La Basilica di San Paolo fuori le mura fu edificata nel 324 (o comunque pochi anni dopo la Basilica del Laterano)
dall’imperatore Costantino, il quale la volle distinguere, tra le tante memorie che a Roma ricordavano il
passaggio di Paolo, come luogo privilegiato per la venerazione dell’Apostolo delle Genti.
La più antica testimonianza della sepoltura di San Paolo sulla via Ostiense ci è riportata nella
Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. È la stessa testimonianza che già abbiamo
incontrato a proposito della tomba di San Pietro al Vaticano. Eusebio riporta un testo scritto certamente fra il
199 e il 217 che dice: "Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli. Se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense,
vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa".
Restano controverse le circostanze precise del martirio di Paolo a Roma, legate comunque senza dubbio alla
persecuzione neroniana che già abbiamo descritto nella sezione dedicata a San Pietro. Purtroppo, non si
colse l’occasione per uno scavo archeologico durante i lavori di ricostruzione della basilica, dopo il
terribile incendio che la distrusse nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1823. Le evidenze archeologiche, emerse
allora, dicono che la basilica costantiniana – molto più piccola dell’attuale – era
rivolta ad Oriente, tendenza invertita nel tracciato voluto nel 386 dai tre imperatori Valentiniano, Teodosio e
Arcadio, che la ingrandirono. Il nuovo disegno della basilica fu poi completato da Onorio, quando assunse le
dimensioni attuali.
In epoca romana l’area si presentava (soprattutto dal I sec. a.C. al IV d.C., prima della costruzione
della basilica) come una zona di aperta campagna, utilizzata come sepolcreto, cosa che d’altronde, avveniva
per molte delle vie consolari che partivano da Roma. Scavi effettuati agli inizi del XVIII secolo e durante tutta
la seconda metà del secolo successivo, in particolare sotto la confessione ed intorno alla Basilica,
portarono alla luce tombe, lapidi, tratti di via lastricata anche paleocristiani, ed edifici funerari
(soprattutto colombari, ovvero piccoli edifici con nicchie entro le quali ospitare le urne cinerarie). La
tradizione vuole che il corpo dell’apostolo sia stato sepolto dal suo discepolo Timoteo e da una matrona
romana di nome Lucina, a cui sarebbe appartenuto il piccolo terreno della sepoltura (una donna di nome Lucina si
incontra varie volte e in diverse epoche, come soccorritrice di martiri cristiani a Roma, tanto da divenire quasi
un clichè letterario).
Il reperto più importante – emerso durante i lavori di ricostruzione del secolo scorso, condotti
dall’architetto V.Vespignani – è la lastra marmorea posta sotto l’altare, sulla tomba
dell’apostolo. Essa reca l’iscrizione Paulo Apostolo Mart(yri), cioè
"all’Apostolo Paolo martire". È controverso se essa risalga al periodo costantiniano della basilica
o a quello "dei tre imperatori". In questa lastra, una copia della quale è esposta nella pinacoteca
annessa al chiostro, erano stati praticati dai pellegrini alcuni fori che documentano l’uso popolare di
introdurvi grani d’incenso, lino e aromi da conservare quali reliquie.
Raggiungere Roma è stato, per Paolo, un sogno lungamente atteso e preparato. È importante tornare a
leggere nella loro globalità, nel pellegrinaggio alla tomba di Paolo, gli scritti neotestamentari che
parlano del rapporto fra l’apostolo e Roma.
Gli Atti degli Apostoli si concludono con l’arrivo di Paolo a Roma, ma tutto il racconto del libro
è una preparazione di questa fine. L’attenzione è centrata sull’annunzio del vangelo
che deve prima essere rivolto al popolo ebraico, ma deve poi raggiungere tutti i pagani, fino agli estremi
confini della terra.
È evidente l’itinerario, non solo geografico, ma anche teologico degli Atti, nell’annuncio
del Cristo risorto, prima della sua ascensione. Le Sue parole: "Avrete forza dallo Spirito santo che
scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli
estremi confini della terra" (At 1,8)
descrivono già tutto l’itinerario del libro che si concluderà con l’arrivo di Paolo a
Roma, dopo l’evangelizzazione della Giudea e della Samaria.
Nel giorno della Pentecoste, che segue l’Ascensione, il vangelo viene rivolto solamente al popolo ebraico,
come primo destinatario dell’annunzio. Vi sono ebrei di tutti i popoli, tra cui "stranieri di Roma, ebrei e
proseliti" (At 2, 11). Per "proseliti" sono da intendersi quei pagani che, pur non avendo ancora aderito
pienamente al giudaismo, tuttavia ne apprezzano già il monoteismo e la Legge, e si sono avvicinati alla
sinagoga, comportandosi già da "timorati di Dio". Essi sono già assimilati alla comunità
ebraica. Eppure, in loro è già prefigurata la missione che sarà anche per i pagani.
Sarà Pietro, colui che presiede la Chiesa, a battezzare a Cesarea Marittima per primo un non ebreo, il
centurione Cornelio, di cui si precisa che era della coorte Italica, dunque, se non un romano, certamente uno che
proveniva dalla penisola. Pietro dichiarerà, prima di Paolo, in quella circostanza: "In verità sto
rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone" (At 10, 34).
In questa affermazione petrina è contenuta una citazione dell’importantissima pericope di
Deuteronomio 10, 12-22, lo stesso testo a cui Paolo fa riferimento in Rom 2, 11, per parlare
dell’uguaglianza degli ebrei e dei pagani, dinanzi a Cristo. Il brano del Deuteronomio, parlando della
circoncisione del cuore e dell’amore per il forestiero, dice appunto che Dio non usa parzialità, non
fa preferenze.
Pietro si convincerà pienamente di questo quando contemplerà la discesa dello Spirito su Cornelio,
sui suoi congiunti e suoi amici intimi e, subito, li battezzerà. Già in At 4, 27 gli apostoli
avevano annunciato che le "genti" erano entrate in contatto con la storia della salvezza: "Davvero in questa
città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e
Ponzio Pilato con le genti e i popoli d’Israele".
