Mettiamo a disposizione on-line un articolo di d.Pierangelo Sequeri, sacerdote e teologo della Diocesi di Milano, sul significato della programmazione pastorale e le sue priorità, poiché il testo da cui è tratto - F.G.Brambilla, T.Citrini, G.Colzani, E.Vecchi, P.Sequeri, Scommessa sulla parrocchia. Condizioni e percorsi dell’azione pastorale, Editrice Ancora, Milano, 1989, pagg.113-132 - non è più reperibile in libreria, essendo esaurito. Sono stati omessi i riferimenti alla situazione particolare della Diocesi milanese. Se la presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto, provvederemo alla sua immediata rimozione.
Il Centro Culturale Gli Scritti (08.07.2006)
Il discorso della ‘programmazione’, nell’ambito dell’azione pastorale, suscita di per
sé un vago (e non del tutto ingiustificato, come vedremo) senso di disagio. Da un lato infatti,
l’aura efficientistica e amministrativa che è legata al termine, evoca l’immagine un po’
imbarazzante di un calcolo degli investimenti e dei risultati che appare improprio in una materia di per
sé tanto delicata. D’altra parte, nessuno può dubitare, per la medesima ragione, della
necessità di contrastare l’abbandono dell’ufficio ecclesiastico all’arbitrio dei singoli
e alla casualità delle circostanze. Non soltanto perché il buon funzionamento di una istituzione -
e quella ecclesiastica non fa eccezione - richiede oculate previsioni e attente priorità. Ma anche, e
soprattutto, perché l’elusione di tale profilo dell’impegno pastorale non lascia semplicemente
un vuoto: al contrario, attiva ambigue dinamiche e favorisce il prodursi di ingovernabili routines. Che
poi è difficilissimo contrastare e correggere giacché tali fenomeni, per loro natura, tendono ad
assestarsi sui profili più bassi della cura ecclesiastica della vita e dell’impegno cristiano.
Nel caso della parrocchia, l’istanza variamente evidenziata di una buona programmazione pastorale, sembra
per lo più riferirsi all’esigenza di rimediare alla dispersione e alla frammentarietà delle
iniziative pastorali. E ciò, sia allo scopo di riportare alla luce gli obiettivi essenziali del lavoro
della parrocchia, sia in vista di una migliore incisività dell’opera educativa della fede che le
è propria come istituzione ecclesiastica ‘di base’.
Esprimo, con questo linguaggio concreto e dimesso, prospettive che solitamente sono enunciate con più
ispirata intonazione ecclesiologica: ‘rendere la parrocchia una vera comunità cristiana’,
‘realizzare la Chiesa nella comunità parrocchiale’, ‘essere una presenza viva di Cristo
tra la gente’, ‘nel quartiere’, ‘nella società’, ‘nel mondo’.
Una prima serie di brevi considerazioni orientative mi sembra necessario dedicarla a questo paradosso: la
parrocchia che voglia (e non è cosa di tutti i giorni) riassettare il profilo del proprio orientamento,
deve anzitutto fare i conti con il peso di una pregiudiziale ‘iper-programmazione’ che la sua figura
istituzionale le impone. La rappresentanza istituzionale nei confronti della Chiesa, e della Chiesa
episcopale/locale in modo particolare, conferisce di per sé alla parrocchia una fisionomia di mediazione
già piuttosto rigidamente definita. Ma ad essa si devono pur aggiungere i vincolinumerosi e
capillari che le derivano dall’indotto ecclesiastico e sociale della sua peculiare fisionomia. Intendo
dire quell’insieme di oneri che vengono a determinare la sua tipica figura amministrativa: in quanto
unità ‘periferica’ di un sistema ‘centrale’ che in molti modi se ne serve per la
diffusione dei suoi messaggi, la distribuzione dei suoi servizi, la realizzazione dei suoi programmi. A
ciò si aggiunga la necessità di tenere conto (talora in termini di veri e propri adempimenti
formali) dell’immagine sociale che la presenza di un’istituzione religiosa conserva
nell’odierna comunità civile: con le attese e le pressioni corrispondenti (funzioni religiose,
sussidiarietà assistenziale, opportunità culturali, ricreative, educative e simili). Attese e
pressioni che, anche quando non sono vincolate da precisa normativa giuridica, non possono tuttavia essere
gestite del tutto arbitrariamente: tenendo conto esclusivamente del gruppo dei ‘fedeli’ noti e
assidui. Per non parlare poi del fatto che la parrocchia, in generale, rimane a tutt’oggi il referente
decisivo per l’immagine fondamentale e pratica di ciò che significa ‘Chiesa’ nella
realtà quotidiana della gente. E ciò significa, dal punto di vista che ci interessa, che
l’approccio occasionale che i singoli verificano nei confronti della parrocchia, decide sostanzialmente la
loro immagine del ‘servizio’ ecclesiastico in rapporto ai ‘bisogni’ religiosi che essi
hanno (o comunque pensano di avere).
