Mettiamo a disposizione on-line le lezioni tenute da d.Andrea Lonardo il 7 ed il 21 novembre ed il 5 dicembre 2005, all’interno del Corso di formazione dei catechisti della XXVII Prefettura, organizzato a nome dell’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma
Lettura di 2Tim1,1-5;2,1:
Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa
della vita in Cristo Gesù, al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace
da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.
Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di
te nelle mie preghiere, notte e giorno; mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la
nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua fede schietta,
fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono
certo, anche in te...
Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù
e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le
quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.
Nella 2Tm 1,5 si parla di una nonna e di una mamma, Lòide ed Eunìce: Timoteo
è figlio e nipote. E’ a lui che Paolo scrive dicendogli che deve annunziare il
vangelo ad altre persone perché a loro volta siano capaci di insegnarle ancora ad altri.
In pochi versetti si parla di cinque generazioni di persone, dai più anziani fino a
coloro che forse devono ancora nascere. E’ il mistero della trasmissione della
fede.
Essere catechisti è come essere padri e madri. Noi da piccoli chiediamo sempre amore,
vogliamo che tutti ci vogliano bene, andiamo su tutte le furie se non ci vogliono bene o ci
mettiamo a piangere, battiamo i pugni, ecc. Essere catechisti è come passare
dall’altra parte della barricata, come dire a se stessi: adesso amare tocca a te, adesso
testimoniare la fede tocca a te. L’amore ti è stato donato, ne hai ricevuto
tanto, tante persone ti hanno voluto bene, adesso sei tu responsabile di altri, a te viene
chiesto conto di altre persone. In questa trasmissione della fede addirittura ti viene chiesto
di curare delle persone perché a loro volta siano capaci di amare altri. Credo che,
così come per un genitore, una delle cose più belle è vedere un figlio che
ama a sua volta altri bambini, cioè non solo amarlo ma amare che lui ami la vita di
altri, così nella trasmissione spirituale della fede, avere un figlio spirituale vuol
dire desiderare che lui a sua volta sia padre e madre di altre persone nella fede,
cioè abbia questo dono di trasmissione, questa grandezza di doni.
Non dimenticate mai che tanti genitori, tanti bambini, solo voi potete incontrarli, solo un
catechista ha l’occasione di incontrarli. Spesso un prete non può seguire da solo
tutti i genitori, tutti i gruppi della catechesi. Allora quel genitore è affidato
proprio a te, quel bambino lo conosci solo tu. Se tu gli fai una telefonata, quel genitore
riceverà una telefonata, se tu quella telefonata non la fai non la riceverà da
nessuno. Gli altri non hanno proprio il tempo e, se l’avessero, non hanno quel rapporto
personale che hai tu, avendo nel gruppo quel bambino. Tu, come catechista, sei
l’occasione perché quel papà di quel bambino, o quella mamma, o quel
bambino stesso, ricevano una parola di gioia o di speranza, se c’è una malattia o
un problema in casa, se c’è una separazione. Tu sei talmente necessario che solo
tu puoi fare quella cosa. Ecco San Paolo dice a Timoteo: “Tu stai diventando responsabile
di persone che a loro volta saranno responsabili di altre persone”.
Ognuno di noi, preti, suore, laici, a volte si sente stanco come catechista, ha i suoi
fallimenti, i suoi successi. Vivere insieme allora momenti come questo di un corso di
formazione è anche bello perché ci accorgiamo che facciamo tutti la stessa
fatica. Il dire che la fatica che faccio io la fanno anche tutti gli altri, un po’ ci
relativizza, però ci fa anche bene. Ci fa scoprire che, in effetti, quella sofferenza
che io porto, la portano anche gli altri. Diventa un motivo per sentire che siamo il popolo
di Dio che cammina annunziando la fede.
Anche ritrovarci in tanti a questo corso è una riscoperta di questa realtà della
Chiesa.
L’esperienza di trovarci insieme, provenendo da parrocchie di tutta la Prefettura, ci
aiuta fin da adesso a capire come l’essere catechisti non è mai essere liberi
battitori. Non esiste il cane sciolto, il catechista svolge il suo compito a nome della Chiesa,
lo fa a nome del suo vescovo, dei preti, a nome delle famiglie, delle suore. Quindi lo fa
sempre e solo nella comunione ecclesiale. Non può esserci un catechista che non
è legato agli altri. Non esiste una voce della Chiesa che parli solo attraverso lui.
Ecco vederci qui oggi vuol dire anche questo: scegliere la fatica di formarci di più,
per sentire ancora di più che noi stiamo facendo qualcosa a nome di tutti quanti gli
altri, a nome del nostro vescovo. Qui a Roma poi il nostro vescovo è il Papa e ancora di
più sentiamo di essere la sua voce, la sua presenza.
Ecco vogliamo allora affidare con la preghiera del Padre Nostro e dell’Ave Maria questo
cammino che viviamo insieme e anche le responsabilità che già abbiamo e anche
quelle che negli anni ci saranno affidate. E invochiamo anche l’aiuto di Maria. Veniamo
proprio dai giorni dei santi e dei morti ed abbiamo così celebrato la certezza che la
Chiesa del cielo ci accompagna. Non siamo mai noi soli ad annunziare la fede, ma realmente la
Trinità, lo Spirito Santo, tutti i santi accompagnano il cammino della Chiesa che
è ancora sulla terra, in attesa di quell’unione piena che sarà poi il
Paradiso, il Regno dei Cieli.
Il tema che tocca a me trattare, è un tema che amo molto, la Teologia Fondamentale soprattutto in chiave catechetica.
La Teologia Fondamentale affronta due questioni, si suddivide in due ambiti, che indichiamo subito:
Per questo studio ci è di aiuto il bellissimo documento,
che si chiama Dei Verbum che è una delle costituzioni dogmatiche
del Concilio Vaticano II.