Le nostre traduzioni non rendono bene tutto ciò che concerne questo centralissimo problema e annuncio
neotestamentario. Traducono con il termine "genti", o peggio ancora "gentili", il termine che, nella tradizione
del giudaismo, indica "i popoli non ebrei", in opposizione agli ebrei stessi. Insieme tutto il collegio degli
Apostoli si riunirà, nel cosiddetto primo concilio di Gerusalemme, dopo il primo viaggio missionario di
San Paolo – e sarà ancora Pietro, il primo a parlare – per sancire definitivamente come
volontà del Signore che, chi diviene cristiano non sia obbligato a divenire prima ebreo. Da questo
momento, gli Atti seguono solo il cammino di Paolo fino al suo arrivo a Roma. In particolare, da 16, 10
cominciano le cosiddette "sezioni-noi", la parte degli Atti cioè, in cui Paolo sembra essere accompagnato
dallo stesso autore del libro, che da qui, così descrive i viaggi: "partimmo, salpammo, arrivammo, ecc."
sempre usando la prima persona plurale. È, insomma, con l’autore degli Atti (che è lo stesso
del vangelo di Luca) con il quale Paolo probabilmente arriva a Roma.
Nel capitolo 19 degli Atti si racconta:
Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a
Gerusalemme, dicendo: Dopo essere stato là, devo vedere anche Roma".
Paolo, qui, esprime per la prima volta questo desiderio. che precede il suo essere poi costretto ad appellarsi a
Roma, per sfuggire alle accuse portate contro di lui, a Gerusalemme e a Cesarea Marittima. È al ritorno
dal suo terzo viaggio missionario che avrà l’occasione, per realizzarlo. Paolo viene, infatti
arrestato e falsamente accusato. Per poter sfuggire ad un processo ingiusto si appella a Roma. Veniamo
così a scoprire che Paolo ha la cittadinanza romana e ciò gli permette di poter essere giudicato
direttamente dai giudici imperiali a Roma.
Tale circostanza esterna permette il compimento del desiderio di Paolo: predicare a Roma e realizzare
così la vocazione che la Chiesa ha ricevuto di "portare il vangelo fino agli estremi confini della terra".
Roma non è geograficamente il confine estremo della terra (lo è piuttosto la Spagna, il finis
terrae, dopo il quale comincia il grande Oceano), ma, essendo il cuore dell’Impero Romano, giungere
lì vuol dire giungere al cuore delle "genti". Paolo sa che il vangelo è per tutti. Accogliere le
genti è un comando, perché anche a loro il vangelo è destinato. "Arrivati a Roma, fu
concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia" (At 28, 16).
Con un linguaggio moderno, potremmo dire che Paolo fu agli arresti domiciliari. La tradizione situa questo
luogo, dove ora sorge la chiesa di San Paolo alla Regola, la "regola" appunto della sua condizione vigilata.
Questo gli permetterà di predicare e di dichiarare ai Giudei che verranno da lui in visita:
"Sia dunque noto a voi che questa salvezza viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!" (At 28,
28).
Questa "ora", questo "oggi" caratterizzano il vangelo di Luca. Tale evangelista autore anche degli Atti,
è, secondo la tradizione, discepolo di Paolo, ragione per cui è raffigurato in vari luoghi della
basilica (vedi la statua nel quadriportico e il mosaico absidale). Nell’opera lucana, dall’inizio
della predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazareth fino al ladrone sulla croce, dalla Pentecoste alla
fine degli Atti, viene annunziata l’"ora", l’"oggi", in cui ognuno incontra la salvezza. Il vangelo
di Luca e gli Atti, letti insieme, ci mostrano come il vangelo sia per Israele e, insieme, per i pagani. Se
Gerusalemme e il Tempio erano l’inizio e la fine del vangelo lucano (e venivano sottaciuti i viaggi di
Gesù al di fuori della Terra Santa), negli Atti l’annuncio del Cristo compie la sua corsa fino a
Roma.
Nella lettera ai Romani, Paolo dà il fondamento scritturistico e teologico di tutto questo. La
lettera vuole mostrare soprattutto l’uguaglianza, nel peccato e nella salvezza in Cristo, per tutti gli
uomini. È il tema giubilare della porta del perdono, spalancata da Cristo, per tutti, indistintamente.
Paolo riconosce i doni che Dio ha fatto a pagani ed ebrei. Ai primi Dio ha donato di poter conoscere la sua
divinità:
Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la Sua eterna potenza e divinità (Rom 1, 19-20),
e ha fatto dono della coscienza morale:
Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono (Rom 2, 15).
Ma essi hanno continuato a non rendere gloria a Dio e a compiere il male e non solo continuano a fare queste
cose, ma anche approvano chi le fa" (Rom 1,32).
Agli ebrei, Dio ha donato la Legge "che è santa e santo e giusto e buono è il comandamento" (Rom
7, 12),
e ha eletto i patriarchi e la loro discendenza, per sempre. "Quanto alla elezione, sono amati, a causa dei
padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rom 11, 28), come Giovanni Paolo II ha
ricordato più volte, a partire dalla sua visita alla sinagoga di Roma.
Eppure la coscienza più chiara della divinità di Dio e della Sua Legge, è servita "a dare
piena coscienza della caduta" (Rom 5, 20).
Allora:
"Non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati
gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù" (Rom 3,
22-24).
La distinzione fra ebrei e pagani è meno importante dell’essere accomunati dal peccato e dalla
salvezza portata da Cristo.
Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? (Rom 8,31).
È per questo vangelo che Paolo è disposto a venire fino a Roma, a predicare ad una comunità
che già ha ricevuto la fede e chiarire ancora meglio ciò che il vangelo comporta e dona.
"Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono
quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma" (Rom 1, 14-15).
Per questo vangelo, Paolo sarà, anche pronto alla piena conformità a Cristo, fino al sacrificio
della stessa vita.
Dal capitolo 12 inizia la parte parenetica, fondata sul principio che il "culto spirituale", la liturgia gradita
a Dio, è
"offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rom 12, 1).
L’incarnazione di Cristo e il dono dello "Spirito di Cristo" – così lo chiama San Paolo
– permettono ora di vivere in una piena unione con la vita del Figlio di Dio, al nostro corpo di vivere
secondo i sentimenti e le sembianze di Cristo.
Paolo conosce bene la comunità cristiana di Roma quando scrive la lettera, pur non avendola ancora mai
visitata. Nel finale dello scritto, che noi, con tutta la tradizione, riteniamo autentico, cita ben 26 nomi di
persone conosciute, a cui invia saluti e lodi, fatto unico nell’epistolario paolino. È una
testimonianza straordinaria dei legami e dell’amicizia che sono possibili fra coloro che sono cristiani.
