Oltre alla letteratura apocrifa del Vecchio Testamento, composta a partire dal II sec. a.C., numerosi furono gli
apocrifi del Nuovo Testamento tra il I e il III sec. d.C. Essi vengono classificati, in primo luogo, secondo il
loro genere letterario, con la stessa distinzione dei testi canonici, in vangeli, atti di apostoli, epistole,
apocalissi. La parola “apocrifi” (dal greco “apokryphos”, “nascosto”) ha,
all'origine, lo stesso significato di “esoterico”, ma successivamente viene ad indicare tutti i testi
non accolti nel Canone.
Ad un secondo livello, quello di un'analisi contenutistica, gli apocrifi vengono invece suddivisi dagli studiosi
in due gruppi fondamentali:
Il motivo che spinse eretici, soprattutto gnostici, a comporre scritti esemplati sul Nuovo Testamento fu di assicurare credito ed autorità alla loro dottrina. Si consideravano, infatti, superiori ai cristiani comuni in quanto si dichiaravano depositari di una tradizione segreta, completamento o sostituzione di quella canonica, fatta risalire a Cristo stesso che ne avrebbe trasmesso il contenuto solo a l'uno o all'altro dei suoi discepoli:
Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo per iscritto ed ha detto: Chi troverà la spiegazione di queste parole, non gusterà la morte.
Gesù disse: Vi eleggerò uno tra mille e due tra diecimila e si leveranno come un solo individuo.
(dal vangelo copto di Tommaso)
In questi vangeli Gesù risorto - il Cristo storico quasi mai viene preso in considerazione - spiega i più profondi misteri con parole rivelatrici di “gnosi”, cioè di “conoscenza” che rende padroni delle proprie forze spirituali, conducendo alla vita eterna:
Gesù ha detto: I cieli si ritireranno e così la terra davanti a voi e il vivente per mezzo del Vivente non vedrà morte né timore, che Gesù dice: il mondo non è degno di chi troverà se stesso.
(dal vangelo copto di Tommaso)
Il materiale di questi testi ha tre fonti distinte:
Simon Pietro disse loro: Maria se ne vada da noi, perché le donne non meritano la vita! Gesù rispose: Ecco, io la trarrò così da renderla uomo. Così anche lei diverrà spirito vivente, simile a voi uomini. Ogni donna che si fa uomo entrerà nel regno dei cieli.
(dal vangelo copto di Tommaso)
Nonostante l'arbitrio degli elementi eretici e leggendari, questi scritti apocrifi furono a volte veicolo almeno parziale del messaggio cristiano in luoghi dove non esistevano altri testi a disposizione.
Il desiderio popolare di conoscere, sulla vita di Cristo,
di Maria e degli apostoli, più di quanto non fosse contenuto negli scritti
canonici offrì la motivazione per un complesso di opere apocrife, sviluppatesi
ai margini della canonicità, ma preziose testimonianze del cristianesimo
primitivo. Sono opere cariche di interesse pietistico e fantasia. Anche nell'intento
di servire la verità, ampliarono ed integrarono con aneddoti e leggende
le poche notizie di tradizione sicura del racconto canonico, sentito insufficiente
specie riguardo l'infanzia di Gesù, i tre giorni nel sepolcro, la vita
e l'assunzione della Vergine.
Possiamo prendere ad esempio la più antica leggenda mariana che è
narrata nel Vangelo di Giacomo. Il testo non possiede nessuno sviluppo puramente
teologico, ma solo il racconto semplice e insieme affascinante della vita di
Maria, in cui risaltano la sua verginità fisica, la discendenza davidica
e la santità interiore senza precedenti fin dalla più tenera età:
Ed i suoi genitori tornarono a casa, meravigliati e lodando il Signore Dio
perché la bimba non s'era voltata (per paura nel salire al tempio). Ora
Maria dimorava nel tempio del Signore, considerata come colomba. Il cibo lo
riceveva dalla mano di un angelo.