I documenti conciliari, come tutti i documenti del magistero, vengono citati
con le prime due parole in latino e, di solito, l’estensore sceglie proprio
due parole significative del documento per porle all’inizio in modo che
si capisca subito di cosa si parlerà in quel testo. Come quando uno vuole
dire all’inizio di una lettera la cosa più importante e sceglie
le parole con cui cominciare. Allora Dei Verbum: la Parola di Dio. E’
un documento che vuole parlare della Rivelazione, di Dio che parla. I documenti
si abbreviano, ulteriormente, con le iniziali di queste prime due parole. Perciò
Dei Verbum si abbrevierà con DV.
Leggiamo il testo:
Il Concilio intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua
trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando
creda, credendo speri, sperando ami.
Questa frase riprende un’espressione di un piccolo scritto di Sant’Agostino che
si chiama De catechizandis rudibus (Dei principianti che debbono essere
catechizzati). E’ una lettera con la quale Sant’Agostino voleva rincuorare
i catechisti scoraggiati. C’era un diacono che era sempre un po’ depresso, un
po’ triste, perché non riusciva nel suo incarico e gli aveva scritto chiedendogli
lumi sul suo servizio di catechista. Allora Agostino gli scrive in risposta questa lettera. Il
Concilio vuole cominciare la Dei Verbum proprio citando questa sequenza
annunziare-ascoltare-credere-sperare-amare. Già questo è interessante -
arriviamo poi subito alle sue valenze catechetiche. Sapete noi siamo in un contesto dove quando
si parla del cristianesimo tutti dicono: “Basta amare”. Se si domanda chi è
il cristiano, la risposta immediata che sentiamo è: “Colui che ama”.
“Io amo, quindi sono cristiano”. L’amore sembra essere la chiave da cui tutto
parte. Invece il procedimento che Sant’Agostino ci mostra in questa sequenza è
diverso: c’è l’annunzio della salvezza, attraverso l’annunzio della
salvezza si ascolta, attraverso l’ascolto si crede, attraverso la fede arriva la speranza
e solo come ultimo passo la persona comincia ad amare. Chiaramente si potrebbe anche
valorizzare immediatamente l’amore, ma questa successione di tappe è volutamente
indicata dalla Dei Verbum.
Allora il Concilio comincia dicendo – potremmo dire – che è possibile
banalizzare l’amore, se non lo comprendiamo in profondità. Qual è il
rischio? Se io parto dall’amore poi in realtà chiamo amore quello che va a me.
Invece per capire veramente la Rivelazione, per capire cos’è l’amore di Dio,
per capire cos’è l’amore, io non posso partire da ciò che
già ritengo essere amore, ma devo confrontare quello che io chiamo amore con tutto
questo cammino che è fatto di annunzio, ascolto, fede, speranza, e alla fine
l’amore risulterà in tutta la sua chiarezza. Debbo, insomma, partire non da me, ma
dall’amore di Dio che si rivela e che viene annunziato.
Notate che già questo ci fa capire come il catechista non è mai uno che parla
innanzi tutto di se stesso, ma un testimone che parla del Signore che viene annunziato.
Questo fra l’altro ci dà consolazione! E’ una cosa che va sempre detta anche
ai genitori. Non è perché un genitore ha peccato in qualcosa, che non può
più essere annunziatore del Vangelo, perché un genitore anche se ha peccato,
anche se fosse divorziato, lo stesso può, anzi deve parlare del Signore che è la
salvezza. Se così non fosse, nella Chiesa potrebbe parlare soltanto Maria, tutti gli
altri dovrebbero stare zitti. O potrebbero parlare soltanto i santi alla fine della loro
vita.
La statura del credente, dell’annunziatore, del catechista dipende dal fatto che egli
è testimone di un altro che viene annunziato, da cui tutto ha origine. E questo è
realmente l’evento che sempre si compie nella catechesi. Sapete che la stessa parola
“catechesi” viene dall’unione della preposizione greca “kata” con
il verbo, sempre greco, “eco”. La nostra parola “eco”, un suono che
riecheggia, viene proprio da questo verbo “eco”. E’ un’espressione
che viene utilizzata anche dalla mitologia greca, dove troviamo la ninfa Eco che è
legata al risentire la propria voce, che viene continuamente restituita.
Allora chi è il catechista? Il catechista è una persona che fa riecheggiare una
voce che non è la sua. Il catechista ci mette anche tutta la sua creatività, ma
la cosa più bella che si possa dire di lui è che è una persona normale:
questo catechista è esattamente uguale a tutti i catechisti che ci sono stati prima
di lui. E quando lui non ci sarà più in terra, quando sarà in Cielo, tutti
quelli dopo di lui continueranno a ridire esattamente la stessa cosa. Questo è uno
dei complimenti più belli che gli si può fare: è come tutti gli altri
catechisti! Scherzando dico spesso: se di una parrocchia si dice che vi succedono cose normali,
credo sia il complimento più bello che si possa farle. Non c’è nessuna
ricetta particolare, nessuna pozione magica, nessuna boutade, necessaria per la riuscita di una
parrocchia: l’importante è che vi si annunci il Vangelo che si annunzia in tutto
quanto il mondo. il segreto della vita di una comunità parrocchiale è fare bene
le cose ordinarie, le realtà che Dio ci ha affidato, e allora tutto va da sé!
Allora questa origine della catechesi è riportare continuamente ogni persona a
quell’unico evento che è l’evento della salvezza.
Ma questo evento diventa veramente anche la nostra vita, per cui il catechista è
sì un testimone che parla di un altro ma è colui che dice con la sua vita:
“Io sono la testimonianza vivente che accogliere il Vangelo è la gioia
dell’uomo”. Allora il catechista consegna un altro, Gesù Cristo, ma
essendo catechista consegna se stesso. Che cosa ti do come prova della bellezza del
Vangelo, che veramente l’uomo può passare dall’annunzio, all’ascolto,
alla fede, alla speranza, all’amore? Ti do me stesso. Il martire per eccellenza, colui
che muore per il Vangelo, è colui che testimonia più di tutti gli altri che il
Vangelo è vero. Tu puoi credere veramente questo perché io ci rimetto la vita per
mostrarti che ci credo veramente e che è vero. Allora il catechista è colui
che parla di un altro, ma è colui che ne parla tramite la propria gioia e la propria
vita. Vedete che il brano citato subito prima dal Concilio è l’inizio della
prima lettera di Giovanni. Giovanni dice:
Noi annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi:
noi vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in
comunione con noi e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù
Cristo.