Fra i motivi era certamente presente anche la necessità di presentarsi ad una comunità che non lo
conosceva personalmente, in vista del suo futuro viaggio e dell’accoglienza del suo messaggio. Paolo aveva
bisogno di specificare la sua posizione fra i rischi – da un lato – del cosiddetto
"giudeo-cristianesimo", che non si apriva all’accoglienza dei pagani, e – dall’altro – di
una interpretazione estrema della sua dottrina, come dice la stessa lettera: "Perché non dovremmo fare il
male affinché venga il bene, come alcuni – la cui condanna è giusta – ci calunniano,
dicendo che noi lo affermiamo?" (Rom 3, 9).
Un terzo scritto neotestamentario, appartenente al corpus paulinum pur non essendo direttamente opera di
Paolo: la lettera agli Ebrei, che fa riferimento indiretto a Roma. Essa è probabilmente indirizzata
verso Roma, o comunque verso le comunità cristiane dell’Italia di allora, come appare dal saluto
finale "Vi salutano quelli dell’Italia" (Eb 13, 24),
da interpretarsi come inviato dai fuoriusciti dall’Italia ai loro fratelli rimasti in patria. La lettera
agli Ebrei contiene lo stesso annuncio della liturgia della vita della lettera ai Romani. Cristo, che "sulla
terra non sarebbe neppure sacerdote" (Eb 8, 4), perché non è discendente di Levi, è il sommo
sacerdote, l’unico "degno di fede e misericordioso" (Eb 2, 17), che ha offerto la propria vita. Essendo
Figlio di Dio è degno di fede e ha offerto se stesso una volta per sempre. Essendo misericordioso ha avuto
compassione di noi uomini. Da allora anche noi "offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè
il frutto di labbra che confessano il suo nome" (Eb 13, 15).
Un quarto scritto, la seconda lettera a Timoteo, è chiaramente di ambientazione romana, come
leggiamo in 1,17:
Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha più volte confortato e non s’è vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato.
La lettera si presenta come il compimento dell’itinerario paolino. Paolo si è pienamente conformato
a Cristo e ha condotto a questa conformità col Signore gli eletti incontrati nella sua missione. Matura
è oramai la sua partecipazione alle sofferenze di Cristo: "Perciò sopporto ogni cosa per gli
eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla
gloria eterna". (2 Tim 2,10).
Piena è la fiducia di Paolo in Cristo per la sua vita e per quella degli altri cristiani:
Certa è questa parola: Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui; se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo; se lo rinneghiamo anch’Egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tim 2,11-13).
Completa è la formazione per essere in Cristo, non come "coloro che stanno sempre lì ad imparare,
senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità" (2 Tim 3,7).
La corsa per essere trovati in Cristo e per annunciarlo fino a Roma, fino agli estremi confini del mondo
è ormai compiuta:
Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione (2 Tim 4, 6-8).
Anche la coscienza del martirio, della morte che apparentemente isola l’uomo dal consesso umano, nella
teologia paolina è inscindibile dal legame con "tutti coloro che attendono con amore la manifestazione del
Signore". Per loro Paolo ha corso, per loro muore martire, come estrema e convincente testimonianza di Cristo.
Per noi che ancora oggi veniamo pellegrini alla sua tomba.
Il martirio avvenne probabilmente alle Acque Salvie, dove ora sorge la basilica delle Tre Fontane, tramite
decapitazione. Il corpo del martire fu poi traslato nella nostra basilica.
Giovanni Paolo II ha più volte presentato il Giubileo non come un punto di arrivo, ma come una tappa importantissima nel cammino verso l’annuncio del vangelo nel terzo millennio del cristianesimo. Nella Incarnationis Mysterium il papa ha sottolineato il valore della missione cristiana.
È doveroso, in questa speciale circostanza, ritornare con rinsaldata fedeltà all’insegnamento del concilio Vaticano II, che ha gettato nuova luce sull’impegno missionario della Chiesa dinanzi alle odierne esigenze dell’evangelizzazione. Nel concilio la Chiesa ha preso più viva coscienza del proprio mistero e del compito apostolico affidatole dal Signore. Questa consapevolezza impegna la comunità dei credenti a vivere nel mondo sapendo di dover essere "il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio". Per corrispondere efficacemente a questo impegno essa deve permanere nell’unità e crescere nella sua vita di comunione. L’imminenza dell’evento giubilare costituisce un forte stimolo in questa direzione.
Il passo dei credenti verso il terzo millennio non risente affatto della stanchezza che il peso di duemila anni di storia potrebbe portare con sé; i cristiani si sentono piuttosto rinfrancati a motivo della consapevolezza di recare al mondo la luce vera, Cristo Signore. La Chiesa annunciando Gesù di Nazareth, vero Dio e Uomo perfetto, apre davanti ad ogni essere umano la prospettiva di essere "divinizzato" e così diventare più uomo. È questa l’unica via mediante la quale il mondo può scoprire l’alta vocazione a cui è chiamato e realizzarla nella salvezza operata da Dio.
Ma già dall’inizio del pontificato di Paolo VI la scelta del nome dell’apostolo Paolo, scelta
poi confermata da Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, ha voluto essere un segno della volontà di
sottolineare, nel ministero papale, l’amore per l’evangelizzazione e, quindi, per gli uomini e i
popoli. Così Paolo VI scriveva, nelle note manoscritte redatte al termine del ritiro che fece
nell’agosto del 1963, subito dopo l’elezione a pontefice: "E Paolo? Meditazione immensa. Da fare
continuamente".
E così terminava la sua meditazione:
La lucerna sopra il candelabro arde e si consuma da sola. Ma ha una funzione, quella di illuminare gli altri; tutti, se può. Posizione unica e solitaria; funzione pubblica e comunitaria. Nessun ufficio è pari al mio impegnato nella comunione con gli altri. Gli altri: questo mistero, verso il quale io devo continuamente dirigermi, superando quello della mia individualità, della mia apparente incomunicabilità. Gli altri che sono miei; oves meas; e di Cristo. Gli altri che sono Cristo: mihi fecisti. Gli altri che sono il mondo: sollicitudo omnium ecclesiarum. Gli altri al cui servizio io sono: et debetis alter alterius lavare pedes; confirma fratres tuos. Ecco: ognuno è mio prossimo. Quanta bontà è necessaria! Ogni incontro dovrebbe provocarne una manifestazione. Simpatia per tutti; amore al mondo: dilexit mundum. Preghiera ed amore universali. Iniziativa sempre vigilante al bene altrui: politica Papale. Quale cuore è necessario. Cuore sensibile, ad ogni bisogno; cuore pronto, ad ogni possibilità di bene; cuore libero, per voluta povertà; cuore magnanimo, per ogni perdono possibile, per ogni impresa ragionevole; cuore gentile, per ogni finezza; cuore pio, per ogni nutrimento dall’alto.