La fenomenologia degli adempimenti richiesti dal ruolo di oggettiva rappresentanza dell’istituzione
ecclesiastica che la parrocchia riveste, di diritto e di fatto, mostrerebbe che lo spazio per una qualsiasi
ulteriore programmazione pastorale è ampiamente saturato. Si potrebbe al massimo parlare di
‘razionalizzazione’: termine forse ancora più antipatico, ma sicuramente più adeguato.
In ogni caso, si tratta qui in primo luogo di fare un inventario ragionato (quindi non generico) della pressione
- a volte incontrollata, a volte calcolata - che i programmi fatti ‘sulla’ parrocchia esercitano nei
confronti di quelli che dovrebbero essere fatti ‘dalla’ e ‘per’ la parrocchia.
Nell’ottica della parrocchia, in questo senso, ‘programmare’ vuol dire anzitutto definire
esattamente i limiti entro i quali essa può e deve assorbire quella pressione.
L’esemplificazione pone esclusivamente l’imbarazzo della scelta. L’implementazione - per fare
un caso piuttosto grave - della celebrazione domenicale con i grandi temi delle ‘giornate’ o degli
‘avvenimenti’ di rilievo della vita ecclesiastica (e civile) registra percentuali talmente elevate da
rendere di fatto quasi impraticabile una celebrazione che accompagni la comunità alla scuola della parola
di Dio proclamata nella liturgia. Benché a molti possa sembrare persino un segno di concretezza e di
attenzione all’attualità (a tanto può giungere una predicazione elusiva o retorica
nell’approccio ai testi), il suo effetto sull’immagine e sul clima della celebrazione eucaristica
risulta di fatto destabilizzante. Ho fatto di proposito un esempio strettamente legato al tema di quella che
dovrebbe essere la programmazione delle linee propriamente pastorali del ministero della parrocchia (nel caso, la
cura dell’Eucaristia domenicale e la consuetudine con la lectio divina: due catalizzatori essenziali
della intera vita cristiana, di nuovo oggetto di avarissime cure).
Esiste in verità tutta una considerevole quota ‘sommersa’ della attività parrocchiale,
fatta di adempimenti amministrativi, istituzionali, economici, canonici, gestionali, che da sola requisisce
mediamente la gran parte del tempo del parroco medio. Con la differenza - aggravante, per il profilo che qui ci
interessa - che l’esigibilità di questi adempimenti èdiretta e minuziosamente regolata: e il
suo controllo, puntiglioso e determinante, ritenuto decisivo per lo ‘stato di servizio’ del clero
responsabile. La qualità della catechesi ordinaria o la competenza della leadership pastorale sono
invece sostanzialmente omologate, in assenza di incidenti gravissimi e pubblici, in ogni ipotesi di
configurazione. La decisione della installazione di un tabernacolo nuovo o la proposta di un insegnante per la
scuola di religione sono di gran lunga più vincolate a meccanismi istituzionali del confronto e della
verifica di quanto non lo siano la corretta gestione del consiglio pastorale, l’esercizio della direzione
spirituale, l’impianto della iniziazione cristiana.