Alcuni di questi scritti presentano passi poetici di notevole bellezza e rivelano
una particolare sensibilità umana e spirituale dell'autore. Ne è
un esempio, tratto ancora dal Vangelo di Giacomo, il passo del silenzio cosmico
nel quale si descrive l'attimo in cui tutto si ferma, accompagnando nello stupore
la nascita di Cristo:
Ora io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai l'aere e lo vidi colpito
da stupore. Guardai la volta del cielo e la vidi immobile; gli uccelli del cielo,
fermi. Abbassai lo sguardo al suolo e scorsi per terra un vaso: operai sedevano
dintorno con le mani nel vaso. Chi masticava non masticava più; chi prendeva
su qualcosa non sollevava più; chi portava alla bocca non portava più:
i volti di tutti guardavano in alto. Ed ecco pecore spinte avanti; non andavano
innanzi, ma stavano ferme. Il pastore sollevò la mano per percuoterle
con il bastone; la mano restò in alto. Guardai giù alla corrente
del fiume e vidi le bocche dei capretti poste sopra, ma non bevevano. Quindi
tutto, in un istante, riprendeva il suo corso .
Per quanto riguarda il pensiero mariano contengono, a volte, sebbene sotto forma
simbolica o favolistica, ciò che in seguito teologia e magistero troveranno
ragionevole e da credere. Inoltre questi testi apocrifi sono fonte d'informazione
sul culto, sulle usanze liturgiche e sulle tradizioni circa diversi episodi
della vita e del martirio degli apostoli.
Gli originali di queste opere furono tradotti nelle varie lingue della Chiesa
antica e il racconto apocrifo, proprio per il suo intento di edificazione e
non dottrinale, si attestò quasi dovunque, esercitando, nel tempo, un
influsso notevole nella devozione privata e liturgica, nella letteratura e in
ogni forma d'arte.
Sotto la denominazione generale di “Padri apostolici” si è soliti indicare un gruppo
eterogeneo di scritti, riconducibili al periodo che intercorre tra la fine del I sec. e la metà del II
d.C.
Con la denominazione di “Padri” si usa indicare gli scrittori cristiani dei primi secoli che sono
stati anche vescovi e che, con la loro dottrina e testimonianza, hanno dato un apporto fondante alle generazioni
successive nell'annuncio e nella comprensione del cristianesimo. Il termine cronologicamente estremo della
letteratura “patristica” viene tradizionalmente fissato per l'Oriente con la figura di Giovanni
Damasceno (VIII secolo) e per l'Occidente con quella di Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo).
Il primo gruppo, in ordine cronologico, è detto appunti dei Padri “apostolici” perché,
pur non trattandosi di opere scritte direttamente da apostoli, l'antichità di questi testimoni li fa
situare in una filiazione immediata da essi, così da poterli considerare “di età
apostolica” o immediatamente successiva. Infatti alcuni di questi scrittori sono i diretti successori degli
apostoli o la terza generazione dopo di essi.
Per la loro consonanza stilistica, formale e teologica con gli scritti del Vecchio e Nuovo Testamento, alcuni di
essi godettero in alcuni luoghi l'autorità di scritti ispirati.
Suscita grande interesse, in alcuni di questi scritti, la profonda continuità con la tradizione e cultura
ebraica che consente agli studiosi di sfatare il luogo comune di un Cristianesimo sviluppatosi esclusivamente nel
contatto con la cultura greca.
Sebbene questo gruppo di scritti presenti al suo interno una profonda eterogeneità, è possibile
delineare degli elementi comuni a tutti:
La Didaché o “insegnamento” è la più antica opera di argomento disciplinare e liturgico: appartiene cioè a quegli scritti che impartiscono precetti circa l'organizzazione e la vita delle prime comunità cristiane. Il suo testo, già conosciuto da frammenti, fu ritrovato in un manoscritto del 1056 nella Biblioteca patriarcale di Gerusalemme nel 1883. La Didachè consta di 3 parti:
Il richiamo all'imminente Parusia del Signore chiude la breve
opera.
La Didaché potrebbe avere una datazione molto antica. Alcuni studiosi
la fanno risalire addirittura agli anni 50-60 d.C; in questo caso risulterebbe
perciò coeva dei vangeli sinottici.
Essa risente certamente dell'influenza giudaica di cui è una rielaborazione
profonda e cosciente.
Come luogo d'origine si concorda sulla Siria.