E così scriveva, al termine dell’anno santo del 1975,
"nel corso del quale la chiesa, protesa con ogni sforzo verso la predicazione del vangelo a tutti gli uomini, non ha fatto altro che compiere il proprio ufficio di messaggera della buona novella di Gesù cristo"
citando San Paolo, nella esortazione apostolica sull’evangelizzazione, l’Evangelii nuntiandi:
La chiesa lo sa: Essa ha una viva consapevolezza che la parola del Salvatore – Devo annunziare la buona novella del regno di Dio – si applica in tutta verità a lei stessa: E volentieri aggiunge con San Paolo: Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il vangelo!... Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare.
Giovanni Paolo II ha sottolineato più volte a parole, e mostrato con il gesto dei suoi incontri e della preghiera comune con i responsabili delle altre Chiese e Comunità cristiane, che esiste un legame fortissimo fra l’unità dei cristiani e l’evangelizzazione. Nell’enciclica Ut unum sint, interamente dedicata ad una appassionata riflessione sull’ecumenismo, così il papa ha scritto:
Non si deve dimenticare che il Signore ha implorato l’unità dei suoi discepoli, perché essa rendesse testimonianza alla sua missione ed il mondo potesse credere che il Padre l’aveva inviato (cfr. Gv 17, 21). Si può dire che il movimento ecumenico abbia in un certo senso preso l’avvio dall’esperienza negativa di quanti, annunciando l’unico Vangelo, si richiamavano ciascuno alla propria Chiesa o Comunità ecclesiale; una contraddizione che non poteva sfuggire a chi ascoltava il messaggio di salvezza e che vi trovava un ostacolo all’accoglienza dell’annuncio evangelico.
È nella volontà di Dio che la Chiesa sia costantemente rivolta ad essere segno e strumento di unità:
Assieme a tutti i discepoli di Cristo, la Chiesa cattolica fonda sul disegno di Dio il suo impegno ecumenico di radunare tutti nell’unità. Infatti la Chiesa non è una realtà ripiegata su se stessa bensì permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad annunciare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce: raccogliere tutti e tutto in Cristo; ed essere per tutti "sacramento inseparabile di unità.
La basilica di San Paolo è divenuta nel tempo luogo della preghiera struggente per l’unità
dei cristiani. Il calendario giubilare dell’Anno 2000 propone un’importante novità. La porta
santa della basilica di San Paolo sarà infatti aperta non nel Natale 1999 (come in San Pietro, nella
basilica del Laterano), ma il 18 gennaio 2000, giorno iniziale della settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani. È un ulteriore arricchimento della lunga tradizione ecumenica della
basilica
Già Papa Giovanni XXIII, la sera del 25 Gennaio del 1959, celebrando nella basilica paolina la
Conversione di San Paolo, manifestò per la prima volta la sua intenzione di indire il Concilio Vaticano II
(e di indire anche un Sinodo della Diocesi di Roma). Proponendo il Concilio estese quel giorno l’invito ai
fedeli delle altre Chiese e Comunità cristiane, perché partecipassero alla "ricerca per
l’unità e la grazia". La celebrazione della settimana di preghiera per l’unità dei
cristiani si è poi concretizzata, in Roma, con la tradizione della liturgia presieduta dal papa
l’ultimo giorno della settimana di preghiera, il 25 gennaio, festa della conversione di San Paolo.
Il papa Giovanni Paolo II, proprio nella basilica di San Paolo, in una omelia al termine della settimana di
preghiera per l’Unità dei cristiani 1982, così si espresse:
Questa Settimana di preghiera, grazie a Dio, è divenuta per molti cristiani una realtà acquisita, un’occasione in cui, benchè divisi, insieme si inginocchiano davanti al Padre comune per chiedere, per mezzo dell’unico Cristo e dell’unico Spirito, il dono dell’unità. Il fatto che i cristiani preghino insieme in questo modo è già di per sè una grazia e una garanzia delle grazie future, segno di speranza certa. Sono ormai trascorsi 75 anni da quando questa pratica venne introdotta dal fondatore dei Francescani dell’Atonement – P. Paolo Wattson –, con l’incoraggiamento del papa. In seguito, sotto l’influsso di uomini dediti alla causa dell’ecumenismo, come l’Abbé Couturier, la Settimana di preghiera ebbe un grande sviluppo e, più recentemente, grazie alla collaborazione fra il Segretariato per l’Unità dei Cristiani e il Consiglio Ecumenico delle Chiese, ha assunto l’attuale forma universale. Questo sviluppo è di per sé un indizio dell’incremento generale della comune ricerca dell’unità, che deve essere sempre accompagnata e sostenuta dalla preghiera.
Approfondendo il Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio del Concilio Vaticano II, la lettera
Tertio Millennio Adveniente sottolinea come sia auspicio del Papa: "che il Giubileo sia l’occasione
propizia di una fruttuosa collaborazione nella messa in comunione delle tante cose che ci uniscono e che sono
certamente di più di quelle che ci dividono".
Il riconoscimento della realtà dello stesso battesimo ricevuto nella professione di fede, che rende figli
di Dio e che incorpora alla Chiesa, è sorgente di stupore e di ringraziamento a Dio, come esigenza di
cammino e di conversione.
È l’ascolto dello Spirito che deve rendere tutti noi capaci di giungere a manifestare visibilmente, nella piena comunione, la grazia della figliolanza divina inaugurata dal battesimo: tutti figli di un solo Padre. L’Apostolo non cessa di ripetere anche per noi, oggi, l’impegnativa esortazione "Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Efesini, 4, 4-6)... Ogni anno giubilare è come un invito ad una festa nuziale. Accorriamo tutti, dalle diverse Chiese e Comunità ecclesiali sparse per il mondo, verso la festa che si prepara; portiamo con noi ciò che già ci unisce e lo sguardo puntato solo su Cristo ci consenta di crescere nell’unità che è frutto dello Spirito.
Tuttavia c’è ancora molto da fare perché l’unità dei cristiani manifesti visibilmente l’unità che Cristo ha dato alla Sua Chiesa:
L’avvicinarsi della fine del secondo millennio sollecita tutti ad un esame di coscienza e ad opportune iniziative ecumeniche, così che al Grande Giubileo ci si possa presentare, se non del tutto uniti, almeno più prossimi a superare le divisioni del passato millennio.