La DV cita solo questa parte del testo giovanneo, ma il versetto successivo, il v.4, dice:
“Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta”.
Allora l’annunzio che viene fatto riceve poi una conferma, una testimonianza martiriale,
quando il credente ha la gioia di condividere il Vangelo.
Voglio leggervi un piccolo testo di questo documento ai catechisti di Sant’Agostino,
indirizzato a questo catechista, che si chiama Deogratias, un po’ scoraggiato:
Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo
diletto dal parlare, giacché il filo del nostro discorso vibra della gioia stessa che
proviamo e riesce più facile e più gradito.
Qui è importante fare una piccola precisazione: la gioia cristiana, non è la
gioia dei cretini che fanno sorrisi a tutti, che sono sempre dolciastri. Oggi in molte aziende
si fanno corsi di marketing, corsi per imparare a vendere. Mi hanno raccontato che in questi
corsi ti fanno parlare, ti riprendono in video e poi ti mostrano che la tua espressione non era
abbastanza sorridente. Anche in politica bisogna sempre sorridere, essere ottimisti, a
qualsiasi schieramento politico si appartenga.
Sant’Agostino invece dice: “Io voglio vedere se tu la gioia ce l’hai
veramente dentro di te, se la tua gioia è quella di essere cristiano!” Il testo
prosegue così:
La cosa difficile è raccomandare in quali modi si debba preparare la catechesi
perché il catechista insegni con gioia.
Cioè tu parli di Cristo, ma tu devi mostrare che sei fiero di essere cristiano, che
non c’è gioia più grande di quella che tu hai ricevuto e che
trasmetti.
Allora non è un modo di presentarsi, una mera apparenza, ma è la realtà
della vita di questo dono che viene fatto, di questo dono che viene portato agli altri. E
l’altro lo percepisce benissimo. Guai se c’è un catechista triste, moscio,
sempre disperato dei suoi ragazzi. E’ vero che i ragazzi possono essere disperanti, come
i bambini, come le famiglie, ma la grande forza del credente è la convinzione che non
c’è grazia più grande di aver ricevuto quella fede e di poterla donare ad
altre persone.
Mi tornava in mente un’espressione del nostro Papa. L’allora cardinale Ratzinger,
diceva in una conferenza tenuta insieme a Marcello Pera, una frase che mi sembra molto
significativa. Spiegando qual è il problema dinanzi al quale il cristianesimo si trova
oggi nel mondo, diceva:
La causa della crisi dell’evangelizzazione è stata introdotta da Nietzsche
– il famoso filosofo tedesco di fine ‘800 - quando disse “il
cristianesimo è stato sempre attaccato finora in un modo sbagliato: finché non si
percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita i suoi difensori
avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo è una
cosa del tutto secondaria, finché non viene affrontata la questione del valore della
morale cristiana”.
Quindi secondo Nietzsche, Marx e tanti altri il cristianesimo è sbagliato non solo
perché è falso – è importante quest’aspetto della
verità per demolire il cristianesimo, vedremo poi meglio come affrontare questo aspetto.
Ma la critica radicale è sulle sue conseguenze. Se riesco a mostrare che chi è
cristiano è un poveretto che non ha vita, che non ha desideri, che non ha interesse per
il mondo, allora io ho distrutto il cristianesimo. Il cristianesimo è per le persone
che non sanno vivere. Questa è la posizione di Nietzsche: “Cosa dobbiamo fare?
Dobbiamo mostrare che il cristianesimo è per i falliti”. Se noi riusciamo a
mostrare che il cristianesimo è per i falliti, ecco che abbiamo mostrato che il
cristianesimo non serve a niente.
Invece cosa dicono San Giovanni e la DV? Noi annunziamo che l’uomo, ascoltando
l’annunzio ha la fede, attraverso la fede ha la speranza negli occhi, vive di questa
speranza, vive costruendo il domani, vive gioendo, ecc. e in questa speranza trova la
carità, trova l’amore, trova la capacità di amare. Questo è quello
che è in gioco: e il credente appunto dà testimonianza attraverso la sua gioia.
Pensate al nostro essere catechisti: noi diamo testimonianza della fierezza di essere
cristiani. “Non c’è cosa più bella che mi sia capitata che essere
cristiano!” Per questo io divento catechista, per questo io mi metto a disposizione
dell’annuncio. Per questo l’amore è il termine di questa sequenza.
Veniamo a quella frase del paragrafo 2, che dà il titolo
al nostro corso:
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare
il mistero della sua volontà.
L’espressione rivelarsi in persona nel testo latino recita “revelare
se ipsum”. Potremmo tradurre rivelare se stesso. Dio ha voluto
farsi conoscere, farsi amare, ha voluto dire a noi chi era.
Cerchiamo di approfondire la semplicità e la ricchezza enorme di queste
parole. Questo testo comincia dicendo: “Piacque a Dio”. Si usa
il verbo “piacere”, che è proprio il verbo che gli atei dicono
non essere dei cristiani: i cristiani non sanno godere della vita, i cristiani
non hanno piacere, i cristiani sono gli uomini del dovere, dell’ossessione.
Invece di Dio stesso si dice, nella DV, che “ha piacere”. Notate
è un verbo forte, che non siamo abituati a riferire a Dio. A volte la
gente dice che Dio soffre, che Dio può essere adirato (o si domanda se
sia possibile attribuire a Dio verbi e azioni come questi). La domanda molto
più seria è: “Ma Dio può godere? Dio è una
persona che gode?” E qui si dice una cosa straordinaria: Dio gode, gli
piacque, di farsi conoscere.
Notate: in questo verbo è detta tutta la libertà di Dio.
