio questo desiderio della verità, che lo portava a dire: Dio è più
vero, più buono, più bello di come lo rappresentate, non è la statua di Zeus, o di Giove,
Giunone e Minerva: Dio è come Gesù ce lo ha rivelato. E come all’Areopago ad Atene, anche qui
avrà cominciato a discutere con i pagani, con i romani, spiegando perché Dio si è rivelato in
Gesù, si è manifestato in lui ed in lui ci ha salvato.
Immaginate allora che san Paolo sia salito qui in alto, sul Campidoglio, sia venuto qui a visitare i templi
capitolini –io sono sicuro che l’avrà fatto- oppure che li abbia guardati dal basso, dai Fori o
dalla parte retrostante, dove oggi sorgono le due scalinate verso piazza Venezia. La tradizione ha situato nella zona
dell’odierna chiesa di San Paolo alla Regola, vicino al Lungotevere, vicino via Giulia, il luogo dove per un
certo periodo Paolo sarebbe stato agli arresti domiciliari (l’espressione “alla regola” viene fatta
derivare proprio da questa sua condizione, anche se la finale degli Atti 28, 30 ci parla di una “casa presa a
pigione” da Paolo; regola potrebbe però anche derivare dall’arenile del fiume); secondo
questa tradizione Paolo, per usare una terminologia moderna, avrebbe dovuto presentarsi ad intervalli regolari alle
autorità per dimostrare che non si era allontanato da Roma. Certamente Paolo ha, comunque, potuto spostarsi in
città nel lungo periodo in cui vi ha soggiornato.
Con la lettera di Paolo ai Romani, lettera che precede i fatti che abbiamo immaginato, siamo al secondo documento
storico certo che possediamo sulla storia dei cristiani a Roma.
Abbiamo già visto nell’incontro precedente a Santa Prisca che la prima notizia certa sui cristiani a
Roma ci riporta al 49 d.C., quando l’imperatore Claudio caccia i giudei da Roma, probabilmente solo una parte
di loro. Ricordate il testo latino che abbiamo analizzato dove si dice: «Judaeos impulsore Chresto assidue
tumultuantes Roma expulsit». C’era un certo Cresto che agitava le acque, che faceva sì che gli
ebrei della capitale tumultuassero, fossero in tensione ed in lite. Probabilmente lo storico Svetonio che ci riporta
il passo nella sua vita di Claudio (Claudius 25) non si era reso conto che si trattava di Cristo. Per il
fenomeno dello iotacismo –l’interscambio dei suoni i ed e- Cresto equivale a Cristo e
Cresto non era un ebreo di Roma, ma era Gesù il Cristo del cui nome si discuteva nella comunità ebraica
di Roma in maniera così accesa già nel 49 d.C. che il tumulto giunse all’attenzione
dell’imperatore. Abbiamo visto come questa notizia si accordi con le notizie su Aquila e Priscilla forniteci
dagli Atti: erano due coniugi di Roma ed insieme a tanti altri ebrei ed ebrei diventati cristiani erano stati
allontanati da Roma sotto Claudio (At 18, 2), motivo per cui Paolo incontra poi i due a Corinto.
Il secondo documento certo in ordine cronologico che riguarda il cristianesimo a Roma è il testo che
cerchiamo di conoscere in questo secondo incontro, la Lettera ai Romani. Noi non possiamo sapere, allo stato
attuale delle fonti, come sia arrivato il Cristianesimo a Roma prima di Aquila e Priscilla. Non c’erano stati
ancora Pietro e Paolo e con tutta probabilità il cristianesimo arrivò qui grazie a mercanti,
viaggiatori, politici che si erano convertiti in Giudea e avevano poi portato la fede a Roma. Come se un odierno
commerciante o uomo d’affari si spostasse e, parlando di Gesù nei luoghi nei quali si trova a lavorare
temporaneamente, facesse nascere la fede in nuovi cristiani. Roma è diventata cristiana così, solo dopo
sono arrivati i due apostoli per confermare questa fede.
Paolo scrive la Lettera ai Romani tra il 56 ed il 57 ca. –sono cioè passati 7-8 anni dalla
nostra prima fonte sui cristiani a Roma sotto Claudio. Siamo già durante l’impero di Nerone, quinto
imperatore della dinastia giulio-claudia. Paolo scrive questa lettera per preparare il suo viaggio. Non è
ancora venuto a Roma però conosce già moltissimi cristiani romani. Vuole passare a Roma, forse per
andare in Spagna. Nella lettera dice che vorrebbe condividere con i Romani il dono del vangelo e poi andare in
Spagna, annunziare anche lì il vangelo e tornare. Non sappiamo se sia mai andato in Spagna. Riuscirà
invece a venire a Roma, ma proprio qui sarà ucciso.
La terza notizia sicura in ordine cronologico sui cristiani a Roma sarà la venuta di Paolo nella capitale che
è descritta alla fine degli Atti degli Apostoli (At 28); gli esegeti la situano a distanza di almeno un anno
dall’invio della lettera. Paolo, insomma, scrive la sua lettera alla comunità cristiana di Roma e dopo
un certo periodo vi arriva di persona. L’ultimo incontro di questo primo anno del nostro corso sulla storia
della chiesa di Roma lo faremo a maggio, percorrendo alcuni chilometri a piedi lungo l’Appia, dove
c’è ancora l’antico basolato romano, per camminare sulle pietre su cui l’apostolo ha
camminato per arrivare a Roma.
La Lettera ai Romani è probabilmente l’ultima lettera autentica di Paolo. Siamo nel 56-57 ca.,
Paolo dovrebbe avere almeno 50 anni –se la sua nascita viene situata nel 7 d.C., come ci suggerisce il prossimo
anno paolino, ma questa data non è sicura- e si prepara a fare questo grande viaggio missionario. È la
lettera più lunga del suo epistolario (oltre ad essere la più lunga lettera dell’antichità
classica) ed è per questo che viene posta per prima nell’epistolario paolino; viene posta per prima
anche perché è dedicata alla chiesa di Roma che era evidentemente considerata la più importante,
la chiesa di riferimento per la fede di tutti.
Il cristianesimo ha inventato il genere letterario vangelo (non esiste questo genere prima del vangelo di
Marco), perché i cristiani si sono resi conto che dovevano raccontare la storia di Gesù. Siccome la
fede cristiana consiste nella persona di Gesù bisogna raccontare la sua vita, tutto ciò che ha detto e
ha fatto. Ma i cristiani –questo è meno noto- hanno inventano anche il genere epistolare, attraverso san
Paolo. Le lettere precedenti erano o delle lettere amministrative, contabili, oppure erano brevi lettere personali,
oppure ancora erano delle finte lettere, per esempio l’epistolario di Seneca, cioè in realtà dei
trattati filosofici composti da lettere successive invece che da capitoli di modo che l’autore presentava la
sua trattazione come se avesse scritto delle lettere successive l’una all’altra, ma in realtà
questi epistolari filosofici nono sono mai stati spediti, sono solo delle finzioni letterarie.
San Paolo fonda questo genere letterario scrivendo delle lettere realmente inviate a delle reali comunità che
le dovevano poi leggere. La lettera nasce così dalla necessità e dal desiderio di comunicare ciò
in cui si crede, come in un’odierna enciclica, in relazione a ciò che i destinatari vivono, pensando
alla loro fede, a chi si ha dinanzi. Queste lettere sono scritte per essere poi lette nelle assemblee comunitarie,
cioè nella liturgia.
Immaginate allora che qui a Roma, non sappiamo precisamente dove, in case come in quella di Aquila e Priscilla che
accoglievano i cristiani, viene recapitata la lettera di Paolo ai Romani tramite dei cristiani a cui era stata
affidata; viene letta e viene poi trasmessa per essere letta in tutte le diverse case di riunione dei cristiani di
Roma, passando di mano in mano. Possiamo immaginare uno di questi cristiani che si pone in un luogo un po’
più elevato e la legge ad alta voce a tutti, perché tutti la possano ascoltare –a quei tempi
scrivere era estremamente costoso e non era possibile distribuire a tutti fisicamente la lettera ed essa veniva
proclamata ad alta voce e tutti ascoltavano di seguito questi 16 capitoli della lettera quando veniva letta.
La Lettera ai Romani può essere divisa nell’introduzione (Rm 1,1-15), nella prima parte dottrinale (Rm
1,16-11,36), nella seconda parte parenetica (Rm 12,1-15,13) ed, infine, nella conclusione (Rm 15,14-16,27)
Nella parte dottrinale Paolo parte dalla considerazione che l’uomo è un mistero, che l’uomo non
basta a se stesso, perché pur essendo unico fra tutte le creature non riesce a vincere il male che porta in
sé. L’uomo non riesce, cioè, a capire ed a salvare se stesso. Se l’uomo guarda veramente,
non con superficialità, alla propria vita -dice Paolo,- comprende di essere un mistero a se stesso (la parola
mistero è applicata precisamente all’uomo, nella lettera, quando si parla del mistero
dell’indurimento di Israele dinanzi al Cristo, in Rm 11,25).
Paolo è consapevole che nell’uomo esiste qualcosa di ineffabilmente grande, innanzitutto il fatto che
l’uomo possa conoscere Dio.
In Rm 1,19-20 leggiamo, infatti:
Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro
manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con
l'intelletto nelle opere da lui compiute
Paolo afferma così che una persona che contempla le meraviglie dell’alternarsi dei tempi e delle
stagioni, l’armonia del cosmo, il sole e gli astri, il ripetersi continuo delle orbite celesti, può
rendersi conto che questa realtà che vede è segno del suo creatore. Se ciò che vedo è
bello, vuol dire che Dio è ancora più bello, se questa realtà mi nutre, vuol dire che Dio
è ancora di più il mio nutrimento.
L’uomo, dice Paolo, ha questa capacità di riconoscere Dio, non l’ha perduta con il peccato. Ogni
uomo, di qualsiasi parte della terra, ha questa capacità di percepire Dio.
Rm 2,14-15 ci fa fare un passo ulteriore:
Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono
legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla
testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono.
Non solo l’uomo si rende conto che non può esistere solo la materia, ma che c’è Dio che
è all’origine di questa realtà, ma l’uomo, guardando dentro se stesso, può arrivare
a dire: “So che esiste il bene ed il bene io lo debbo compiere”. È la grande affermazione del
valore della nostra coscienza, voce di Dio in noi. Nel linguaggio moderno la coscienza viene talvolta invocata come
scusa per non fare qualcosa. Siamo abituati a sentire persone che affermano che dobbiamo rispettare la loro
coscienza, perché non gli va di fare qualcosa.
Ma nella tradizione morale, filosofica, la coscienza è l’esatto contrario, è l’obbligo
della responsabilità. La coscienza è quella voce intima che ti dice che tu non puoi disinteressarti
degli altri: se abbiamo del denaro, delle capacità, del tempo, dobbiamo metterlo a disposizione.
La coscienza è qualcosa che richiama alla responsabilità, all’amore, al rapporto. Paolo dice che
la coscienza parla dentro ogni uomo; anche i pagani che non conoscono la rivelazione di Dio ad Israele, i pagani che
non conoscono il vero Dio, hanno però dentro di loro una voce che li richiama e, se stanno facendo il male,
impone loro di fare il bene. Una voce che dice che diventerai bello se farai il bene! Infatti, la coscienza non
è, in realtà, come un grillo parlante noioso che ti fa la predica per distruggere la tua gioia, ma
è quella voce che ti dice che solamente il bene merita di essere seguito e che lo merita anche se costa
fatica.
Ad Atene, nel brano che già abbiamo citato, Paolo discute con gli epicurei e con gli stoici, nella
Stoà di Atene. Pensate che anche Epicuro, il filosofo del piacere, diceva che nessuno può essere felice
se non è anche buono. Epicuro contraddiceva quelli che gli attribuivano l’idea di un piacere fatto tutto
di cibi, bevande, sesso e divertimenti. Epicuro affermava, invece, che può essere felice solo una persona che
sa di condurre una vita bella, una vita buona e virtuosa, una vita con un senso del bene morale. Chi ha una vita
senza significato, senza capacità di donare, in realtà non è felice. Questo deve essere evidente
per tutti noi: una persona che cercasse solo piaceri materiali si illuderebbe, avrebbe l’impressione di
divertirsi ma non avrebbe nel cuore la gioia.
La coscienza in questo caso ti dice che non sei felice perché la tua vita non significa niente. La coscienza
di ciò che è bene e di ciò che è male è presente in ogni uomo, afferma la
Lettera ai Romani.
Ma subito Paolo aggiunge l’altro aspetto, anch’esso appartenente al mistero dell’uomo, di ogni
uomo:
Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Rom 3,23).
Per Paolo è evidente, a fianco della grandezza dell’uomo, l’esistenza delle sue ombre.
Nell’uomo, in ogni uomo, egli percepisce la schiavitù del peccato. Nel descrivere la situazione
dell’uomo, Paolo accoglie la divisione ebraica dell’umanità nei due grandi gruppi dei pagani e
degli ebrei. Abbiamo già visto nel mosaico di Santa Sabina, la scorsa volta, l’immagine delle due donne,
l’ecclesia ex circumcisione (la chiesa che proviene dalla circoncisione) e l’ecclesia ex
gentibus (la chiesa che proviene dalle genti) che rappresentano la totalità della chiesa e
dell’umanità.