Nel campo della ‘vita secondo lo Spirito’, sia individuale che comunitaria, l’iniziativa e la
collaborazione pastorale si esercitano oggi senza un progetto istituzionale della loro omologazione. Per esempio:
formalizzazione dei tirocinii per i collaboratori, revisione teologica della catechesi, supervisione referenziata
dell’esercizio del counseling cristiano individuale, e via discorrendo. Provvidenze tipiche, per
altro, di una accorta amministrazione centrale: da attivare con funzione di ‘servizio’, prima che di
‘controllo’, naturalmente. Ma in modo da creare un costume di responsabilizzazione su questi
nodi della gestione del ministero pastorale. Imparando a pensarlo - per sacerdoti, religiosi e laici - come
l’esercizio di una responsabilità di cui far crescere organicamente e gradualmente l’effettiva
competenza. In altri termini, come un servizio: la cui idoneità a ‘programmare’ va a sua volta
... ‘programmata’.
E difficile del resto non provare imbarazzo all’idea che un ministero così delicato come quello
parrocchiale, nelle sue varie forme presbiteriali e laicali, rimanga sostanzialmente affidato all’inerzia
di una spontanea deriva del costume collettivo e dell’imitazione individuale. Inerzia destinata, oltre
tutto, a riempire gli spazi resi disponibili all’interno della gestione di una ‘macchina’
funzionale a bisogni (religiosi e non religiosi) di tipo sostanzialmente ‘collettivo’, e a meccanismi
di pubblica rappresentanza ecclesiastica cui la parrocchia deve servire anche con effetto di ingombro
quantitativamente notevole: in ogni caso maggiore dell’offerta di provvidenze che le è rivolta per
il miglioramento qualitativo del proprio servizio.
Secondo il mio parere, è al momento difficile (per non dire impossibile) programmare
l’attività pastorale della parrocchia sul terreno specifico della sua peculiare fisionomia di
comunità cristiana di base. Ciò almeno se si intende parlare della programmazione che
realisticamente la parrocchia può fare per se stessa, e se si considera un progetto di tipo
globale. Si tratta anzitutto di un compito che di diritto concerne la chiesa episcopale. In rapporto al quale,
nella situazione presente, nelle parrocchie può sostanzialmente essere fatta crescere la
recettività: ma non esigito il riscontro di una vera e propria iniziativa. Di fatto poi, nella loro
condizione media, le parrocchie non hanno semplicemente le risorse - le competenze, i mezzi, le persone, il
consenso - che sono necessarie per offrire un contributo stimolante e fattivo alla determinazione del profilo
complessivo della vita ecclesiastica del cristiano comune nella odierna città secolare.
Possibile e praticabile è invece la programmazione paziente e incisiva di alcuni luoghi
dell’iniziativa pastorale: che sono realmente alla portata della parrocchia, e influiscono sensibilmente,
nel contempo, sulla preparazione delle condizioni necessarie al mutamento complessivo dell’immagine
ecclesiastica che è richiesto dalla situazione.
Ne avrei in mente (almeno) quattro:
Non tratterò tuttavia le prime due. In parte perché oggetto di attenzione relativamente maggiore: destinata a crescere, speriamo, nella nostra diocesi, a seguito dell’autorevole impulso conferito ai temi dell’educare dal piano pastorale dell’Arcivescovo. In parte perché, data l’organizzazione attuale del lavoro pastorale delle parrocchie, l’incidenza di una auspicabile evoluzione qualitativa della programmazione educativa non potrebbe rifluire sulla ‘normale’ vita cristiana della comunità adulta senza lo ‘sblocco’ della condizione di inerzia che caratterizza gli altri due punti. Qui, realmente, la programmazione pastorale deve ancora incominciare: per sottrarre appunto la qualità dei contenuti in gioco agli estremi della progettazione puramente organizzativa e della spontanea improvvisazione volontaristica (...).
