I brani che abbiamo raccolto provengono da vari interventi (articoli, libri, meditazioni) di d.Pierangelo Sequeri, un prete della diocesi di Milano, conosciuto in tutta Italia per le sue composizioni musicali (Io vorrei tanto parlare con te, Symbolum 77, Symbolum 80, ecc.). Sono stati la base di riflessione e discussione del campo degli adulti e delle famiglie che abbiamo fatto a Passaggio di Bettona, vicino Assisi. Li ho proposti perché sono una lettura molto interessante e precisa di alcuni aspetti della vita cristiana oggi che, dovunque ti giri, riescono continuamente fuori. Abbiamo pensato di renderli disponibili sul sito perché anche chi non ha partecipato al campo possa comunque conoscerli.
Una prima serie di testi riguarda il tema dell’affidabilità di Dio (l’opera più importante e impegnativa di Sequeri si intitola appunto Il Dio affidabile). In un articolo Sequeri riflette sul problema dell’ombra. L’ombra è ambivalente perché:
Cosa pensare della zona d’ombra, del mistero di Dio, allora? Ecco questa prima serie di testi:
L’ombra di Dio, un sospetto
Il serpente suggerisce che il lato di Dio in ombra, cioè le cose
che veramente Dio pensa, quell’al di là di Dio che affonda le sue
radici in un mistero che l’uomo non può afferrare perché
appunto infinito, è sinonimo di minaccia e di prevaricazione
Con tutto il mondo creato, con tutto il ben di Dio (la metafora è letterale)
a disposizione, a rigore l’unico oggetto di questa proibizione è
trascurabile
L’ombra di Dio, una minaccia
Dio, da quella parte per cui è mistero, da quella parte per cui
è inconoscibile, nasconde una minaccia (dice il serpente!)
Le figure ambivalenti dell’esperienza religiosa
Da quel momento in avanti nessun essere umano può più parlare
ad un altro di Dio senza attivare questo sospetto, perché questa ambivalenza
ciascuno di noi l’ha come registrata, non si sa come, e la fa trasparire
anche se non a parole, nel modo con cui ti guarda quando parla di Dio, nel modo
in cui si rabbuia quando parla di Dio, nel modo in cui si emoziona e rimane
incerto e in ansia parlando di ciò che ci aspetta, di ciò che
sta oltre la linea della finitezza, oltre la morte, oltre il corpo, oltre l’universo
conosciuto.
Il peccato che è all’origine
Noi dobbiamo pronunciare la parola "Dio", dobbiamo insegnare ai nostri
figli, ai nostri simili, la benedizione che c’è in questo nome,
consapevoli che ogni volta che pronunciamo la parola "Dio" noi ci tradiamo anche.
Vale a dire, il nostro modo di dire Dio tradisce prima o poi l’eredità
di quel sospetto e la insinua nel nostro interlocutore.
A questa… non possiamo sottrarci con le nostre forze, e questo sta ad
indicare il concetto rigorosamente teologico del peccato originale.
La scena originaria della rivelazione
cristologica
La scena della rivelazione di Dio occupata da Gesù è piena
di gesti, di avvenimenti, di atti della liberazione dal male compiuti non semplicemente
in nome di Dio, ma compiuti come Dio. Compiuti cioè rappresentando Dio
anche quando apparentemente la legge scritta dice che non si deve guarire di
sabato, "i samaritani non devono ricevere cose buone perché non sono
dei nostri", e "questa è adultera", e "quell’altro è lebbroso,
bisogna lasciarlo stare", ecc.
Giovanni Battista dice: "Quando verrà, voi vedrete due scene, non una
sola. Da una parte avrete una scena in cui avvengono atti di liberazione dal
male, e dall’altra una scena in cui si vede una scopa che spazza via le
cose, un fuoco purificatore che brucia; da una parte vedrete distruzione, dall’altra
ricostruzione: Vedrete due scene".
Il superamento dell’ambivalenza: una sola scena
Arriva Gesù e si vede una scena sola, e si continua a vedere solo
quella.
L’uomo religioso… spiega ai bambini dicendo: "Dio è a seconda
di come sono gli uomini".
Ebbene questa è una cosa che anche i bambini possono capire. Se io domando:
"Chi è Dio, cosa c’è dietro l’angolo, cosa pensa,
cosa vuole veramente Dio?". Ed ecco qua abbiamo bambini che muoiono e che sono
innocenti; persone malate, ferite e non si sa bene perché; abbiamo questi
che sono divisi; questi che pensano di essere migliori di questi altri e viceversa,
che cosa fa Dio? Anche i bambini , secondo Gesù, possono capire la risposta
che egli dà. Guarda cosa fa Dio: quello lì è zoppo e lo
fa camminare; questo è cieco e lo fa vedere; questa è la figlioletta
morta di una persona che aveva solo quella e la fa resuscitare.
La rivelazione univoca di Dio non può scaturire dalla nostra esperienza.
Noi siamo necessariamente nel regime del compromesso e in un certo senso dobbiamo
accettare l’idea che non potremo mai assorbire interamente la forma di
questa esperienza religiosa che Gesù fa personalmente a nostro favore.
L’Evangelo di Gesù: Dio è qui, viene a liberare
Si può anche resistere all’evangelo della salvezza precisamente
per il fatto che questo evangelo è universale, cioè ha una destinazione
universale, non è precluso a priori a nessun uomo. L’evangelo è
rappresentato quando la vita del tuo simile è protetta da Dio nel modo
che tu sai e. paradossalmente, anche quella del tuo nemico.
A fronte della resistenza dei suoi interlocutori compare il tema del giudizio,
il tema dell’ambivalenza, della perdizione, della differenza, come un
tema però messo a carico dell’immagine di Dio in nome della quale
si resiste.
Io ti dico: da quel Dio la cui ombra è minacciosa, dietro al quale ti
ripari per lasciare fuori gli altri, tu non sei al riparo.
La dimostrazione teologica del Crocifisso
"Se veramente Dio è così, allora - come sappiamo sempre che
Dio si comporta - proteggerà Gesù e sterminerà i suoi nemici".
In quel momento Gesù, per mantenere ferma la verità dell’evangelo,
per dimostrare che l’affermarsi della verità di Dio sulla terra
non avviene attraverso lo sterminio dei suoi oppositori, sceglie di essere l’unica
vittima di questa violenza.
Nemmeno quando è in pericolo la propria vita la testimonianza muta.
Mistica oggettiva del Risorto e ambivalenza dell’esperienza religiosa
Noi insegniamo agli uomini che non c’è niente di più
importante del rapporto con Dio e nello stesso tempo insegniamo agli uomini
che non c’è niente di più pericoloso del rapporto con Dio
quando finisce nelle nostre mani.