Se Dio decide perché gli piace qualcosa, si afferma automaticamente un
evento straordinario: Dio ha la libertà, Dio è la libertà
per eccellenza, molto più di quanto siamo liberi noi. Pensate a quanti
dei nostri ragazzi portano il segno del tao. E’ un segno profondamente
anticristiano. La gente lo porta come fosse una cosa senza significato, ma è
esattamente il contrario del cristianesimo. Il segno del tao cosa significa?
Ci sono una parte nera ed una parte bianca, sono coessenziali. Le tenebre e
la luce, il male ed il bene, sono due cose che non si potranno mai separare,
sono due eventi co-necessari, connaturali uno con l’altro, il male non
viene dalla libertà, il bene non viene dalla libertà, se c’è
uno per forza c’è anche l’altro, se togli uno finisce anche
l’altro. Nella parte nera c’è una pallina bianca (in ogni
male c’è anche un po’ di bene) e nella parte bianca c’è
la pallina nera (in ogni bene c’è anche un po’ di male).
Vedete questo segno è esattamente la negazione di Dio. Noi diciamo
che in realtà c’è solamente Dio: Dio è l’unico
che esiste e Dio non ha per niente dentro di sé il male. A Dio nella
sua libertà piacque creare il mondo e quando il mondo liberamente peccò
gli piacque salvarlo. E’ un’affermazione straordinaria dell’origine
divina. Già solo su questa espressione “piacque a Dio”, si
potrebbe fare una meditazione degli esercizi spirituali .
Allora noi come catechisti annunziamo la gioia di Dio di creare, la gioia di
Dio prima ancora che esista il mondo. La gioia di Dio è di essere Trinità,
di essere da sempre Padre, Figlio e Spirito Santo, la gioia di Dio è,
poi, che esista il mondo. Pensate a quanto viene banalizzato San Francesco -
è diventato una sorta di patrono del WWF, della natura. San Francesco
è il grande lodatore del Creatore. Non è che a San Francesco piaccia
il gatto, a San Francesco piace che a Dio sia piaciuta la natura. La “natura”
è un termine che potrebbe usare un buddista, potrebbe usare un ateo.
San Francesco, con il cristianesimo, preferisce la parola “creazione”,
che indica la decisione libera del Creatore di dar vita all’universo.
La meraviglia del Cantico delle Creature è la meraviglia che ci sia un
Dio che faccia esistere dal niente ciò che prima non esisteva ed è
la lode all’ “Altissimo, onnipotente, bon Signore. Tue so’
le laude, l’onore et onne benedictione. A Te solo Altissimo se confanno
e nullo homo ene digno Te mentovare”.
E’ una lode che va dritta al cuore di Dio perché si è compreso
che a Dio è piaciuto questo mondo, Dio ha fatto uscire dalle sue mani
questo mondo.
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza.
“Bontà e sapienza”: queste due parole vengono dall’AT
e vengono riprese poi dal NT. Sono parole molto precise. Ogni parola di un documento
conciliare è pesata. I vescovi l’avranno tolta, rimessa, limata;
è il frutto di una grande riflessione. Dio, quello che ha fatto l’ha
fatto con la bontà e con la sapienza. Pensate a livello umano quanto
è facile essere buoni ma essere tonti o essere intelligenti ma essere
cattivi. Il mistero di questa unione di bontà e sapienza è che
in Dio c’è tutta la bontà - cioè Dio ama veramente
- ma Dio non ama come uno sciocco, in maniera sconsiderata, in maniera vacua,
ingenua, ma con la sapienza. Quando Dio ha creato il mondo lo amava, ma lo
ha fatto con tutta la sua sapienza e tutta la sua sapienza l’ha messa
al servizio della sua bontà. E’ qualcosa che esiste insieme
e noi nella catechesi mostriamo continuamente tutto quanto questo.
Ed ecco arriviamo al cuore:
Piacque a Dio se ipsum revelare.
Allora qual è il cuore della catechesi? Il cuore della catechesi non
è tanto dire cosa debbono fare gli altri, ma annunziare chi è
Dio. Dio ha voluto farsi conoscere perché gli uomini potessero avere
comunione con lui. Non è un farsi conoscere solo per mettersi in
mostra, ma perché gli uomini potessero volergli bene, perché gli
uomini potessero rispondergli. La Rivelazione è un evento che Dio compie
perché si crei un legame di amore fra l’uomo e il suo Signore.
Questo revelare se ipsum non è una cosa scontata, anzi è
tipicamente cristiana. Gli altri possono ridere quanto vogliono della Trinità,
affermando che noi con la Trinità vogliamo solamente confondere. In
realtà dicendo che Dio si rivela nel Figlio e il Figlio ci dona lo Spirito
Santo, noi diciamo che il nostro Dio è l’unico Dio che si fa conoscere.
Se noi studiamo in maniera comparata le religioni, possiamo porre questa domanda:
Dio è conoscibile, si rivela? Nell’islam la risposta è
chiara: Dio è inconoscibile. Nel Corano non si dice chi è
Dio, anzi viene presa a prova della vera fede proprio l’affermazione che
nessun uomo potrà mai conoscere Dio. Dio è talmente diverso da
te che tu non lo potrai mai conoscere. Dio non può dirti chi è,
può solo dirti chi è l’uomo, chi sei tu e quale deve essere
il tuo comportamento. Chi è, in questo contesto, il mistico? Colui che
sa che di Dio non si può dire niente. Dire che Dio si fa conoscere è
tipicamente cristiano, Dio non ti dice cosa devi fare tu, Dio non vuole innanzitutto
darti una regola, ma Dio vuole che tu lo conosca: questo è l’evento
straordinario del cristianesimo. Ed è ben per questo che noi siamo cristiani
e non di un’altra religione! La posizione sottesa a molte spiritualità
dell’Estremo Oriente è analoga: Dio non si può conoscere.
Quando dite che Dio si conosce vuol dire che il vostro Dio è falso, perché
come può un uomo conoscere Dio?