Paolo, descrivendo la vita degli ebrei e dei gentili –ricordiamo che per gentili si intendono le genti,
cioè i popoli pagani, i popoli non appartenenti all’ebraismo- mostra che in realtà tutti hanno
coscienza di non riuscire a vivere secondo il bene. Ogni uomo ha dentro di sé il desiderio di essere buono, di
essere felice, ma non la capacità di riuscire in questo.
È il mistero dell’uomo: perché l’uomo vuole essere buono, se poi non riesce ad esserlo?
Pensate a una delle frasi più importanti e famose di questa lettera di Paolo ai Romani:
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che
detesto... io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rom 7,15-25).
Perché io faccio il male? Perché l’uomo fa il male? Mi raccontavano in questi giorni di una
catechesi di un sacerdote che spiegava quanto fosse banale l’affermazione che spesso sentiamo dire:
“Perché mi devo confessare? Che ho fatto di male? Non faccio nulla!”. Questo sacerdote domandava:
“Chi sarebbe disposto a proiettare come in un film le cose che ha pensato nel corso dell’ultima settimana
e a farle vedere a tutti? Chi accetterebbe che tutti sappiano i pensieri avuti nei confronti degli altri, delle cose,
nell’ultima settimana? Vi rendete conto che sarebbe un film vietato ai minori di diciotto anni? Non possiamo
far vedere tutto quello che abbiamo dentro di noi perché non sarebbe una cosa educativa!”.
Noi sappiamo che dentro di noi oltre al bene abita anche il male. E, domanda Paolo:
Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? (Rm7,24)
Chi ci libererà da questo corpo che non riesce a fare il bene in pienezza? E’ il mistero della vita
umana. Pensate a quanto è diversa questa prospettiva cristiana da ciò che diceva Socrate, il quale
affermava che se l’uomo non compie il bene è solamente perché ancora non lo conosce. Basta
farglielo conoscere e l’uomo agirà bene. Paolo invece dice: “No! L’uomo sa benissimo
cos’è il bene, ma fa il male lo stesso”.
La persona a volte sa benissimo che quella scelta non è per il proprio bene né per il bene
dell’altro, ma lo stesso la compie. Perché? La lettera ai Romani si interroga su questo mistero. Nelle
pagine che vi ho fatto distribuire potete leggere una piccola antologia di testi moderni, di autori come Chesterton,
Soloviev, insieme a brani tratti da discorsi o libri di Benedetto XVI, sul tema del peccato originale che troviamo
enunciato nella lettera ai Romani al capitolo 5.
Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche
la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato [...] Ma il dono di grazia non è
come la caduta: se, infatti, per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono
concesso in grazia di uno solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini (Rm
5,12-15).
Paolo ci mostra qui il significato profondo del testo di Genesi sul peccato originale. La sua esegesi, che fa testo
per la fede cristiana, non è una sua elaborazione personale, ma è, piuttosto, l’altra faccia
dell’affermazione che solo Cristo ha salvato tutti. Se Cristo ha salvato tutti vuol dire che tutti avevano
bisogno di essere salvati. Non c’è uomo che non abbia bisogno dell’amore di Cristo per vivere una
vita nuova ed essere salvato. L’uomo non riesce ad essere buono non perché non sa cosa sia il bene, ma
perché gli manca la grazia di Cristo, l’amore di Cristo che solo può dargli la forza, che solo
può dire: “Sono io che ti amo e ti sostengo. È perché io sono morto per te, che tu puoi, a
tua volta, amare”.
C’è un brano molto bello di G.K.Chesterton, questo autore inglese convertito al cattolicesimo, che
dice, in merito alla serietà, all’evidenza -potremmo dire- della dottrina del peccato originale:
Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa
effettivamente essere dimostrata. Alcuni [...], nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì
che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il
peccato dell'uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi
scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero
(come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo
della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l'esistenza di Dio, ed è
ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno
tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare
il gatto (da Ortodossia di G.K.Chesterton).
Pensate ancora a Soloviev, questo grande autore che scrisse ai tempi della rivoluzione comunista, ai primi del 900,
ai tempi di Lenin. Egli ebbe il sentore che il comunismo era estremamente pericoloso dal fatto che esso pensava di
rendere l’uomo buono attraverso l’economia e la politica. Cambiando la società l’uomo
diventerà buono: così affermavano le dottrine marxiste. Soloviev dice che questo, invece, è
chiaramente falso. Nessuna politica può rendere buono l’uomo e dissolvere il mistero della vita umana.
L’uomo diventa buono solo se si converte a Dio, non grazie ad un cambiamento delle strutture. L’uomo
diventa buono perché riceve la grazia e questa lo cambia.
E' forse il male soltanto un difetto di natura, un'imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del
bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta
vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?
(dalla Prefazione di Vladimir Soloviev a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo)
Come può l’uomo vincere il male? Lui, da cristiano ortodosso, era convinto che servisse puntare gli
occhi in Dio, guardare in Lui per vincere. E si accorgeva che il comunismo era una grande menzogna, perché non
parlava della necessità per l’uomo di trovare Dio, e sarebbe stato perciò una immane disgrazia,
perché si proponeva di risolvere il problema del male con le sole forze umane. Capiva che ne sarebbe derivata
una immane oppressione dell’essere umano, perché non veniva preso sul serio, nella dottrina comunista,
il peccato originale.
Ma Paolo, nella lettera inviata ai Romani, non si limita a descrivere il mistero dell’uomo, il mistero di
quell’unico essere capace di scorgere il bene, ma incapace di realizzarlo pienamente. L’apostolo giunge,
infatti, ad illuminare questo mistero a partire da una seconda realtà, un secondo mistero, quello della grazia
divina.
La lettera si conclude proprio con un inno che tratta di questo mistero:
A colui che ha il potere di confermarvi
secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni,
ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche,
per ordine dell'eterno Dio, a tutte le genti
perché obbediscano alla fede,
a Dio che solo è sapiente,
per mezzo di Gesù Cristo,
la gloria nei secoli dei secoli. Amen (Rm 16,25-27).
La lettera si conclude con questa lode di Dio. E questa conclusione è una lode perché Dio ha rivelato
ora, in Gesù, il mistero annunziato dalle Scritture, ma taciuto per secoli eterni, nascosto fino alla venuta
del Cristo. Non solo Dio è un mistero, ma egli è mistero più grande dell’uomo. Non un
mistero nel senso moderno, per cui la persona che non conosce la fede ed usa un linguaggio comune dice mistero
per intendere qualcosa che non si capisce, che è incomprensibile, che non si può spiegare.
Nella fede cristiana, nel linguaggio paolino, mistero è qualcosa che l’uomo non ha mai potuto
raggiungere, non ha mai potuto conoscere con le proprie forze, perché solo Dio poteva farsi conoscere
dall’uomo. Se già l’uomo è mistero a se stesso, ancora di più lo è Dio:
“Dio nessuno lo ha mai visto”, dice il Prologo di Giovanni, ma subito aggiunge: “Il Figlio ce lo ha
rivelato” (Gv 1, 18).
Anche per la fede cristiana Dio è inarrivabile dall’uomo. Se l’uomo potesse giungere a Lui,
vorrebbe dire che Dio non è Dio. Si comprehendis, Deus non est, diceva Tertulliano –“Se tu
lo comprendi, vuol dire che non è Dio”. Ma... c’è un ma cristiano: a meno che non
sia Dio stesso a rivelarsi! Dio è mistero perché la Sua bontà, la Sua verità, la Sua
misericordia può essere solo Lui a rivelarla, a farla conoscere. È per questo che Paolo annunzia il
vangelo, proprio per annunciare il mistero che era stato fino a quel momento nascosto.
Proviamo ad utilizzare una immagine umana per avvicinarci a comprendere tutto questo. Quando noi diciamo che una
persona è un mistero, possiamo voler dire due cose opposte. Una persona può essere un mistero
perché non si capisce cosa pensa, perché è disordinata, perché non sa neanche lei cosa
vuole dalla vita. In questo caso è misteriosa perché realmente incomprensibile, dato che non
c’è nulla da capire.
Ma la persona può essere un mistero perché, pur sapendo benissimo chi è, non ha alcuna
intenzione di dirtelo. Pensate quando una madre cerca di conoscere suo figlio adolescente e gli chiede continuamente
come mai è triste o allegro, perché improvvisamente si veste in modo elegante e si comincia a
profumare. Il ragazzo risponde a monosillabi, a frasi fatte: “Sì, no, va tutto bene, tutto normale,
niente di nuovo, ecc.”. E questo perché non basta fare domande per capire cosa pensa veramente: se lui
non decide di raccontarti chi è e cosa vuole, tu non puoi capirlo davvero, non puoi conoscerlo.
Questo è vero per gli uomini, è massimamente vero riguardo a Dio. Solamente Dio può rivelarci
la Sua vera vita e farsi conoscere veramente. È come se la porta del mistero di Dio avesse una chiave che si
apre solo dall’interno. Noi dinanzi all’ebraismo, all’islam -religioni che affermano che Dio
è inconoscibile perché trascendente, perché troppo grande- rispondiamo che hanno ragione, che
Dio nessuno può conoscerlo, a meno che... a meno che Lui -questa è la grande affermazione cristiana-
non si faccia conoscere. A meno che Lui non discenda. Noi cristiani annunciamo che Dio è il più grande
perché, pur essendo inconoscibile, accetta di diventare conoscibile, di donarsi.
Paolo afferma appunto nella lettera ai Romani che prima della morte e della resurrezione di Cristo nessuno conosceva
questa misericordia divina, questa vita trinitaria di Dio; quando Gesù è stato mandato dal Padre in
mezzo a noi, noi abbiamo compreso ed abbiamo accolto in Lui l’amore di Dio.
Rm 5,5-8 dice:
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento
si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una
persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo
è morto per noi.
Questa è la rivelazione di Dio, il Dio che vince il male. Pensate a Giovanni Paolo II che parlava del mistero
dell’iniquità, il mistero del male, ed affermava che esso ha un unico argine, la misericordia di Dio.
Dio si relaziona al male mettendo sul piatto della bilancia la sua misericordia. Nella breve antologia che vi
è stata consegnata trovate un testo del prof.Romano Penna che analizza tutte le ricorrenze del termine
mistero nell’epistolario paolino. Il mistero ora ci è stato rivelato, il mistero
è Cristo stesso. In Lui tutta la creazione, tutta la storia ha un senso. Senza di Lui niente avrebbe
significato. In questo mistero anche noi siamo compresi, perché il mistero è Cristo con la sua
chiesa, il capo con il suo corpo.
Il termine mistero è stato ripreso anche dal Concilio Vaticano II. È famosa è bellissima
l’espressione della Gaudium et spes che mette in relazione il mistero dell’uomo a quello di Dio,
esattamente come fa la Lettera ai Romani. Al capitolo 22 la Gaudium et spes dice infatti:
In realtà, solamente alla luce del Verbo incarnato, trova piena luce il mistero dell'uomo.
A quei tempi Giovanni Paolo II era ancora arcivescovo e fu lui a suggerire questa straordinaria formulazione della
Gaudium et spes. Il mistero dell’uomo si rischiara solo se illuminato dal mistero di Cristo.
L’uomo, diviso fra senso dell’assoluto e realtà del peccato, percepisce una lotta che si compie
dentro di lui. La grazia di Cristo riempie di luce questo mistero, chiamando per nome la forza del male come
inimicizia verso Dio stesso, ma, insieme, offrendo la misericordia di Dio come la possibilità reale di
sfuggire al vicolo cieco nel quale l’uomo si è posto.
La presentazione della Lettera ai Romani nella basilica dell'Aracoeli |
La Lettera ai Romani insiste su questa rivelazione di Dio che è definitiva. Dio non
solo si fa conoscere, ma ci salva in maniera irrevocabile. Il dono di amore che si riversa su di noi attraverso
l’amore di Cristo crocifisso è misericordia così grande che vince ogni male, ogni peccato. Paolo
indica tutto questo nel famoso inno che conclude la sezione dottrinale della lettera, prima dei capitoli 9-11 che
trattano della grande questione della non accoglienza di Cristo da parte di Israele:
Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha
risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? (Rom
8,31-32)
Paolo capisce che in Gesù Dio ha dato veramente tutto se stesso, che non è possibile dono più
grande ed allora annuncia che qualsiasi altra cosa ci sarà donata. Siccome Cristo è veramente il Figlio
che ci è donato, poiché niente è più grande di Lui, allora tutto ciò che è
meno di Lui, Dio ce lo donerà.
Un ultimo punto su cui mi vorrei soffermare in questa rapida presentazione della Lettera ai Romani –e che
può essere interessante per riflettere sul mistero- è la visione della politica, dello stato, della
società, che deriva da questa centralità di Cristo.
Paolo scrive in Rom 13,1-2, nella parte parenetica:
Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da
Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine
stabilito da Dio.
Fate bene attenzione: Paolo non vuol dire che l’imperatore viene da Dio, nel senso che qualunque cosa lui
comandi, quello è volontà di Dio. Paolo vuole dire piuttosto che è volontà di Dio che ci
sia un’autorità. Gesù, dicendo “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che
è di Dio”, ha da un lato dichiarato che lo Stato è necessario alla vita civile. Proprio
perché l’uomo in terra non è mai totalmente buono senza la grazia, proprio per questo lo Stato
è necessario.