Ci sforziamo di contemplare (ecco perché parlo di mistica oggettiva del
Risorto)… la sua impossibilità di essere, grazie a Dio, assorbita
dalla nostra esperienza, la sua capacità di rimanere nella sua propria
oggettività e di essere accessibile ad ogni uomo attraverso lo Spirito
del Signore risorto… E’ la verità di Dio non assimilabile
alle figure delle esperienze religiose che coltiviamo dal basso.
Abbiamo commentato un ulteriore testo di d.Achille Tronconi su di un brano cardine nel valutare l’affidabilità di Dio: il brano in cui Dio chiede ad Abramo il sacrificio di Isacco (trovate il commento completo a questo brano in un’altra sezione di Approfondimenti del nostro sito):
Ma a noi viene da pensare che Dio nella nostra vita chiede delle prove; questo è un
criterio umano, carnale, da cui Dio è lontanissimo. Sono nostre proiezioni, nostri fantasmi, nostre patologie,
paure: del padre e della madre che ci uccidono, ci emarginano, ci buttano via. Che non piacciamo al Padre. Sono idee
nostre, non è questa la prova, vedremo cosa è invece la prova. Abramo accetta questa prova
perché lui sa che Dio non gli farà mai uccidere il figlio, non sa come, non lo sa, è
questa la fede. La fede non è dimostrare che io sgozzo mio figlio per amore tuo; la fede è credere che
tu non vorrai mai la morte di mio figlio, anche se mi stai dicendo di condurlo al sacrificio. Io credo così
tanto al tuo essere Signore della vita, al tuo essere amore, al tuo essere Padre, che faccio tutto quello che mi stai
dicendo, così come suona, perché ci credo così tanto a te che vado fino alla fine e in qualche
modo, non so come, perché Tu sei Dio, e i tuoi pensieri non sono i miei pensieri, le tue vie non sono le mie
vie, Tu risolverai il problema, a modo tuo, non negando mai il tuo amore, la tua natura. Questo è quello che
ha provato Gesù portando la croce fino all'ultimo.
Ma non pensiamo mai che Abramo abbia pensato davvero di sgozzare un figlio, per amore di un Dio. La fede, quella del
fatalismo, della carne, direbbe: che fede, sacrificare così il figlio!
E’ la fede di un cretinissimo testimone di Geova che fa morire il figlio per non fargli fare una trasfusione:
quella è la fede della carne. Ho vissuto una volta una esperienza del genere in cui io e una nonna abbiamo
fatto togliere la patria potestà a due genitori che stavano facendo morire la figlia in nome di Geova. E mi
citavano questo brano. Da lì ho cominciato a macchinare in testa che dovevo trovare un'altra spiegazione: non
è questa!
La fede non è obbedire ciecamente a un Dio che mi dà un ordine. Dio è fedele a se stesso: non
mi chiederà mai qualcosa che vada contro la vita, contro l’amore. Mai! Poiché Dio è fedele
a se stesso non può fare a meno di amare. Lui ha deciso di essere l’Amore. Non possiamo pensare niente
altro di Lui che questo. Non diamogli un altro volto. E non è romanticismo o nostra debolezza, il volere avere
un Dio che comunque mi ami. Perché torniamo all’altro discorso di un moralismo stupidissimo che ha
portato tanto danno alla nostra vita cristiana e spirituale. Io devo non fare i peccati non tanto perché
c’è un Dio giudice giusto, ma perché sono innamorato di Lui. Per amore non devo peccare, non per
terrore. E’ tutto un altro livello. L’amore porta tutto a un altro livello. Ed è a questo livello
che noi dobbiamo vivere la nostra fede, il nostro rapporto di figli nei confronti del Padre. Smettiamo di essere dei
carnali, dei non credenti. E’ quello che dice Gesù a Tommaso: smettila di essere un non credente ma un
credente. A questo livello! Vieni a questo livello, poniti in questa dimensione. La carne è carne: devi
rinascere dall’alto e dallo Spirito o non capirai mai questo Dio, questo Padre, la sua chiamata, cosa ti sta
chiedendo. Siamo sordi perché siamo in un altra sintonia e non riusciamo a percepirlo.
Sequeri in molti interventi si è soffermato sul linguaggio che i cristiani usano quando parlano della sofferenza, sulle parole che diciamo quando stiamo vicino a qulcuno che soffre o cerchiamo di interpretare la nostra stessa sofferenza (fra l’altro non bisogna dimenticare che d.Pierangelo è stato assistente di una comunità di Fede e Luce, le comunità che si ispirano a Jean Vanier nella condivisione della vita con i portatori di handicap). Così si esprime nell’illuminare a partire dall’affidabilità di Dio le difficoltà della nostra vita:
Tecnicamente questo sarebbe il tema della compatibilità cristologica di ogni
affermazione cristiana (uso questa formula perché nella sua estrosità potrebbe aiutare la memoria),
secondo il quale tutte le affermazioni della fede cristiana che non possono essere in qualche modo riconosciute come
espressioni di Gesù sono dubbie. Quel poco che noi cristiani sappiamo do Dio lo apprendiamo dal Vangelo di
Gesù. Facciamo un esempio. Se un bimbo muore, c’è gente che dice: "E’ una grazia, è
un angioletto! Muore lui per salvare uno che sta in Australia! Dio si prende i bambini!"
Non gli va data risposta! Devono essere sciolte tutte queste questioni. Nella Rivelazione di Gesù, per quel
poco che sappiamo, se vede un bambino morto gli vien voglia di farlo resuscitare. Ciò che vedo è
questo, sto aggrappato al Signore. Gesù dice: "Alzati!". Ma io non posso farlo alzare! Allora stai zitto! Ti
è mai venuta in mente questa luminosa testimonianza cristiana? Sh! Silenzio… In altre parole, secondo
il "principio della compatibilità cristologica" in ogni formula o parola della fede dobbiamo sempre cercare di
farci venire in mente il senso che la conduce alla coerenza con la Rivelazione di Gesù. E non è detto
che questo senso consista nel ripetere sempre le stesse parole; non c’è un fondamentalismo nella Bibbia,
ci può essere anche una riflessione che, nei secoli, scava, approfondisce, cerca di ottenere dei significati
nuovi.
E ancora:
L’handicap non è una grazia di Dio né un segno di particolare predilezione
né un disegno di imperscrutabile provvidenza. Tutte le forme del linguaggio cristiano che inducono ad assumere
l’ovvietà di questa prospettiva devono essere semplicemente censurate. L’handicap non è
né una benedizione, né una maledizione del "cielo", non rivela né la potenza né
l’impotenza di Dio. Esso è anzitutto il simbolo dell’uomo: incapace di porre rimedio ai difetti
della condizione storica.