Alcuni filosofi cristiani hanno discusso con i teologi musulmani. Ho letto i
testi di un filosofo cristiano, un musulmano turco convertitosi al cristianesimo
che scriveva: “Per noi cristiani Dio è così onnipotente
che proprio Lui che, di per sé, non potrebbe farsi conoscere - perché
noi dobbiamo conservare la coscienza che Dio è così grande che
noi mai potremmo giungere a Lui se Lui non discendesse a noi – si rende
conoscibile. E’ chi dice che Dio non può essere conosciuto, neanche
se lo volesse, che diminuisce l’onnipotenza di Dio!”. Noi dovremmo
aver paura, avere il terrore di vedere Dio. E’ solamente perché
lui decide di permetterci questo che noi possiamo conoscerlo.
Nell’ebraismo, analogamente, chi vede Dio muore. La Scrittura ripete
questo più volte: la persona che vede Dio non può restare in vita.
Mosè può vedere le spalle di Dio, ma tu Dio in viso non lo puoi
vedere.
Sapete che Dante, nel famoso canto XXXIII del Paradiso, chiede a S.Bernardo
di intercedere presso la Madonna perché gli permetta di vedere Dio.
Roberto Benigni, che tante volte ha commentato questi versi, si sofferma dinanzi
alla meraviglia dell’uomo che chiede di vedere Dio. Se riascoltate le
sue spiegazioni dantesche (su questo stesso sito la trascrizione: Roberto
Benigni. L'ultimo del Paradiso) si sofferma proprio su questa richiesta
di Dante che chiede a S.Bernardo: “Ma me lo fai vedere per un attimo Dio?”.
E’ la grande ansia dell’uomo, la sua grande nostalgia, la sua grande
ricerca di poter vedere finalmente Dio. Questa è la cosa che è
in gioco nella Rivelazione cristiana: poter vedere Dio negli occhi.
In un altro passaggio dello stesso commento sempre Benigni - ed è significativo
anche se non è vero - dice che Satana commette il suo peccato perché
Dio, almeno per una volta, si volti e lo guardi.
Questa digressione serve per spiegare che l’uomo, anche il mistico, non
cristiano sa che Dio non si può conoscere. Solo la persona banale afferma
con facilità: “Sì io Dio lo conosco, te ne parlo, ti faccio
una catechesi su Dio”. In realtà quando l’uomo vede Dio muore,
quando Isaia vede Dio deve dire dinanzi a Lui: “Io sono un peccatore,
come posso stare al cospetto di Dio? Solamente se Dio mi tocca con i carboni
ardenti le labbra, io posso stare al suo cospetto”. Allora voi capite
cos’è l’evento della Rivelazione cristiana: la Rivelazione
non è qualcosa che noi dobbiamo fare. Noi annunziamo ai bambini, ai ragazzi,
ai genitori dei battesimi: “Noi siamo coloro che hanno visto Dio, che
l’hanno incontrato”. Non perché noi siamo saliti a Dio,
ma perché Dio si è reso visibile alla nostra vita, Dio ci
ha rivelato se stesso, in Cristo. Potete vedere su queste cose anche l’antologia
di testi dell’allora card.Ratzinger che tra poco sarà on-line,
sempre in Approfondimenti su www.gliscritti.it
nella quale il nostro Papa riflette sulla fortuna che riscuotono oggi le religioni
del Dio non personale – come le chiama – cioè quelle che
affermano l’inconoscibilità di Dio, disprezzando ogni fede che
lo indichi invece come presenza di un “volto” e di un “nome”.
E per manifestare il mistero della sua volontà.
Piacque a Dio rivelare se stesso - la cosa più importante – ma piacque a Dio
anche manifestare il mistero della sua volontà, per mezzo del quale gli uomini hanno
accesso alla comunione con Dio.
In questo rivelarsi di Dio, in questo vederlo e conoscerlo, noi vediamo veramente qual
è il nostro destino, nel senso più bello, più profondo, non nel senso
magico, astrologico. Chi siamo noi, chi saremo noi nella vita eterna quando moriremo, chi siamo
noi oggi, cos’è bene e cos’è male della vita nostra, della vita di
uno dei nostri bambini del catechismo. Al Padre, a Dio, non piacque solo rivelarci se
stesso, ma gli piacque rivelare il mistero di ciò che lui pensa di noi. La
volontà di Dio è che cosa Dio pensa di noi. Cito di nuovo il XXXIII canto del
Paradiso: c’è un momento in cui Dante vede Dio e vede se stesso in Dio e vede
tutta l’umanità, cioè vede i morti, la chiesa, i vivi, i peccatori. Li vede
in Dio, come Dio li vede. Pensate, possiamo domandarci dei nostri defunti: come fa un morto che
sta in cielo a pregare per noi? Realmente i nostri morti sono con Cristo e in Cristo vedono
noi, partecipano di questa comunione e ci vedono nel peccato che noi abbiamo, perché noi
siamo nudi dinanzi all’eternità, ci vedono nel bene che noi facciamo, ma ci vedono
con gli occhi della croce di Cristo e della sua misericordia. Allora a Dio non solo è
piaciuto rivelare se stesso, ma ha voluto che in lui noi vedessimo chi siamo, come sono gli
altri uomini, qual è il destino di mia moglie, di mio marito, del bambino di cui io
faccio la cresima, del ragazzo che si prepara al matrimonio, della famiglia che mi porta un
bambino. Dio ci rivela qual è la sua volontà, qual è il disegno che lui ha
sugli uomini. E quindi c’è un doppio aspetto di questa rivelazione: ci rivela se
stesso e ci rivela il mistero della sua volontà. L’aspetto primo e più
importante è questa conoscenza di Dio, ma subito ne segue il suo desiderio di ammetterci
alla comunione con sé.