Accoglie il pellegrino che ha appena varcato il monumentale quadriportico della Basilica, l’ottocentesca
statua di san Paolo, che raffigura il patrono di Roma secondo un’iconografia stabilita fin dai primi
secoli del cristianesimo e adottata ancora dagli artisti dei nostri tempi.
Questo prototipo iconografico immagina l’autore delle lettere evangeliche come un adulto dalla lunga barba
scura appuntita e dalla fronte calva; la spada, oltre a ricordare l’arma con la quale fu martirizzato,
simboleggia, anche e soprattutto, la forza della parola di Dio. Nella lettera agli Efesini ascoltiamo infatti la
raccomandazione a prendere con sé, nella battaglia della fede, "la spada dello Spirito, cioè la
parola di Dio" (Ef, 6, 17),
e, nella lettera agli Ebrei, il santo ricorda ancora come
la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi Suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto (Eb, 4, 12-13).
Prima di fare ingresso nella basilica ci si può soffermare ad ammirare la porta centrale, eseguita
in bronzo da Antonio Maraini nel 1929, di notevole interesse per la fattura e per il programma iconografico
dettato dal padre Ildefonso Schuster (allora abate della basilica) al fine di esaltare la predicazione ed il
martirio, nel segno della croce di Cristo, sacralizzando il suolo pagano di Roma, i cui luoghi legati alle
vicende dei suoi Patroni sono stati rappresentati con dovizia di particolari. A rendere ancora più
evidente questo concetto dell’imitatio Christi lo scultore ha sottolineato, con una colorazione in
oro, la gigantesca croce che accoglie i fedeli nel loro ingresso alla Basilica e la doppia figura di Cristo, che
nel battente di sinistra prende la forma del Pantocrator e accompagna gli episodi della vita e martirio
di San Pietro, mentre in quello di destra viene raffigurato nel momento dell’Ascensione a
corredo delle vicende legate alla storia di San Paolo.
A destra del portale principale è collocata la porta santa che il Papa aprirà il 18 gennaio
del 2000. Per ammirare da vicino i battenti della più bella ed antica porta del monastero paolino,
sigillata all’interno di quella santa, bisogna dunque entrare nella chiesa. Fatta eseguire a Costantinopoli
da Staurachio di Scio nel 1070, è composta da cinquantaquattro bellissimi pannelli bronzei incisi,
disposti su nove registri, e svela un programma iconografico di stile bizantino tra i più interessanti e
precoci di Roma: esso comprende scene della vita di Gesù, storie degli Apostoli e dei loro
martìri accostate a figure di Profeti, sviluppando la storia della Chiesa dalla venuta del
Cristo – come predetto dai profeti – fino alla diffusione della Sua dottrina nel mondo attraverso gli
Apostoli. I primi dodici pannelli in alto a sinistra, che illustrano le dodici feste della liturgia bizantina,
possono aiutarci a riscoprire, con lo spirito ecumenico che caratterizza la basilica in questo Giubileo, la
bellezza e la profondità del messaggio e dell’iconografia bizantina.
Nel pannello della Natività (il secondo della prima fila in alto) vi sono raffigurati tutti i
momenti legati al parto, dall’annuncio dell’angelo ai pastori – in alto a destra – fino
alla nascita di Gesù, al centro della composizione ed illuminato dalla cometa mentre giace sulla
mangiatoia rappresentata come un sepolcro, poiché nell’incarnazione è già detta la
morte per amore. Mentre la Vergine al centro è distesa sul letto, nella fascia inferiore viene raffigurato
Giuseppe in disparte, conscio di non poter partecipare a pieno diritto alla scena della Natività, mentre
sulla destra due ancelle lavano il figlio di Dio appena venuto alla luce.
Nella scena della Crocifissione di Cristo (la terza della terza fila) il Salvatore viene
presentato – secondo la visione bizantina – trionfatore sulla morte anziché sofferente. Il
pannello seguente raffigurante l’Anastasis – ovvero la Resurrezione – mostra Cristo che
trae dagli inferi, le cui porte sono scardinate ai suoi piedi, i progenitori Adamo ed Eva, a simboleggiare la
redenzione dell’umanità intera dalla morte.
Segnaliamo infine la Pentecoste (terza della quarta fila) dove i dodici apostoli sono raccolti intorno ad
una porta dalla quale esce il Kosmos, quale immagine del mondo che emerge dall’oscurità per
ricevere dalla Chiesa l’annuncio della salvezza.
Ad accogliere il visitatore nell’area presbiteriale è il monumentale arco trionfale la cui
più antica ideazione iconografica risale ai tempi di Papa Leone Magno (440-461). Prima di iniziare la
descrizione del ciclo musivo, ricordiamo che oggi non rimane quasi nulla delle opere a mosaico originali della
basilica, andate perdute nell’ormai famoso incendio del XIX secolo. Alla composizione apocalittica della
fascia superiore – composta dai ventiquattro vegliardi separati in due gruppi dal Cristo clipeato, e
sormontati dai quattro simboli evangelici (secondo i racconti dell'Apocalisse) – si accompagna nella fascia
inferiore la presenza di San Paolo (a sinistra) la cui figura, fin dalla prima comunità cristiana, non
poteva non essere accompagnata da quella di Pietro (a destra), commemorati congiuntamente dalla Chiesa di Roma il
29 giugno come patroni della città. Così proprio Leone Magno, committente di questi mosaici,
descriveva tale festa:
Di ogni sacra solennità, o dilettissimi, il mondo intero è partecipe, e la pietà derivante dall’unica fede richiede che quanto si ricorda compiuto per l’universale salvezza, si celebri ovunque con gaudio comune. L’odierna festività (dei Santi Pietro e Paolo), tuttavia, oltre l’onore che si è conquistata in tutto il mondo, merita di essere celebrata da parte della nostra città con esultanza tutta particolare; perché, dove si compì la fine gloriosa dei principi degli Apostoli, è giusto che ivi si abbia il primato della letizia nel giorno del loro martirio. Questi sono in verità i grandi personaggi che hanno fatto splendere innanzi a te, o Roma, il Vangelo di Cristo; e da maestra che tu eri di errore, sei divenuta discepola della verità.
Ricordiamo anche una preghiera rivolta ad entrambi da Papa Damaso (366-384):
In lode di Pietro e Paolo. Chiunque sei che cerchi i nomi congiunti di Pietro e di Paolo, sappi che questi santi hanno qui riposato un tempo. L’Oriente inviò i suoi discepoli ed essi, grazie al sangue del martirio e alla eccelsa sequela di Cristo, hanno raggiunto le regioni celesti e il regno dei giusti. Roma ha piuttosto meritato di rivendicarli come suoi cittadini.