La fede, nondimeno, sa che l’amore di Dio, a differenza di quello dell’uomo, non si lascia fuorviare o
neutralizzare dalla distretta dell’essere umano. E il credente si sforza di rendere buona testimonianza al
carattere incondizionato dell’amore di Dio integrando la mancanza del proprio fratello con
l’esuberanza delle proprie risorse…
In questo senso e proprio per queste ragioni, si può - e si deve - parlare di una vigile predilezione
di Dio nei confronti dell’essere umano posto nella distretta.
Al campo abbiamo parlato anche di come proprio questo principio della compatibilità cristologica porti la Chiesa al rifiuto di testi come quelli della Valtorta (esplicitamente condannati dalla Congregazione della Dottrina della Fede) e alle notevoli perplessità verso le presunte apparizioni di Medjugorie.
Dal tema dell’affidabilità di Dio siamo poi passati a vedere alcune riflessioni pastorali sulla "domesticità", sulla "familiarità" della vita della comunità cristiana. Questi tratti sono fondamentali anche perché rappresentano un modo di rispecchiare nella vita umana, nel rapporto fra i credenti e nell’accoglienza di chi non si sente di potersi definire tale, il mistero dell’affidabilità del Padre. Innanzitutto porre al centro della vita cristiana l’eucarestia è esigenza teologale irrinunciabile ed ha conseguenze pastorali rilevanti:
Per la stragrande maggioranza dei credenti è quasi esclusivamente la celebrazione
liturgica a svolgere il ruolo di realizzazione e conferma della appartenenza ecclesiastica…
L’uso strumentale della celebrazione è tutt’altra cosa della cura pastorale della
medesima… Nel caso dell’Eucarestia (dobbiamo tenere conto) della sua intrinseca idoneità a
maturare il confronto con la parola di Dio, a rinvigorire la confessione della fede, a incrementare la
disponibilità alla dedizione, a rinsaldare i vincoli della relazione fraterna. In una parola, della sua reale
capacità di edificare la Chiesa: però a quel modo che l’evento rituale della celebrazione
eucaristica è destinato a conseguire tale obiettivo…
In ragione del suo assetto attuale, ritengo francamente che non ci sarebbe nulla da perdere (e tutto da guadagnare),
incominciando a considerare la comunità dell’altare l’unità cristiana più
significativa del territorio pastorale…A seguito di tale clima di praticabile identificazione con la logica
celebrativa di una determinata assemblea, devono essere stimolati - e consentiti - gli esiti naturali della crescita
che l’evento rituale induce: purché l’importanza della partecipazione sia pazientemente e
puntigliosamente riferita alla sua struttura medesima, e non solo allo "speciale" gruppo che la requisisce, o allo
"speciale" sacerdote che la polarizza…
Tutto questo, è reso agevole e spontaneamente motivato, dal comune riferimento alla dimensione realmente
"praticabile" - e di fatto "praticata" - della appartenenza ecclesiastica. A condizione, naturalmente, che tale
dinamica sia realisticamente sostenuta dalla adeguata disponibilità di persone che condividano attivamente la
cura pastorale della assemblea.
In secondo luogo la cura verso ogni persona che si affaccia non delegata a nessun arbitrio individuale, ma portata e condivisa da tutti gli animatori e da tutti i cristiani praticanti:
Una seconda dimensione, tra quelle realisticamente programmabili nella parrocchia odierna (per
realisticamente programmabili intendo prive di difficoltà che non siano pure resistenze mentali) è
quella della ricostituzione di una immagine ospitale dell’ambito di relazioni gestite dalla parrocchia
medesima.
Parlando di immagine ospitale non intendo semplicemente la gentilezza del personale addetto agli uffici, oppure il
soccorso nei confronti dei bisogni materiali urgenti. Intanto perché si tratta di cose che non ci sarebbe
neppure bisogno di programmare. Ma poi perché, nel caso, si tratta di una programmazione assi agevole. Intendo
invece parlare di quella ospitalità che, dove pure abbia luogo, rimane affidata esclusivamente alla
disponibilità (o all’arbitrio) dei singoli (sacerdoti o laici).
Vale a dire quell’insieme di opportunità del "libero parlare" e del "genuino domandare", che spesso
hanno più bisogno di accoglienza che non l’indigenza materiale. Per dirla con una immagine sintetica si
tratta di programmare la cura pastorale dello spazio abitato da tutti coloro che si sentono fondamentalmente
"estranei"(o addirittura "stranieri" nei confronti della comunità d’altare (e, quindi, nella maggioranza
dei casi, della Chiesa).
Eppure non rinunciano a sostare, in qualche modo, nelle vicinanze: nella speranza che ci sia un "luogo" (non troppo
"interno", come per esempio il confessionale; ma neppure troppo insignificante, come per esempio il bar
parrocchiale), mediante il quale "prendere contatto".
Uno spazio nel quale, protetti da sufficiente discrezione e non assediati da clericali vischiosità, essi
possano dedicarsi alla elaborazione della loro distanza, del loro disagio, della loro fatica. O semplicemente della
loro ricerca. O magari anche messi a confronto con la loro ingenuità, per rapporto alle infantili attese
nutrite nei confronti di Dio, della Chiesa, della religione. Dove possano essere smascherati i pretesti, ma anche
onestamente sciolti i fraintendimenti. Dove una sbrigativa soluzione del problema o una precipitosa richiesta di
pronunciamento non siano il prezzo dell’accoglienza e dell’ospitalità. Ma anche dove si possa
percepire facilmente che la disponibilità al dialogo non è misurabile su di una individuale
condiscendenza, bensì in rapporto alla gravità di una questione che all’intera comunità
sta a cuore: evitare che la vischiosità degli equivoci oscuri la trasparenza dell’immagine di Dio
mediante la quale il credente è venuto alla fede…
Un tale spazio non è per altro da pensare in termini di semplici occasioni di conversazione, o nella forma di
estenuanti gruppi di autocoscienza. Esso va articolato e programmato nella forma di una rete di relazioni attivate da
persone dedicate e idonee… quella costellazione di rapporti che fanno capo alla dimensione "domestica"
dell’esistenza quotidiana…
Tale integrazione… è in qualche modo da ricercare come omogenea al senso stesso
dell’ospitalità cristiana: sia per evitare la formazione di una sorta di "cristianesimo parallelo", sia
per rimuovere ogni equivoca tendenza a concepire forme di "istituzione alternativa" alla parrocchia quale
comunità di fede (più vicine al circolo culturale, al centro sociale, al club per il tempo libero: cosa
che del resto si verifica ampiamente già nella struttura tradizionale della gestione pastorale, e in modo
ancor più accentuato, dato che l’affannosa ricerca di "aggregazione" e di consenso sociale non va tanto
per il sottile a proposito della qualità della fede.