Per la stragrande maggioranza dei credenti è quasi esclusivamente la celebrazione liturgica a
svolgere il ruolo di realizzazione e conferma della appartenenza ecclesiastica. Nel linguaggio pastorale
corrente, le celebrazioni sacramentali - e in ispecie la celebrazione eucaristica - vengono considerate
occasioni decisive della relazione con la Chiesa. Come tali, i momenti celebrativi sono spesso preparati e
gestiti con l’intento programmatico di sfruttarne al massimo le opportunità di informazione,
istruzione, esortazione, coinvolgimento.
Anche là dove questo di per sé lodevole intento è perseguito - e non accade certo
sistematicamente - è necessario considerare attentamente le modalità e gli obiettivi di una
simile programmazione. La ricerca di facili espedienti di animazione, la prevaricazione delle monizioni, degli
avvisi, delle istruzioni, generano soltanto ambiguità: l’assemblea non muta affatto di
qualità, e la peculiare simbolicità del rito ne viene destabilizzata e distorta. La
celebrazione eucaristica, per esempio, non è affatto una ‘buona occasione’ per la catechesi
dottrinale degli adulti. Così come la celebrazione del matrimonio non è il luogo più adatto
per l’istruzione circa i comportamenti sessuali o la politica della famiglia. Ciò che va fatto nei
tempi e nei modi adeguati della vita ecclesiastica, non deve essere ricuperato mediante il sacramento, in
mancanza di altre ‘migliori occasioni’. L’uso strumentale della celebrazione è
tutt’altra cosa dalla cura pastorale della medesima.
Ciò non significa, naturalmente, che la cura pastorale della celebrazione non debba contemplare la
programmazione dello sviluppo di tutte le sue virtualità, secondo la logica che le è propria. E
dunque, nel caso dell’Eucaristia, tenendo conto della sua intrinseca idoneità a maturare il
confronto con la parola di Dio, a rinvigorire la confessione della fede, a incrementare la disponibilità
alla dedizione, a rinsaldare i vincoli della relazione fraterna. In una parola, della sua reale
capacità di edificare la Chiesa: però, a quel modo che l’evento rituale della
celebrazione eucaristica è destinato a conseguire tale obiettivo.
La celebrazione eucaristica, chiarito questo punto, può effettivamente essere individuata - per
ovvie ragioni intrinseche, ma anche per considerazioni di ordine congiunturale - come il luogo di applicazione
prioritario della odierna programmazione pastorale della vita parrocchiale. E necessario a tale scopo,
secondo il mio parere, che si realizzi oggi questa scelta con sereno coraggio e umile consapevolezza della nostra
impotenza a realizzare forme di programmazione più complessa. In ogni caso ritengo che se riuscissimo a
far lievitare la qualità della celebrazione eucaristica nella prospettiva di una adeguata immagine
complessiva della appartenenza ecclesiastica, l’individuazione di ulteriori e più globali obiettivi
di programmazione pastorale sarebbe certamente più agevole e produttiva. Naturalmente parlo di
programmazione, in questo contesto, in una prospettiva non generica: dato che la congiuntura presente mi sembra
consigliare come urgente, più che non l’impegno di compitare ordinati elenchi di iniziative, lo
sforzo di individuare le condizioni pratiche della riqualificazione di una vita ecclesiastica di base degna del
suo reale concetto.
In ragione del suo assetto attuale, ritengo francamente che non ci sarebbe nulla da perdere (e tutto da
guadagnare), incominciando a considerare la comunità dell’altare l’unità cristiana
piùsignificativa del territorio pastorale. In questa dimensione, apprezzata entro la media
delle sue proporzioni domenicali, mi sembra di fatto verificata la figura più realistica della
normalità della appartenenza ecclesiastica.