Clemente, vescovo di Roma, terzo successore di Pietro dopo Lino e Anacleto, è redattore di un'importante lettera inviata dalla Chiesa di Roma alla chiesa di Corinto intorno al 96 d.C. Ci è testimoniata dal Codice Alessandrino o Codice A. La Chiesa destinataria, fondata da S.Paolo è ancora travagliata da discordie intestine, come già appare nel NT. Lo scritto risulta estremamente interessante per un duplice motivo:
Il testo conosce chiaramente le lettere paoline:
Prendiamo il nostro corpo. La testa non può stare senza i piedi, né i piedi senza la testa. Le più piccole parti del nostro corpo sono necessarie ed utili a tutto il corpo; ma tutte convivono ed hanno una sola subordinazione per salvare tutto il corpo. Si conservi dunque tutto il nostro corpo in Cristo Gesù e ciascuno si sottometta al suo prossimo, secondo la grazia in cui fu posto. Il forte si prenda cura del debole, e il debole rispetti il forte. Il ricco soccorra il povero, il povero benedica Dio per avergli dato chi supplisce alla sua indigenza. Il saggio dimostri la sua saggezza non nelle parole, ma nelle opere buone. L'umile non testimoni a se stesso, ma lasci che sia testimoniato da altri. Il casto nella carne non si vanti, sapendo che un altro gli concede la continenza. Consideriamo, fratelli, di quale materia siamo fatti, come e chi entrammo nel mondo, da quale fossa e tenebra colui che ci plasmò e ci creò ci condusse al mondo. Egli aveva preparato i benefici prima che noi fossimo nati. Abbiamo tutto da lui, di tutto lo dobbiamo ringraziare. A lui la gloria nei secoli. Amen (37, 5- 38, 4).
Fortissimo è l'invito all'unità dell'unico corpo di Cristo, la Chiesa.
Perché strappiamo e laceriamo le membra di Cristo e insorgiamo contro il nostro corpo giungendo a tanta pazzia da dimenticarci che siamo membra gli uni degli altri? Ricordatevi delle parole di Gesù e nostro Signore. Disse, infatti: "Guai a quell'uomo; sarebbe stato meglio che non fosse nato, piuttosto che scandalizzare uno dei miei eletti. Meglio per lui che gli fosse stata attaccata una macina e fosse stato gettato nel mare, piuttosto che pervertire uno del miei eletti". Il vostro scisma ha sconvolto molti e molti gettato nello scoraggiamento, molti nel dubbio, tutti noi nel dolore. Il vostro dissidio è continuo (46, 7-8).
Come nella 1 Cor il richiamo alla carità segue quello all'unità:
Chi ha la carità in Cristo pratichi i suoi comandamenti. Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L'altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: "La carità copre la moltitudine dei peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa la carità, e della sua perfezione non c'è commento (49, 1- 50, 1).
Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il viaggio verso Roma, dove venne martirizzato intorno al 110, scrisse
sette lettere che sono giunte a noi in un unico corpus. Esse sono rivolte alle città di Efeso, Magnesia,
Tralle, Roma, Filadelfia, Smirne ed al vescovo Policarpo di Smirne.
Tre sono gli aspetti che caratterizzano queste lettere:
Nel saluto alla lettera ai Romani Ignazio chiama la Chiesa
di Roma “Colei che presiede alla carità”, dove è evidente
che tale affermazione va intesa proprio nel senso forte della Chiesa che presiede
alla comunione (“agape”) di tutte le Chiese:
Ignazio, Teoforo, a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza
del Padre altissimo e di Gesù Cristo suo unico figlio, la Chiesa amata
e illuminata nella volontà di chi ha voluto tutte le cose che esistono,
nella fede e nella carità di Gesù Cristo Dio nostro, che presiede
nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di
candore, che presiede alla carità, che porta la legge di Cristo e il
nome del Padre. A quelli che sono uniti nella carne e nello spirito ad ogni
suo comandamento piene della grazia di Dio in forma salda e liberi da ogni macchia
l'augurio migliore e gioia pura in Gesù Cristo, Dio nostro.
Ignazio chiede di non adoperarsi a scongiurare il suo martirio:
Non voglio che voi siate accetti agli uomini, ma a Dio come siete accetti.