Infine il coraggio di proporre a tutti la normalità della vita come il luogo della fede cristiana e dell’annuncio evangelico. In un articolo su fratel Carlo di Gesù, Charles de Foucauld, il nostro autore approfondisce proprio il tema della "normalità" della vita cristiana e sottolinea come i due riferimenti al Vangelo di Dio e al rapporto fraterno con gli uomini siano l’orizzonte costante della vita cristiana:
L’antico monachesimo del totale ritiro nel deserto vi si è risolutamente saldato
con una forma domestica della vita religiosa e dell’evangelizzazione, il cui ideale milieu
è la condizione di coloro che rimangono estranei alle forme ufficiali della civilizzazione e della
missione. E’ un deserto assai popolato quello che ci appare nella testimonianza di fratel Carlo. Persino
affollato… La precarietà del tempo, l’incertezza dei programmi, la ricorrente prossimità
all’emergenza quotidiana, la cultura della strada, la mobilità delle amicizie, i riflessi
destabilizzanti delle pressioni che provengono dal mondo civile e dalla vita regolata delle istituzioni, sono proprio
il modo in cui normalmente si vive. Ininterrottamente fratel Carlo sino alle ultime ore - minuti - della sua
vita, rimase in contatto con tutte le diramazioni del contesto in cui viveva: dalle più vicine alle più
lontane. Interamente assorbito dal piccolo e incessante caravanserraglio che avvolge la sua contemplazione;
totalmente proiettato verso i legami che fanno di quel modesto universo il terminale di riflessi e onde, talora
minacciose, che lo riconducono quasi senza una soluzione di continuità ai cerchi sempre più grandi
della guerra, della società, della politica e della cultura europea… Ma leggiamo anche nelle sue
memorie, nei suoi appunti, nelle sue corrispondenze, l’attenzione - altrettanto minuziosa, altrettanto vigile,
altrettanto puntigliosa e coinvolta si direbbe - che egli rivolge a tutto ciò che sta dietro la condizione
umana nella quale vive e ai problemi che attraversano il movimento quotidiano delle relazioni e degli
accadimenti.
La cornice del progetto monastico conserva il suo sapore benedettino originario: ora et labora (ma non senza
una curiosa inversione di accenti: "vivendo unicamente col lavoro delle mani.. Aggiungere a questo lavoro molte
preghiere"). Ma l’intonazione teologale, il contesto, la destinazione di questa figura, lasciano emergere
qualcosa di consapevolmente inedito nella geografia religiosa contestuale. Perché "nessuna Congregazione della
Chiesa dà oggi la possibilità di condurre con Lui questa vita ch’Egli ha condotto in questo
mondo"… La novità dell’intuizione è appunto data, in prima battuta, dalla nettezza del
riferimento cristologico della imitazione/sequela: "la stessa vita di Nostro Signore" Gesù e cioè
"l’esistenza umile e oscura di Dio, operaio di Nazareth"…
Nell’immaginario spirituale di fratel Carlo, Gesù di Nazareth è sin dall’inizio
l’Uomo dell’incarnazione, il beneamato Signore e Fratello, Jesus Caritas. Nazareth è la vita di
Gesù, non semplicemente la sua prefazione. E’ la missione redentrice in atto, non la sua mera condizione
storica. Nazareth è il lavoro, la contiguità, la prossimità domestica del Figlio che si nutre
per lunghissimi anni di ciò che sta a cuore all’Abbà-Dio…
Il punto non è tanto quello della "durezza" dell’ascesi richiesta, quanto piuttosto quelli di una
imitazione "reale" di Nazareth: che deve trovare le condizioni del proprio rigore nella normalità del contesto
in cui quelle condizioni sono già date come umane, e non artificiosamente cercate e ricostruite com religiose.
In quelle condizioni infatti il "piccolo fratello universale", si insedia come il suo "beneamato fratello
Gesù", perché uomini e donne vi sono già insediati; perché esse sono la loro vita
quotidiana, l’orizzonte del loro sguardo sul mondo, sulle cose, sui rapporti sociali, sulla vita, sugli
affetti, sulla religione medesima. L’insediamento in quelle condizioni raffigura esemplarmente, nel suo punto
più basso e nascosto, e perciò anche più radicale ed evidente, la comunione di Dio con
l’umanità dell’uomo, il senso di una redenzione che annulla ogni pregiudiziale distanza mediante
l’incarnazione…
La profonda fusione fra il motivo contemplativo dello stare in compagnia di Gesù e il principio missionario
della testimonianza ospitale della carità possibile rende possibile l’umana confidenza con lo spirito
religioso dell’evangelizzazione. E pertanto l’accoglienza dell’evangelo nella fede.
La necessità di pensare l’insediamento della vita spirituale cristiana… nella forma più
semplice e più comune della vita sociale appare oggi un tema ecclesiologico e pastorale di grande
interesse… La complicazione è diventata per così dire "endemica": vale a dire che essa non
riguarda tanto la possibilità di generose iniziative di rinnovamento della pratica cristiana e della pratica
pastorale. Essa consiste infatti nella inclinazione implicitamente autoreferenziale che l’inerzia catechistica
del regime di cristianità proietta sugli atti dell’evangelizzazione. Atti che l’abitudine mentale
consolidata dei credenti e non credenti intende come immediatamente funzionali all’obiettivo
dell’aggregazione ecclesiastica. L’ipoteca di questa precipitosa risoluzione è poi negativamente
scontata da una pratica pastorale di tipo essenzialmente autoaplogetico…
La nuova evangelizzazione che alla Chiesa è chiesto di affrontare, comporta in effetti anche il coraggio e
l’umiltà necessarie per realizzare una nuova semplicità del contatto umano con Dio, capace
di neutralizzare l’ecclesiocentrismo devoto che fissa e polarizza a tutt’oggi gli standards della
pastorale religiosa e della missione cristiana.
…il massimo comandamento, nella sua incondizionata e irriducibile dualità: ama Dio con tutte le
tue energie, mente, cuore, anima; e il prossimo tuo come te stesso. Anche qui le due facce dell’unico foglio
sono indisgiungibili e insieme - per noi - irriducibili ad una superiore unificazione. La radice della loro
unità, infatti, è grazia soprannaturale: letteralmente nascosta, con Cristo, in Dio.