Ciò detto, mi sembrerebbe essenziale incominciare a lavorare su tale unità minima, considerando
come risorse programmabili in termini di investimento, i legami che di fatto l’evento celebrativo
consente. Essi, a ben vedere sono molti: anzi tutti quelli essenziali alla attivazione delle attitudini
cristiane fondamentali. La frequentazione della parola di Dio, la comunione con il mistero di Gesù, la
relazione fraterna dei credenti, la confessione riconoscente della liberazione dal male.
Considerata pastoralmente come un ‘intero’, ogni comunità dell’altare può
essere oggetto di una cura pastorale realistica e differenziata. Dotata di attenzioni, di collaborazioni e di
ministeri specifici, essa può essere incoraggiata a far lievitare una sorta di attaccamento e di
‘affetto’ per il convenire in assemblea, capace di trasformare l’abitudine alla comodità
dell’orario (o alla sopportabilità del predicatore) in realistica ‘attesa’ rivolta alla
qualità della celebrazione. Non è necessario alcun irrigidimento dei vincoli di fatto esistenti,
né alcuna supplementare selezione dei partecipanti. Il rafforzamento dei vincoli e l’evoluzione del
clima di partecipazione hanno da essere generati dal movimento stesso della cura pastorale della celebrazione e
del coinvolgimento che essa suscita.
A seguito di tale clima di praticabile identificazione con la logica celebrativa di una determinata
assemblea, devono essere stimolati - e consentiti - gli esiti naturali della crescita che l’evento
rituale induce: purché l’importanza della partecipazione sia pazientemente e puntigliosamente
riferita alla sua struttura medesima, e non allo ‘speciale’ gruppo che la requisisce, o allo
‘speciale’ sacerdote che la polarizza. E ciò significa che i partecipanti potranno essere
gradualmente incoraggiati, attraverso il modo stesso della celebrazione, a porsi nelle condizioni migliori per la
crescita della loro ‘competenza’ celebrativa. Incontri sulla parola di Dio, occasioni di istruzione e
di recupero delle conoscenze cristiane richieste dalla appropriazione personale della fede, trame di relazioni
fraterne animate dal desiderio di migliore condivisione, attivazione di servizi richiesti dalle urgenze della
catechesi o della solidarietà, e via discorrendo.
Tutto questo, è reso agevole e spontaneamente motivato, dal comune riferimento alla dimensione realmente
‘praticabile’ - e di fatto già ‘praticata’ - della appartenenza ecclesiastica. A
condizione, naturalmente, che tale dinamica sia realisticamente sostenuta dalla adeguata disponibilità
di persone che condividano attivamente la cura pastorale dell’assemblea. E siano disposte a elaborarne
le esigenze e gli sviluppi. Nessuna sollecitazione ad una più soddisfacente partecipazione deve essere
promossa, che non sia puntualmente verificabile nella sua effettiva disponibilità. Né alcuna
promessa di servizio deve essere incautamente pronunciata, che poi non sia mantenuta nel modo adeguato. Per
intenderci chiaramente: è del tutto inadeguato incoraggiare l’impegno alla migliore assimilazione
personale della parola di Dio, e offrire nel contempo un ciclo di quattro conferenze del biblista (nei casi
migliori), oppure la possibilità di partecipare a uno sconosciuto gruppo di spiritualità familiare.
Da un lato infatti è necessario rendere apprezzabile il senso di quell’invito generando
condizioni della celebrazione che ne mettano in luce la necessità (inducendo anche un giusto disagio
in coloro che si mantenessero, con stoica rassegnazione, estranei a tale sensibilità). Dall’altro,
è onesto avviare una simile sollecitazione, solo nel caso che si abbiano intenzioni serie al riguardo: e
dunque si sia elaborato un progetto realistico per l’offerta di opportunità adeguate
della assimilazione personale.