Il cristianesimo è allergico all’utopia. L’utopia non si realizzerà mai, perché
ogni generazione ha il male nel cuore. Ogni struttura sociale, economica, mass-mediale che promette di renderti buono
ti sta ingannando, questo dice il cristianesimo. Lo Stato è necessario perché l’uomo è
buono, ma al contempo non lo è totalmente: per questo serve la legge, serve l’autorità,
l’educazione, la polizia, la magistratura.
Ma, d’altro lato, questa concreta organizzazione politica che è lo Stato con tutte le sue leggi il
cristiano, pur riconoscendola come voluta da Dio, la demitizza proprio perché non ha in sé la
possibilità di salvare ed è anch’essa sottomessa alla possibilità dell’errore e del
peccato. Anche l’autorità deve guardare a Dio che è il bene. L’autorità non deve
ritenersi divina ed occupare il posto di Dio, ma deve sempre rinviare a Lui, pena lo snaturamento del ruolo della
compagine statale.
Quindi l’atteggiamento di Paolo verso l’impero romano -ma è il costante atteggiamento cristiano
verso lo Stato, la politica ed il diritto- è di accettazione, di riconoscimento ma insieme di critica se lo
Stato dovesse ergersi a dio, non riconoscendo più che non è lui stesso a fondare il bene. Compito della
politica è riconoscere e servire il bene, quel bene che la precede e che non ha origine da lei.
Nell’antologia che avete, potete leggere alcuni testi nei quali l’allora cardinal Ratzinger parla della
politica e rilegge i testi della lettera ai Romani mostrandone il valore di testimonianza chiave
nell’ermeneutica del rapporto tra la fede cristiana e la realtà politica.
Concludo richiamando alla vostra immaginazione l’ambientazione nella quale questa lettera fu accolta ed
ascoltata qui a Roma, in preparazione alla venuta di Paolo nell’urbe. Nella passeggiata che fra poco faremo
fino alla terrazza del Campidoglio sui Fori immaginate il desiderio di Paolo di venire a visitare questi luoghi per
annunziare ai pagani ed agli ebrei di Roma che il mistero di Dio è rivelato da Gesù e non dalle
divinità pagane venerate nei templi del Capitolium. Immaginate così questi cristiani che nelle diverse
domus ecclesiae sparse per la città si incontrarono nell’anno 56 o 57 d.C. per ascoltare la
proclamazione della lettera di Paolo appena arrivata e, avendola ascoltata, celebrarono l’eucaristia. Lessero
questo testo, lo commentarono, ne discussero, proprio come stiamo facendo oggi. Immaginate, infine, Paolo che insieme
a Luca sale a questi luoghi, dopo averli visti dai Fori, negli anni della sua permanenza a Roma.
Veniamo ora alla visita della basilica. Siamo, quindi, sul luogo nel quale sorgeva il tempio di
Giunone Moneta, di Giunone ammonitrice e consigliera –abbiamo già parlato all’inizio di questo
incontro di come si presentava questo luogo ai tempi di san Paolo, in epoca romana.
Il tempio era rivolto verso i Fori Romani, perché da lì vi si saliva e gli studiosi ritengono che le
sue fondazioni possano essere sotto l’attuale transetto con l’aula della divinità dove è
ora il tempietto di Sant’Elena e la facciata nella parte opposta dell’attuale transetto
Avvicinandoci al transetto sinistro giungiamo, allora, al luogo dove era il luogo più sacro dell’antico
tempio, dove sorge questa costruzione detta Cappella di Sant’Elena, perché conserva le reliquie della
madre dell’imperatore Costantino, Elena appunto, che fece costruire insieme al figlio le grandi basiliche di
San Pietro, San Giovanni in Laterano, San Paolo e la Basilica dell’Anastasis, ora Santo Sepolcro, a
Gerusalemme.
Il tempietto si presenta ora come fu ricostruito nel 1833, dopo che l’esercito rivoluzionario francese lo
aveva distrutto nel 1799. I nostri libri di storia glissano su questi eventi, per non far sorgere dubbi sulla
bontà della rivoluzione francese. Man mano che l’esercito francese avanzava, i luoghi di culto venivano
sistematicamente devastati e trasformati ideologicamente in accampamenti militari. L’Aracoeli fu trasformata in
stalla e qui furono alloggiati in quegli anni i cavalli (solo per fare il nome di un altro edificio famoso che
subì la stessa sorte, pensate al refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, il refettorio nel quale
è dipinto il famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci, che fu anch’esso trasformato in stalla
dall’esercito rivoluzionario[1], con buona pace
di Dan Brown che, nella sua ignoranza, cerca invece di presentarlo come un luogo anti-cattolico!; in una visita
recente a L’Aquila leggevo il pannello esplicativo di una chiesa delle clarisse, delle monache di clausura di
Santa Chiara che era stato trasformato in quegli anni, proprio a disprezzo della fede, in macello degli animali).
Questo è il sepolcro di Santa Elena e le sue reliquie sono custodite in una capsella, probabilmente del XII
secolo, oggi non visibile, della quale fu fatta la ricognizione nel 1964. Elena fu sepolta inizialmente nel
cosiddetto Mausoleo di Tor Pignattara, una costruzione circolare che è subito dietro la parrocchia dei
SS.Marcellino e Pietro ad Duas Lauros, sulla via Casilina, ma i suoi resti furono poi traslati in epoca imprecisata
all’interno delle mura, qui in Campidoglio.
Se guardate all’interno del tempietto, verso il basso, dalla parte verso la navata, potrete vedere la lastra
marmorea dell’antico altare del XII secolo (potrebbe risalire ai tempi dell’antipapa Anacleto II
(1130-1138). È interessante per la leggenda che vi è scolpita e che è quella che ha dato il nome
di Aracoeli alla basilica. Vedete al centro l’agnello mistico, che è immagine del Cristo che è
stato immolato ed è risorto. Ai lati dell’agnello, il personaggio a sinistra è Augusto al quale
appare, a sinistra, in una mandorla la Vergine con il Bambino. L’imperatore si inginocchia dinanzi a lei.
La leggenda vuole che qui fosse la residenza dell’imperatore Ottaviano Augusto, con la sua stanza da letto, il
suo cubiculum. Il Senato Romano aveva deciso di tributargli onori divini, ma egli esitava e si domandava se
fosse un bene tutto ciò. Secondo la leggenda, la Sibilla Tiburtina da lui consultata dopo aver digiunato tre
giorni lo confermò nei suoi dubbi e gli vaticinò: “Appaiono segni manifesti che giustizia
sarà fatta, presto la terra si bagnerà di sudore e dal cielo scenderà il Re dei secoli”.
Infine gli apparve la stessa Vergine con il Bambino Gesù in braccio che gli diceva: “Haec est Ara
Primogeniti Dei”, “Questo è l’altare del figlio primogenito di Dio” (il racconto
è nei Mirabilia Urbis Romae del XII secolo, ma la tradizione di questo racconto è sicuramente
precedente e viene fatta risalire almeno alla Cronaca universale di Giovanni Malàlas che cita a sua
volta un cronografo bizantino di nome Timoteo.
La visita della basilica dell'Aracoeli |
Il dato certo che ci viene riportato da questa leggenda è, come ben sappiamo, che
Gesù nasce durante il regno di Augusto. La leggenda vuole esprimere soprattutto la vittoria del cristianesimo
sul mondo pagano, narrando la convinzione, in realtà successiva agli imperatori pagani, che nessun sovrano
fosse legittimato a chiedere di essere adorato come un dio dai suoi sudditi, poiché il culto doveva essere
riservato solo a Dio stesso presente nel suo figlio Gesù, il vero Signore. A suo modo il racconto esprime
così anche la demitizzazione del potere statale, proprio come abbiamo già visto commentando la lettera
ai Romani.
Gli imperatori romani, in realtà, hanno invece sempre più percorso la via della divinizzazione di se
stessi. Augusto, dopo che Cesare era stato più esplicito, si ritrasse solo apparentemente da onori sovraumani,
lasciando che il popolo lo facesse in sua vece (egli si dichiarava princeps e restauratore della repubblica,
mentre in realtà era il primo imperatore assoluto in Roma!).
Certo, possiamo anche ricordare, ma questo non c’entra con la leggenda, che ai tempi di Augusto si faceva
strada la coscienza che il culto delle divinità pagane non riempisse più il cuore e che bisognasse
cercare una altra verità più vera. I romani cominciavano a non credere più ai loro dei! Gli
autori cristiani diranno pian piano, attraverso la mitologia delle diverse Sibille, che non solo l’ebraismo
stava attendendo il messia, ma che anche il mondo pagano si caratterizzava per un nuovo orientamento di pensiero,
rappresentato dalle Sibille appunto, che profetizzava un diverso futuro, una nuova rivelazione di Dio, affermando che
il mondo si stava preparando ad un’altra realtà, che gli uomini erano in attesa di un’altra
salvezza, il cristianesimo appunto. Troverete le Sibille in moltissime facciate delle chiese medievali, ma anche
nelle opere del Rinascimento, come nella Cappella Sistina di Michelangelo. È il mondo umanistico che attende
il Salvatore e che lo invoca. Questo altare ce lo ricorda.
È, allora, nel medioevo che la chiesa che originariamente si chiamava di Santa Maria in Capitolium muta il
suo nome in Santa Maria in Aracoeli, proprio a motivo di questa tradizione. La basilica dell’Aracoeli è
tradizionalmente la chiesa del Senato e del Popolo Romano. Per tutto il medioevo servirà come aula delle
adunanze del Consiglio Maggiore e Minore del Comune, per la discussione e la promulgazione delle leggi della
città e, tuttora, è la chiesa dove si svolgono eventuali liturgie richieste dal Comune di Roma (potete
vedere la lampada dinanzi al Santissimo Sacramento con l’iscrizione del Comune: SPQR).
Aracoeli perché il vero altare è eretto al Figlio di Dio e non ad Augusto, ma ovviamente anche per la
straordinaria posizione della chiesa stessa. Prima che la monarchia sabauda decidesse l’erezione del monumento
a Vittorio Emanuele II, padre della Patria, il Vittoriano, l’Aracoeli si stagliava sul cielo di Roma, come
l’edificio più alto. Chi fosse arrivato da Porta del Popolo, provenendo dal Nord, entrando in piazza del
Popolo avrebbe visto in fondo a via del Corso la mole dell’Aracoeli. Vittorio Emanuele II volle, invece, che
questo monumento civile dominasse lo sguardo di chi entrava in città a perenne memoria della sua opera. Per
erigerlo fu demolito l’intero convento che sorgeva a fianco della basilica, così come tutte le altre
costruzioni presenti su quel lato del Campidoglio.
La scalinata che sale all’Aracoeli fu inaugurata da Cola di Rienzo nel 1348 che la volle come voto per essere
la città stata risparmiata da Dio dall’epidemia di peste. Questo curioso personaggio, che fu scelto
dall’immaginario risorgimentale come l’eroe antesignano di un Risorgimento rimasto incompiuto,
non fu, in realtà, mai anticlericale. Vediamo questa sua piena appartenenza al medioevo cristiano non solo in
questo voto a Dio, ma ancor più nella sua continua ricerca dei favori del papa che a quei tempi si trovava
nell’esilio avignonese. La città, per la lunga assenza del pontefice, era in balia delle lotte interne
fra le famiglie nobili e Cola si fece eleggere Tribuno della plebe, cercando di ristabilire la pace in città
con l’aiuto dell’ “altro tribuno”, il vicario del papa. Cercò anche di promuovere un
giubileo, per richiamare i pellegrini in Roma. Pian piano, però, il potere gli dette alla testa e
cominciò a desiderare di essere designato imperatore, finché i nobili, il popolo e lo stesso potere
pontificio lo abbandonarono. Riuscì a fuggire. Giunto dopo varie peripezie ad Avignone fu assolto dal papa e
accompagnò il cardinale Albornoz, inviato in Italia dal papa per riprendere il controllo dei territori dello
Stato Pontificio.
Nuovamente senatore, non riuscì a riconquistarsi il favore del popolo che si era alienato con le sue
velleità di tiranno, ma anzi inasprì lo scontro con la popolazione romana dando corso a vendette per il
precedente esilio ed inasprendo le tasse, finché il popolo non si ribellò e lo uccise nel 1354, proprio
ai piedi della scalinata, consegnandone poi il corpo ai Colonna.
L’icona miracolosa di Maria alla quale fu attribuita la salvezza dalla peste nel 1348 ci ricorda Cola di
Rienzo che salì qui appunto, con il popolo al seguito, per ringraziare la Vergine. L’antica icona
è oggi posta sull’altare centrale ed è della metà dell’XI secolo, copia della
Madonna di San Sisto che è del VI secolo. La tradizione attribuisce entrambe le immagini all’evangelista
Luca poiché lo vuole pittore, per la sua attenzione nel descrivere gli eventi di Maria nei primi due capitoli
del suo vangelo. L’icona era posta originariamente dove è ora il tempietto di Sant’Elena e
sull’altare era posta la Madonna di Foligno di Raffaello. Fu Pio IV (1559-1565), che risistemò anche il
coro, a volere questa immagine più antica e più venerata sull’altare maggiore.
Continuiamo la visita della chiesa. Le colonne della chiesa sono di spoglio, e sono, perciò, tutte diverse
tra loro. Se guardate la base vi accorgerete che alcune sono più corte di altre ed hanno dei supporti in marmo
per portarle tutte alla stessa altezza. Colonne di spoglio vuol dire che sono state tolte da templi pagani.