La proposta cristiana è caratterizzata da un lato da un riferimento costante alla grazia che viene dall’alto e dall’altro dall’indissolubile capacità di non rifuggire il banale costante rapporto con gli uomini, ma anzi di sceglierlo coscientemente!
Delle molte riflessioni di d.Sequeri sulla musica e, più ampiamente sull’estetica, abbiamo voluto trascrivere solo alcune notazioni sull’importanza di uno stile di bellezza:
Non si può sfuggire ad un senso di malinconia di fronte a una forma del cristianesimo
che in molti tratti ci sembra mancare di stile… Proviamo piuttosto un po’ di desiderio per
un’immagine che vorremmo più lieve, più elegante. Ci piacerebbe individuare la traccia di uno
stile e non soltanto quella di un pensiero, di un’azione e di un’organizzazione.
La coltivazione di uno stile spirituale cristiano (che è l’humus delle grandi produzioni d’arte)
in cui il dono dello Spirito Santo si congiunge con una certa spontanea naturalezza alla percezione estetica di Dio,
della verità, delle cose che valgono, degli affetti che contano… La percezione della forza di questi
valori giunge fino all’incanto della bellezza. E permette di godere di quella forza non prepotente, e non
intellettuale, e pure molto saggia e molto forte, che è la forza persuasiva della bellezza.
Ribadisco che per "esperienze estetica" si deve intendere non solo la creazione artistica, ma quell’esperienza
nella quale i simboli del senso, della verità, della giustizia, agiscono in noi attraverso il nostro sguardo,
attraverso il nostro udito, attraverso il nostro corpo, che viene sottratto alle sue funzioni elementari di fare,
produrre, pensare, concepire, organizzare.
La grandezza di un animo si misura dalla capacità di riconoscere la forza di ciò che vale.
Ci è sembrato di poter legare a questo alcune battute dell’autore sull’importanza dell’ironia che caratterizza lo stile di Gesù e dovrebbe caratterizzare la nostra vita cristiana:
Vi propongo di adottare il registro dell’ironia evangelica come cornice dentro la quale riversare la lava, speriamo incandescente, della nostra testimonianza a proposito dell’amore di Dio. L’ironia è qui intesa nel senso del Vangelo, di quelle battute fulminanti che Gesù spesso pronuncia introducendo o chiudendo il discorso con i suoi interlocutori, discepoli o oppositori polemici; è una ironia sottilissima, insieme affettuosa e tagliente, nei confronti di tutti quei temi che l’interlocutore di Gesù considera troppo complessi per le capacità umane di comprensione: il tema della verità, della rivelazione, della giustizia, della vita… (In Gv 4) l’ironia evangelica come forma di questo racconto è ravvisabile nel fatto che Gesù, con finissima ironia, piena certamente di affetto e di rispetto nei confronti della sua interlocutrice, scavalca tutti i temi sui quali di primo acchitto la donna sembrerebbe interessata e intenzionata a tradurre il senso del rapporto con Gesù stesso. La donna, allora, è portata a pensare che Gesù, come uomo di religione, conduce una esistenza in qualche modo separata, caratterizzata dalla rigida osservanza di certe regole nei confronti del rapporto sociale, che non si fermi a parlare con le donne, tanto meno se samaritane. E si chiede: perché vuol parlare con me? Che cosa mi vuol chiedere? Di che cosa vuole parlare? Forse della mia etnia? E Gesù elegantemente: "Non voglio parlare di questo, voglio parlare di un’acqua, ecc… ". E la samaritana: "Allora parliamo di quest’acqua in modo che io non debba più venire a prenderne". E Gesù: "Devi venire con tuo marito". E la donna: "Non ho marito". E Gesù risponde: "E’ vero che non hai marito, l’hai avuto e quello che hai adesso non è tuo marito". Così la samaritana suppone che Gesù voglia parlare di questo e raccogliendo il filo dell’ironia risponde: "Vedo che sei un profeta". Con i profeti si parla di religione. Così la gente si rivolge a noi: Anche io ho uno zio monsignore" (tutti ne abbiamo uno!). "Cosa ne dice del celibato e dell’infallibilità del papa?". Gesù aderisce a questo dirottamento confermando, con grande finezza, che la battuta a proposito dei mariti non è destinata a fissare lì l’argomento della conversazione; ma neanche la questione della religione è quella che Gesù intende affrontare. Infatti c’è una questione ancora più importante, quella dell’adorazione di Dio in Spirito e verità… Qui, dunque, ironia non significa fare la battuta o prendere in giro, ma vare in mente in modo così chiaro ciò che si vuole dire, l’essenziale, da poter affrontare il dialogo e la comunicazione con relativo distacco nei confronti di ciò che è meno essenziale. Questa è la prima regola della comunicazione cristiana. Se vi accade, infatti, di presentarvi a qualcuno in qualità di interlocutori della testimonianza cristiana, può accadere che siate in qualche modo requisiti e imprigionati in questioni anche importanti, ma secondarie rispetto a quella centrale. Ironia qui significa che i due interlocutori devono avere sufficiente distacco da sé e dalle questioni secondarie per interloquire prima di tutto su ciò che è davvero importante. Per fare questo ci vuole molta ascesi, un grande distacco dal ruolo innato di protagonista che ti è offerto se accetti di parlare di ciò che è secondario… Potremmo discuterne e avremmo ragione noi ebrei, ma sarebbero comunque discorsi non risolutivi. La questione essenziale è altro! Allora, cos’è questo altro?
Un altro gruppo di brani presentava la riflessione (una costante nel nostro autore) tesa ad indicare alcuni orientamenti che aiutino a saper "discernere" nel mondo dei sentimenti. L’insistenza, il ritornare su questo tema indica la consapevolezza che d.Pierangelo ha della centralità di questo aspetto e della necessità di far emergere dalla confusione una precisa consapevolezza di cosa esso comporti:
La dottrina dei sensi spirituali. Abbiamo bisogno di una estetica della relazione con Dio. La catechesi e la comunicazione cristiana attualmente non dispongono di un linguaggio specifico per parlare, interpretare, comunicare la relazione del Signore nella dimensione dell’estetico. In altre parole non esiste nella nostra lingua una terminologia specifica per esprimere ciò che proviamo nel rapportarci a Dio. Le parole che utilizziamo di solito a tal fine (emozione, sentimento, passione, conflitto, rivolgimento, desiderio, entusiasmo, ecc.) appartengono tutte al vocabolario acchiappato dal di fuori, privo di sapienza cristiana. Entusiasmo, gusto della vita sono spesso concetti generici che crollano al momento della prova. Assistiamo ad una trasformazione messianica del narcisismo: "Mi sento bene con…, Non mi sento bene con.. Mi sento bene con Dio… Non mi sento bene con Dio". L’altro è diventato uno stimolo! Se domando: "L’altro come sta?" "Sono affari suoi!". Praticamente questo è diventato l’amore cristiano: "Sto bene con…" Andrai lontano col gruppo del giovedì "in cui si sta bene con"!