Furono entrambi ricordati anche come "colonne della Chiesa", Pietro di quella dei giudei e Paolo di quella dei
gentili (Gal 2, 7-9). Proprio quali cattedratici di queste due chiese sono infatti raffigurati
nell’interno dell’arco trionafale, visibile guardando la navata dall’abside. Questi
mosaici, congiuntamente con quelli che coronano l’abside, furono probabilmente eseguiti dal Cavallini nel
1325 per la facciata, e spostati in tale collocazione, smembrati e restaurati, dopo l’incendio del
1823.
Se la bellezza della decorazione musiva duecentesca del catino absidale dovuta a maestranze venete,
è purtroppo oggi soltanto intuibile dalla presenza di piccoli frammenti nella fascia inferiore superstiti
al rifacimento ottocentesco il progetto iconografico complessivo è rimasto a ricordo di una delle imprese
decorative romane più importanti dell’epoca medioevale, voluta da Papa Onorio III (1216 –
1227), raffigurato ai piedi del Cristo.
Secondo la diffusa tradizione romanica della Maiestas al centro della composizione troneggia Cristo benedicente
che mostra il libro sul quale è incisa una frase latina sul Giudizio Finale e desunta dal vangelo di
Matteo: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla
fondazione del mondo" (Mt, 25, 34).
Alla sua sinistra San Pietro è accompagnato dal fratello e apostolo Andrea, mentre alla sua destra San
Paolo viene presentato accanto all’evangelista Luca, autore degli Atti degli Apostoli e testimone
dell’evangelizzazione romana di Paolo. Gli altri apostoli – insieme all’evangelista Marco,
discepolo di Pietro, ed a Barnaba, compagno di fede di Paolo – sono rappresentati nella fascia
inferiore.
Al centro di essa si erge l’Hetimasia, un trono con gli strumenti della passione di Cristo
presentato dagli angeli, immagine tipicamente bizantina allusiva al Giudizio Finale; a commento di essa stanno i
due committenti (il sacrista Adinolfo e l’abate Giovanni Caetani) ed i Santi Innocenti, così
chiamati i primogeniti di Betlemme che Erode il Grande fece uccidere temendo la nascita – seconda una
profezia – del "re dei Giudei" (Mt, 2, 16), e qui ricordati perché le loro reliquie sono venerate
sotto l’altare. È questa l’unica parte del mosaico medioevale (insieme all’immagine di
Onorio III prostrato ai piedi della Maiestas) sopravvissuta all’incendio ed ai disastrosi
rifacimenti ottocenteschi.
In San Paolo fuori le Mura il fulcro della devozione fu da sempre riposto, come ricordato, nelle reliquie del
corpo del santo contenute nell’urna della confessione, e come di consueto per accentuarne
l’importanza, divenne il luogo della liturgia eucaristica riservato soltanto alla celebrazione pontificale.
Questo carattere simbolico e mistico dell’altare volle essere ancor più enfatizzato dalla
costruzione di un ciborio sovrastante che racchiudesse le immagini dei due martiri romani per eccellenza,
Pietro e Paolo, accompagnandole a quelle di San Benedetto (sebbene qualcuno identifichi la figura con quella
dell’abate Bartolomeo) e di Timoteo, il primo in memoria del fondatore dell’ordine che presiede a
tutt’oggi il Monastero, e il secondo a ricordo del più fedele discepolo di Paolo al quale
indirizzò le lettere pastorali inserite nel Nuovo Testamento, che abbiamo già visto. Sui pennacchi
degli archi vi sono invece raffigurati, insieme all’offerta del ciborio a San Paolo da parte dell'abate
Bartolomeo, tre coppie di personaggi dell’Antico Testamento: Adamo ed Eva che compiono il peccato
originale, Caino e Abele che sacrificano i prodotti delle greggi e dei campi a Dio, Davide e Salomone secondo un
programma decorativo stabilito dall’Abate Bartolomeo, committente per conto della suo ordine. Questo
insigne monumento scultoreo, scolpito da Arnolfo di Cambio intorno al 1285 e rimasto illeso dall’incendio
del 1823, rappresenta una tra la più belle opere d’arte presenti nella Roma cristiana.
Il candelabro, oggetto liturgico dalla forte connotazione simbolica – che rappresenta il
superamento del peccato e della morte attraverso la resurrezione di Cristo – ebbe fin dai primi secoli
grande importanza sia in seno alla liturgia pasquale che in quella giubilare. Tale candelabro, scolpito da
Niccolò d’Angelo e Pietro Vassalletto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo,
racchiude nella fitta decorazione cosmatesca un complesso programma iconografico diviso orizzontalmente in otto
registri che si leggono dal basso verso l’alto.
Il basamento accoglie quattro figure femminili diademate identiche, che afferrano al collo quattro coppie
di animali simbolici (sfingi, montoni e leoni) da interpretare quale raffigurazione metaforica della Prostituta
di Babilonia:
È caduta, è caduta Babilonia la grande ed è diventata covo di demòni, carcere di ogni spirito immondo, carcere d'ogni uccello impuro e aborrito e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato (Ap 17, 2-3).
Essa tiene legate a sé le potenze demoniache, vinte, come ci ricorda San Paolo, dalla potenza della fede in Cristo.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce; avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo (Col 2, 13-15).
Precede tre fasce narrative un intreccio di motivi zoomorfi e fitomorfi che escono dalle fauci di animali.
La figura di vendemmiante che compare tra i racemi è intesa a ricordare la ciclicità del lavoro
dell’uomo illuminato dalla storia della salvezza.
La cronaca delle tre fasce seguenti è incentrata sui racconti evangelici della Passione e Resurrezione
di Cristo, secondo una descrizione narrativa desunta dalle colonne della Roma classica, resa dai maestri
cosmati in modo meno fluido dando ad ogni fascia forte accento a singoli episodi (tre nelle prime due fasce e
solamente due nella terza). La prima delle tre fasce "storiche" mostra la cattura di Cristo da
parte delle guardie in armatura cui si accompagnano, alla sinistra di Gesù, due volti identificati quali
un sommo sacerdote e Giuda (quasi figura demoniaca) a ricordare il complotto che portò all’arresto;
il racconto prosegue, in senso antiorario, con il Sommo Sacerdote Caifa nel Sinedrio che, con il
libro sacro alla mano, giudica Cristo colpevole. Il terzo episodio, la derisione di Cristo, mostra
quest’ultimo legato mani e piedi ad un trono, con in mano una canna quale scettro, beffeggiato da soldati
giudei, alcuni dei quali si inginocchiano ironicamente ai suoi piedi. Sulla destra di questa scena si vede un
personaggio a terra calpestato dai soldati, interpretato da alcuni studiosi – per il curioso copricapo a
punta – come un ebreo, a simboleggiare la responsabilità (allora fortemente sentita) del popolo
ebraico, macchiatosi della colpa della condanna a morte del figlio di Dio.