Probabilmente alcune di quelle colonne appartenevano al tempio di Giunone Moneta e san Paolo potrebbe averle viste
in situ. Il fenomeno dello spoglio dei monumenti antichi non è un fenomeno che riguarda le chiese, ma
l’intera cittadinanza. Pensate che il primo tempio pagano che fu consacrato in chiesa è il Pantheon che
viene trasformato nella chiesa di Santa Maria e dei Martiri solamente nel 604, molto dopo che il cristianesimo si era
già affermato.
Il fenomeno della spoliazione degli antichi monumenti riguarda, invece, tutta la città. Infatti, Roma ai
tempi di Augusto aveva un milione di abitanti mentre all’epoca di Gregorio Magno Roma era abitata, forse, da
centomila persone; i nove decimi della città erano disabitati, molte zone erano ormai deserte e molti edifici
antichi abbandonati. I romani dell’alto medioevo hanno pian piano cominciato a vivere anche negli antichi
edifici pubblici ormai inutilizzati del centro. Il Colosseo, ad esempio, diventerà luogo di abitazione o di
lavorazione dei marmi per farne polvere, nel teatro di Marcello ci sarà una residenza nobiliare e così
via. Tutti prendevano pietre, colonne ed architravi per riutilizzarli e più volte si cercò di arginare
questo fenomeno, da parte di prefetti e papi e curatori della città. I templi diventarono chiese molto
tardivamente in realtà e gli unici templi che si sono salvati sono quelli che si sono trasformati in
chiese!
Probabilmente la struttura attuale della chiesa dell’Aracoeli, che si sviluppa in senso longitudinale,
rispetto all’originaria orientazione che era quella dell’attuale transetto, utilizzando queste colonne di
spoglio, è del IX secolo.
Abbiamo notizia che questa chiesa venne officiata dai Benedettini, che sono documentati qui con certezza
nell’883, questo ordine importantissimo che ha evangelizzato nei tempi barbarici, in tempi veramente difficili,
e che ha contribuito a mantenere in Europa la cultura e la tradizione umanistica ed organizzativa romana.
Precedentemente, forse, avevano servito questa chiesa dei monaci greci.
Ci spostiamo ora nella cappella della navata destra che precede l’uscita laterale, quella nella quale è
più evidente, dopo i recenti restauri, l’antica decorazione medioevale che segue al periodo
benedettino.
Nel 1249, infatti, il papa Innocenzo IV chiamò in questa chiesa i francescani. In quell’anno san
Francesco era già morto da due decenni, ma santa Chiara era ancora viva. Proprio questo papa approverà
la Regola di santa Chiara nel 1253, immediatamente prima della morte della santa. Innocenzo IV affidò questa
chiesa –diverrà poi la loro Curia Generalizia- ai francescani. Abitualmente, in quel periodo, le nuove
chiese dei francescani che sorgono l’una dopo l’altra in tutte le grandi città d’Europa,
sono situate fuori le mura delle città, che in quel tempo andavano espandendosi enormemente, di modo che le
periferie degli agglomerati urbani del XIII secolo vedono simmetricamente disposte fuori del centro le nuove
costruzioni dei francescani, dei domenicani e degli agostiniani che si pongono al servizio della popolazione che
abita fuori delle mura cittadine.
In questo caso, invece, viene affidata ai francescani questa chiesa che non è periferica, ma anzi
centralissima. I francescani provvedono immediatamente a grandi lavori di restauro ed abbellimento (in particolare i
lavori furono compiuti negli anni 1280-1300, soprattutto a spese della famiglia Savelli che fece anche del transetto
la propria tomba di famiglia). Siamo alla fine del XIII secolo ed opera qui il grande maestro Pietro Cavallini.
Sappiamo con certezza che egli affrescò l’intera abside, riproponendo la leggenda di Augusto con la
visione della Madonna dell’Aracoeli. L’abside, però, fu distrutta con tutti i suoi affreschi,
sotto Pio IV (1564) per allargare il coro.
In questa cappella dedicata ora a San Pasquale Baylon, ma anticamente ai SS.Giovanni Battista ed Evangelista, si
conservano alcuni frammenti degli affreschi della fine del XIII secolo che sono stati scoperti e restaurati dalla
Sovrintendenza nell’anno 2000.
Al centro vediamo la parte meglio conservata, con una Madonna con il Bambino, alla sua sinistra San Giovanni
Battista vestito di pelli e sulla destra giovanissimo, senza barba, San Giovanni Evangelista -sono i due santi ai
quali è dedicata la basilica di S.Giovanni in Laterano, sono i santi protettori di Roma.
Se guardate in alto vi accorgete che si è conservata la parte superiore dei due affreschi laterali. A
sinistra doveva essere raffigurato il banchetto di Erode, quando Giovanni Battista viene ucciso perché
Erodiade sfrutta l’occasione del ballo della figlia Salomè, per far uccidere il profeta che la
critica.
Erodiade è una incarnazione terribile di quel male di cui ci ha parlato san Paolo. È la donna che non
accetta di riconoscere di essere nel peccato, è la persona per la quale la cosa più difficile da
accettare è che ci sia qualcuno che levi la voce per dire il male che ha fatto. Erodiade non accetta di essere
criticata. Non solo commette peccato, ma non vuole che ci sia qualcuno che glielo ricordi. Preferisce scegliere la
morte del profeta, purché taccia, scegliendo così il silenzio di colui che la critica. Cede la
metà del regno che era stato promesso alla figlia in cambio della testa del Battista. Quelle torri che si
vedono affrescate probabilmente erano parte del palazzo di Erode.
A destra era probabilmente rappresentata, invece, la scena della morte di Giovanni Evangelista, l’unico
apostolo che muore in tarda età, senza subire il martirio. Gli altri apostoli vengono tutti martirizzati e non
ci stancheremo di contemplare la forza di questa testimonianza. Giovanni, invece, muore molto anziano; la tradizione
vuole che gli appaia il Cristo con gli angeli ad annunciargli che sta per prenderlo per portarlo con sé in
Paradiso. Secondo la tradizione, san Giovanni aveva allora 98 anni e continuava a ripetere: “Fratelli ho un
solo comandamento: amatevi gli uni gli altri come Cristo ci ha amato”.
Questi gli affreschi del primo periodo francescano della chiesa. Possiamo immaginare alcuni di coloro che hanno
conosciuto personalmente Francesco pregare in questa chiesa davanti a queste immagini. Nel transetto di destra sono
conservate, in particolare, le reliquie di uno dei compagni di Francesco, san Ginepro, in latino Juniperus. Di lui ci
dice lo Specchio di Perfezione che san Francesco, tracciando la figura del perfetto frate minore, dicesse:
«Deve avere la pazienza di Ginepro, che giunse a uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria
volontà e con l'ardente desiderio d'imitare Cristo seguendo la via della croce» (Specchio di
Perfezione, 85; Fonti Francescane 1782). Frate Ginepro fu presente alla morte di santa Chiara l'11 agosto
1253 e dialogò con lei, confortandola nel momento del passaggio al cielo.
È aperta da decenni la questione della priorità della scuola toscana e giottesca oppure piuttosto
romana nel rinnovamento pittorico che si manifestò massimamente nella basilica di Assisi. I due famosi
pannelli delle storie di Isacco, fra i più belli della basilica, restano ancora senza attribuzione certa.
Un nuovo tassello di questa storia è rappresentato da questi affreschi appena riscoperti nei quali vediamo la
Madonna e San Giovanni evangelista che ci appaiono ancora bizantineggianti, mentre il Battista ed il Bambino
appartengono già ad uno stile innovatore.
Un altro affresco di questo primo periodo francescano è quello -attribuito da alcuni alla mano del Cavallini
ma più probabilmente appartenente ad un discepolo di non eccelse qualità della scuola giottesca-
incorniciato dalle sculture della tomba del cardinal Matteo d’Acquasparta, spentosi nel 1302.
Spostandoci all’inizio della navata destra giungiamo a quella che è la più bella cappella della
chiesa, la cappella Bufalini, affrescata dal Pinturicchio (Bernardino di Betto) con le storie di san Bernardino da
Siena.
Questa cappella è del 1485 circa, siamo in pieno Rinascimento. San Bernardino è vissuto nella prima
parte del 1400 ed ha abitato in questo luogo. È sempre rappresentato nell’iconografia con il suo
trigramma che voi vedete in alto. Ai lati sono raffigurati i quattro Evangelisti ed al centro della volta
c’è questo simbolo caratteristico di san Bernardino: IHS, che vuol dire Iesus Hominum Salvator
(Gesù Salvatore degli uomini). Sarà poi ripreso anche da Ignazio di Loyola e lo troviamo anche nelle
opere di Antoni Gaudí, come, ad esempio, nella casa Batlló a Barcellona (Gaudí sarà
probabilmente beatificato, era cattolicissimo e dovunque metteva simboli cristiani; pensate anche alla Pedrera dove
fece scrivere l’Ave Maria e dove avrebbe messo una statua della Madonna, se gli inquilini non si fossero
rifiutati).
La visita della basilica dell'Aracoeli |
San Bernardino predicava avendo in mano sempre una tavoletta con impresso questo trigramma per
mostrare a tutti, come in una sintesi estrema, che Cristo è veramente il Salvatore. Questo simbolo, IHS,
Gesù Salvatore degli uomini, è come una sintesi della fede: ci riporta alla riflessione paolina che
riconosce in Gesù colui che svela il mistero dell’uomo, colui che è la salvezza di
quell’uomo che non ha la forza di salvarsi da sé, di capirsi e di trovare il bene senza la grazia. Ma,
d’altro canto, Bernardino, pur indicando la salvezza in Cristo, sapeva richiamare ai doveri civili e la sua
predicazione è una delle tappe decisive nella riflessione medioevale sulla dignità del lavoro umano e
sulla possibilità cristiana di guadagnare e di godere del lavoro delle proprie mani[2]. Anche qui la riflessione cristiana continua nei secoli sulla
stessa linea delle origini.
Il Pinturicchio ha dipinto poi, sulla parete di fondo, la glorificazione di san Bernardino, che è la figura
centrale; egli, con il dito, indica in alto Cristo che è nella mandorla, segno di eternità.
Nell’angolo sinistro di questo affresco centrale, sulla strada sotto la roccia si vede una lotta: sono i
Baglioni ed i Bufalini, due famiglie rivali, che si combattono. I Bufalini erano di Città di Castello ed i
Baglioni di Perugia. San Bernardino riesce a pacificarli; nel nome di Cristo riesce a far regnare la pace tra gli
uomini. La scena è rappresentata proprio perché fu la famiglia Bufalini a commissionare gli affreschi
della cappella ed a pagare il pittore, beneficando questa cappella. Pinturicchio dipinse anche a Spello, per la
famiglia rivale, la famosissima Cappella Baglioni.
A destra trovate, più vicino alla parete, la vestizione da frate: Bernardino, come san Francesco, si spoglia
e riceve le nuove vesti. A destra, invece, c’è la raffigurazione delle stimmate di san Francesco. Al
centro c’è come una finestra che si apre -si vedono in lontananza le porte di Siena dove san Bernardino
giovane prega- lasciandoci vedere dei frati e delle persone del tempo.
A sinistra la scena più famosa, la morte e sepoltura di Bernardino. Qui probabilmente il Pinturicchio si
rifà alle immagini già dipinte dal Perugino nella consegna delle chiavi a san Pietro nella Cappella
Sistina –ricorderete che lì è affrescato quell’edificio ottagonale con i due archi
trionfali a destra e sinistra. Anche qui c’è un edificio ottagonale che potrebbe essere un battistero.
Il Santo, al centro, muore. Il primo personaggio che si vede a sinistra con la candela in mano è il Bufalini,
il benefattore che ha pagato la cappella, la cui famiglia Bernardino aveva riconciliato con i Baglioni.
Quindi ci sono, a destra ed a sinistra del corpo del Santo, i personaggi del tempo. È rappresentata tutta la
famiglia del Bufalini. A destra ci sono le donne, la moglie, e parenti vari, con i figli dei Bufalini che
incorniciano la morte del Santo. Sotto il portico dipinto si vedono alcuni miracoli del Santo.
Spostandoci ora nella navata sinistra possiamo avvicinarci alla terza colonna di sinistra. Secondo la tradizione
questo era il luogo dove abitava l’imperatore Augusto. Secondo la tradizione Augusto dormiva sotto questa
colonna, quando fu colpito da un raggio, gli apparve la Madonna che gli disse ciò che abbiamo già
riferito: “L’altare del cielo non è l’imperatore, ma il vero altare di Dio è Cristo,
perché egli è l’unico salvatore”. Il foro sarebbe stato prodotto, secondo la leggenda, da
questo raggio luminosissimo.
Ci spostiamo ora nella cappella dedicata a san Paolo. Questa cappella artisticamente è meno importante, ma la
vediamo perché ci aiuta a visualizzare ciò di cui abbiamo parlato prima. Gli affreschi sono del
Pomarancio (Cristoforo Roncalli), completati entro il 1586, nel passaggio tra manierismo e barocco.
La cappella viene eretta dalla famiglia della Valle. Vedete che, in basso a sinistra, abbiamo il sepolcro di Filippo
della Valle. A quel tempo c’erano ancora le cappelle di famiglia nelle chiese. Fu Napoleone a vietare le
sepolture nelle chiese, ma fino ad allora si seppelliva nelle chiese o nel giardino della stessa chiesa -pensate solo
alla Valle d’Aosta o al Cadore, dove intorno alla chiesa ci sono i morti, in un’armonia molto bella.