E’ importante chiarire il significato della parola “mistero”, una
parola bellissima che però nel contesto di oggi ha un valore diverso da quello che ha
nel testo biblico. Nel brano di DV che stiamo leggendo c’è la citazione di Efesini
1,9. A Roma abbiamo un sacerdote, professore di Nuovo Testamento, che si chiama Romano Penna,
grande esperto di San Paolo, che fece la sua tesi di laurea proprio sul “mysterion”
in San Paolo. Esistono anche articoli più divulgativi su questo tema. Sul sito di Santa
Melania, ad esempio, trovate un articolo di don Pino Pulcinelli, che è assistente del
prof. Penna, che analizza tutte le volte in cui la parola “mistero” ricorre nel
Nuovo Testamento con i testi e la spiegazione.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci. Nel linguaggio comune “mistero”
significa tutto ciò di cui non si può venire a capo, che è impossibile
capire - ci sono trasmissioni televisive che si chiamano segreti, misteri, con i casi
impossibili da risolvere. ecc. ecc. Si dice “è un mistero”, per dire che non
ci si capisce niente, che è impossibile per l’uomo arrivare ad una
comprensione.
Nella DV “mistero” non vuol dire assolutamente niente di tutto questo,
perché qui si dice che Dio il mistero ce lo ha fatto conoscere. La meraviglia di
questo termine è che non si dice semplicemente che c’è un mistero, ma si
dice piuttosto che Dio ci ha fatto conoscere il mistero. Ecco la tensione di queste due
parole.
Il significato è totalmente diverso da quando chi non conosce il cristianesimo afferma:
“Cos’è la Trinità? E’ un mistero perché non ci si
capisce niente. Cos’è l’Immacolata Concezione? E’ un mistero
perché non ci si capisce niente”. Noi diciamo invece: “Non è questo
il significato”. Dire “mistero” nel cristianesimo vuol dire indicare
qualcosa che Dio ci ha fatto conoscere, qualcosa che Dio nella sua bontà ci ha
donato di partecipare. Un esempio che ci può aiutare è quello del rapporto di
amore fra un uomo e una donna. Pensate ai vostri primi anni di fidanzamento: ci sono stati dei
momenti nei quali voi non capivate il perché di una cosa fatta dall’altro –
perché, ad esempio, è così triste quando si tocca quell’argomento.
Ognuno di noi ha un mistero, un segreto di sé, che non svela subito all’altro. Ma
non è qualcosa per cui non ci si capisce niente. Quando l’altro ha cominciato a
raccontarci la sua storia, il suo passato, gli avvenimenti che lo hanno fatto soffrire e
gioire, i motivi per cui è ciò che è, ecco che il mistero si svela.
Quella cosa gli provocava dolore o gioia per quel motivo che ora ci ha raccontato. Ora lo
comprendiamo. Ma possiamo comprenderlo solo se egli stesso si racconta. Mai avremmo potuto
ricostruire la sua storia se lui stesso non ce l’avesse raccontata. All’opposto, se
di uno non si capisce niente anche dopo vuol dire che è uno psicopatico, ma è un
altro discorso. A volte noi non ci capiamo perché siamo confusi, avremmo bisogno di un
po’ più di chiarezza, avremmo bisogno di chiarirci un po’ le idee, di dire
più chiaramente cosa vogliamo: ma questa è un’altra cosa, è la
confusione, non il “mistero”.
A me è capitato tante volte di incontrare una persona ed avvertivo che su un punto era
sofferente; a volte una persona ci mette tanti anni a dirti una cosa, cosa gli è
successo da bambino, da ragazzo, perché ha sofferto, perché quella cosa gli
ricorda una tragedia. Ci sono delle cose che noi abbiamo raccontato a una, a due, a tre persone
nella vita, a volte mai. L’altro si accorge che c’è un mistero, ma non
capisce perché siamo così. Quando però noi gli raccontiamo - quando gli
diciamo: “Vedi, mi è successa questa tragedia quando avevo sedici anni, oppure mio
padre mi ha trattato in quel modo, o quella persona. ecc. ecc.” - tutto diventa
chiaro.
Allora noi diciamo: “Ecco, ora ti capisco! Ora ti sei rivelato”. Ed è come
una meraviglia, noi capiamo l’altro. Questo è un parallelo nelle relazioni umane
per capire cos’è il “mistero” in teologia. Dio non è uno
confuso, non è uno del quale non si capisce niente, ma è uno talmente grande,
talmente ricco che finché Lui non ci dice chi è nessun uomo può arrivare a
conoscerlo. Non è dall’uomo che si può salire a Dio. La fede
annunzia che l’origine dello svelamento del “mistero” è
discendente. E’ Dio che dice: “Ti racconto chi sono io, ma se io non te lo
raccontassi tu a me non potresti arrivare mai, tu sei un uomo, sei una creatura, tu non puoi
salire fino a me, se io non ti dico chi sono”. Però questo, ripeto, per altri
aspetti vale anche per gli uomini. Noi a volte esasperiamo gli altri dicendo: “Dai, dimmi
quella cosa”. Anche una mamma con il bambino fa così e più gli domanda una
cosa, meno quello gliela dice - è ovvio. Perché tu quella porta non la puoi
forzare con le domande. Se la persona non decide di aprire quella porta dall’interno,
quella porta non si apre.
Dio si è fatto conoscere, perché la sua grandezza è tale che non possiamo
noi aprire quella porta, se Lui non la apre per primo. Ecco voi capite ancora di più
perché la catechesi è importante - ed è sciocco chi rifiuta la catechesi -
perché se l’altro non ti annunzia Cristo, tu non puoi trovarlo. Per questo, nella
sequenza iniziale della DV l’amore è l’ultima cosa. C’è
l’annunzio, c’è l’ascolto, c’è la fede, c’è
la speranza, c’è, infine, la carità. Perché tutto parte da qui,
dall’annunzio che Dio stesso fa di sé. E’ qui che si apre la porta, non si
apre perché l’uomo comincia a camminare. Se Cristo non fosse venuto in mezzo a
noi, noi non potremmo camminare verso di lui. L’origine della fede, l’origine della
catechesi è nel cuore di Dio.
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero
della sua volontà. Provate a vedere tutti i testi paolini in cui si dice il
“mistero”. San Paolo dice sempre che Dio ci ha rivelato il mistero ed, in un
passaggio della lettera ai Colossesi, arriva a dire: “Il mistero di Dio, cioè
Cristo” (Col2,2). Cioè: il “mistero” non è una cosa
segreta, è il Figlio di Dio che si è fatto carne in mezzo a noi.