La fascia seguente raffigura Cristo portato da Caifa a Pilato; da notare anche in questo episodio
la presenza di un volto che spicca tra le figure, secondo alcuni da ricondurre a Barabba, liberato dalla folla
invece di Cristo. Alla canonica raffigurazione di Pilato che si lava le mani segue la Crocifissione
corredata da tutti gli elementi di contorno: i due ladroni nelle croci più piccole; Maria alla destra e
Giovanni alla sinistra di Gesù; personaggi recanti i simboli della passione.
L’ultimo registro narrativo, diviso nettamente in due parti, comprende la Resurrezione: i
soldati addormentati vicino al sepolcro si confondono con gli angeli reggenti la mandorla entro la quale avviene
l’Ascensione, intesa come una Maiestas Domini dove Cristo appare in tutta la sua
maestà, seduto sopra l'arcobaleno, con una mano benedicente ed uno scettro nell'altra.
Secondo il gusto decorativo e simbolico romanico segue un’alta fascia con motivi ornamentali, i cui
intrecci fitomorfi ben si accordano con il commento al candelabro inciso dai marmorari in uno dei registri:
+Arbor poma gerit. arbor ego lumina gesto. porto libamina. Nuntio gaudia, sed die festo. Surrexit Christus. Nam talia munera p[rae] sto.
L’albero reca i frutti. Io sono un albero che reca luce. E doni. Annunzio gioia in un giorno di festa. Cristo è risorto. Ed io offro tali doni.
Altre otto figure di animali mostruosi chiudono il ciclo per sostenere la coppa reggicero.
Per ripercorrere le tappe della vita del santo cui la basilica è dedicata, bisogna segnalare il ciclo di
36 affreschi con storie della vita di san Paolo che corrono, in riquadri, lungo la parte alta delle pareti
della navata centrale e del transetto, dipinti – prendendo a modello i racconti degli Atti degli Apostoli
– per volere di Pio IX nel 1857. Questo ciclo, compiuto nell’arco di soli tre anni da ventidue
artisti, ricorda la storia dell’apostolo in ordine cronologico partendo dal primo interpilastro di destra
accanto all’abside, per proseguire nella navata centrale e concludersi nel transetto sinistro.
Riportiamo di seguito i titoli delle scene relative alla vita del santo secondo la descrizione degli Atti degli
Apostoli: Saulo persecutore dei cristiani presenzia al martirio di Santo Stefano, Conversione di Saulo
(At, 7,55-60; 9, 1-10); Anania infonde le virtù dello Spirito Santo in Saulo, Anania battezza Saulo
(At, 9, 10-19); Paolo predica in Damasco, Fuga di Paolo da Damasco (At, 9, 20-25); Paolo al Concilio di
Gerusalemme tra gli Apostoli (At, 13, 1-3); Consacrazione di Paolo e Barnaba (At, 11, 27-30); Paolo
converte Sergio proconsole di Pafo (At, 13, 4-12); Paolo e Barnaba a Lystra, Lapidazione di Paolo a
Lystra (At, 14, 8-18); Visione di Paolo a Troade (At, 16, 6-10); Paolo a Filippi libera una
fanciulla dal demonio, Paolo e Sila flagellati a Filippi (At, 16, 16-24); Paolo converte il
carceriere di Filippi (At, 16, 25-40); Discorso di Paolo nell’Areopago di Atene (At, 17, 22-34);
Paolo a Corinto (At, 18, 1-11); Gli efesini convertiti bruciano i loro libri (At, 19, 11-20);
Paolo resuscita il giovinetto Eutico (At, 20, 7-12); Paolo parte per Mileto (At, 20, 13-16);
Profezia di Àgabo (At, 21, 1-14); Paolo e Giacomo a Gerusalemme (At, 21, 17-26); Paolo
espulso dal tempio di Gerusalemme (At, 21, 27-40); Discorso di Paolo al popolo di Gerusalemme (At, 22,
1-21); Paolo dichiarandosi cittadino romano sfugge alla flagellazione a Gerusalemme (At, 22, 22-29);
Visione di Paolo in Gerusalemme (At, 23, 11), Paolo davanti a Felice in Cesarea (24, 1-9);
Naufragio di Paolo a Candia (At, 27, 9-44); Paolo e la vipera a Malta, Paolo guarisce il padre
di Publio principe di Malta (At, 28, 1-10); Incontro di Paolo con i cristiani di Roma sulla via Appia,
Paolo a Roma (At, 28, 17-29).
Terminata la narrazione degli Atti degli Apostoli vengono raffigurate immagini frutto di un’antica
tradizione iconografica come l’Elevazione al terzo cielo – tratta dalla Seconda lettera ai
Corinzi (12, 1-3) – cui segue Pietro e Paolo nel carcere Mamertino. La scena successiva dove
Pietro e Paolo si abbracciano prima del martirio non ha riscontro nella Bibbia ma è legata alla
leggenda che narra come Pietro e Paolo, prima di raggiungere i rispettivi luoghi del martirio – il Circo
Neroniano e le Acque Salvie – si salutarono per l’ultima volta nei pressi della Piramide di Caio
Cestio. In questo luogo un bassorilievo del XV secolo raffigurante l’abbraccio dei due apostoli, è
accompagnato dall’iscrizione che ricorda le parole che i due si sarebbero scambiati secondo la tradizione
riportataci dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze:
Quando venne poi il terribile momento della separazione disse Paolo a Pietro "La pace sia con te, fondamento della Chiesa e pastore di tutti gli agnelli di Cristo" Disse poi Pietro a Paolo "La pace sia con te predicatore di virtù, mediatore di salvezza per i giusti".
Chiude il ciclo dedicato al santo, romano per elezione, il Martirio di San Paolo avvenuto dove ora sorge
la Chiesa delle Tre Fontane, come già ricordato nella sezione dedicata agli aspetti spirituali del santo.
Tale Chiesa porta appunto questo nome perché la leggenda vuole che la testa di Paolo, dopo la
decapitazione, toccasse tre volte il terreno facendo scaturire tre zampilli d’acqua.
