Riprendiamo, per il progetto Portaparola, l’articolo che Antonio Paolucci ha scritto per Avvenire del
29/4/2008, con il titolo originale “Il Quattrocento nell’Urbe e la grande rinascita culturale da
Donatello a Perugino” a recensione della mostra “Il ‘400 a Roma. La Rinascita delle Arti da
Donatello a Perugino”.
Ripubblicare questo testo sul nostro sito vuole essere un invito a visitare la mostra. I manuali di storia
dell’arte hanno abituato ad individuare in città come Firenze, Ferrara, Mantova, i luoghi della
civiltà umanistica e rinascimentale in Italia.
Il grande merito della mostra è quello di inserire a pieno titolo Roma in questo elenco, anzi di
indicare come proprio nella città dei papi il rinascimento abbia raggiunto il suo vertice. E di mostrare
al contempo come, senza una piena consapevolezza di questo, sia impossibile capire la storia dell’arte e la
storia della chiesa di questo straordinario periodo.
La rilevanza del quattrocento non è sempre evidente in Roma, perché Raffaello e Michelangelo e
poi ancora il barocco del Bernini e del Borromini o gli interventi successivi hanno cancellato per sempre alcune
delle precedenti realizzazioni artistiche –si pensi solo al ciclo perduto di affreschi sulle storie di
S.Giovanni Battista realizzato da Gentile da Fabriano per S.Giovanni in Laterano a partire dal 1427, al perduto
Ciclo degli Uomini illustri di Masolino a Palazzo Orsini di Montegiordano, degli anni 1430-32, da considerare
insieme alla Cappella Branda Castiglione in S.Clemente affrescata insieme a Masaccio che proprio a Roma
morirà, ai lavori perduti di Pisanello che completò negli anni 1431-1432 il ciclo di Gentile da
Fabriano in S.Giovanni in Laterano, alle opere del Beato Angelico del quale resta superstite solo il ciclo della
Cappella Nicolina mentre è perduta, per i successivi lavori di Paolo III, la decorazione dalla Cappella
del Sacramento sempre nei Palazzi Vaticani dipinta fra il 1447 ed il 1455, al primo progetto per
l’ampliamento del coro della basilica di San Pietro di Bernardo Rossellino, che poté realizzare
verso il 1452 solo un primo alzato di circa sette metri, senza mettere mano ancora alla demolizione
dell’abside costantiniana come invece aveva progettato, alle stanze affrescate da Piero della Francesca in
Vaticano negli anni 1458-1459, perdute per i successivi interventi raffaelleschi o, più probabilmente, per
un incendio, agli affreschi perduti dell’Ascensione di Cristo dipinti da Melozzo da Forlì intorno al
1474 nell’abside della basilica dei SS.Apostoli, dei quali restano solo alcuni angeli ed apostoli oltre
alla figura intera del Cristo ora al Palazzo del Quirinale, agli affreschi perduti di Andrea Mantegna, degli anni
1488-1489 nella Cappella di San Giovanni nel Palazzo del Belvedere in Vaticano, agli affreschi perduti di
Pinturicchio per Castel Sant’Angelo realizzati a partire dal 1495. La mostra indaga su queste opere perdute
e presenta, insieme, il patrimonio che si è conservato, inserito nel clima culturale della Roma
dell’epoca –si pensi solo all’attività al servizio della Curia Pontificia in quegli anni
di Leonardo Bruni, di Poggio Bracciolini, di Leon Battista Alberti che a Roma scrisse alcune delle sue opere
più importanti, di Lorenzo Valla, di Flavio Biondo, di Bartolomeo Platina.
Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2008)
Il vero punto di snodo per la storia delle arti sotto il cielo di Roma è stato il pontificato di
Niccolò V (1447-1455). Si può dire che con lui «l’Umanesimo saliva sulla cattedra
di Pietro» (Gregorovius). Sul letto di morte il vecchio pontefice fece ai suoi cardinali un discorso che
è rimasto famoso perché sancisce l’alleanza fra la Chiesa e le Arti e prefigura il primato
culturale di Roma nell’età moderna: «Noi sentiamo che soltanto coloro che sono versati negli
studi possono comprendere quale cosa grande sia la Chiesa di Roma. Il volgo invece… occorre che sia
colpito dalla grandezza di qualche opera materiale che si imponga per la sua magnificenza… e che agli
insegnamenti dei dotti si aggiunge la conferma della grandiosità degli edifici, di monumenti in qualche
guisa perpetui, testimonianze che sembrano quasi opera dello stesso Dio…».
Tutto quello che accadrà dopo sulle rive del Tevere (Botticelli chiamato nel 1480 a lavorare alla Sistina
con Perugino, con Cosimo Rosselli, con Domenico Ghirlandaio, Melozzo operoso nei Palazzi Apostolici
nell’affresco del Platina, Bramante incaricato di ricostruire l’antica San Pietro e poi ancora i
cicli pittorici di Raffaello e di Michelangelo in Vaticano, il colonnato di San Pietro del Bernini, i cieli
barocchi di Pietro da Cortona e del Baciccio, le fontane e gli obelischi nelle piazze, le biblioteche sterminate
e i musei mirabili curati dai papi come la pupilla dei loro occhi) tutto quello che ha fatto la visibile gloria
della Roma moderna, discende dalle premesse lucidamente enunciate da papa Niccolò V alla metà
del Quattrocento.