E chiaro che, sia pure nel modo differenziato che le assemblee e le risorse consigliano, ogni celebrazione
eucaristica domenicale deve poter godere della medesima cura. La riuscita di un progetto pastorale relativo
all’Eucaristia domenicale comporta questa essenziale condizione. Se si mira alla riqualificazione dello
spazio eucaristico in vista di una praticabile elevazione delle normali condizioni dell’appartenenza
ecclesiale, l’immagine prodotta dalla dinamica della celebrazione deve essere sostanzialmente univoca e
ineludibile. Gli eventuali adattamenti devono essere fatti dentro l’esercizio di tale immagine, non
in alternativa ad essa. Nessuno deve sentirsi oggetto privilegiato della cura pastorale così
riqualificata. Ma nessuno deve potersene disinvoltamente esonerare con poca spesa.
Una seconda dimensione, tra quelle realisticamente programmabili nella parrocchia odierna (per realisticamente programmabili intendo prive di difficoltà che non siano pure resistenze mentali) è quella della ricostituzione di una immagine ospitale dell’ambito di relazioni gestite dalla parrocchia medesima.
Parlando di immagine ospitale non intendo semplicemente la gentilezza del personale addetto agli uffici, oppure
il soccorso nei confronti dei bisogni materiali urgenti. Intanto perché si tratta di cose che non ci
sarebbe neppure bisogno di programmare. Ma poi perché, nel caso, si tratta di una programmazione assai
agevole. Intendo invece parlare di quella ospitalità che, dove pure abbia luogo, rimane affidata
esclusivamente alla disponibilità (o all’arbitrio) dei singoli (sacerdoti o laici). Vale a dire
quell’insieme di opportunità del ‘libero parlare’ e del ‘genuino domandare’,
che spesso hanno più bisogno di accoglienza che non l’indigenza materiale. Per dirla in una immagine
sintetica, tenendo conto del discorso fatto per la comunità dell’altare, si tratta di programmare la
cura pastorale dello spazio abitato da tutti coloro che si sentono fondamentalmente ’estranei’ (o
addirittura ’stranieri’) nei confronti della comunità d’altare (e quindi, nella
maggioranza dei casi, della Chiesa). Eppure non rinunciano a sostare, in qualche modo, nelle vicinanze: nella
speranza che ci sia un ‘luogo’ (non troppo ‘interno’, come per esempio il confessionale;
ma neppure troppo insignificante, come ad esempio il bar parrocchiale), mediante il quale ‘prendere
contatto’.
Uno spazio nel quale, protetti da sufficiente discrezione e non assediati da clericali vischiosità, essi
possano dedicarsi alla elaborazione della loro distanza, del loro disagio, della loro fatica. O semplicemente
della loro ricerca. O magari anche messi a confronto con la loro ingenuità, per rapporto alle infantili
attese nutrite nei confronti di Dio, della Chiesa, della religione. Dove possano essere smascherati i pretesti,
ma anche onestamente sciolti i fraintendimenti. Dove una sbrigativa soluzione dei problemi o una precipitosa
richiesta di pronunciamento non siano il prezzo dell’accoglienza e dell’ospitalità. Ma anche
dove si possa percepire facilmente che la disponibilità al dialogo non è misurabile su di una
individuale condiscendenza, bensì in rapporto alla oggettiva gravità di una questione che
all’intera comunità sta a cuore: evitare che la vischiosità degli equivoci oscuri la
trasparenza dell’immagine di Dio mediante la quale il credente è venuto alla fede che riscatta
l’esistenza.
Un tale spazio non è per altro da pensare in termini di semplici occasioni di conversazione, o nella forma
di estenuanti gruppi di autocoscienza. Esso va articolato e programmato nella forma di una rete di relazioni,
attivate da persone dedicate e idonee che hanno come polo di riferimento l’ambito dell’insediamento
domestico. Dico ambito dell’insediamento domestico, perché intendo certo la ‘casa’ e
la ‘famiglia’: ma non nel senso ristretto e materiale (quasi ‘fisico’) delle rispettive
figure. Bensì nell’accezione complessiva e significativa (‘simbolica’) di quella
costellazione di rapporti che fanno capo alla dimensione ‘domestica’ dell’esistenza quotidiana.