Io non avrò più un'occasione come questa di raggiungere Dio, né
voi, pur a tacere, avreste a sottoscrivere un'opera migliore. Se voi tacerete
per me, io diventerò di Dio, se amate la mia carne di nuovo sarò
a correre. Non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando
è pronto l'altare, per cantare uniti in coro nella carità al Padre
in Gesù Cristo, poiché Iddio si è degnato che il vescovo
di Siria, si sia trovato qui facendolo venire dall'oriente all'occidente. È
bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui (9, 1).
Policarpo, vescovo di Smirne, amico e corrispondente di sant'Ignazio fu, secondo la tradizione, discepolo di Giovanni l'evangelista. Di lui sappiamo che intorno al 154 venne a Roma per discutere sul disaccordo che separava le Chiese d'Asia dalla Chiesa Romana circa la data precisa in cui celebrare la Pasqua (in Asia si celebrava il 14 del mese di Nisan, anche se non cadeva di domenica, in Occidente era già celebrata solo in giorno di domenica). Abbiamo inoltre uno dei più antichi racconti di martirio (“atti dei martiri”) che ci dà testimonianza del suo martirio a Smirne. Il testo del martirio ci mostra l'accusa di ateismo rivolta ai cristiani che affermavano la non esistenza delle divinità pagane. Il testo ci informa che il proconsole
cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: "Pensa alla tua età" e le altre cose di conseguenza come si usa: "Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di': Abbasso gli atei!". Policarpo, invece, con volto severo guardò per lo stadio tutta la folla dei crudeli pagani, tese verso di essa la mano, sospirò e guardando il cielo disse: "Abbasso gli atei!". 3. Il capo della polizia insistendo disse: "Giura e io ti libero. Maledici il Cristo". Policarpo rispose: "Da ottantasei anni lo servo, e non mi ha fatto alcun male. Come potrei bestemmiare il mio re che mi ha salvato? (9, 2-3).
Nelle due lettere a noi pervenuteci, Policarpo ammonisce i
suoi corrispondenti a non lasciarsi traviare dagli eretici e raccomanda loro
di seguire l'esempio di Cristo rifacendosi soprattutto alle Beatitudini. Nelle
parole della seconda lettera ai Filippesi è evidente l'influsso giovanneo
(2 Gv 7-9):
Chi non confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne è
un anticristo. Chi non confessa la testimonianza della croce è dalla
parte del diavolo. Chi torce le parole del Signore per le sue brame e dice che
non vi è né risurrezione né giudizio è il primogenito
di Satana. Per questo abbandonando la vanità di molti e le false dottrine
ritorniamo alla parola trasmessaci fin dal principio (7, 1-2).
Papia, vescovo di Gerapoli, città della Frigia, fu amico di Policarpo e rappresentante della corrente
millenarista (tale dottrina sosteneva che, dopo la resurrezione dei giusti e prima del giudizio finale, Cristo
avrebbe regnato in terra per mille anni insieme con i giusti). L'opera di Papia, divisa in cinque libri, è
stata intitolata Esposizioni dei detti del Signore, e si configura come una raccolta di tradizioni orali
riconducibili agli apostoli, della quale sono a noi pervenuti solo pochi frammenti. Questi frammenti rivestono
una notevole importanza in quanto ci forniscono notizie molto antiche sui vangeli di Marco e di Matteo.
“Anche questo diceva il presbitero Giovanni: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma
senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo; poiché egli non
aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di
Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l'opportunità, senza l'intenzione di fare
un'esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune
cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d'una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva
udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò". Questo fu raccontato da Papia intorno a Marco.
Di Matteo poi disse questo: "Matteo scrisse i detti [del Signore] in lingua ebraica; e ciascuno poi li
interpretava come poteva”.
(in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 39, 15-16)
Una tradizione molto antica, attribuisce a Barnaba, il missionario compagno di Paolo, una lettera che gli studiosi moderni sono concordi nel considerare apocrifa e nel ricondurre ad ambiente alessandrino come luogo di origine. Il testo ci è stato trasmesso dal Codice Sinaitico, dove è trascritto subito dopo l'Apocalisse, al termine del Nuovo Testamento canonico. Dal punto di vista contenutistico l'opera si divide in due parti eterogenee e di lunghezza disuguale:
Mentre la prima parte costituisce motivo di interesse storico in quanto testimonia la problematicità incontrata dagli ambienti cristiani primitivi nel precisare una linea interpretativa univoca ed equilibrata nei confronti dell'Antico Testamento e del rapporto tra la Nuova Alleanza e la Torah - ecco un passo che mostra chiaramente la centralità dell'ottavo giorno, il primo dopo il sabato, la domenica:
Dio disse loro: "Non gradisco le novene e i sabati". Vedete come dice: "Non mi sono ora accetti i sabati, ma quello che ho stabilito, nel quale, ponendo fine a tutte le cose, farò il principio dell'ottavo giorno che è l'inizio del nuovo mondo. Per questo passiamo nella gioia l'ottavo giorno in cui Gesù risorse dai morti e manifestatosi salì ai cieli (Barnaba 15, 8).