Questo modo di seppellire fu vietato dall’impero napoleonico non solo per ragioni igieniche, ma anche
ideologiche, per spezzare il legame con la memoria della vita che ci ha preceduto e che ci ricorda
l’eternità e la speranza. Lo spostamento dei cimiteri fuori dell’abitato è un cambiamento
culturale di grande significato nella vita dell’Europa.
Notate un particolare della tomba di Filippo della Valle: ai piedi ed al capo del letto ci sono dei libri! È
un modo per dire che era una persona di grande cultura. È un particolare tipico del Rinascimento –lo
ritroviamo in altre tombe dell’epoca- quasi a dire che il binomio vita-cultura è inscindibile.
Veniamo agli affreschi. In alto il Pomarancio ha dipinto il Paradiso, con il Cristo che salva. Abbiamo poi quattro
scene della vita di san Paolo, certamente scelte dal Pomarancio in accordo con i committenti.
La prima scena, nella lunetta in alto a sinistra, è quella della conversione, rappresentata come in tutta
l’iconografia paolina, con la caduta da cavallo. Negli Atti –ne abbiamo parlato la scorsa volta a santa
Prisca- la conversione di Paolo è raccontata tre volte. La prima volta come descrizione
dell’avvenimento, le altre due attraverso la narrazione di Paolo stesso. Egli, figlio della conversione, ne
diventa il predicatore. Negli Atti il cavallo non viene menzionato, ma serve a dare drammaticità e viene
sempre raffigurato.
Qui, nella rappresentazione del Pomarancio, balza in evidenza Paolo, vestito da romano, che viene disarcionato e
cade rovinosamente con le gambe spalancate; c’è in questa iconografia drammatica l’idea
dell’uomo la cui vita viene rovesciata, completamente modificata da questo evento che è l’incontro
con Cristo. Nell’altra lunetta, a destra, c’è il battesimo di san Paolo. Non basta che san Paolo
si converta, deve anche ricevere il sacramento. Negli Atti si dice che Cristo risorto appare a Paolo e subito dopo
Anania sente una voce che gli comanda di andarlo a battezzare. Fino a che la chiesa non lo accoglie la sua fede non
è piena. Paolo predicherà poi sempre in comunione con la chiesa che lo ha battezzato.
Basilica dell'Aracoeli, interno |
Nell’affresco sotto la lunetta a destra abbiamo l’episodio dell’Areopago. Paolo
è al centro, circondato da filosofi, quindi pagani, non ebrei; abbiamo già visto come si dica negli
Atti che Paolo fremeva vedendo gli idoli. Considerato il luogo nel quale si trovava, ciò che lo faceva fremere
era la vista dell’Acropoli con il Partenone. Dinanzi a questo Tempio, Paolo parlava con epicurei e stoici. Gli
epicurei cercavano –ricorderete lo scorso incontro a Santa Prisca- una felicità senza Dio, una
felicità morale. Gli stoici, invece, cercavano un senso, una ragione di tutto ciò che esisteva, un
armonia della vita stessa, il logos. Logos è una parola molto utilizzata nel linguaggio stoico. Paolo, nella
raffigurazione del Pomarancio, indica invece con il dito puntato in alto Dio e rivela il Dio ignoto, ormai manifesto
in Cristo.
L’ultimo affresco ci mostra il martirio di Paolo. La spada, che è il simbolo iconografico di Paolo,
vuol sempre ricordare due cose. Fa riferimento alla Parola di Dio, perché Paolo dice nella lettera agli
Ebrei:
Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa
penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e
i pensieri del cuore (Eb 4,12).
La parola di Dio riesce a farti capire chi sei veramente, nient’altro ci riesce. Ma la spada è,
soprattutto, il simbolo del suo martirio, perché secondo la tradizione con essa fu decapitato.
Anche la decorazione del soffitto è dello stesso periodo. Il soffitto ligneo a cassettoni con al centro la
Vergine e il Bambino fu realizzato in ringraziamento della vittoria nella battaglia di Lepanto; fu donato per questa
vittoria contro i Turchi che cercavano di invadere l’Europa (la battaglia di Lepanto è del 1571).
Possiamo dare un ultimo sguardo alla prima cappella della navata sinistra nella quale troviamo raffigurata una serie
di affreschi sul tema dell’Immacolata Concezione. È opera di Francesco Pichi ed è stato dipinto
nel 1555 ca., in pieno clima tridentino. Anche queste scene ci riportano al tema del peccato originale.
Usciamo ora dalla basilica e scendiamo a piazza del Campidoglio.
Siamo davanti alla copia della statua del Marco Aurelio. Cerchiamo qui di immaginarci il colle ai
tempi di san Paolo. Tra le due sommità del colle c’è una sella (Asylum), dove noi ci troviamo
ora. Sull’Arx sorgeva quindi, come abbiamo detto, il tempio di Giunone Moneta, sul Capitolium il tempio di
Giove Ottimo Massimo dedicato anche alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva). Giove –lo ripetiamo- era
una divinità del cielo, della luce solare, del tuono, del fulmine; rappresentava anche la potenza di Roma.
Giove era la divinità suprema, il “presidente” del consiglio degli dei, degli dei
“Consentes”. Giunone, la moglie, divinità lunare che rappresentava la donna, era anche
divinità del parto. Minerva, figlia di Giove e di Meti, era la divinità della saggezza, delle arti,
della scienza. In tutte le terre conquistate da Roma veniva eretto il tempio alla triade capitolina; il tempio della
triade diventava così sempre più non il tempio dei suoi tre dei, ma il tempio di Roma stessa.
Da piazza del Campidoglio, guardando a sinistra, vedete chiaramente come l’Altare della Patria abbia superato,
e di molto, in altezza l’Aracoeli. Fino alla fine del 1800, però, il punto più alto era
l’Arx. Parlando non con rabbia, ma per capire la storia, vi accorgete subito visivamente di quale è
stata l’operazione ideologica operata dal Risorgimento. Ognuno, non solo i cristiani, costruisce i suoi altari
simbolici! Pensate che i frati francescani hanno vissuto gli anni della costruzione del Vittoriano nel sottotetto
della chiesa, perché le maestranze sabaude distrussero il convento senza concedere ai frati altra abitazione
vicino alla chiesa. Solo successivamente vennero costruite delle stanze nuove in sostituzione dell’antico
convento distrutto. In questi eventi storici c’era una forte connotazione anticlericale.
Torniamo al campidoglio. Tutto questo complesso con i suoi templi si affacciava dalla parte dei Fori. Dove ora
è il Palazzo del Campidoglio vi era il Tabularium. Non ce ne rendiamo conto dalla piazza, perché da qui
si vede solo la parte rinascimentale, ma dall’altra parte, quando arriveremo alla terrazza sui Fori,
sarà visibile la parte del Palazzo capitolino che conserva in evidenza le strutture romane. Il Tabularium
prende il nome dalle tabulae bronzee sulle quali erano incisi i documenti che qui erano archiviati. In questo
edificio venivano conservati tutti gli atti pubblici importanti. Mi piace immaginare che ciò sia avvenuto
anche per i censimenti come quello famoso dei tempi di Gesù, di cui ci parla Lc 2,2, citando il governatore
romano della Siria Quirino (riferimento che, peraltro, è difficile situare con precisione). Sapete che Luca
nel suo vangelo ha questa attenzione a situare le vicende in riferimento ai fatti profani della storia e ci ricorda
che Gesù è nato all’epoca dell’imperatore Augusto ed è morto sotto Tiberio. Sono i
primi due imperatori. Pilato è venuto qui a prendere ordini da Tiberio e, prima di lui, Erode il Grande per
ricevere il regno da Augusto.
Con il medioevo la piazza cambia il suo orientamento perché i Fori sono ormai quasi disabitati; viene
così rivolta verso i rioni più abitati intorno all’ansa del Tevere che è di fronte a
Castel sant’Angelo. Viene costruita allora la nuova scalinata, detta la cordonata. Il progetto si fa risalire a
Michelangelo. Paolo III nel 1538 fece porre al centro della piazza la statua di Marco Aurelio che si trovava
antecedentemente vicino al Laterano. Michelangelo creò anche il disegno della piazza con la sua pavimentazione
stellare, ma esso è stato realizzato solo nel 1940. La parte bassa della scalea del Campidoglio è
l’unica parte del Palazzo che Michelangelo ha potuto vedere completato. Riuscì a vedere avviati anche i
lavori del Palazzo di destra, detto dei Conservatori -erano i magistrati addetti a mantenere l’ordine in
città. Solo nel 1655 fu edificato il Palazzo nuovo, sulla sinistra della piazza, forse su progetto già
michelangiolesco, che chiude la piazza nella sua bellezza attuale, dandole simmetria. Infatti, per lungo tempo ancora
dopo i lavori michelangioleschi, si vedeva a sinistra non il Palazzo nuovo, ma la fiancata della chiesa
dell’Aracoeli.
La scalinata dell'Aracoeli |
La statua equestre che vediamo al centro della piazza è una copia, perché
l’originale del Marco Aurelio è ai Musei Capitolini, posto proprio vicino alle murature di fondazione
del Tempio di Giove, del Tempio della triade capitolina. Il muro che vedete dietro il Marco Aurelio, se visitate i
Musei Capitolini, è il muro romano sopra il quale sorgeva il Tempio che certamente Paolo ha visto nella sua
permanenza romana.
Il Marco Aurelio è una delle statue più belle conservateci dall’antichità romana, in
fusione bronzea. È frequentemente ripetuta in numerose guide l’affermazione che la statua si sia
conservata perché ritenuta raffigurante Costantino, l’imperatore che per primo protesse il
cristianesimo, motivo per il quale essa sarebbe stata risparmiata, ma tale affermazione non convince, poiché
gli antichi conoscevano benissimo l’iconografia classica dei diversi imperatori romani. È più
sensato allora affermare che essa si sia salvata proprio perché collocata precocemente dai pontefici presso
san Giovanni in Laterano, proprio per salvaguardarla a motivo delle condizioni tipiche dell’alto medioevo,
periodo nel quale si dovette far fronte ad una sistematica carenza di materie prime e, perciò, ad un continuo
riutilizzo del bronzo e degli altri metalli, come dei marmi e delle pietre, estratti dalle opere precedenti per nuovi
usi civili e militari (il Liber pontificalis ci racconta, ad esempio, della razzia di bronzo che fece, con
grande scandalo dei romani, l’ultimo imperatore che da Costantinopoli fece visita a Roma, Costante II, nel
663).
Marco Aurelio è l’imperatore filosofo, impregnato dello stoicismo, uno dei gruppi di pensatori con i
quali Paolo si misurò all’Areopago un secolo prima.
Nella statua equestre potete soffermarvi sullo sguardo dell’imperatore che indica determinazione tranquilla,
piena padronanza di sé. Viene utilizzata qui dagli iconografi del mondo classico l’espressione
adventus: è l’imperatore “che viene” e dove egli giunge, giunge la sua forza
pacificatrice (ma anche dominatrice!). Se guardate le braccia e le mani, la gestualità è ancora una
volta espressiva. La mano sinistra è rivolta con il palmo in alto. La statua originaria doveva avere in mano
qualcosa, probabilmente un rotolo ad indicare il logos, la saggezza delle disposizioni del sovrano che dovevano
essere ascoltate e da tutti applicate. Il braccio destro alzato dice il silenzio che si deve creare, perché,
appunto, il sovrano sta per pronunciate il suo pacato e forte discorso. Viene chiamato il gesto
dell’adlocutio, del discorso.
Tornano in mente le parole che Marco Aurelio scrisse nell’unica sua opera pervenutaci
dall’antichità, A se stesso, opera alta di filosofia stoica ed insieme terribile nella
consapevolezza dell’autorità imperiale e della pochezza degli uomini:
[Ho imparato] da Apollonio: l'atteggiamento libero e senza incertezze nel non concedere nulla alla sorte e nel
non guardare, neppure per poco, a nient'altro che alla ragione; restare sempre uguali, nei dolori acuti, nella
perdita di un figlio, nelle lunghe malattie; aver visto con chiarezza, in un modello vivo, che la stessa persona
può essere molto energica e pacata (libro I, 8).
Io sono nato per guidarli, come l'ariete guida il gregge o il toro la mandria. Risali però a monte,
partendo da questa constatazione: se non vi sono gli atomi, è la natura che governa l'universo; se è
così, gli esseri inferiori esistono per i superiori, e gli esseri superiori esistono gli uni per gli altri
(libro XI, 18).
Per un verso abbiamo il più stretto legame con gli uomini, in quanto dobbiamo far loro del bene e
sopportarli; per l'altro, invece, in quanto certuni mi ostacolano nello svolgimento del mio specifico operato, gli
uomini divengono per me una delle cose indifferenti, non meno del sole o del vento o di una belva (libro V
20).
L’autorità è accresciuta ovviamente dalla cavalcatura che innalza il personaggio. La sua
è una parola che è efficace; l’imperatore non è solo un pensatore. A Marco Aurelio, come
vedremo il prossimo anno, rivolsero apologie, cioè discorsi per presentare il cristianesimo perché
l’imperatore fosse convinto della sua liceità e non lo perseguitasse, Atenagora, Milziade, Melitone,
Apollinare. Vittime della persecuzione imperiale sotto Marco Aurelio furono Giustino, i martiri di Lione nel 177, il
vescovo Publio di Atene ed altri.