Piccola annotazione tecnica: sapete che esistono le “concordanze”, dei testi che
elencano le ricorrenze di una parola nella Bibbia. Esercitatevi, cercando la parola
“mistero” nelle Concordanze e trovate di seguito tutti i versetti del NT, in
particolare delle lettere di San Paolo, dove compare questa parola. Adesso con il computer
è più facile. Provate a farlo, a cercare la parola mistero e ad elencare sul
vostro quaderno tutte le citazioni in cui si vede in che maniera San Paolo usa la parola
mistero.
Apro ora una piccola parentesi che però è significativa, su due aspetti che nella
catechesi incontreremo sempre e che hanno relazione con quanto stiamo dicendo. Siccome tutto
parte da Dio, ha origine in Lui, voi capite meglio, allora, perché la Chiesa - e
noi dobbiamo sempre difendere questo - sostiene la grazia, la gratuità dei
sacramenti. E’ un dilemma che troveremo sempre nella pastorale: ci incontreremo
sempre con persone impreparate. Ogni volta che noi prepariamo un bambino alla comunione, ancora
di più un ragazzo alla cresima, forse ancora di più una famiglia per il battesimo
del figlio, o una coppia di fidanzati per il matrimonio, ci domandiamo: ma queste persone che
cosa hanno capito del sacramento? E’ un problema che si pone sempre! E noi, da un lato,
amando il sacramento, vorremmo che la persona ne fosse pienamente consapevole, ma, proprio per
questo, ci accorgiamo di che voragine c’è talvolta dietro quella persona che lo
chiede. C’è un punto però che è decisivo e che non dobbiamo mai
dimenticare: nella fede cattolica i sacramenti sono espressione della grazia e quindi del
primato di Dio. Allora nessuna persona sarà mai capace di meritare un sacramento, di
esserne all’altezza. Un sacramento non è un diritto, non è un
merito.
Se uno si presenta dicendo di averne diritto non ha capito niente. Se fosse un diritto non te
lo potrei dare, io te lo posso dare paradossalmente proprio perché non è un
diritto, perché è grazia. Questo è molto importante quando si spiega il
battesimo: la Chiesa difende da sempre il battesimo ai bambini. Sant’Agostino
lottava contro Pelagio che diceva che solo i cristiani maturi potevano ricevere il battesimo,
nel medioevo c’erano i petrobrusiani e gli enriciani che dicevano che bisognava
ribattezzare gli adulti perché il battesimo dei piccoli non aveva valore, ai tempi di
Lutero c’erano gli anabattisti che dicevano che solo i maturi possono essere battezzati.
La chiesa afferma, invece, che se tu pensi di essere maturo per ricevere il battesimo, anche ad
ottanta anni, è esattamente il motivo per cui tu non lo puoi ricevere. Tu puoi ricevere
il battesimo esattamente quando dici: “Io non sono pronto per riceverlo, è un dono
di grazia con cui Dio mi supera, con cui Dio è più grande del mio
male”.
Questo è fondamentale, anche se non vuol dire che non dobbiamo essere lo stesso
esigenti, chiari, e forti. Ci sarà sempre una tensione tra la grazia e la preparazione
di colui che chiede il sacramento. Non possiamo dire semplicemente: “No, costui non
è preparato”, anzi noi dobbiamo dire con forza che il battesimo è un dono
di grazia. Il battesimo si dà a un bambino perché è un regalo. Come non ha
chiesto la vita, ma l’ha ricevuta in dono, così la fede lui non l’ha
chiesta, ma gliela regaliamo. Non siamo mai noi all’altezza dello Spirito Santo,
piuttosto lo riceviamo in eccedenza. La Chiesa ha sempre difeso il battesimo dei bambini
perché difendendo il battesimo dei bambini ha annunziato al mondo che la grazia viene
prima della nostra risposta. Se fosse il contrario, mi domando, ma chi sarebbe battezzato?
Questo primato della grazia vale per tutti i sacramenti. S.Francesco, tenace difensore del
Papa, dei preti, dell’eucaristia, ce ne mostra un altro aspetto. A differenza
dell’immagine che si è imposta che vede Francesco quasi come un “figlio dei
fiori”, un ecologista ante litteram, la ricerca storica ce ne rivela i tratti di strenuo
difensore della Chiesa: per lui era evidente che se un prete, fosse pure il più grande
peccatore del mondo, adultero, ladro, celebra l’eucarestia, la sua eucarestia è
vero Corpo di Cristo. Quell’eucaristia è vera, non per la santità del
ministro, ma perché viene per grazia. Viene, dicono i latini, “ex opere
operato”, non dalla qualità del ministro (che pure sarebbe bene ci fosse), ma
viene per l’opera della grazia. S.Francesco diceva: “Io lascio tutto, metto da
parte pure visioni di angeli, locuzioni divine, estasi e trasporto mistici, se in quel momento
posso ricevere da un prete la comunione sacramentale”. Sapeva bene che solo il prete
poteva dargli la comunione, e che nessun altro poteva dargli Cristo presente
nell’eucaristia[1]. Questo
è ciò che mi tiene unito a Cristo ed alla Chiesa.
Seconda considerazione sulla stessa linea. Come noi presentiamo la vita eterna? Quando
parliamo ai bambini della vita eterna, cosa diciamo? Che siccome noi siamo monogami al posto di
settanta vergini ne avremo una? Cos’è il paradiso? Noi rispondiamo che il
Paradiso è la “visio Dei”, il Paradiso è stare con Dio. Cosa
c’è di più straordinario? Per tutta la vita hai cercato di vedere questo
benedetto Dio e finalmente ci stai in compagnia. Cosa fanno i miei cari che sono morti? Giocano
coi bicchierini, giocano con le carte? I miei morti sono con Cristo e sono con tutti i santi in
questa comunione di coloro che sono in questa volontà di Dio. La comunione dei santi, la
visione di Dio, sono annunzi centrali della fede cristiana e sono il modo escatologico di
vedere quella che è la Rivelazione di Dio. La vita cristiana oggi è accogliere
la sua rivelazione, incontrare il Dio che rivela se stesso, la vita cristiana
nell’eternità è vivere in perenne comunione con lo stesso Dio! Noi
abbiamo sempre una dimensione teologale per parlare della vita eterna. La vita eterna non
è semplicemente sopravvivere per sempre, la vita eterna è vivere al cospetto di
Dio per l’eternità, poterlo vedere negli occhi, poterne essere amati e poterlo
amare, poterlo amare insieme a tutti gli altri che lo amano ed a tutti gli altri che Dio ama
insieme con noi.