E ancora:
Ci sono cristiani che si dicono "impegnati" e che in realtà non fanno altro che lamentarsi per ciò che la Chiesa dovrebbe dare e non si preoccupano di ciò che è essenziale. Ci sono individui che non si accorgono neanche di cosa dicono, si squagliano appena si fa sul serio. Volevano solo un salotto meglio arredato. Già che devo venire in Chiesa, che sia bene arredata! E’ un esercito di poppanti abusivi che vengono in Chiesa solo per poppare, anche se già hanno avuto molto. Occupano la Chiesa semplicemente per chiedere, occupano lo spazio anche di quelli che non possono farsi avanti perché ci sono loro. Spesso ci sono i "pretoriani", quelli che vegliano perché gli altri non possano farsi avanti, "altrimenti c’è poco da poppare". Bisogna mutare rotta, altrimenti non ce la facciamo. L’immagine della Chiesa non deve essere quella delle divinità astartiche, ridondante di mammelle, con tutte le poppe estenuate. La Chiesa, per poter essere a disposizione di chi ha bisogno, deve essere composta in prevalenza da chi è disposto a offrire gratuitamente le proprie potenzialità ed esperienze indipendentemente dal risultato, a metterci qualcosa di proprio anche prima di vedere che frutto ne darà. E’ necessario che cresca un’esperienza spirituale profonda di dedizione non solo per i poveri, ma anche nei confronti della Chiesa, non soltanto nei confronti del prossimo. Certo che se l’invito è: "Vieni, ti faremo stare meglio!" "Il Cristo che mi fa stare meglio, che mi realizza, che mi piace, che risponde alle mie domande! Non abbiamo più tagliandi!". Qualcuno viene a portare un panino o due pesciolini? Qualcuno viene a portare qualcosa? O tutti si aspettano il "top". E non la minestra, ma "l’autorealizzazione"!. La Chiesa è fatta di un esercizio di dedizione. Altrimenti chi arriva e veramente ha bisogno non trova niente.
Questo affonda le sue radici in una problematica ancora più grande che è il vicolo cieco in cui la mentalità moderna si caccia, quando non interpreta il tema dell’amore alla luce della rivelazione cristiana:
L’autorealizzazione, l’assolutizzazione del principio di autorealizzazione,
è come il principio di re Mida: rende immediatamente strumentale ogni altro principio…
A proposito dell’innamoramento osservo che esso consiste nel riconoscere la possibilità di amare con
tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze non soltanto Dio, ma anche un’altra persona, un
proprio simile. Se di questo principio erotico non si custodisce invece la trascendenza - per cui solo Dio va
amato "con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze" - esso diventa immediatamente distruttivo; se
diventa tout court principio dell’amore per il prossimo, ogni volta che l’altro ci delude, e ogni volta
che il nostro dio "me/sé" narcisistico è deluso e ferito, è veramente la fine del mondo, e siamo
pronti a tutto, sprigionando una distruttività senza limiti…
Per uscire da questa logica dell’innamoramento, dobbiamo uscire dalla matrice moderna dell’ "io-tu"
(Buber, Levinas, a cui pure siamo debitori di importanti acquisizioni) anche nella considerazione di Dio. La
verità cristiana induce a pensare Dio come il Terzo non manipolabile emotivamente ed eroticamente. Lo si
può vedere anche in Gesù, dove appare come Padre "suo". E anche nel fatto che per noi Egli è
Padre "nostro", ossia veramente un Terzo fra noi e per noi. Questo garantisce nella libertà la relazione dei
due, dell’io-tu, perché Dio è il Terzo che non si intromette sostituendosi né
all’io, né al tu. Egli non è né l’io né il tu, bensì il Terzo, al
quale ricorrere quando io e te sentiamo che per poter vivere e godere di qualche buon legame conviene che non lo
assicuriamo né a me (dispoticamente), né a te (semplicemente alienandolo nella fiducia), ma ad un Terzo
che è tale per entrambi. Lacan ha affermato che il Terzo non c’è, la garanzia dell’altro
non c’è. Io allora dico: teologi, imparate da Lacan l’importanza della problematica del Terzo e
combattete contro di lui l’idea che il posto del Terzo sia vuoto. Il posto del Terzo infatti è il posto
di Dio…
Dovrebbe essere chiaro che nulla è più lontano dalla mia prospettiva quanto l’equivoco in senso
narcisistico, in cui siamo oggi impigliati. L’attuale corruzione della parola cristiana "Dio è amore"
sta proprio nel concepire l’amore come Dio; e questo è falso. La divinizzazione dell’amore (da
Feuerbach in qua varie volte perseguita, con studi anche di ottima qualità) è il principio della nostra
distruzione; sembra pacifismo, mentre è un principio di devastazione. Da combattere. Nei miei testi ormai non
scrivo più la parola "amore", ma "eros" o "agape". L’equivoco narcisistico deve essere combattuto
perché è distruttivo.
Sulla moderna ("romantica") sostituzione filosofica, che intende "Dio" come "cifra" dell’amore, cfr
l’utilissimo saggio di J.Delasalle, T. Van Toàn, Quand l’amour éclipse Dieu.
Abbiamo letto questi testi presso la Cappella di S.Rufinuccio d’Arce, recentemente restaurata ed affidata alle suore francescane di Susa, la cappella dell’antico lebbrosario di Assisi presso la quale avvenne probabilmente l’incontro fra S.Francesco e i lebbrosi. Le parole del Testamento (autografe di Francesco) illuminano l’esperienza umana con una profondità che è da riscoprire nel parlare dei sentimenti, delle mozioni interiori. Così si espresse S.Francesco:
Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere il lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu mutato in dolcezza di animo e di corpo. E di poi stetti un poco e uscii dal mondo.
Cosa vuol dire "amaro", "dolce", passaggio "dall’amaro al dolce" compresenza "dell’amaro e del dolce" "dolcezza di animo e di corpo"? La chiarezza su questo è la chiave di volta dell’odierno educare.