Potete divertirvi a vedere come le guide di Roma talvolta cercano di buttare lì delle affermazioni che oltre
ad essere ideologiche sono soprattutto storicamente non fondate. Preparando questa visita ho trovato un testo che
scriveva che Paolo III –il papa che ha fatto posizionare qui, d’accordo con Michelangelo, la statua
equestre del Marco Aurelio- ha voluto qui la statua equestre perché il papato di allora si riteneva erede
dell’ideologia imperiale.
Piazza del Campidoglio vista dalla cordonata |
Il discorso, invece, è molto più serio ed interessante: siamo dinanzi al gusto ed al
sentire tipicamente rinascimentale (qui tardo-rinascimentale). Il rinascimento, che è un tempo profondamente
cristiano, recupera l’antico. Vuole che il moderno abbia la dignità dell’antico. Ama
l’antico e crede che l’antico possa addirittura essere superato. Se ne ritiene erede e cerca di
valorizzarlo al massimo, ma, nel contempo, lo riprende e crea richiamandosi ad esso. Il rinascimento si pone nella
prospettiva di una profonda consonanza fra l’umanesimo greco-romano e l’avvento del cristianesimo. La
fede, secondo il pensiero del quattrocento e del cinquecento, ha fatto suo tutto il patrimonio di valori che la
precedeva, lo ha purificato e lo ha arricchito.
Per questo si rimodella tutta l’urbanistica cittadina perché abbia la stessa classicità
dell’antico, anche se ripensata. Pensate a Pienza, alla piazza del Rossellino. Il rinnovamento della basilica
di San Pietro –ricorderete la visita che abbiamo fatto in occasione della mostra per il cinquecentenario della
posa della prima pietra- non è un’iniziativa di Giulio II, ma un desiderio che nasce già con i
papi precedenti, è un desiderio tipicamente rinascimentale. Il primo ad essere incaricato di rifare San Pietro
–ricorderete- è proprio il Rossellino, proprio quello che ha rifatto il centro di Pienza.
I papi non volevano più una basilica medievale, ma rinascimentale, con una cupola, con colonne, archi, che
avessero l’impronta del classico. Leon Battista Alberti venne a Roma –Leon battista Alberti, ricorderete,
era anche prete!- ed anche lui affermò che San Pietro doveva essere rifatta, come a Firenze il Brunelleschi
aveva avuto il coraggio di completare la nuova basilica di Santa Maria del Fiore che aveva sostituito
l’edificio antico medioevale, l’antica cattedrale fiorentina.
Per Leon Battista Alberti, Brunelleschi aveva avuto il coraggio di misurarsi con l’antico e di superarlo;
così si doveva tentare anche a Roma, non solo a Firenze. Egli registrò nei suoi scritti anche che San
Pietro era ormai pericolosamente inclinata ed aveva bisogno urgente di rifacimenti. Ci vorranno cinquant’anni
ancora per giungere a Giulio II ed un secolo in più per terminare la costruzione; così l’esterno
di san Pietro, alla fine, sarà non più rinascimentale ma barocco, ma l’idea originale di San
Pietro è rinascimentale, non barocca.
Qui siamo dinanzi ad un’altra opera urbanistica rinascimentale, contemporanea all’intervento
michelangiolesco in San Pietro. Ed anche qui è Michelangelo a dettare legge, ad impostare il progetto di
questa piazza con il romano-classico al centro e con la nuova scalea del Palazzo del Campidoglio che nasconde il
medioevale che sta sotto, con il Palazzo dei Conservatori che viene rinnovato in chiave rinascimentale e con il
magnifico pavimento a pianta stellare.
Di fronte a voi avete il palazzo che è sempre stato il palazzo delle magistrature cittadine. Sotto la scalea
michengiolesca vedete una serie di statue. A sinistra il Nilo, con la cornucopia, a destra il Tigri, che è
stato trasformato in Tevere con l’aggiunta dei gemelli e della lupa. Sapete che nel mondo antico la lupa
è immagine criptica della prostituta -ancora alcuni anni fa il postribolo si chiamava lupanare. La lupa
è un indicatore mitologico che dice che questi due bambini sono stati presi proprio dalla strada. Al centro
c’è Minerva, la dea della saggezza, trasformata in dea Roma. È un po’ fuori misura rispetto
al complesso, ma così accade talvolta quando si riutilizza l’antico.
Anche qui un’osservazione importante, proprio perché, oltre a conoscere il Nuovo testamento, ci siamo
ripromessi di conoscere pian piano la storia di Roma e della chiesa di Roma. Fra l’antichità e il papato
medievale c’è assoluta continuità, non c’è mai stata interruzione. Non è solo
il Rinascimento che cerca di recuperare questa continuità ideale, ma la continuità è ben
più profonda, è storica. Uno dei motivi più seri per i quali ci sembra difficile capire il
medioevo –e per questo lo consideriamo in maniera sciocca e superficiale come se fosse stato un tempo buio-
è semplicemente perché le nostre scuole non ci insegnano come nasce. Ricordo il mio liceo. Non ci hanno
fatto studiare niente della storia che va dalla cattura di Romolo Augustolo fino alla lotta per le investiture e le
crociate, oltre a dedicare meno di un’ora al pensiero di tutti i filosofi medioevali messi insieme. Provate a
domandare in giro chi vi sa spiegare quando e come è nato il potere temporale della chiesa. È
impressionante che non ci sia quasi nessuno capace di farlo. Tutti vi diranno che è un male, ma poi non ne
sanno in realtà niente, soprattutto niente dei motivi originari. Come si fa a dire che è male una cosa
della quale non sai nemmeno spiegare l’origine?
Ne parleremo meglio fra qualche anno, se Dio ci darà vita, quando arriveremo all’alto medioevo, ma
già ora è importante dire qui che lo stato della chiesa nasce alla metà dell’VIII secolo
come una necessità storica, non come una volontà di dominio della chiesa. I secoli che precedono
l’alto medioevo vedono pian piano il decadere della città a motivo delle invasioni barbariche e della
lontananza dell’imperatore che, già a partire da Costantino, si trasferisce definitivamente a
Costantinopoli.
Piazza del Campidoglio |
Il papato è l’istituzione che cercherà continuamente di tenere saldo il ponte
con l’impero, con Costantinopoli, e, attraverso di esso, con l’antica romanità. Vi
riuscirà, a livello culturale, non a livello politico. I senatori –e con essi il senato e le alte
magistrature cittadine- spariranno non perché il papa toglierà loro il potere, ma perché
preferiranno trasferirsi a Costantinopoli, ritenuta più sicura. Sto preparando la tesi di laurea proprio sulle
origini del potere temporale della chiesa. Abbiamo documentazione che già nel VII secolo
l’autorità che deve presiedere all’approvvigionamento del grano a Roma, alla riparazione degli
acquedotti e delle stesse mura è quella del vescovo di Roma.
Il pontefice garantisce che l’amministrazione cittadina non perda tutte le modalità acquisite
dall’antichità romana, ma l’imperatore che è giuridicamente il signore di Roma –lo
sarà fino al 752- è sempre più lontano e viene sempre meno in soccorso della città in
crisi (e, se viene, come nel caso di Costante II, nel 663, viene per danneggiare, non per aiutare). Chi gestisce
allora la città? I senatori non ci sono più, così i consoli, così il prefetto della
città; il papa pian piano diventa il magistrato principale, mentre gli amministratori sono gli antichi
amministratori romani, ora però guidati da lui.
Gli esperti di paleografia ci dicono che i documenti di cancelleria medioevali hanno le stesse forme di scrittura di
quelli romani del III secolo. La cancelleria ininterrottamente continua a scrivere con gli stessi modelli
dell’impero romano! In questa continuità amministrativa, garantita dalla presenza del vescovo di Roma,
la svolta politica si avrà, invece, quando i franchi, una volta sconfitti i longobardi, non vorranno
più restituire il potere su Roma ai bizantini; solo allora la città sarà non solo di fatto, ma
anche giuridicamente, consegnata nelle mani del pontefice.
Il Palazzo del Campidoglio è stato così ricostruito in epoca rinascimentale dai pontefici del tempo ed
è ora il Palazzo del sindaco di Roma. In assoluta continuità con l’antico questo è il
luogo delle magistrature romane, poi di quelle medioevali, poi di quelle rinascimentali e barocche ed, infine, di
quelle attuali. Il sindaco ancora oggi ha il balcone che affaccia sui Fori. Ci spostiamo ora sulla terrazza dalla
quale si vedono i Fori.
Il Palazzo del Campidoglio mostra, dal lato dei Fori, opposto a quello rivolto verso la piazza, la
sua antica facciata romana e poi medioevale. La parte bassa con le grandi aperture ad arco, sono i resti
dell’antico Tabularium, l’archivio di Stato romano nel quale venivano conservate tutte le leggi. Il
Campidoglio simbolicamente è il luogo religioso che rappresenta l’unità dell’impero.
Così Paolo lo vede. Se questo era il luogo pubblico, di esercizio del potere, fisicamente l’imperatore
dimorava già con Augusto, invece, sul colle Palatino, che si vede come sfondo dei Fori.
La parola palazzo viene proprio da Palatino, perché con Augusto il palazzo imperiale, il
Palatium così chiamato a motivo del nome proprio del colle, si allarga a comprendere tutta
l’altura.
La via che passa al centro dei Fori è la Via Sacra. La vediamo ora con gli archi che sono stati via via
eretti a ricordo dei cortei trionfali degli imperatori che vi sono passati, al ritorno trionfale dalle guerre
vittoriose. La Via Sacra passa ora prima sotto l’Arco di Costantino, poi sotto quello di Tito, quindi sotto
quello di Settimio Severo e poi sale fin qui, fino al tempio di Giove Capitolino. Immaginate questa via percorsa
–non c’è dubbio alcuno che questo sia stato l’itinerario- da Cesare dopo la vittoria sui
Galli, con Vercingetorige in catene, da Tito e Vespasiano con gli oggetti rubati al Tempio di Gerusalemme dopo la
prima guerra giudaica e con gli ebrei in catene, da Traiano, dopo la vittoria sui Daci. Ogni imperatore compiva
questa ascesa verso il tempio della triade capitolina, per venire a ringraziare gli dei di Roma al termine delle
campagne belliche.
La Via Sacra fino all'Arco di Settimio Severo, prima dell'ultimo tratto di ascesa al Campidoglio |
Il primo che si rifiuterà di salire ai templi del Campidoglio sarà Costantino.
Costantino, sconfitto Massenzio a ponte Milvio, entrerà in città. Giunto ai Fori salirà
direttamente al palazzo imperiale, rifiutandosi di venerare gli dei pagani.
Se guardiamo verso i Fori vediamo questa fila di colonne disposte ad angolo con la loro architrave: è il
Portico degli Dei Consenti, cioè degli dei che siedono a consiglio con Giove. A sinistra, oltre l’arco
di Settimio Severo, vediamo l’edificio del Senato, la Curia, l’unico rimasto in piedi, perché
trasformato nell’alto medioevo anch’esso in chiesa. Gli unici edifici che si sono salvati integralmente
sono quelli che sono stati trasformati in chiese, gli altri sono stati pian piano utilizzati come cave di materiale
dagli abitanti della città.
I Fori romani resteranno la via di collegamento fra il resto della città ed il Laterano fino ai tempi
dell’Unità d’Italia e poi di Mussolini. Se fate attenzione vi accorgete che le chiese di via di
Fori Imperiali hanno in realtà solo l’abside rivolta verso la via oggi percorsa dalle macchine. La loro
facciata, infatti, è rivolta dalla parte dei Fori. Guardando i Fori vedete il Tempio di Antonino e Faustina,
che oggi è la chiesa di San Lorenzo in Miranda, poi la basilica dei Santi Cosma e Damiano che ingloba il
cosiddetto Tempio del Divo Romolo (la chiesa insiste sul Foro della Pace), poi ancora la chiesa di Santa Francesca
Romana. A tutte queste chiese si accedeva dalla Via Sacra. Se voi vedete le processioni papali nei quadri del
Seicento e Settecento vedete che ancora si transitava da qui (ad esempio, quando il nuovo papa appena eletto, andava
a prendere possesso della cattedra del Laterano). Infatti, tra il Colosseo e piazza Venezia c’era un colle che
si chiamava la Velia. Non si poteva transitare di lì. Si ascendeva, invece, al Campidoglio e si seguiva
l’antica Via Sacra per giungere al Colosseo dai Fori e poi da lì continuare per San Giovanni.
Mussolini ha livellato la Velia ed ora, con la nuova sistemazione di via dei Fori imperiali, noi in realtà
raggiungiamo il Colosseo fiancheggiando il retro delle antiche chiese. Come piccolo riferimento archeologico a quello
che abbiamo detto sull’autorità bizantina sempre più di nome che di fatto e sul necessario
emergere progressivo dell’autorità pontificia nella gestione della città, potete vedere, proprio
nella piazza del Foro, proprio davanti a voi, poco oltre le colonne del Tempio di Saturno, la colonna
dell’imperatore di Costantinopoli Foca. È l’ultimo monumento eretto in ordine cronologico nei
Fori. Siamo nel 608 d.C. e Foca fa erigere questa colonna per commemorare il suo regno. Foca è un imperatore
romano che vive a Costantinopoli, non verrà mai a Roma. Sarà lui a donare il Pantheon al pontefice come
primo Tempio che sarà trasformato in chiesa.