la seconda parte ci dimostra la forte influenza esercitata dallo stoicismo sul Cristianesimo nascente
Opera di ambiente romano, il Pastore di Erma risulta il più difficile da interpretare tra gli scritti dei Padri Apostolici. Da sempre ha presentato agli studiosi una serie di problemi relativi alla struttura, all'omogeneità dell'opera e alla sua cronologia. In stile ingenuo e popolaresco espone cinque visioni cui seguono dodici precetti e dieci allegorie. L'opera è finalizzata a richiamare i cristiani ad un più serio e attento impegno morale e mette in luce il rischio costante di un rilassamento dei costumi presente anche nella Chiesa primitiva che l'autore vorrebbe mantenere nella sua purezza e bellezza evangelica. Quest'opera infatti dal punto di vista storico risulta quanto mai interessante perché denota la difficoltà incontrata dalle prime comunità cristiane nel definire una precisa condotta da tenere nei confronti di quei cristiani che dopo avere ottenuto il perdono di tutti i peccati per opera del Battesimo, fossero incorsi ancora in grave colpa. Questo scritto rappresenta – in una forma allegorica - un primo tentativo di delineare una disciplina penitenziale. Gli studiosi hanno incontrato una duplice difficoltà:
Le affermazioni cristologiche presenti nell'opera risentono di interpretazioni discordanti che corrispondono alle eresie fiorite soprattutto nel corso del I e II sec. d.C. (soprattutto l'adozionismo ed il millenarismo).
La Lettera a Diogneto, di autore ignoto, suscita notevole interesse per la comprensione dei problemi relativi al confronto e alla convivenza tra le prime comunità cristiane e la cultura ufficiale. Ecco il famoso passo che mette in luce questo rapporto:
I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l'anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L'anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L'anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l'incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l'anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (5, 1- 6, 10).
Questa apologia in forma quasi epistolare tenta di rispondere
a domande sul disprezzo del mondo, sul motivo del non temere la morte, sul culto
dei cristiani che rifiutano ugualmente paganesimo e giudaismo, sul perché
i cristiani siano legati da tenero affetto e come mai siano apparsi soltanto
“ora e non prima”.
Il testo dell'A Diogneto ha avuto una singolare storia. Fu rinvenuto, in un'unica
copia, in un manoscritto di 260 pagine comprendente altri testi, nel 1436 a
Costantinopoli, in una pescheria dove era stato adibito a materiale di imballaggio.
L'Editio princeps fu pubblicata nel 1592. Sul finire del 1700 l'intero manoscritto
giunse alla Biblioteca Municipale di Strasburgo, dove fu distrutto da un bombardamento
dell'artiglieria prussiana del 1870. Fortunatamente ne erano state eseguite
due accurate recensioni nel 1842 e nel 1861 che ce ne hanno tramandato il testo.
Gli studiosi propendono per una datazione che oscilla tra la fine del II secolo
e gli inizi del III, per le sue somiglianze contenutistiche con gli “apologisti”
cristiani, ma taluni ne abbassano la datazione fino agli inizi del II secolo,
in contemporaneità con gli altri Padri apostolici.
“Canone” è una parola di origine greca
(“canon”= “regola”) che indica l'elenco dei testi biblici
riconosciuti dalla Chiesa come ispirati da Dio.
Gli scritti che compongono il NT (i 4 Vangeli, gli Atti, le 21 Lettere, l'Apocalisse),
sorsero separatamente in tempi e circostanze diverse. Gli apostoli ed i loro
discepoli non scrissero i diversi scritti con l'intenzione di produrre un'opera
comune da lasciare ai posteri, ma ognuno scrisse la sua opera. Gradualmente
vediamo, però, come già all'interno dello stesso NT gli scritti
si riconoscano a vicenda (è il caso dei sinottici Matteo e Luca, che
riprendono Marco, è il caso di 2 Pt 3, 15-16 “ La magnanimità
del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo
fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data;
così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse
ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili
le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina”
che già ci mostra l'esistenza di una raccolta delle lettere di Paolo
).