In modo analogo, dunque, a quanto avviene per la comunità dell’altare, nel senso sopra elaborato:
non la materialità dell’aula e dell’assemblea eucaristica, ma l’ ‘intero’
complesso di rapporti che simbolicamente in quella materialità sono evocati e raccolti.
C’è da attendersi infatti che, nella misura della buona riuscita di tali relazioni, momenti di
più ampio confronto e di più diretto coinvolgimento siano appunto ‘ospitati’ nello
spazio comune alla vita parrocchiale dei credenti. Ma poi tale integrazione, gestita con la duttilità
necessaria, è in qualche modo da ricercare come omogenea al senso stesso dell’ospitalità
cristiana: sia per evitare la formazione di una sorta di ‘cristianesimo parallelo’, sia per rimuovere
ogni equivoca tendenza a concepire forme di ‘istituzione aIternativa’ alla parrocchia quale
comunità di fede (più vicine al circolo culturale, al centro sociale, al club per il tempo libero:
cosa che del resto si verifica ampiamente già nella struttura tradizionale della gestione pastorale, e in
modo oggi ancora più accentuato, dato che l’affannosa ricerca di ‘aggregazione’ e di
consenso ‘sociale’ non va tanto per il sottile a proposito della qualità della fede).
L’accurata programmazione della ospitalità cristiana così intesa, mi sembra il modo in cui - praticamente, e al di fuori di ogni retorica imperniata sull’enfasi della ‘evangelizzazione’, della ‘missione’ e della ‘presenza’ culturale e sociale del cristianesimo - la parrocchia può realizzare nel suo modo più proprio il tema della fondamentale accessibilità del cristianesimo e della Chiesa. La parrocchia infatti deve riguardare, per la realizzazione di tale compito, certo fondamentale e originario per ogni comunità cristiana, all’indole peculiare del suo modo di essere: e quindi alle risorse che propriamente ne derivano. Non può dunque - né deve - fingersi la compattezza organizzativa di una associazione, l’uniformità religiosa di una congregazione, la specializzazione operativa di un centro direzionale, la duttilità personalizzata di un gruppo di spiritualità o l’avventurosa disinvoltura di un movimento di opinione (sia pure cristiana). E giusto perciò che essa immagini la propria iniziativa cristiana, di comunicazione della fede e di presenza della Chiesa, nei termini relativi alla sua peculiare figura di insediamento locale dell’istituzione ecclesiastica, in vista della integrazione della fede con le condizioni domestiche della vita quotidiana. Con la duttilità necessaria a scontare il carattere complesso, misto, imprevedibile della appartenenza ecclesiastica che in tali condizioni si verifica. Ma al tempo stesso con l’intelligente disponibilità a valorizzarne le opportunità di realizzazione simbolica di una immagine irrinunciabile del cristianesimo: quella cioè che mette in luce l’universalità dell’accesso e della appropriazione della fede nelle condizioni offerte dalla normalità della vita individuale e collettiva di base.
La duplice ‘concentrazione’ della programmazione ‘pastorale’ qui delineata, mi sembra
capace di portare ordine e razionalità (cristiana, più che aziendale) nella programmazione
complessiva della vita ordinaria della parrocchia. E ovvio che all’inizio, saranno avvertite anche la
complessità e la fatica di tale ricentramento. E importante non abbandonare il punto di vista del buon
senso, che suggerirà gli opportuni adattamenti degli altri adempimenti necessari. Ma è pure
necessario avere il coraggio e l’umiltà richiesti per rinunciare serenamente ad abitudini non
essenziali e alla uguaglianza dell’impegno su tutti i fronti. Non si può - e nella parrocchia
odierna meno che mai si deve - tenere ‘tutto’. Anche nell’ambito di ciò che è
buono e utile si deve scegliere. Il profilo della programmazione qui suggerito non può essere aggiunto al
programma generale: deve indurne la riformulazione nella linea di una precisa polarizzazione.