Anche il tema del dono, il linguaggio usato per interpretare il donare rispecchia l’ambiguità culturale non chiarificata, sul tema dell’amore. Così ancora Sequeri:
Derrida dice: Il paradosso starebbe anzitutto nel fatto che il "dono", "se esiste" è di
necessità totalmente invisibile. La donazione, infatti, se vuole realizzarsi secondo il suo ideale di pura
oblatività - senza ombra di scambio interessato, senza attesa alcuna di contropartita - dovrebbe in
realtà autocancellarsi. La buona coscienza del donatore, infatti, contraddice già di per sé il
radicale interesse della donazione…
Che cos’è un dono d’amore senza speranza di corrispondenza, senza la sofferenza del rifiuto,
senza l’attaccamento alla qualità del legame, senza la dignità dello scambio e della
reciprocità, senza la disponibilità a mettere in gioco i propri convincimenti a riguardo della
verità, della giustizia, della credibilità in cui si decide di noi e dei nostri affetti più
cari?
In un primo momento, la critica è stata rivolta proprio al basso profilo antropologico della carità
in quanto puro dono a perdere, oblatività unidirezionale, atto etico individuale, occasionale e spontaneo, che
eccede i doverosi vincoli politici della giustizia distributiva…. Erano anni in cui anche la comunità
credente recepiva la legittimità di argomentazioni del tipo "dare del pesce a chi ha fame è bene. Ma
insegnargli a pescare è molto meglio". In quel contesto si è prodotto anche nella coscienza cristiana
la definitiva consapevolezza dei risvolti ambivalenti del dono a perdere. La beneficenza paternalistica, la
soddisfazione estemporanea del bisogno generano e incrementano nel donatario un vincolo di assoggettamento al dono e
anche al donatore al quale è impossibile sottrarsi. Il donatario premuto dal bisogno e incapace di
restituzione (o anche artificiosamente tenuto lontano da questa possibilità), non è in grado di
riscattarsi dalla dipendenza che il puro dono crea oggettivamente. La "giustizia" riacquistava in tal modo, come
virtù politica, una sorta di primato sulla "carità".
Non tutti i legami affettivi comportano l’esercizio di un’oblatività assoluta e totale (anzi nel
cristianesimo essa è riservata esclusivamente al mistero benedetto dell’Abbà-Dio). L’ordine
degli affetti implica giustificate gerarchie delle relazioni.
L’Evangelo di Gesù introduce l’equivalenza perfetta dell’ordine di agape con quello della
giustizia e della grazia di Dio. E’ agape che giustifica un’esistenza umana affidata alla libertà
della propria corrispondenza: ora e sempre. E’ agape che giudica la qualità della corrispondenza dei
sentimenti, dei pensieri, delle azioni alla giustizia che esprime il felice rapporto di Dio con il mondo e il
compimento definitivo della storia del mondo. La qualità della nostra corrispondenza alla giustizia di Dio
è decisa dalla disponibilità della fede e della speranza con la qual apriamo la costellazione degli
umani affetti alla penetrazione di agape… E’ sugli affetti, infine, che saremo giudicati, ossia sul
rapporto che in tutta coscienza e libertà accettiamo di stabilire fra l’ordine degli affetti e la
giustizia di Dio che agape provoca, sostiene e indirizza al compimento.
Il puro dono d’amore, il cui fondamento è la grazia di agape che viene da Dio, è dunque un
azzardo che si espone deliberatamente alla fede. Una conoscenza del dono di Dio che non mette in questione la fede
dell’uomo nella verità dell’origine e della destinazione dei suoi affetti più cari, non
è all’altezza della manifestazione di Dio… Il principio teologale dell’amore di Dio,
insomma, resta estraneo all’indulto del Faraone come ai regali di Babbo Natale. Per essere il tema più
alto e degno della fede, il dono di agape non è per ciò stesso "cieco", come gli sciocchi dicono che
l’amore sia, (e parlano allo stesso modo, infatti, della fede). L’ordine degli affetti non è un
dominio separato e parallelo rispetto a quelli della ragione e dell’autodeterminazione. Non è la sfera
dell’istinto e della follia. Questo è il pregiudizio ereditato dalla separazione greca del logos e del
pathos…
L’ordine degli affetti è un sistema di forze abitato da una inespugnabile istanza etica, che è
fatta apposta per indirizzare la libertà a creare legami… innesca nella coscienza l’interrogativo
circa la verità della fede che lo abita…
L’odierno svilimento sentimentale dell’ordine degli affetti, individuato come variabile indipendente
delle esperienze della verità e della giustizia in cui "ne va di noi" ha assorbito nella sua irrilevanza anche
le fondamentali figure del dono d’amore.
La relazione fondata sul dono d’amore per essere qualitativamente la più alta è anche la
più esposta ad irreparabili mortificazioni. Per essere appesa alla fede è a rischio
dell’incredulità. In quanto fa appello all’ordine degli affetti essa espone inesorabilmente ad un
giudizio che penetra nella carne e nell’anima. Per voler essere totalmente gratuita si trova anche nella
necessità di pagare un prezzo altissimo alla sua fedeltà… Nulla è irresponsabilmente
leggero e confortevolmente nihilista ("mi fa star bene", "Che male c’è") nell’ordine degli affetti
che cercano verità e giustizia - in definitiva certezza della loro esistenza - mediante l’azzardo della
donazione.
Di nuovo una forma matura di amore a chi è portatore di handicap esemplifica la serietà sottesa al dono, ad un dono che non schiaccia, ma promuove l’altro, secondo l’affidabilità di Dio:
Il cucciolo d’uomo è un uomo per quanto grave
sia la sua malattia: un cucciolo d’uomo non muta specie. Dunque non diventa
un micetto, né per essere messo nella cuccetta dove stanno i micetti,
perché tanto di altro non ha bisogno, né per essere coccolato
e maneggiato a proprio piacimento come, appunto, si fa con i micetti (i quali
per altro, rispetto al cucciolo d’uomo, hanno il vantaggio dell’istinto
e, se esageri, tirano fuori le unghie e ti avvertono che ti stai prendendo troppa
confidenza)… E lì si decide! Se non è un micio, tu puoi
scommettere sul fatto che a te è possibile apprendere la sua lingua e
che a lui è possibile apprendere la tua… Ci sono persone che,
al di sotto di una certa soglia di incompatibilità linguistica, diventano
a loro volta autistiche. Credo che sia un errore; come l’eccesso del "miao"
delle mamme che ancora dopo anni parlano con i loro bambini con "cicci cocco"…
Non di scelte soltanto quantitative, non di scelte sempre ultimamente riducibili
alla "poppata", ma scelte che hanno a che fare con la qualità delle relazioni.