Il canone, quindi, non è stato “fatto” o “creato”
a priori, ma crebbe gradatamente con un processo di chiarificazione dei criteri
di riconoscimento degli scritti ispirati e canonici.
Verso la fine del I secolo già le diverse Chiese locali possedevano ciascuna
una raccolta, seppure talvolta incompleta, di scritti sacri. Le lettere di Paolo,
i 4 Vangeli e gli altri scritti, sebbene originariamente destinati a comunità
particolari, venivano conservati e copiati perché ogni Chiesa potesse
leggerli nella liturgia per essere istruita sulla dottrina del Signore, attraverso
gli insegnamenti provenienti dagli apostoli o da persone ad essi vicine.
Una prima idea di NT come unità di scritti cristiani
accanto al AT, emerse nel II secolo sia per il dinamismo interno della Tradizione,
sia per contrapposizione al rifiuto di Marcione dell'Antico Testamento. Tertulliano
verso il 200 usa per primo l'espressione NT (Adversus Marcionem 4, 1, 6; 4,
22, 3) e ciò coincide cronologicamente con la comparsa della lista di
libri del NT nel Frammento Muratoriano, ritenuto l'elenco più antico
conosciuto dei testi sacri.
L'obiettiva difficoltà di comunicazione tra le diverse Chiese e la difficoltà
di stabilire la paternità letteraria apostolica di alcuni scritti esponevano
al rischio, da un lato, di ammettere opere pseudoepigrafiche, solo perché
portavano il nome di apostoli o discepoli, dall'altra, di rifiutarne altri nell'incertezza
di stabilire se essi fossero veramente opera degli apostoli. Riserve e problemi,
proprio a causa della paternità letteraria, furono sollevati sulla Lettera
agli Ebrei, la II di Pietro, la II e III di Giovanni (queste ultime anche perché
meno conosciute e apprezzate, data la loro brevità), le Lettere di Giacomo
e di Giuda (qui anche per presunti contrasti con la “regola della fede”)
e l'Apocalisse (che incontrò difficoltà dottrinali anche per l'abuso
eretico millenarista che ne venne fatto).
Soltanto alla fine del IV secolo, con il Concilio di Ippona e di Cartagine,
la Chiesa d'Occidente (in Oriente si ebbe un processo più lento) espresse
l'accordo definitivo sul Canone di 27 libri neotestamentari. Questa lista fu
poi ribadita dal Concilio di Firenze nel XV secolo.
Nel XVI secolo (in seguito ad un riaffiorare degli antichi dubbi da parte
degli umanisti e successivamente di Lutero che introdusse una distinzione nei
libri del NT, attribuendo ad alcuni un ruolo secondario, il cosiddetto “canone
nel canone”) il Concilio di Trento, fondandosi sulle enunciazioni del
Magistero precedente, definì solennemente “semel pro semper”
il canone completo: “Se qualcuno poi non accetterà consapevolmente
come libri sacri e canonici questi libri... sia anatema”. Il Concilio
offrì in questa dichiarazione due criteri di canonicità: la lettura
liturgica ordinaria dei testi sacri nella Chiesa Cattolica e la loro presenza
nell'antica versione latina detta Volgata. Inoltre, con l'espressione “interi
con tutte le loro parti”, ribadì la canonicità, ancora negata
o messa in dubbio da alcuni, di brevi brani, in particolare della cosiddetta
“finale lunga” del Vangelo di Mc (Mc 16, 9-20), di Lc 22, 43-44
(il sudore di sangue) e di Gv 7, 53-8, 11 (la pericope dell'adultera che manca
in alcuni manoscritti antichi di Gv) , poiché presenti appunto nella
Volgata.
Il Concilio Vaticano I, nel secolo XIX, con riferimento esplicito al Decreto
Tridentino chiarirà la canonicità come riconoscimento magisteriale
della Chiesa dell'ispirazione divina dei libri sacri.