Per ricordare questo periodo assolutamente e ingiustamente trascurato nei nostri libri di storia, potete vedere,
proprio sotto il Palatino, anche le mura esterne della chiesa di Santa Maria Antiqua, che era una delle cappelle
palatine greche, perché l’imperatore, soprattutto a partire da Eraclio che succedette a Foca, pur
essendo imperatore romano, sarà in realtà greco.
Dirigiamoci ora verso l’ultima tappa, il carcere Mamertino, avendo negli occhi questo panorama. Molti edifici
sono successivi al I secolo d.C., ma sostanzialmente noi abbiamo il colpo d’occhio che Paolo ebbe quando giunse
a Roma e visitò il Campidoglio.
Giungiamo al carcere Mamertino. È l’antica prigione di massima sicurezza per i nemici
di stato che attendevano di essere giustiziati. Gli studiosi sono concordi nell’identificazione del luogo.
Siamo qui discesi per i gradini che prendono il posto delle antiche Scale Gemonie (Scalae Gemoniae) dove
anticamente venivano esposti al piccolo ludibrio i cadaveri di coloro che venivano strangolati nel carcere o gettati
dalla Rupe Tarpea, della quale non si ha ancora una identificazione certa. Qui venivano esposti i corpi degli uccisi
per dare spettacolo e anche come deterrente. La pena di morte, tragicamente, per tantissimo tempo ha fatto parte
della giustizia ordinaria.
L’ubicazione non è casuale. Le fonti letterarie attestano che i cortei trionfali degli imperatori,
prima di salire a venerare gli dei della triade capitolina in Campidoglio, abbandonassero qui i prigionieri che
dovevano essere uccisi, perché fossero rinchiusi, in attesa dell’esecuzione nel carcere. Questa fu la
sorte di Giugurta, il re della Numidia, nel 104 a.C., di Vercingetorige, re dei Galli, decapitato nel 49 a.C., di
Seiano, ministro di Tiberio, decapitato nel 31 d.C., dei capi della rivolta giudaica repressa da Vespasiano e
Tito.
Il carcere Mamertino prende il nome probabilmente da Mamers (dio sabino corrispondente al latino Marte; doveva
esserci un tempio dedicato al dio Marte nelle vicinanze). La fondazione si fa risalire al VII secolo a.C.
–secondo la tradizione, il fondatore fu Anco Marcio- ma venne restaurato negli anni fra il 12 e il 40 d.C.,
cioè venti anni prima dell’arrivo di Pietro e Paolo a Roma. La datazione risulta dai nomi dei consoli
che sono ancora chiaramente leggibili sulla trabeazione, C.Vibio Rufino e M. Cocceio Nerva, perché i romani
datavano gli anni con le due magistrature consolari che venivano elette ogni anno.
L’edificio si compone oggi di tre livelli. Al livello della strada c’è il carcere Mamertino vero
e proprio. Sotto di esso c’è il Tullianum, la parte più terribile, dove si scendeva solo calati
attraverso una botola. Di fatto chi veniva fatto discendere nel Tullianum era ormai irrimediabilmente condannato a
morte. Tullianum viene o da tullus (polla d’acqua) o da Servio Tullio, il re etrusco che potrebbe averlo
fatto costruire per utilizzarlo come cisterna. Sopra al carcere Mamertino è stata poi costruita la chiesa di
San Giuseppe falegname. Ora l’edificio, dunque, si presenta a tre livelli.
Secondo la tradizione Pietro e Paolo furono imprigionati qui. Scendendo dal carcere al Tullianum, vedrete una
piccola grata che custodisce il luogo dove avrebbe sbattuto la testa San Pietro, pressato dai soldati. Nel Tullianum
troverete una colonna dove, sempre secondo la tradizione, sarebbe stato legato san Pietro e sarebbe sgorgata una
sorgente miracolosa con l’acqua della quale poté battezzare i suoi carcerieri Processo e Martiniano,
insieme ai loro compagni.
Sia che questa storia sia una leggenda, sia che contenga un qualche elemento di verità, la cosa importante
è riaffermare che la testimonianza del martirio fa nascere nuovi cristiani, come dice Tertulliano: Sanguis
Martyrum, semen Christianorum (“il sangue dei martiri è il seme da cui nascono i nuovi
cristiani”).
Vogliamo concludere utilizzando ancora la nostra immaginazione per ricostruire la scena che sarà avvenuta qui
o in un altro luogo similare di Roma. Paolo, dopo aver scritto la lettera ai Romani, arriva nell’urbe intorno
al 60 e, per alcuni anni, continua a predicare. Probabilmente per un certo periodo avrà goduto della piena
libertà ed avrà visitato l’intera città, salendo anche al Campidoglio e meditando sulla
piena rivelazione di Dio in Gesù Cristo, così differente dalla religione degli antichi dèi della
città di Roma. Ad un certo punto, sotto Nerone, durante la prima persecuzione ufficiale dei cristiani, nel 64
d.C. circa, o solo qualche anno prima o dopo, sarà rinchiuso in questo carcere e poco dopo verrà
ucciso.
La tradizione vuole che il luogo del martirio sia alle Tre Fontane dove sorge ora la chiesa che ricorda
l’evento, a fianco dell’abbazia dei monaci cistercensi. Non siamo del tutto sicuri di questo luogo, ma
ciò che più ci colpisce è proprio questa incertezza. Il Signore ha chiesto a Paolo di servirlo
con l’annuncio e la predicazione, senza promettergli successo imperituro in terra. È tipico del martirio
cristiano offrire la vita senza che questo avvenga necessariamente sotto i riflettori della notorietà. Paolo,
l’apostolo che conosciamo meglio, muore per Cristo forse con pochissimi o con nessun credente al fianco, al
punto che non è conservato con esattezza il luogo del martirio, ma solo quello della sepoltura. La morte del
testimone di Cristo può avvenire nel nascondimento, perché il martirio è insieme testimonianza
di Cristo e nascondimento di sé.
1/ primo dato assoluto sulla città di Roma ed il cristianesimo: 49 d.C.
Claudio caccia i giudei da Roma, impulsore Chresto
Aquila e Priscilla, famiglia cristiana nella cui casa si raduna la comunità, cacciata da Roma (in At18,1-4 e
testi successivi)
- in At questo dato è preceduto dalla presenza di romani alla Pentecoste a Gerusalemme (At2,10) e dal
battesimo ad opera di Pietro del centurione Cornelio, della coorte Italica (At10)
- in Lc, autore anche degli At giunto a Roma con Paolo (vedi le sezioni-noi degli Atti), sono citati
l’imperatore Augusto per la nascita di Gesù (Lc2,1) e l’imperatore Tiberio con il suo governatore
per la Giudea Ponzio Pilato (Lc3,1) citato nel Credo!
- la tradizione del battesimo di Prisca da parte di san Pietro che abbiamo venerato a Santa Prisca ci ricorda che la
chiesa è madre; tutto nasce dalla chiesa apostolica e chi diviene cristiano prosegue la corsa del vangelo
- non sappiamo, quindi, con precisione chi abbia evangelizzato Roma per primo; è possibile ipotizzare
più persone, forse giunti anche solo per occasioni lavorative o politiche
2/ il secondo dato storico in ordine cronologico è l’invio della lettera ai Romani
Rm è stata scritta certamente dopo 1-2 Corinzi perché in quelle due lettere la colletta è
ancora in preparazione. Più che dalla Macedonia - e in particolare da Filippi (secondo l’opinione di V.
Taylor) - o dall’Asia, e più che da Atene, la lettera per la maggioranza degli autori è stata
scritta da Corinto, durante la sosta di tre mesi che Paolo fece a Corinto nella terza visita alla città. A
Corinto fa pensare tra l’altro anche il v. 16,23, dove Paolo dice di essere ospite di Gaio, dal momento che un
Gaio corinzio è stato battezzato da Paolo secondo 1Cor 1,14. Rm dunque è stata scritta o alla fine
del 57 o all’inizio del 58 (G.Biguzzi)
3/ con la finale degli Atti (At28) avremo la terza notizia in ordine cronologico; Paolo, dichiarandosi
cittadino romano (lo era fin dalla nascita) ottiene il trasferimento del suo processo da Gerusalemme a Roma; la
datazione è posta tra il 59 ed il 60 d.C.
- in At23,11 è il Signore Gesù che gli appare e gli dice: “Coraggio! Come hai testimoniato per
me a Gerusalemme, così è necessario che mi renda testimonianza anche a Roma”
- Rom è probabilmente l’ultima lettera autentica di Paolo
- posta per prima: è la più lunga lettera del NT, anzi di tutta l’antichità (per prima
anche per l’importanza di Roma)
- genere letterario del vangelo, ma anche delle lettere, invenzioni del cristianesimo (importanza
della parola!)
- “origine apostolica” di tutti gli scritti del NT (per quel che riguarda l’epistolario paolino 7
lettere certamente autentiche: 1Ts, 1Cor, 2Cor, Fil, Flm, Gal, Rom; 3 lettere dette deutero-paoline: Col, Ef, 2Tes; 3
lettere dette pastorali, forse di Timoteo: 1Tim, 2 Tim, Tt; lettera agli Eb); in Paolo è evidentissima la
storicità (basti leggere Galati dove tutti gli apostoli sono ancora vivi, o ancora i brani di 1Cor “Vi
ho trasmesso quello che a mia volta ho ricevuto”)
- divisione della lettera ai Rom:
Da R.Penna, Il “mysterion” paolino, Paideia, Brescia, 1978,
pagg.87-89
Nel N.T., il tema del μυστ?ριον riceve un trattamento unitario soltanto da
Paolo. In tredici passi del suo epistolario (1Cor2,1-7; Rom. 16,25; Col. 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef.1,9; 3,3.4.9; 5,32;
6,19; ad essi si può attrarre Apoc10,7) è dato individuare la presenza di un Mistero dalla profonda
valenza teologica (di norma qualificato semplicemente come ‘il’ Mistero), il quale, mediante lo schema
nascondimento-rivelazione, ci introduce fino all’intimo segreto della sapienza di Dio e alle sue più
profonde intenzioni sulla storia. Già quest’ultima osservazione è distintiva, poiché
delimita il campo semantico del Mistero, distanziandolo dalle speculazioni cosmologiche proprie di alcune sezioni
della letteratura sapienziale, o comunque dando ad esse un valore secondario.
L’esposizione precedente ha inteso mettere in luce i due livelli diversi e complementari, che ci permettono di
accostarci adeguatamente al tema.
Il primo livello, forse il più evidente, è quello del suo divenire, cioè del suo passaggio dal
nascondimento alla manifestazione e realizzazione progressiva fino alla consumazione finale;
l’individuazione di queste varie fasi ci dice che il Mystêrion ha un percorso, un tragitto da compiere
e che quindi esso ha a che fare con la storia. Non si tratta dunque di una pura nozione astratta, conoscibile solo
per rapimento mistico o ispirazione diretta disgiunta da ogni precomprensione. E’ invece dalla concreta e
oggettiva esperienza storica, oltre che dai documenti letterari che ce l’attestano, che si può accedere
alla sua identificazione. In qualche modo perciò la stessa traiettoria del Mistero condiziona la sua
definizione.
Il secondo livello è quello delle varie componenti intrinseche, che ci permettono di definirne
l’essenza. L’analisi fatta ce lo ha squadernato nei suoi quattro aspetti costituivi: teologico,
cristologico, ecclesiologico, antropologico, per terminare con l’ammettere un largo margine di eccedenza
quanto alla sua comprensibilità. Ne risulta una natura complessa e ricca.
Comunque, sullo sfondo dell’apocalittica giudaica (qumraniana), abbiamo riconosciuto che il Mystèrion
affonda le sue radici in un piano d’intervento e quindi in una decisione operativa di Dio; esso anzi,
propriamente parlando, non solo si fonda ma consiste e si identifica appunto con l’eudokía (ebr.
r?zôn) dell’insindacabile volontà divina, la quale si esercita nel vivo della storia. e della
convivenza umana, e della quale le varie componenti individuate non sono che prolungamenti e concrezioni. Rimane
quindi essenziale, al fine di rendere conto preciso del linguaggio paolino, mantenere alla base della sua polivalenza
semantica il concetto apocalittico-sapienziale di un ‘disegno’ (lat. consilium) di vasto respiro
storico e costitutivo. Fondamentalmente il Mistero riguarda ciò che si può variamente denominare
θ?λημα(= ‘volontà’: Ef. 1,9),
σοφ?α(= ‘sapienza’: ib.3,10: ‘multiforme’!),
βουλ?(= ‘decisione’: Is. 46,10),
πρ?θεσις(= ‘proposito’: 2 Tim. 1,9),
mah?šèbèt (= ‘progetto’: 1 QS 11,19) di Dio. Non solo la Chiesa e l’uomo
nuovo, ma anche Cristo stesso, oltre che il divenire storico, fanno parte, ciascuno al suo livello, di questo unico
Mistero germinale: «tutto ciò che sarà fu nel tuo beneplacito» (1 QS 11,18: kô1
hannihjâ birsône kâ h?jâ).