Dunque è necessario elaborare una lingua interprete…
Il primo simbolo capace di generare questa lingua interpretante mi sembra esser
quello della sussidiarietà maternale nei confronti della debolezza,
del disagio, della piccolezza che ci fan giudicare l’immaturità
dell’altro. Funzione materna in quanto essa, nell’esperienza comune,
è in grado di supplire a un largo margine di variazione e di deficit,
della mancanza della maturità, della fatica dell’altro come figlio…
Anche una comunità lo deve fare e anche la Chiesa lo deve fare, discernendo
ogni volta qual’è la misura di questo prolungamento che attutisce
le fatiche della crescita e compensa l’insufficienza degli alimenti, la
difficoltà a "masticare"… Questo prolungamento maternale realizzato
dalla fraternità della Chiesa, dalla solidarietà sociale, dunque
da una comunità "di pari" in linea di principio, ha il compito anche
di consentire il fisiologico distacco dal grembo della madre senza il quale
nessuno diventa uomo, in modo da renderlo possibile anche per chi non ha la
forza, la prontezza, le risorse necessarie per farlo da solo, madre o figlio
che sia. E’ un diritto dell’essere umano essere contenuto maternalmente
e avere la possibilità di spararsi dalla madre per vivere la propria
vita con i rischi che ciò comporta….
La seconda sorgente di simboli e di operazioni che ci può istruire nella
ricerca di questa lingua interpretante è il principio della sussidiarietà
paternale. Il padre è la sicurezza del rapporto sociale. Il simbolo
del padre è il simbolo della legge, della norma che ci introduce nella
società, che ci garantisce e rassicura della possibilità di fare
questo ingresso, della possibilità di accogliere le norme, della possibilità
di essere normale… Dunque chi parla ingenuamente, dicendo che la società
dovrebbe tutta strutturarsi intorno a questo bisogno, non ha capito cos’è
la società, non ha capito qual è il suo compito, e non ha capito
l’importanza di una misura media della norma che assicura il riconoscimento
della normalità, del proprio appartenere alla società, non del
proprio appartenervi in modo speciale, dunque artificiale. Il processo è
quello contrario. Creare collegamenti, opportunità di recezione della
norma adatte alla propria dimensione, quando questa dimensione è un po’
speciale, un po’ differenziale…
E terza figura è quella della sussidiarietà fraternale,
che si deve esprimere nella Chiesa, in quanto l’integrazione compiuta
deve dare la netta percezione della fine della stagione delle mamme e dei padri,
perché il simbolo della fraternità è il simbolo della parità.
Ma il simbolo della fraternità è il simbolo di una parità
non solo capace di sopportare la diversità, ma capace di integrarla nella
relazione paritetica affinché l’altro non sia necessariamente la
copia dio nessuno, la controfigura di nessuno, ma il mio fratello più
piccolo, più grande, più tondo, più basso.
Per concludere un’ultimo testo che analizza il rapporto fede-carità in prospettiva cristiana:
Mettiamoci dal punto di vista del cristiano "comune". Fino a non molti anni orsono risuonava
nella predicazione ecclesiastica corrente un sospetto radicale nei confronti di ogni pratica dell’umana
solidarietà che intendesse profilarsi come giustificazione - o anche solo attenuante - per inadempienza verso
i doveri sacramentali e rituali… La singola omissione del culto domenicale valeva insomma una "perdizione
eterna" che l’omissione della carità evangelica non pregiudicava in nessun modo… Appena a ridosso
della stagione post-conciliare, la predicazione corrente parla ormai, con altrettanta disinvoltura, una lingua
cristiana polarmente opposta a quella della tradizione precedente. In questa lingua avviene un sintomatico
rovesciamento semantico: il vero "praticante" non è tanto quello che "comunque" va "in chiesa"; è
piuttosto quello che, "comunque", annuncia "praticamente" l’evangelo mediante l’impegno per i fratelli,
la dedizione della carità, l’esercizio della solidarietà verso i poveri, gli emarginati, le
vittime dell’ingiustizia… Ieri il "parroco" tuonava dal pulpito contro coloro che pensavano di essere
nella sostanza "buoni cristiani" perché nonostante una pratica rituale sporadica e superficiale erano
onest’uomini, non facevano del male nessuno, ed erano pronti "nei limiti del possibile" ad aiutare il loro
prossimo. Oggi lo stesso "parroco" denuncia lo svuotamento cristiano di una fede che si identifichi con
l’assiduità di una pratica rituale avulsa dall’impegno di partecipare al compito evangelizzatore
della Chiesa mediante la dedizione ai bisogni emergenti, alle nuove povertà, alla giustizia sociale e alla
gestione politica della cosa pubblica…
Provvedere a questo riorientamento è certo compito assai arduo… ma questa cura è un compito
doveroso della Chiesa…
L’enfasi oggi posta sulla caritas civile come Ersatz - surrogato? Equivalente? - della fide sembra infatti
corrispondere alla oscillazione contraria di un movimento che aveva finito per privilegiare la fides devozionale
anche come Ersatz della caritas. In questo senso il richiamo episcopale alla individuazione del profilo teologale
della caritas, che "dice Dio" e non si limita a "rispondere ai bisogni dell’uomo" centra esattamente la radice
della questione…
In verità la lingua che impone come obiettivo prioritario della dedizione l’autorealizzazione del
singolo e il suo diritto al benessere, solo con molte cautele può essere applicata alle figure
dell’offerta e della comunicazione della salvezza. La caritas è in effetti la modalità originaria
dell’annuncio evangelico: è quell’evangelo annunciato "anche senza parole" di cui parla
efficacemente Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis. Ma quello della caritas è anche il "linguaggio
duro" dell’amore ai nemici, della consegna di sé come cibo e bevanda, della fraternità ecclesiale
dei discepoli che hanno in comune l’appartenenza alla comunità dei fratelli del Signore, della
neutralizzazione di ogni surrettizio spirito di ricatto e di dominio. E’ infine il profilo di una dedizione
alla causa di Dio che, nel momento necessario, rinuncia persino al diritto della propria autoaffermazione; e affida
interamente a Dio - nella fides appunto - la continuità storica di una testimonianza che non potrebbe
più esser resa, in parole e in opere, senza ricorrere all’astuzia dei potenti di questo
mondo…
Lo scioglimento di questi nodi non è questione di inventario statistico delle opere della misericordia, o di
mobilitazione generale delle risorse della dedizione. Bensì di intelligenza della fede. Di teologia, insomma,
che continua a mancare. Una teologia capace di affrontare e di interpretare concretamente il tema del rapporto fra la
fede ecclesiastica e l’odierna religiosità civile a partire dal sapere della fede più che non
orecchiando la rassegna stampa dei "bisogni dell’uomo contemporaneo".
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