Infine il Concilio Vaticano II ripetendo la dottrina del precedente Concilio,
aggiunge e sostiene nella Dei Verbum: “E' la stessa Tradizione che fa
conoscere alla Chiesa l'intero Canone dei libri Sacri, e in essa fa più
profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre
Lettere” (DV 8).
Viene quindi affermata l'insufficienza del dato di fatto dei criteri oggettivi
e scientifici (per esempio la paternità letteraria apostolica degli scritti)
nella definizione del Canone senza il dato della fede che afferma essere la
Sacra Tradizione a stabilire il Canone. Nella Tradizione, strettamente congiunta
e comunicante con la Sacra Scrittura perché ambedue scaturiscono dalla
stessa divina sorgente (DV 9), la Chiesa riconosce l'opera di discernimento
e illuminazione dello Spirito Santo che la guida a conservare e custodire la
Rivelazione nella sua integrità per proclamarla agli uomini di tutti
i tempi.
E' il più antico “canone” conosciuto. Si
chiama così perché fu scoperto da L.A.Muratori nel 1740. E' contenuto
in un palinsesto del sec. VIII appartenente alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.
E' ritenuto un testo di origine romana, antecedente al 200 d.C. Non si fa menzione,
in esso, della lettera agli Ebrei e delle due lettere di Pietro. Manca dell'inizio
in cui, chiaramente, il testo faceva menzione dei vangeli di Matteo e di Marco.
...a questi [fatti] tuttavia è stato presente e così li ha
esposti. Il terzo libro del Vangelo, quello secondo Luca, è stato steso
con suo nome da Luca, medico, che Paolo, dopo l'ascensione di Cristo, aveva
preso con sé come esperto del viaggio. Neanche lui vide il Signore nella
sua carne e, come fu capace di ricostruirne il corso, comincia la sua narrazione
dei fatti dalla nascita di Giovanni.
Il quarto Vangelo è quello di Giovanni, uno dei discepoli. Esortato dai
suoi condiscepoli e vescovi, egli disse: “Digiunate con me oggi e in questi
tre giorni e qualsiasi cosa sarà rivelata a uno di noi ce la narreremo
a vicenda”. In quella stessa notte fu rivelato ad Andrea, uno degli apostoli,
che Giovanni doveva scrivere tutto a suo nome e tutti gli altri dovevano verificarne
l'esattezza.
Perciò, anche se i singoli vangeli insegnano diversi principi, per la
fede dei credenti non cambia niente. E' infatti per opera dello stesso Spirito
che viene manifestato in ogni vangelo tutto ciò che riguarda la natività,
la passione, la risurrezione, il dialogo con i suoi discepoli e le sue due venute:
la prima, già avvenuta, nell'umiltà e nel disprezzo, la seconda,
che deve ancora venire, gloriosa, con potere regale.
Perché dobbiamo meravigliarci, quindi, se Giovanni presenta in modo così
fermo ogni affermazione, anche nelle sue lettere, dicendo di se stesso: “Ciò
che noi abbiamo visto con i nostri occhi e udito con le nostre orecchie, ciò
che abbiamo toccato con le nostre mani, noi lo scriviamo a voi”! In questo
modo egli si dichiara non solo testimone oculare e uditore, ma anche scrittore
che narra in modo ordinato le opere meravigliose del Signore.
Quanto poi agli Atti di tutti gli apostoli, essi sono scritti in un solo libro.
Luca, scrivendo all'“illustre Teofilo”, inserisce quegli eventi
che erano avvenuti in sua presenza. Questo è evidente dal fatto che è
omessa la passione di Pietro e la partenza di Paolo dall'Urbe verso la Spagna.
Passando poi alle lettere paoline, sono esse stesse che mostrano chiaramente,
a chi vuol capire, il luogo da cui sono state inviate e il motivo per cui sono
state scritte. Tra le lettere di una certa lunghezza, Paolo ha scritto prima
di tutto ai Corinzi, vietando le divisioni in partiti, poi ai Galati, proibendo
la circoncisione, e ancora più diffusamente, ai Romani, per inculcare
in loro il principio dell'unità e dell'ordine delle Scritture, che hanno
in Cristo il loro principio unitario. Su questi particolari non è necessario
che ci dilunghiamo oltre, anche perché lo stesso beato Paolo, seguendo
lo schema del suo predecessore Giovanni, scrive a sette chiese, ma solo nominalmente.