Questo per dire che il Quattrocento è stato un secolo cruciale per la storia delle arti a Roma, ma lo
è stato anche, di conseguenza, per l’Italia e per l’ecumene cristiano. I fiorentini (con
Masaccio, con Donatello, con Brunelleschi, con il Beato Angelico, più tardi con i pittori della Sistina)
portarono a Roma la visione secondo prospettiva e la prospettiva fu per tutti il catalizzatore ideale degli
elementi costitutivi dell’ideologia e della poetica rinascimentali: culto dell’antico, ricerca
naturalistica, valori umanistici.
Ma la visione prospettica trapiantata a Roma obbligava al confronto con gli «exempla» di una
civiltà insuperabile: i «mirabili murari» degli antichi, l’ordine, la maestà
e la venustà delle statue, delle colonne e degli archi. «Roma quanta fuit ipsa ruina
docet…» insegna una antica sentenza e il Rinascimento trapiantato nella città dei papi
assunse un suo specifico carattere, solenne e quasi sacrale. Come insegna la vicenda di Melozzo da Forlì e
di Antonio Aquili meglio noto come Antoniazzo Romano.
C’era infine la scelta ideologica della Curia papale che fece del Rinascimento la lingua figurativa
ufficiale della Chiesa. Il Beato Angelico nella Cappella Niccolina, cuore dei Palazzi Apostolici, la squadra
umbro-toscana di Perugino, Botticelli e Ghirlandaio alla Sistina, Filippino Lippi alla Minerva, Pinturicchio a
Santa Maria del Popolo e negli Appartamenti Borgia, Piero della Francesca nel ciclo oggi perduto perché
sostituito da Raffaello nella Stanza della Segnatura, rappresentano scelte culturali perfettamente consapevoli e
straordinariamente eloquenti.
Dalla feconda provvidenziale contaminazione fra volontà politica, modelli figurativi e persistenza di un
Antico che la Chiesa rappresentava e custodiva e che era romano-imperiale ma anche bizantino e paleocristiano,
prese forma la Città delle arti nel XV secolo. Ha ragione Claudio Strinati (uno dei curatori della mostra
con Marco Bussagli e Maria Grazia Bernardini) quando scrive che non ci sarebbe stato il Cinquecento di
Raffaello e di Michelangelo senza Melozzo, senza i pittori della Sistina, senza Piero della Francesca. Senza,
soprattutto, la felice linea politico-culturale adottata dai papi umanisti nel XV secolo.
La mostra allestita nel Museo del Corso gestito dalla Fondazione presieduta da Emmanuele Francesco Maria
Emanuele, presenta poco meno di duecento opere che raccontano la vita i riti e i costumi di una città
caratterizzata da una sua tumultuosa vitalità, percorsa da vivaci fermenti culturali.
Nella Roma del Quattrocento «…si tenevano le pecore e le vacche dove sono oggi i banchi dei
mercanti» scriveva Vespasiano da Bisticci nella Vita di papa Eugenio IV. Poteva persino accadere,
come testimoniano le cronache, che i lupi entrassero nottetempo dentro la cerchia delle mura Aureliane a
minacciare le case e dissotterrare i cadaveri nei cimiteri. Ma Roma era anche la città che attirava folle
enormi di pellegrini da ogni angolo della Cristianità e, con loro, artisti, umanisti, filologi, antiquari
che studiavano i manoscritti negli antichi monasteri e disegnavano e catalogavano le testimonianze della
civiltà classica.
A Roma, c’era la solennità dei riti, c’era il tumulto cosmopolita dei grandi anni santi
(celebre quello del 1450 che portò in città Fouquet e Roger van der Weiden), c’erano i
centri culturali di avanguardia raccolti intorno ai grandi cardinali. Nel secolo, in questa città santa e
mondana, teocratica e anarchica, governata dai papi umanisti e dai banchieri fiorentini, arrivano tutti.
Arriva Gentile da Fabriano autore dei perduti affreschi in San Giovanni in Laterano che affascinarono
Michelangelo e il van der Weiden, arrivano Masolino e il giovane Masaccio che a Roma concluse la sua breve
esistenza, arrivano il Beato Angelico e Piero della Francesca, Melozzo e Filippino, Mantegna, Donatello, Mino
da Fiesole, Antonio del Pollaiolo. Da ultimo arriva anche il Buonarroti che chiude il secolo con la celebre
Pietà di San Pietro datata 1499.
Uno sguardo d’insieme sul periodo era già stato tentato nel 1981 da Maurizio Calvesi con la
mostra «Il Quattrocento a Roma e nel Lazio». L’impresa che in questa primavera 2008
inaugura a Museo del Corso, è più ambiziosa e, giovandosi degli studi degli ultimi tre decenni,
chiamando a testimonianza una serie cospicua di capolavori, ci offre una riflessione vasta e aggiornata sul
settore fino ad oggi più in ombra del Rinascimento italiano.