Adottando il paragone di una clessidra, possiamo dire che il passaggio dallo stadio di nascondimento-progettazione a
quello di rivelazione-realizzazione avviene in tutte le sue parti attraverso una strozzatura obbligata che, fuor
di metafora, è rappresentata da Gesù Cristo. Egli perciò sta al centro del Mystêrion
divino, a partire dal suo concepimento pretemporale fino alla sua esecuzione storica (cfr. Ef. 1,9-10). Soltanto
attraverso di lui acquistano poi rilevanza sia la componente ecclesiologica sia quella antropologica: non solo la
loro conoscenza, ma anche la loro esperienza vissuta (cfr. anche 1Cor. 2,16: «chi mai conobbe il pensiero del
Signore-Dio così da istruirlo? ma noi abbiamo il pensiero di Cristo», che ci media appunto quello di
Dio). Il Mistero di Dio ha poi un destinatario ultimo ben preciso, anzi inevitabile: l’uomo, sia egli ebreo
o pagano; ambedue le parti (come esponenti delle divisioni più stratificate esistenti
nell’umanità) sono chiamate proprio a dar vita, a livello di Chiesa, ad un nuovo modo di rapportarsi
comunionalmente, sulla base di un autentico rinnovamento personale-interiore e in una prospettiva di
speranza.
Tutto questo è compreso nel concetto paolino di Mystérion, il quale pertanto viene ad assumere un
valore di cifra per indicare il contenuto sostanziale del messaggio cristiano, connotato particolarmente
nell’aspetto fontale del ‘santo disegno’ (1 QS 11,19) di Dio. Può essere interessante notare
che tale formulazione tematica, iniziata a partire da 1Cor. 2,1.7 in una cornice di riflessione sapienziale sulla
divina stoltezza del messaggio della Croce, viene poi ripresa e sviluppata più tardi nelle due lettere
gemelle di Col-Ef. (unitamente alla chiusa di Rom.) ed estesa ad orizzonti semantici più vasti. Se ne
può dedurre onestamente che l’Apostolo, nella maturità della sua vita e della sua teologia, ha
finalmente scoperto ed elaborato un concetto unico e sintetico per la sua riflessione sul messaggio cristiano.
Volendone tentare, in conclusione, una definizione compendiosa, potremmo dire così: il Mystêrion
è l’imperscrutabile beneplacito salvifico di Dio che, facendo perno sulla ineguagliabile statura
personale di Gesù Cristo crocifisso-risorto, si realizza linearmente nella storia e nell’éschaton
secondo una duplice dimensione comunitaria (= ekklesía) e individuale (= uomo nuovo). Il Mistero paolino ci
conferma che il Dio biblico, in momenti e forme diverse,
πολυμερωςχα?πολυτρ?πως
!: Ebr 1,1) è pur sempre un Dio «per noi» (Rom. 8,31) e «con noi» (Mt.
28,20).
Dalla Gaudium et Spes 22
Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo.
Da G.K.Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia, p.21-22
I maestri di scienza moderna hanno cura di cominciare le loro ricerche da un fatto. Anche i vecchi maestri di
religione sentivano la stessa necessità; e cominciavano dal fatto del peccato - un fatto pratico come le
patate. L’uomo poteva o non poteva esserne lavato con acque miracolose; ma era indubitabile che aveva bisogno
di essere lavato. Ai nostri giorni, certi studiosi di cose religiose qui a Londra, - e non si tratta di puri
materialisti - hanno cominciato a negare non già l'acqua miracolosa, sulla quale si può discutere, ma
il fatto indiscutibile della sporcizia. Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola
parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni seguaci del Rev. R. J.
Campbell, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa
di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell'uomo che può
esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come
punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un
uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può
trarne che una di queste deduzioni: o negare l'esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare
qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi
sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto.
Dalla Prefazione di Vladimir Soloviev a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo, Marietti, 2007,
p. LXV
È forse il male soltanto un difetto di natura, un'imperfezione che scompare da sé con lo
sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe
sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di
esistenza?
Dal discorso di Benedetto XVI ai vescovi della Svizzera in visita ad limina apostolorum, tenuto il
martedì 7 novembre 2006
Comincio [...] col tema della fede. Già nell’omelia ho cercato di dire che, in tutto il
travaglio del nostro tempo, la fede deve veramente avere la priorità. Due generazioni fa, essa poteva forse
essere ancora presupposta come una cosa naturale: si cresceva nella fede; essa, in qualche modo, era semplicemente
presente come una parte della vita e non doveva essere cercata in modo particolare. Aveva bisogno di essere plasmata
ed approfondita, appariva però come una cosa ovvia.
Oggi appare naturale il contrario, che cioè in fondo non è possibile credere, che di fatto Dio
è assente. In ogni caso, la fede della Chiesa sembra una cosa del lontano passato. Così anche
cristiani attivi hanno l’idea che convenga scegliere per sé, dall’insieme della fede della Chiesa,
le cose che si ritengono ancora sostenibili oggi.
E soprattutto ci si dà da fare per compiere mediante l’impegno per gli uomini, per così dire,
contemporaneamente anche il proprio dovere verso Dio. Questo, però, è l’inizio di una specie di
“giustificazione mediante le opere”: l’uomo giustifica se stesso e il mondo in cui svolge quello
che sembra chiaramente necessario, ma manca la luce interiore e l’anima di tutto.
Perciò credo che sia importante prendere nuovamente coscienza del fatto che la fede è il centro di
tutto – “Fides tua te salvum fecit” dice il Signore ripetutamente a coloro che ha
guarito. Non è il tocco fisico, non è il gesto esteriore che decide, ma il fatto che quei malati hanno
creduto. E anche noi possiamo servire il Signore in modo vivace soltanto se la fede diventa forte e si rende
presente nella sua abbondanza.
Vorrei sottolineare in questo contesto due punti cruciali. Primo: la fede è soprattutto fede in Dio. Nel
cristianesimo non si tratta di un enorme fardello di cose diverse, ma tutto ciò che dice il Credo e che lo
sviluppo della fede ha svolto esiste solo per rendere più chiaro alla nostra vista il volto di Dio. Egli
esiste ed Egli vive; in Lui crediamo; davanti a Lui, in vista di Lui, nell’essere-con Lui e da Lui viviamo.
Ed in Gesù Cristo, Egli è, per così dire, corporalmente con noi. Questa centralità di
Dio deve, secondo me, apparire in modo completamente nuovo in tutto il nostro pensare ed operare. È ciò
che poi anima anche le attività che, in caso contrario, possono facilmente decadere in attivismo e diventare
vuote. Questa è la prima cosa che vorrei sottolineare: che la fede in realtà guarda decisamente
verso Dio, e così spinge pure noi a guardare verso Dio e a metterci in movimento verso di Lui.
L’altra cosa è che non possiamo inventare noi stessi la fede componendola di pezzi
“sostenibili”, ma che crediamo insieme con la Chiesa. Non tutto ciò che insegna la Chiesa
possiamo comprendere, non tutto deve essere presente in ogni vita. È però importante che siamo
con-credenti nel grande Io della Chiesa, nel suo Noi vivente, trovandoci così nella grande comunità
della fede, in quel grande soggetto, in cui il Tu di Dio e l’Io dell’uomo veramente si toccano; in
cui il passato delle parole della Scrittura diventa presente, i tempi si compenetrano a vicenda, il passato è
presente e, aprendosi verso il futuro, lascia entrare nel tempo il fulgore dell’eternità,
dell’Eterno. Questa forma completa della fede, espressa nel Credo, di una fede in e con la Chiesa come
soggetto vivente, nel quale opera il Signore – questa forma di fede dovremmo cercare di mettere veramente
al centro delle nostre attività.
Lo vediamo anche oggi in modo molto chiaro: lo sviluppo, là dove è stato promosso in modo esclusivo
senza nutrire l’anima, reca danni. Allora le capacità tecniche crescono, sì, ma da esse emergono
soprattutto nuove possibilità di distruzione. Se insieme con l’aiuto a favore dei Paesi in via di
sviluppo, insieme con l’apprendimento di tutto ciò che l'uomo è capace di fare, di tutto
ciò che la sua intelligenza ha inventato e che la sua volontà rende possibile, non viene
contemporaneamente anche illuminata la sua anima e non arriva la forza di Dio, si impara soprattutto a distruggere. E
per questo, credo, deve nuovamente farsi forte in noi la responsabilità missionaria: se siamo lieti della
nostra fede, ci sentiamo obbligati a parlarne agli altri. Sta poi nelle mani di Dio in che misura gli uomini potranno
accoglierla.
Da J.Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia,
1973
Per quanto la fede cristiana volesse designare il cosmo presente e l’umanità attuale come
passeggeri, sconvolti e contaminati dal peccato, mai essa lasciò sorgere un dubbio che nondimeno questo cosmo
fosse opera propria di Dio, e perciò buona, e che il Dio del cosmo e il Dio di Gesù Cristo fossero un
solo e medesimo Dio. I cristiani sapevano bensì che Dio avrebbe sostituito alla fine questo mondo con uno
migliore, il quale, attraverso di loro, già cominciava a entrare nella realtà, sapevano altresì
tuttavia che il mondo presente non era totalmente malvagio, ma aveva solo bisogno della trasformazione e
trasfigurazione, nella quale doveva risorgere alla gloria eterna. Perciò non riuscì loro nemmeno
difficile capire che l’ordine presente del mondo, sebbene transitorio, possedeva tuttavia un relativo diritto,
perciò, nel suo ambito, meritava anche rispetto e doveva essere respinto unicamente quando esorbitava da
questo suo quadro e si assolutizzava. Ciò essi trovavano espresso nella nota parola del Signore: “Date a
Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,17); trovavano la stessa
dottrina nelle lettere dell’apostolo Pietro (1Pt 2,13-17) e Paolo (Rom 13,1-7). Fondandosi sull’Antico
Testamento, sapevano distinguere tra la funzione e il suo detentore: come il re di Babilonia era potuto essere
‘servo di Dio’ (Ger 25,9), senza conoscere né onorare da parte sua questo Dio, pure le forze
statali dell’impero romano potevano adempiere un mandato, che viene da Dio, per questo nostro tempo, anche se
tali poteri erano amministrati da titolari sommamente discutibili e indegni. Il cristiano doveva rispettare in essi
la disposizione di Dio, finché e nella misura in cui, cioè, essi stessi si muovevano nella sfera di
questo ordinamento rimesso e destinato loro. Quindi, mentre la rivoluzione gnostica era anarchica, ponendo per
principio in discussione ogni specie di ordinamento che rientrasse in questo mondo, la rivoluzione cristiana rimaneva
limitata, negando bensì la comprensione che lo stato fino allora aveva avuto di sé, e in tal modo,
d’altra parte, le sue fondamenta teoretiche fino allora vigenti, ma attribuendogli tuttavia, nel proprio nuovo
mondo intellettuale, un nuovo ambito di validità, certo sostanzialmente ridotto.
Da Libertà e religione nell'identità dell'Europa, discorso del card.J.Ratzinger, nel ricevere il
premio “Liberal” in occasione delle Giornate internazionali del pensiero filosofico sul tema: “Le
due libertà: Parigi o Filadelfia?", il 20 settembre del 2002
Rivoluzione e utopia – la nostalgia di un mondo perfetto – sono collegate: sono la forma concreta
di questo nuovo messianismo, politico e secolarizzato. L’idolo del futuro divora il presente; l’idolo
della rivoluzione è l’avversario dell’agire politico razionale in vista di un concreto
miglioramento del mondo. [...]
È noto che i testi delle lettere degli apostoli – in consonanza con la visione tratteggiata nei
Vangeli – non sono affatto toccate dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono
chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Pt 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina
nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni
anima) stia sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna autorità
se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro
l’ordine stabilito da Dio. Ci si deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni di
coscienza.
In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle autorità legittime
«per amore del Signore»: «Perché questa è la volontà di Dio: che, operando
il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi
della libertà come di un velo per coprire la malizia...». Né Paolo né Pietro esprimono
qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino l’origine divina degli ordinamenti
giuridici statali, sono ben lontani da una divinizzazione dello Stato.
Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si può presentare come
Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore morale. Si collocano così in una buona
tradizione biblica – pensiamo a Geremia, che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà nei confronti
dello Stato oppressore di Babilonia, nella misura in cui questo Stato garantisce il diritto e la pace e così
anche il relativo benessere di Israele, che è la condizione della sua restaurazione come popolo.
Per altri articoli e studi su Roma presenti su questo sito, vedi la pagina Roma (itinerari artistici, archeologici, di storia della chiesa e di pellegrinaggio) nella sezione Percorsi tematici
[1] Su questo e sul reale significato dello straordinario affresco del Cenacolo di Leonardo da Vinci , puoi leggere Dal Codice da Vinci di Dan Brown ad una più rispettosa lettura iconografica del Cenacolo di Leonardo nel Refettorio di S.Maria delle Grazie a Milano di don Andrea Lonardo
[2] Cfr. su questo la recensione di Pietro Messa, all’importante opera di Giacomo Todeschini, Ricchezza francescana: Dalla storia del movimento francescano lo stimolo non a rigettare l’economia, ma a viverla in un orizzonte di “uso sensato” e non di sperpero, nella logica del bene comune. Gli studi di Giacomo Todeschini su Pietro di Giovanni Ulivi, S.Bernardino da Siena e la fondazione dei Monti di Pietà che anticipano lo sviluppo di ciò che Max Weber attribuiva, invece, a Calvino ed alla Riforma.