Si tratta del resto di decidere se si vuole dare corso all’esigenza, ormai unanimemente avvertita e
autorevolmente sollecitata di una pastorale complessivamente aperta alla questione dell’adulto nella
condizione odierna. Tenendo conto del rapporto assolutamente insufficiente che la parrocchia è in
grado di mantenere con esso nella situazione attuale. E precisamente per questa ragione che mi sono orientato a
privilegiare i due aspetti trattati rispetto a quelli - pur decisivi - che riguardano i bambini e i giovani. Su
questi quattro ‘fronti’ va comunque realizzata oggi, a mio avviso, la massima concentrazione dello
sforzo di programmazione pastorale. In vista di un obiettivo ultimo - allo stato improponibile - che è
quello della loro organica integrazione. In questa prospettiva il quadro della relazione parrocchiale
dell’adulto è, di fatto, la meno ‘pensata’ in termini di oculata
‘programmazione’: anche se talora è la più ‘enfatizzata’ in termini di
retorica della ’evangelizzazione’. L’assemblea eucaristica e l’ospitalità
domestica sono i due ‘luoghi’ privilegiati, a disposizione della comunità cristiana che ha la
forma della ‘parrocchia’, per tale programmazione. Si tratta di due ‘momenti’ di
frequentazione relativamente ampia in ordine alla cura dei valori, nonché di identificazione
simbolicamente solida per quanto riguarda l’individuazione dell’essenziale (sia in termini di
appartenenza ecclesiastica, sia in termini di importanza della relazioni riconducibili ai temi del senso e
dell’impegno esistenziale). Mi pare che valga la pena di pensarci con calma e seriamente, se si intendono
onorare le molte parole spese sulla modesta qualità del cristianesimo parrocchiale con un adeguato impegno
sul campo. Senza per altro progettare in termini sterilmente ‘totali’ un impegno che richiede
soltanto ‘parziali’ disponibilità all’investimento di risorse francamente
‘medie’ dell’intelligenza e della generosità cristiana.
Mi rendo conto per altro, che un tale orientamento delle parrocchie, ha bisogno di essere ‘servito’
da adeguati apporti delle molte istituzioni diocesane. Ma sono convinto che se i pastori si mostreranno
abbastanza persuasi e decisi a superare la prima ondata dell’inevitabile ‘scetticismo di
maniera’ che accompagna solitamente i primi consistenti segnali dell’affermarsi di una tale
sensibilità, il sostegno e le risorse non mancheranno. Molti infatti sono certamente i sacerdoti e i laici
che, mortificati dall’impressione di una mentalità che considera l’impegno parrocchiale
demeritevole di applicazione per un cristiano veramente ‘impegnato’, saluterebbero con riconoscenza
la fattiva denuncia di un simile pregiudizio. Ed emergerebbero, dall’ombra in cui sono state confinate, le
molte risorse che il Signore tiene in serbo per tutte le Chiese di Laodicea che si convertono dalla loro serena e
compiaciuta tiepidezza.
All'ombra del Vangelo: legami di prossimità che proteggono e custodiscono, senza
prevaricare e senza soffocare, di Pierangelo Sequeri
Fare memoria dell´amore di Dio tra i giovani oggi, di Pierangelo Sequeri
Figli, i ribelli senza centro, intervista a Pierangelo Sequeri di Marina
Corradi
Antologia di brani di Pierangelo Sequeri
Il Gesù di Ratzinger-Benedetto XVI. Una recensione al volume
Gesù di Nazaret, di Pierangelo Sequeri