Proprio dove ha inizio questo ciclo di affreschi appena citato comincia a svilupparsi parallelamente una serie
di ritratti di papi, che raffigura – naturalmente per primo – San Pietro e che non ha ancora
fine (viene infatti aggiornata con l’immagine di ogni nuovo Papa eletto), a sottolineare nuovamente la
profonda unione dei Patroni di Roma.
In memoria invece di san Benedetto (480-547), fondatore dell’ordine a cui sono ancora affidati la
basilica e il monastero di San Paolo, è stata collocata nel transetto destro una statua accompagnata da
quella della sorella, santa Scolastica. (480ca.-543). Scolpite nell’ottocento in occasione del
restauro seguito al disastroso incendio, queste due statue marmoree rappresentano i due fratelli che
rivoluzionarono la vita monastica dei primi secoli del cristianesimo. Il monachesimo medioevale, seguendo la
Regola scritta da San Benedetto che divenne da Carlo Magno in poi la regola dei monasteri dell’Europa
Occidentale, fu promotore e responsabile dell’evangelizzazione e dell’unità culturale
dell’Europa di quei secoli.
Per ricordare due figure di "pellegrini eccellenti", quali Santa Brigida e Sant’Ignazio di Loyola, che si
fermarono a pregare proprio nella basilica, possiamo visitare la cappella del santo sacramento. Questi due
santi incarnano pienamente i due aspetti del messaggio paolino che abbiamo già sottolineato:
l’unità dei cristiani di cui fu promotrice santa Brigida, e la missionarietà che divenne
ragione di vita per Sant’Ignazio.
Durante il Giubileo indetto da Clemente VI nel 1350, una pellegrina svedese di nobili origini, Brigida
(1303-1373), madre di Caterina di Svezia e donna dalle forti doti diplomatiche, giunse a Roma. Voleva come
pellegrina celebrare il Giubileo, voleva l’approvazione della sua regola di vita, voleva riportare il Papa
da Avignone alla città di Pietro. Durante una visita alla Basilica di San Paolo, mentre era assorta nel
rivolgere le proprie preghiere ad un Crocifisso ligneo della fine del XIII secolo (attribuito da alcuni
studiosi al Cavallini), la statua cominciò a parlarle. Tale opera di pregevole fattura mostra infatti con
grande sensibilità la sofferenza di Cristo, accentuata dalla torsione del collo, nelle ore di trapasso
dalla vita alla morte. L’episodio miracoloso accaduto alla santa svedese fu rappresentato, in occasione del
Giubileo del 1650, da Stefano Maderno in un gruppo scultoreo collocato in una nicchia a destra della Cappella del
Sacramento. Quest’ultima fu edificata per il Giubileo del 1725 proprio per accogliere il venerato
crocifisso ligneo che si trovava tra l’altare maggiore e l’abside, e a proposito di questo Giubileo,
che ricorda l’anniversario della nascita di Gesù, giova ricordare che l’iconografia oggi
più consueta del Presepe – la Vergine in preghiera davanti a Gesù appena nato e non sdraiata
secondo l’iconografia medioevale (così come descritta nella Porta Santa della nostra basilica)
– si deve ad una visione della Santa durante un suo pellegrinaggio a Betlemme nel 1370.
Santa Brigida, oggi come allora, insieme a San Paolo, deve essere soprattutto ricordata per la lotta per la
riforma della Chiesa e per la unità voluta dal Signore in vista di una rinnovata evangelizzazione. Dice
l’opera Extravagantes, raccontando come Brigida fu investita della sua missione:
Qualche giorno dopo la morte del marito…lo Spirito del Signore la circonfuse e l’incendiò. Rapita in spirito, vide una nube splendente e da questa nube udì una voce che le diceva: "Io sono il tuo Dio che ti vuole parlare". Spaventata e timorosa che fosse un’illusione del nemico, udì una seconda volta: "Non temere. Io sono infatti il creatore di tutte le cose, non l’ingannatore. Sappi che non parlo per te sola, ma per la salvezza di tutti i cristiani. Ascolta quel che dico: sicuramente sarai la mia sposa e il canale della mia voce".
Il 3 ottobre 1999 Brigida è stata proclamata da Giovanni Paolo II, insieme a Caterina da Siena e ad Edith
Stein, compatrona d’Europa.
S. Ignazio di Loyola (1491-1556), la cui istituzione della Compagnia di Gesù fu di fondamentale
importanza per il Giubileo del 1550, fu pellegrino fortemente devoto alla città di Roma, scegliendo
proprio la basilica ostiense per accettare l’elezione a Preposito Generale della Compagnia di Gesù
– da poco istituita e confermata – in questa Cappella il 22 aprile 1541, dinanzi all’icona
della Vergine con il Bambino. Tale immagine rappresenta la Vergine che, tenendo in braccio Gesù
Bambino benedicente, indica con la mano destra il Figlio di Dio come via da percorrere per la salvezza, secondo
l’iconografia bizantina della Theotokos Hodigitria. E proprio questa via il "Pellegrino" Ignazio
(questo era il nome che si era dato da quando aveva incontrato il Signore) volle percorrere giungendo a Roma
nella speranza che tale città divenisse "l’esempio e non lo scandalo del mondo".
P. de Ribadeneira che fu testimone di questo momento ci riporta le parole che Ignazio pronunciò:
Io, Ignazio di Loyola, prometto a Dio onnipotente e al Sommo Pontefice suo vicario in terra, dinanzi alla santissima Vergine e madre Maria, a tutta la corte celeste e in presenza della Compagnia, povertà, castità e obbedienza perpetue, secondo la forma di vivere che si contiene nella bolla della Compagnia di Gesù Signor nostro…e prometto anche obbedienza speciale al Sommo Pontefice, quanto alle missioni…prometto di procurare che i fanciulli siano ammaestrati nella dottrina cristiana.
Giungeva così a compimento la ricerca di Ignazio iniziata quando, malato, cominciò a comprendere quello che poi insegnò ai discepoli sul discernimento degli spiriti.
Mentre leggeva la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così si interrogava: "E se facessi anch’io quello che ha fatto San Francesco; e se imitassi l’esempio di S.Domenico?". Queste considerazioni duravano anche abbastanza a lungo avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensava alle cose del mondo, era preso da un grande piacere; poi, subito dopo quando, stanco, le abbandonava, si ritrovava triste e inaridito. Invece quando immaginava di dover condividere le austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allora non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo.