Fare memoria dell’amore di Dio tra i giovani oggi
di Pierangelo Sequeri

Il presente testo di d.Pierangelo Sequeri è apparso nel volume collettivo curato dall’Azione Cattolica Italiana-Settore Giovani, Cose nuove e cose antiche. Comunicare la fede ai giovani oggi, Editrice AVE, 1994, pagg.73-90 ed è la trascrizione di un intervento tenuto al Convegno nazionale del 12-14 marzo 1993 del Settore Giovani dell’Azione Cattolica Italiana. Lo mettiamo a disposizione, pronti all’immediata rimozione se la sua presenza on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I corsivi sono originali del testo. I neretti, invece, sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare una lettura del documento sul video.

Centro culturale Gli scritti (07.07.2006)


Indice


1. Una parola introduttiva a favore dell'ironia evangelica come virtù della comunicazione cristiana

Il tema proposto è certo di una vastità un po' intimidente, capace di mettere a disagio, perché fare memoria dell'amore di Dio è l'impresa stessa della testimonianza, il senso stesso di una fede stori­ca: che si fa continuità dell'esistenza e non semplicemente rapimento occasionale, innamoramento fugace. Quando diventa figura di un'esistenza che continua nel tempo, la fede non ha altro senso che questo: mantenere desta la memoria dell'amore di Dio. Dovendo dare qualche limite a questa presentazione, ho pensato di adottare lo schema biblico della inclusione. C'è una forma letteraria tipicamente biblica e, in generale, della narrazione orientale, che è l'inclusione. Per esempio, il libro di Giobbe è nato così: circolava una piccola parabola su di un certo personaggio che viveva in una certa condi­zione che poi si è trovato nella disgrazia e nella tragedia e dopo ave­re molto patito finalmente è stato restituito alla salute e alla felicità. L'autore del libro biblico ha tagliato, si direbbe violentemente, in due questo racconto come se fosse una mela; le due parti le ha messe all'inizio e alla fine di quello che adesso è il libro Sacro che porta il nome di Giobbe, e tra le due metà ha inserito un fulminante poema a proposito dell'interpretazione del tragico di fronte alla questione del­la presenza di Dio. Dove è Dio? Chi è Dio? Cosa fa Dio? Che cosa dice Dio di fronte al tragico dell'uomo? E questo poema incandescen­te che si dipana per pagine e pagine è come una colata di lava. Ecco: inclusione vuol dire includere il nocciolo di quello che si vuol dire dentro un inizio e una fine, piuttosto semplici, in modo che tuttavia gli estremi dell'inclusione facciano come da contenitori a questa cola­ta di lava del pensiero che vorrebbe dispiegarsi in tutte le direzioni. Ci sono perciò come un inizio e una fine che si richiamano e ci aiuta­no a dare un po' di misura e di compiutezza, a proposito di un argo­mento che dovrebbe sempre restare incompiuto, come quello di Giobbe, come quello che tocca a noi ora. Le due metà della mia mela sono intitolate al concetto di ironia evangelica, che io propongo come principio formale della comunicazione cristiana oggi.

Io vi propongo di adottare il registro dell'ironia evangelica come cornice dentro la quale poi riversare la lava - speriamo incandescente - della nostra testimonianza, a proposito dell'amore di Dio. Ironia nel senso dell'Evangelo: nel senso di quelle battute fulminanti che Gesù pronuncia spesso, introducendo o chiudendo il discorso con i suoi interlocutori, discepoli o oppositori polemici; nel senso del Vangelo di Giovanni, dove Gesù intreccia nei suoi discorsi - con la densità e con la profondità dei temi che va a toccare nella lingua solenne e profonda di Giovanni - il filo di una ironia sottilissima, insieme affet­tuosa e tagliente, nei confronti di tutti quei temi che appunto il suo interlocutore deve considerare troppo grandi, rispetto a ciò che può - o vuole - realmente capire. Di questa forma della comunicazione cri­stiana, e della sua giustificazione, intendo proporre due sensi. Uno lo dico all'inizio, uno lo dico alla fine.

1.1. Breve commento a un dialogo esemplare: Gv 4, 1-42

Quello che dico all'inizio è tratto dal racconto, molto suggestivo, di Gesù che incontra la Samaritana; qui ironia evangelica vuol dire la forma del dialogo, nel quale noi percepiamo che Gesù con finissima ironia - piena certamente di affetto e anche di rispetto nei confronti di questa donna che ha una figura a tutto tondo di grandissimo inte­resse, figura che l'antica tradizione cristiana ha giustamente ritenuto esemplare - scavalca progressivamente tutti i temi sui quali, di primo acchito, la donna sembrerebbe interessata, o in qualche modo inten­zionata, a bloccare il senso del rapporto con Gesù.

Gesù è un uomo di religione, bene. Allora vorrà forse parlare pro­prio di questo, del fatto che l'uomo di religione vive una vita regolata dalla rigida osservanza di certe regole nei confronti del rapporto sociale, ed in qualche modo separata: non si ferma a parlare con le donne, tanto meno se sono samaritane (due belle disgrazie, per l'epoca). Allora la prima questione sembra alla donna essere questa; è forse sulla mia appartenenza che tu vuoi interrogarmi, sul come mai io sono in questa differenza (la differenza è qui un problema di etnia, di appartenenza, di storia politica e sociale, di religione: i samaritani sono come degli eretici agli occhi dei Giudei). "È di que­sto che vuoi parlare?". E Gesù elegantemente: "Non voglio parlare di questo, voglio parlare di un'acqua", ecc.
"Allora parliamo di quest'acqua in modo che io non debba più venire a prenderne".
"Ma devi venire con tuo marito".
"Non ho marito".
"È vero che non hai marito, lo hai avuto, e quello che hai adesso non è tuo marito".

Allora forse è di questo che Gesù vuole parlare. La donna a questo punto raccoglie il filo dell'ironia e dice "vedo che sei un profeta". Con i profeti cosa si fa? "Parleremo di religione". Gesù aderisce a questo dirottamento, confermando con grande finezza che la battuta a proposito dei mariti non era destinata a fissare lì l'argomento della conversazione, ma confermarle, pur essendo lei una donna Samaritana e avendo avuto questa vicenda del marito, "proprio con te voglio parlare, e su una questione che non ha niente a che fare con la differenza dell'inizio e con questa condizione". Perché questa era infine la sorpresa della donna: "Come mai ti fermi a parlare con me, adesso che sai chi sono?"
La samaritana si comporta come quando ci si incontra con le per­sone: "Ah lei è un sacerdote, anch'io ho uno zio Monsignore", "E sen­ta un po': cosa mi dice del celibato dei preti, dell'infallibilità...". Qui accade lo stesso: "Allora secondo te dobbiamo adorare sul monte, dobbiamo adorare nel tempio, cosa dobbiamo fare?" E' il problema di qual è la vera religione; la gente si immagina che noi si vada in giro soprattutto con questo problema. Gesù dice: "Se volessimo discutere di questo, potremmo anche discutere: la tradizione vera è quella che viene dai Giudei. Se vogliamo discutere anche della qua­lità di questa tradizione si potrebbe fare, ma c'è una questione ancora più importante, ed è quella dell'adorazione di Dio in Spirito e verità e adesso è il momento di trattare questa questione. Non quella della differenza dell'uomo, della donna, dell'uomo religioso e non religio­so, del giudeo, del samaritano; non quella della questione morale - quanti mariti si devono, o si possono avere - non quella della vera religione, non quella dell'istituzione religiosa che rappresenta ade­guatamente Dio, ma la vera questione della quale voglio parlare con te è quella dell'acqua e dello Spirito; e prima che abbiamo affrontato questa questione, non m'interessa parlare d'altro". Allora si compren­de che cosa significa qui ironia: non significa fare la battuta, o pren­dere in giro. Qui ironia significa avere così in mente l'essenziale da poter affrontare il dialogo e la comunicazione con relativo distacco nei confronti di ciò che è meno essenziale. Rispetto alla questione del modo in cui si realizza per un essere umano - uomo o donna che sia - la verità di un felice rapporto con Dio, la questione delle diffe­renze, la questione della morale, la questione della vera religione, sono relative.

Prima regola della comunicazione cristiana odierna, nella quale ci accade, e ci accadrà ancora per un bel po', che come ci presentiamo in qualità di interlocutori, siamo in qualche modo subito requisiti e bloccati su questioni anche importanti, ma secondarie rispetto a quella centrale che ancora non è stata sfiorata, è avere sufficiente distacco da sé, e invitare l'altro ad avere sufficiente distacco da sé, per interloquire prima di tutto - è un prima di tutto non di tipo crono­logico, ma nel senso della cosa importante - su ciò che è realmente importante per un essere umano, anzi, questione di vita o di morte. Ciò che è di vita o di morte per un essere umano è come stabilire un felice rapporto con Dio: né più né meno che questo.

Ci vuole molta ascesi, un grande distacco dal ruolo incauto di pro­tagonista che oggi ti può venire facilmente offerto, se accetti di parla­re di questioni più secondarie di queste, per quanto importanti. Perché questa è questione che non fa "audience" nelle tavole roton­de; fanno audience il celibato dei preti, l'infallibilità, la differenza dell'uomo e della donna, femminismo cristiano sì femminismo cri­stiano no, la questione della pace... Tutte cose importanti. Gesù stes­so dice: «Se volessimo discutere, abbiamo ragione noi Giudei". Potremmo discutere, e si può anche fare. Ma discutere di questo pri­ma di avere discusso insieme della questione vitale per me e per te, ci espone a discorsi comunque non risolutivi, anche nei confronti della questione religiosa, morale, etnica, sociale, ecc.

Ironia qui significa proporre questo distacco, spiazzare il proprio interlocutore - che è subito disposto ad attribuirci interessi e passioni dominanti, che invece per noi non devono essere quelli dominanti - e farlo con tutta l'eleganza con cui siamo capaci. Questa è ironia evangelica, quindi ironia che non ha interesse a ferire, che non ha il problema far tacere l'altro ("guarda questo qui come è ignorante, non sa la differenza tra l'Antico e il Nuovo Testamento") perché se no ricadi in questioni tutto sommato secondarie. Quando ci vuole ci vuole, quindi se uno proprio insiste, è bene spiegargli due o tre cose che forse la mamma non gli ha detto, non è una cosa cattiva. E tuttavia elegantemente sottrarsi, come milioni di volte fa Gesù. Il Vangelo ci dà tutte le risposte, ma non è mica le Pagine gialle della fede; qual­che volta respinge le domande, e anche lì c'è una grande saggezza.

In questo dialogo esemplare, tanto di cappello alla Samaritana che a tal punto sa entrarvi - e non era semplice, perché si trovava proprio completamente fuori: il catechismo che lei aveva imparato, per quel poco che si ricordava, era di tutt'altro genere - da riuscire addirittura ad assumere lo stile del suo interlocutore, e accettare il terreno che le è predisposto.
Ecco: ironia come distacco da sé per poter mettere in evidenza, in modo elegante ma essenziale, ciò che è decisivo, ciò che è questione di vita o di morte anche per l'altro. Decisivo non è che tu diventi come me; o la differenza tra me e te: tu sei donna e io sono uomo, tu sei Samaritana, io sono Giudeo, tu sei laico, io sono credente ecc. La questione essenziale, la questione di vita o di morte è altro. Allora che cosa è questo altro?

1.2. La compatibilità cristologica

La memoria dell'amore di Dio per il cristiano ha un punto di riferi­mento essenziale, essenziale perché fa da criterio per ogni altra memoria; è un punto accessibile ad ogni credente, e la capacità di assimilarne questa natura di criterio è vitale per la comunicazione della fede. Tecnicamente - lo dico perché magari la formula nella sua estrosità potrebbe servire come aiuto per la memoria - sarebbe qui il tema della compatibilità cristologica di ogni affermazione cristiana. Che vuole dire: tutte le affermazioni della fede cristiana che non pos­sono in qualche modo essere riconosciute come interpretazioni di Gesù, sono dubbie. Vi faccio un esempio rapido di questa figura del­la compatibilità cristologica. Significa per esempio che, nonostante che ci siano in giro molte persone, sacerdoti e laici, che vedano a occhio nudo Dio che fa cadere le foglie, e qualcuna anche sulla testa di qualcuno, e si prende i bambini del tipo "prenderò il figlio di questa per salvare un peccatore in Australia", al vaglio della compatibilità cristologica, la teologia costruita su questa visione è semplicemente falsa, produce domande alle quali non deve essere data risposta, ma piuttosto domande che devono essere dissolte, ricordandosi che quel poco che sappiamo di Dio, noi credenti cristiani lo sappiamo dall'Evangelo di Gesù. Nella rivelazione di Gesù, Dio è quello che quando trova dei bambini che sono morti, la prima cosa che gli viene in mente è farli risuscitare, non di battere la mano sulla spalle ai suoi parenti dicendo: “è come un angioletto, «è una grazia anche questa». Certo si rimane con un po' meno di metafisica a disposizione, ma con una sostanza di verità in più. Si può dire del tutto francamente - ecco l'ironia evangelica - "caro signore, cara signora, io so pochissi­mo di Dio". "Ma lei è un sacerdote, un teologo!". "Appunto per quel­lo so pochissimo, quel poco che so è quello che vedo lì e sto aggrap­pato a quello, perché se comincio a mollare quello, - che è appunto la figura di Gesù, la rivelazione di Dio in Gesù - mi perdo, e non mi tornano più i conti".

Ogni parola cristiana per quanto impegnata ad approfondire, come è giusto, il senso della relazione tra Dio e il morire dell'uomo, o del cucciolo dell'uomo, non potrà allontanarsi da questo, dovrà sempre poter essere ricondotta a questo.

Ecco cosa significa il principio della compatibilità cristologica: in ogni formula, in ogni parola della fede cercare di esplicitare quel sen­so che la conduce alla coerenza con la rivelazione di Gesù. Non è detto che questo senso consista nel ripetere le stesse parole: non c'è un materialismo della Bibbia o un fondamentalismo. Può essere anche una riflessione (anzi deve essere una riflessione) che nei seco­li, nella tradizione, nel nostro pensiero, nella cultura cristiana si approfondisce e scava, per ricavare dei significati nuovi. Ma è impor­tante che ognuno sempre possa controllare il rapporto della parola cristiana, con la figura di Gesù. Il Concilio Vaticano II ci ha, grazie a Dio, restituito alla integrità luminosa e acuminata di questo referente, dicendo che la rivelazione è prima di tutto Gesù - le sue parole, le sue opere, i suoi rapporti, i suoi atteggiamenti, i suoi sentimenti ecc. E' proprio scritto in dettaglio, per far sì che si parli di Gesù, non di un ectoplasma cristologico; bensì di Gesù di Nazaret, il figlio di Dio fatto uomo, a noi accessibile attraverso la tradizione degli Apostoli per quanto riguarda la sua rappresentazione di Dio. Che è capace di entrare con noi in relazione, precisamente perché è risorto, è una sola cosa con Dio e quindi anche ora vive.

2. L’Abbà di Gesù. La scena della rivelazione come referente primario della comunicazione cristiana

2.1. Il gesto della liberazione dal male come metafora assoluta della verità di Dio

La memoria che sorregge questo principio della compatibilità cri­stologica del linguaggio della fede, deve essere prima di tutto - ecco il secondo punto - la memoria della scena originaria della rivelazio­ne. Qual è questa scena originaria? E' facilissimo, la possono capire anche i bambini, e persino Giovanni Battista: «Andate e dite a Giovanni Battista: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono evangelizzati, i peccatori sono perdonati, ecc...». Ecco la scena originaria della rivelazione.
Ecco chi è Dio per Gesù di Nazareth. Ecco qual è il simbolo essen­ziale con il quale Dio si annuncia, con il quale si presenta e si mostra: è il gesto della liberazione dal male. Tutte le volte che si produce questo gesto, lì si produce una dimostrazione dell'esistenza di Dio nel senso inteso da Gesù, cioè una dimostrazione dell'esistenza di Dio come Abbà, perché per Gesù Dio è l'Abbà.

Giovanni e i discepoli di Giovanni sono entrati in crisi su questo, tanto è vero che poi Gesù ha dovuto dire: «Ehi, non vi prendete troppa confidenza, Giovanni rimane il più grande di tutto l'Antico Testamento», aggiungendo: «però un bambino del Regno è più gran­de di lui». Un bambino del Regno è uno che aderisce a questa rivela­zione di Dio, che acconsente a tenere come scena della rivelazione di Dio quella in cui accade di vedere l'uomo che lo rappresenta - il Figlio - circondato dai peccatori, che parla con le donne, che guari­sce i malati, anche quelli di certe malattie che denuncerebbero una presenza di Dio che andrebbe piuttosto rispettata, per così dire, per­ché ci sono malattie che non vengono per niente, e quindi in quel contesto guarire anche da quelle è come una sorta di dissacrazione. Anche i bambini possono arrivare a questa cosa, ma non è così sem­plice.

Quando la donna che tocca il mantello di Gesù a tradimento, vede che Gesù si ferma e dice: «Chi mi ha toccato?», pensa: «Oddio, sono rovinata», perché in quel momento questa donna ha sfidato un cate­chismo secolare, che si è introdotto nella religione dell'Antica Alleanza - che pure non è così - come si è introdotto anche nel cri­stianesimo, perché è un catechismo che ci viene dalla eredità di Adamo, il quale già fin dall'inizio senza motivo sospettò di Dio. E' il "catechismo" che le dice: «Per l'amor di Dio! Intanto una donna nelle tue condizioni non tocca l'uomo religioso, perché la tua malattia è una di quelle tipicamente associate alla colpa, e quindi va espiata. Poi comunque non si chiede a tradimento la grazia: ci sono delle procedure, c'è un cammino da fare (come diciamo noi oggi)!» Ma la donna sente che per un attimo vuole invece scommettere sulla paro­la, sul volto di Gesù che dice: «Io vi dico che Dio lo trovate lì, dove si compie il gesto della guarigione, della liberazione dal male, del per­dono; lì voglio che lo troviate, e trovarlo lì è come trovare un tesoro in un campo che non sapevi di avere».
La donna si lascia persuadere e sfida, con un coraggio che chissà se noi abbiamo, una secolare sequenza di istruzioni che invece dovrebbero convincerla che questo Gesù sta parlando sopra le righe. Lo fa, e per un attimo ha paura di essersi sbagliata, perché Gesù si gira e dice: «Chi mi ha toccato?». E invece Gesù vuole sapere chi lo ha toccato per dare conferma che aver osato questo significa avere capi­to chi è Dio - è uno che si può toccare persino a tradimento - nella persuasione che è effettivamente nemico del male che affligge l'uomo.

«Vai, la tua fede ti ha salvata». Questa fede che la donna quasi non saprebbe confessare, si esprime nel desiderio di essere liberata dal male - noi diremmo di essere guarita nella malattia. Perché è una fede che la salva? Perché quel desiderio non si sarebbe realizzato in quel modo, se con una forza e con un coraggio che certamente ci consentono di parlare di determinazione profonda e coraggiosa della libertà, la donna non avesse sfidato, per il credito che faceva a Gesù, tutta la serie infinita di quelle istruzioni religiose che in qualche modo le raccomandavano di fare il contrario.

Ecco cosa significa una comunicazione cristiana che comincia dal suo principio. Se ti accorgi che questo non è il principio, devi ferma­re tutto il resto. Se c'è dubbio, se c'è esitazione a pensare che il gesto della liberazione dal male, comunque e chiunque lo compia, è un gesto perfettamente omologo con l'Evangelo di Dio, allora prima discutiamo di questo.
Non c'è nessuno che possa fare miracoli nel nome di Dio, cioè rappresentare Dio col segno della potenza e rappresentarlo come Abbà - quindi non nel segno di una potenza indiscriminata, perché allora non è “nel mio nome”, ma nel segno della potenza che libera dal male, in tutte le forme possibili - che sia contro Dio, che dica una cosa diversa da quella detta da Gesù, che realizzi una presenza di Dio diversa da quella alla quale Gesù intende convertire la nostra mente, la nostra coscienza.

E la parabola estrema di Matteo 25 ci per­suade che questo è un punto fermo della predicazione di Gesù: «Quando ti abbiamo visto, quando ti abbiamo incontrato...?» Tutte le volte che è apparso il segno che rappresenta un'opportunità per la liberazione dell'altro dal male, in quel momento è apparso il segno di Dio. Questo segno ha un'evidenza assoluta, alla quale è impossibile sottrarsi: chi si sottrae va all'inferno, è perduto; e chi insegna a questi piccoli a sottrarsi, con la scusa che magari è sabato o che magari lui è un sacerdote, è meglio che si metta una macina da mulino al collo e si butti in mare. Sarebbe una perdita paradossalmente minima rispet­to a quella che l'evangelo di Dio patisce quando ci sono persone che vanno in giro, nel nome di Dio, a insegnare che la rivelazione di Dio avviene talora e a certe condizioni (che tu non sia troppo Samaritano per esempio) in gesti della liberazione dal male; e altre volte invece, per un disegno certamente provvidenziale, mediante il contrario. Chi insegna questo ai bambini si metta una macina da mulino al collo.

Siccome questa rivelazione è questione di vita o di morte, e sicco­me per opporsi a questa rivelazione di Dio non v'è uno straccio di una buona ragione al mondo, allora chi si oppone a questa rivelazio­ne verrà duramente giudicato anche per le poche briciole che trascu­ra di dare a Lazzaro. Avrete notato che le parabole dell'inferno sono sempre parabole della mediocrità. Uno ha una moneta, la tiene nascosta: cosa ha fatto di male? Non è una cosa trucida, non ha ammazzato dieci milioni di persone. Eppure, se ne va dove c'è pian­to e stridore di denti. L'opposizione alla rivelazione dell'Abbà nel gesto della liberazione dal male, del perdono, della sottrazione all'indigenza, della cura della ferita, in tutte le figure insomma che ciascuno di noi intende perfettamente, è letteralmente ingiustificabi­le. Non c'è equivoco del tipo: "Ma io non ho letto tutti i libri sacri di tutte le religioni, come faccio a fare il confronto, a prendere una deci­sione? Ho conosciuto un prete antipatico, uno simpatico...». Non si tratta ultimamente di questo (cfr. la Samaritana). C'è un segno rigoro­so, assoluto, una metafora assoluta dell'intenzione di Dio, dell'agire di Dio, della mentalità di Dio inteso come Abbà da parte di Gesù (e notiamo: il rigore di questa assolutezza, Gesù non può averlo impa­rato neppure dalla sua mamma, tanto è tagliente e univoca la tesi su Dio con la quale Gesù si presenta sulla scena della storia), che fin dal primo momento fa dire a Gesù: «Il Regno di Dio è questo». Al punto che persino il Battista ne rimane folgorato, perché neppure il Battista si aspettava tanto.

Il rigore di questo inizio fa sì che poi allora il discorso sul giudizio, sulla fede e la non fede, su chi è dentro e su chi è fuori, sia seconda­ria a questo. E nasca, nella tradizione evangelica delle parabole di Gesù, a fronte dell'opposizione. Dove non c'è l'opposizione al gesto della liberazione dal male, non ha motivo di nascere. Dove non c'è l'opposizione a questa figura assoluta della rivelazione di Dio, ci sono soltanto le parabole che dicono: "Il Regno è come un tesoro, il Regno è come una perla, il Regno è come una moneta perduta e improvvisamente ritrovata che non sapevi di avere: non venderesti tutto per questo?".

Le altre questioni sorgono soltanto nel momento in cui - e questo momento viene anche per ciascuno di noi - si leva la tua opposizio­ne, magari religiosa. E' una vita che ci tocca di confrontare con dei credenti - ci sono delle parabole che l'avevano previsto - i quali per primi sollevano l'obiezione: "Ma se Dio è questo, allora io che ho fat­to tutti i primi Venerdì del mese, ho fatto il catechismo, che cosa ci guadagno in più? Ma allora se Dio è questo, tutti fanno quello che vogliono". Le questioni secondarie prevaricano qui sulla questione essenziale, sulla quale invece può essere pronunciato fin dall'inizio un giudizio netto e trasparente: chi respinge l'Abbà, che si presenta nella figura, nel simbolo, nel gesto della liberazione dal male, fosse anche perché gli sembra di custodire grandi valori, è giudicato e con­dannato a qualsiasi religione appartenga. E anche se è un discepolo.
Questo sì, si può dire; e bisognerebbe forse ridirlo con assoluta sem­plicità, perché questa è effettivamente una questione di vita o di mor­te: questa è la questione della grazia o della perdizione.

2.2. L'istruzione sapienziale sulla dedizione come fondamento assoluto della vita di Dio

Dalla scena originaria si sviluppa la catechesi sapienziale di Gesù che illustra il senso di questo gesto in cui si rivela Dio: quando la sua manifestazione diventa la forma della dedizione, del dare vita. Ogni volta che si dà vita, si direbbe da quando si bagna un fiore a quando si alleva un figlio, lì risplende sempre il fondamento. Ogni volta che la vita è mortificata, il fondamento si oscura proporzionalmente. Nella vita risplende sempre l'Abbà; e quindi, l'istruzione ai suoi discepoli è questa: spiegare che nella relazione dell'uomo e della donna, nella relazione religiosa, nella cura dell'altro, nel desiderio di stabilire rapporti fraterni, vincoli di riconciliazione, solidarietà opero­se, in tutte queste figure, in quanto si esprima l'intenzione di conce­pire la propria vita come un'opportunità per l'altro, si realizza l'inten­zione evangelica di Dio, si realizza la forma propria della comunica­zione di Dio. Quella che alla fine, appunto, fa percepire il senso tri­nitario di questo fondamento cristologico. Insegnare questo, coltiva­re questo, è il senso della sapienza cristiana .

3. Figure della comunicazione cristiana

Ora, brevemente spiego i punti sui quali oggi potrebbe storica­mente misurarsi il nostro esercizio di riappropriazione delle forme e dei contenuti della comunicazione cristiana sulla base di questo prin­cipio, di questo inizio che sempre nuovamente deve essere trovato.
I tre punti evocano l'attualizzazione di tre figure della tradizione dei primi secoli, della prima sapienza cristiana.

3.1. Attualità della disciplina dell'arcano

La prima è quella che è chiamata disciplina dell'arcano. Una volta i credenti erano istruiti e accompagnati a dare un senso di riserbo, di discrezione e di gradualità alla penetrazione della verità cristiana; non la spiattellavano tutta d'un colpo, purché fosse comunicata. C'è un cuore del cristianesimo che può essere raggiunto soltanto mediante certe disposizioni e una certa esperienza di approssimazio­ne. Al centro di questa disciplina dell'arcano, che non metteva i misteri in piazza per evitare di esporli al fraintendimento, c'era l'Eucarestia, che è oggi curiosamente la figura più pubblica, più immediata - certe volte, è un puro pretesto per riunioni di massa - di esibizione del cristianesimo. Come se fosse auto-evidente, come fos­se auto-trasparente, come se si potesse capire semplicemente guar­dandola che cosa è (e noi sappiamo bene difatti in questo modo che cosa si capisce: quando ci capita di osservarci, noi assemblea di occhi da pesce lesso intorno all'altare del Signore, comprendiamo che non basta esserci).

Ritrovare il senso di questa disciplina, insegnare che c'è una gra­dualità, un'approssimazione, suggerire che non è tutto lì subito. Una catechesi dunque che non sia semplicemente la lineare, piatta, oriz­zontale apertura di tutti i contenuti del cristianesimo, ma che abbia anche un senso della verticalità, della profondità del potersi inoltrare in un'esperienza, in una sapienza, in una conoscenza più profonda e assimilata.

3.2. Attualità della dottrina dei sensi spirituali

Abbiamo poi bisogno di una nuova estetica della relazione con Dio. Attualmente la catechesi e la comunicazione cristiana non han­no a disposizione una propria lingua per parlare, interpretare, comu­nicare la relazione del Signore nella dimensione dell'estetico: che vuole dire emozioni, sentimenti, passioni, conflitti, rivolgimenti. E' il trionfo dello psicologismo di piccolo cabotaggio. "Stare bene dentro, non stare bene dentro; trovarsi, non trovarsi; essere se stessi, non essere se stessi...". E' tutta retorica che viene soltanto da fuori, acchiappata dalle "Lettere al direttore", da qualche manualetto di psi­canalisi per i meno abbienti. Una volta quella lingua ce l'avevamo; ha dovuto cedere perché la complessità dell'esperienza cosciente con cui le giovani generazioni ormai si osservano è infinitamente supe­riore già a quella della mia generazione. Non poteva reggere quell'insieme di istruzioni della tradizionale "direzione spirituale": ma non c'è stata sostituzione. E quindi, l'universo della risonanza, le figure del desiderio, quell'intreccio indissolubile del corporeo e dello psichico che formano la vita propria di ciascuno, sono oggi privi di un'adeguata sapienza cristiana. Così si cercherà o di ignorarle esponendo principi e verità, o di assimilarle surrettiziamente lasciandosi condizionare da ciò che oggi si sente che i giovani in giro pensano.

Una dottrina dei sensi spirituali è una dottrina del discernimento delle emozioni che Dio suscita; imparare a nominarle, imparare ad approfondirle, imparare a frequentarne le risorse e il senso, non accontentarsi di dire "l'entusiasmo che Dio ti mette, il gusto della vita". C'è una lingua terribile che stiamo ereditando anche nel cristia­nesimo dei giovani che è una specie di trasformazione messianica del narcisismo: "non mi sento più bene con", "mi sento bene con"; mi sento bene con Dio, mi sento bene con questo, mi sento bene con quell'altro.... Che cosa è diventato l'altro? Uno stimolo: "mi sento bene con". E l'altro come sta? "Affari suoi": Non è precisamente l'amore cristiano.

3.3. Attualità della mistagogia sacramentale

Il terzo punto è l'attualità della mistagogia sacramentale.
Bisogna che i giovani - che ci hanno aiutato a riconoscere la deri­va del ritualismo, della celebrazione formalistica, priva di vita, fatta per farla, per eseguire le regole - ci aiutino a ritrovare l'importanza decisiva del rito e dei suoi simboli per l'esperienza della propria inte­grazione, della propria identificazione, della propria relazione con l'altro. Non dico che l'Eucarestia dovrebbe assomigliare a quella famosa proclamazione della battaglia di fronte alla quale tutti i genti­luomini d'Inghilterra si alzeranno in piedi e rimarranno col fiato sospeso. Però oggi, quell'occhio da pesce lesso al quale accennavo prima, non è in grado di farci realizzare il senso, la profondità, il rit­mo, la qualità simbolica che il rito è in grado di imprimere alla nostra esistenza. Bisogna su questo punto dare semplicemente battaglia: è un retroterra della comunicazione cristiana che stronca anche la migliore comunicazione. C'è un senso, del sacramento come celebra­zione - e non semplicemente come mezzo della grazia, che è la defi­nizione dogmatica, per altro ineccepibile, di sacramento - che biso­gna ritrovare. Altrimenti diciamo che la celebrazione è il principio vitale dell'esistenza cristiana, ma poi le questioni che risultano decisive sono quelle che si discutono sul sagrato, al tavolo della riunione del giovedì; e in genere sono questioni di ben più modesto profilo, rispetto a ciò che di Dio è possibile sperimentare nel ritmo, nel gioco della parola e del silenzio, del gesto che sosta, nutre, lava. La celebra­zione ci richiama a ciò che è essenziale per la relazione con Dio e deve meritare una cura e una passione, una tenerezza e una dedica­zione, che non hanno niente a che fare con lo scrupolo di preparare bene la cerimonia .

4. Una parola conclusiva sull'ironia evangelica come principio di discernimento della serietà della comunicazione

Una parola conclusiva sull'ironia evangelica come principio di discernimento: l'altra metà della mela. Bisogna che impariamo ad esercitare l'ironia evangelica anche tra di noi: è quella che ci con­sente quel minimo di distacco che ci mette anche un po' alla prova quando dobbiamo convergere nell'impresa della comunicazione cri­stiana.
Non basta che uno voglia essere un cristiano impegnato, non biso­gna lasciarsi troppo incantare dal grido di dolore che da più parti ci sopraggiunge: «Ah, come è difficile, questo cristianesimo non ci sono sacerdoti, persone capaci di comunicare, se ci fossero persone, sacer­doti allora...» Ci sono numerosi individui che non si accorgono nep­pure di cosa dicono quando dicono questo, e si squagliano implaca­bilmente appena si comincia a fare sul serio; perché senza saperlo volevano soltanto un salotto meglio arredato: "Già che dobbiamo essere cristiani, che almeno ci sia qualche cosa che mi è veramente utile». L'ironia deve servire a produrre un discernimento - che io direi oggi debba essere collettivo - dei poppanti abusivi che ci sono nella Chiesa; cioè quelli che vengono per poppare, che occupano la Chiesa semplicemente per chiedere anche se hanno già avuto molto; ed occupano lo spazio anche di quelli che non possono farsi avanti. Spesso sono come i pretoriani "della comunità cristiana: quelli che vegliano perché appunto nessuno si faccia avanti, perché altrimenti sentono minacciate le loro abitudini e i loro privilegi.

La Chiesa dei discepoli, per poter essere a disposizione di chi ha bisogno di avere gratuitamente, perché non ha soldi per procurarse­lo, deve essere fatta in prevalenza da coloro che sono disposti a met­terci qualcosa del proprio, anche prima di vedere che frutto ne darà, e quale risultato ne ricaveranno. Se tutti vengono a poppare, se tutti i cristiani anche impegnati, appunto, continuano a lamentarsi, a pia­gnucolare su ciò che la Chiesa dovrebbe dare, e i laici lo dicono ai sacerdoti, i sacerdoti lo dicono ai Vescovi, i Vescovi lo dicono al Papa, tra un po' la Chiesa diventerà come quelle divinità arcaiche con tutte le poppe estenuate. Bisogna che cresca un'esperienza spiri­tuale profonda dello spirito della dedizione: non soltanto nei con­fronti del prossimo che soffre e che ha bisogno - cosa che va da sé - ma anche nei confronti della Chiesa. Bisogna che cresca un'affezione per la Chiesa che inviti molti a sottoscrivere in anticipo. Si deve dire già in tenera età che la Chiesa è un esercizio anche duro della dedi­zione; non avendo una base contrattuale, qui si dà anche prima di sapere che cosa si riceverà in cambio, e se si riceverà. Perché di que­sto è fatta, la Chiesa. Se no, chi arriva e veramente ha bisogno, non trova niente, perché questi sono qua da vent'anni, trent'anni a pop­pare e non smettono; e mentre nel resto della vita si danno da fare per organizzarsi in proprio, qua aspettano solo di poppare.
Ecco che cosa significa ironia - e quindi autoironia - che mette alla prova il fondamento dell'appartenenza ecclesiale: che è appunto la disponibilità a fare proprio, per conto terzi, lo spirito della dedizione. Affettuosamente, ma ironicamente, ci scuoteremo a vicenda, quando ci accorgeremo che diventiamo complici nella poppata. La Chiesa c’è per terzi e la vitalità della comunicazione cristiana richiede che noi nelle retrovie possiamo disporre di relazioni che non sono complici nel dissanguare la Chiesa per la propria autorealizzazione, ma solidali e fraterne per mettere in comune beni che, per quanto piccoli siano, una volta resi disponibili, il Signore li moltiplica per noi e per gli altri.


Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it

All'ombra del Vangelo: legami di prossimità che proteggono e custodiscono, senza prevaricare e senza soffocare, di Pierangelo Sequeri
Figli, i ribelli senza centro, intervista a Pierangelo Sequeri di Marina Corradi
Programmare l’azione pastorale oggi, di Pierangelo Sequeri
Antologia di brani di Pierangelo Sequeri
Il Gesù di Ratzinger-Benedetto XVI. Una recensione al volume Gesù di Nazaret, di Pierangelo Sequeri


[Approfondimenti]