Egli segue questo ordine di composizione: la prima ai Corinzi, la seconda agli
Efesini, la terza ai Filippesi, la quarta ai Colossesi, la quinta ai Galati,
la sesta ai Tessalonicesi, la settima ai Romani. In verità, al fine di
correggere, è stata scritta un'altra lettera ai Corinzi e ai Tessalonicesi.
Comunque, al di là di questa varietà di nomi, si riconosce l'unica
chiesa sparsa su tutta la terra: anche Giovanni infatti, nell'Apocalisse, pur
scrivendo a sette chiese, intende parlare a tutti. Ci sono poi una lettera a
Filemone, una a Tito e due a Timoteo, scritte per l'affetto e per l'amore, e
tuttavia ispirate dall'onore della chiesa cattolica e dall'ordinamento della
disciplina ecclesiastica. Ci sono in circolazione anche una lettera ai Laodicesi
e un'altra agli Alessandrini, scritte falsamente a nome di Paolo, e molti altri
scritti che non possono essere accolti nella chiesa cattolica: il miele infatti
non deve essere mischiato con l'aceto. Anche la lettera di Giuda senza dubbio,
e le due lettere che portano il nome di Giovanni, già citato sopra, sono
accettate nella chiesa cattolica, oltre che la Sapienza, scritta dagli amici
di Salomone in suo onore. Accogliamo inoltre solo l'Apocalisse di Giovanni e
quella di Pietro, anche se alcuni dei nostri fratelli non vogliono che quest'ultima
venga letta nella chiesa. Quanto al Pastore, in realtà esso è
stato scritto recentemente, ai nostri giorni, da Erma, mentre il vescovo Pio,
suo fratello, sedeva sulla cattedra della chiesa della città di Roma.
Per questo il libro è molto utile da leggere, ma non può essere
pubblicamente letto nella chiesa al popolo, né tra i profeti, il cui
numero è completo, né tra gli apostoli. Noi non accogliamo assolutamente
niente di Arsinoe, detto anche Valentino, o di Milziade; rifiutiamo anche quelli
che hanno composto un nuovo libro dei Salmi per Marcione, come anche Basilide
di Asia, il fondatore dei Catafrigiani.
Così dicono i canoni del Concilio di Ippona, che vede
riunite tutte le Chiese d'Africa l'8 ottobre dell'anno 393:
E' stato stabilito che, al di fuori delle Scritture canoniche, non venga
letto niente nella chiesa con la denominazione di scritture divine. Sono da
considerarsi Scritture canoniche: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.
Giosuè, Giudici, Rut, i quattro libri dei Re, i due libri delle Cronache,
Giobbe, il Salterio di Davide, i cinque libri di Salomone, i dodici libri dei
Profeti, Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele, Tobia, Giuditta, Ester, i due libri
di Esdra, i due libri dei Maccabei.
Appartengono al Nuovo Testamento: i quattro libri dei Vangeli, il libro degli
Atti degli apostoli, le tredici lettere dell'apostolo Paolo, sempre dello stesso
la lettera agli Ebrei, due lettere di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo,
una di Giuda, l'Apocalisse di Giovanni.
Per la conferma di questo canone, sia consultata la chiesa di oltremare [di
Roma]. Sia permessa anche la lettura delle passioni dei martiri, quando si celebrano
i loro anniversari.
Questo stesso canone è attribuito anche al concilio cartaginese, chiamato
cartaginese terzo, dell'anno 397 (canone 47) ed è stato ribadito anche
dal concilio cartaginese del 419 (canone 29), con questa differenza: invece
di “le tredici lettere dell'apostolo Paolo, sempre dello stesso la lettera
agli Ebrei”, si dice: le quattordici lettere dell'apostolo Paolo”.
Negli stessi concili (del 397 e del 419), dopo le parole: “Il libro dell'Apocalisse
di Giovanni”, al posto della precedente, si trova la seguente conclusione:
Si faccia conoscere questo canone a Bonifacio, nostro fratello nel sacerdozio
e agli altri vescovi di quelle parti, perché ottenga la conferma. Dai
nostri padri, infatti, abbiamo accolto questi testi, perché siano letti
nella chiesa.