Vediamo in sintesi tutto questo che abbiamo fin qui detto con
un’espressione divenuta giustamente famosa, scelta dal grande teologo svizzero H.U. von
Balthasar come titolo di una delle sue opere: “Solo l’amore è
credibile”. Cosa si intende con questa frase: “Solo l’amore è
credibile”? Non vuol dire, come noi leggeremmo solo superficialmente, che solamente
quelli che amano sono credibili, che solo le parrocchie che fanno la carità, che hanno
una buona Commissione Caritas, sono credibili, mentre le altre non lo sono.
Il significato è che l’amore di Dio è credibile in se stesso, si mostra a
partire dalla sua libera iniziativa e non lo possiamo ricavare da altro. Noi crediamo
perché lui ha incominciato ad amare, perché Lui ha amato per primo: questo
è l’unico motivo di credibilità. Tutto nel cristianesimo nasce da
questo. Noi crediamo a Dio perché lui ci ha amati per primo. Ricordate la prima lettera
di Giovanni: “In questo sta l’amore, non noi per primi abbiamo amato Dio, ma Dio
per primo ha amato noi”. Questo è l’amore: se uno non capisce questo,
dell’amore non ha capito nulla. Questo è il fondamento di tutte le successive
affermazioni cristiane. Balthasar è stato il grande difensore di questo: non importa che
l’uomo abbia bisogno di Dio, se Dio non ama per primo tutto il resto non ci porta da
nessuna parte. Non c’è altro fondamento che questo.
Balthasar, proprio nel suo libro “Solo l’amore è credibile”, fa due
esempi di grande chiarezza che possiamo richiamare qui. Il primo è
l’esperienza dell’innamoramento, di ciò che avviene nel rapporto di amore
fra un uomo ed una donna. Se uno dei due dicesse: “Io sono amato perché sono
amabile, perché sono bello, perché sono intelligente”, quella persona
dell’amore non avrebbe capito nulla. Se io dico che l’altro mi ama perché
sono amabile, vuol dire che l’altro non è libero, vuol dire che è
necessitato a farlo, vuol dire, in fondo, che non mi ama affatto. Balthasar dice:
“L’amore lo puoi capire sempre e solo come miracolo, perché l’amore
non ha motivo che in sé”, non nel senso che l’amore è irrazionale,
come dicono alcuni (ed è una grande sciocchezza), ma nel senso che l’amore ha come
unico motivo il fatto che l’altro ha deciso di amarmi. L’amore ha origine in una
libertà dell’altro. Se io non mi accorgo che l’altro liberamente mi ama,
vuol dire che non lo amo, che penso di fare tutto io. Questo avviene anche in negativo! Quando
una persona è convinta di venire scaricata sempre e soltanto per colpa sua - questo
è tipico degli adolescenti – attribuisce sempre e soltanto a se stessa tutto
ciò che avviene, anche se qui solo nella forma negativa: l’altro mi lascia
perché io non sono amabile, perché io ho sbagliato, perché io non sono
adatto, ecc. ecc. E se io fossi, invece, in gamba, ma l’altro decidesse lo stesso di
lasciarmi? Tu puoi fare tutto bene e l’altro ti lascia lo stesso! Non è
perché tu fai bene o fai male che l’altro ti ama o non ti ama (anche se essere in
gamba, ovviamente ha il suo significato). Per amare veramente un altro devi riconoscere che
c’è una parte che può fare solo lui, lì ti devi fermare. Allora
Balthasar ragiona: “Se noi capiamo cos’è l’amore umano noi
intravediamo cos’è l’amore di Dio”. Perché lui mi ama? Non
perché io sono bello, ma perché lui ha deciso di amarmi liberamente. La catechesi
annunzia questa libertà di Dio.
L’altro esempio molto bello, riguarda la musica. Balthasar è stato un grande
musicista, grande amante della musica e della musica classica in particolare. Era un
mozartiano, seguiva le partiture di un intero concerto, seguendo le notazioni musicali di tutti
gli strumenti. Ci porta ad esempio un brano musicale che amava molto, l’ultimo movimento
della sinfonia 41 di Mozart, che è la sinfonia Jupiter, un capolavoro della musica
classica. Se Mozart non avesse scritto quel brano – dice Balthasar - nessun uomo lo
potrebbe fare. Io posso gioire del fatto che esiste il quarto movimento della sinfonia 41
perché lui l’ha scritta ed oggi io posso ascoltarla. Ma non posso dedurre quella
musica né dall’idea di musica in generale, né da ciò che conosco
dell’intera opera mozartiana, né da altro. Conosco quel quarto movimento solo
perché Mozart l’ha composto, non posso partire da altro. Non c’è
altro motivo della mia gioia nell’ascoltarlo se non a partire dal fatto che lui
l’ha composto. La musica di Mozart la ricevo come un dono. L’ascolto e dico:
“Mamma mia, che meraviglia! Come è possibile che l’abbia scritta, che esista
una cosa così bella?” Io non riesco a spiegarlo, eppure lui l’ha fatto.
Chiaramente l’opera di Dio è molto più grande del quarto movimento
però quest’immagine della creazione artistica ci aiuta a capire cosa vuol dire che
solo Dio può svelarci il “mistero della sua volontà”. Balthasar dice:
“La direzione della fede non è data dall’uomo che sale verso Dio, ma dalla
meraviglia per Dio che compie la sua opera, sorprendendo l’uomo nella sua
vita”[2]. Ecco la
Rivelazione. Questo è il primato della grazia, la grazia che viene prima di qualsiasi
altra realtà.
Ma questo primato di Dio non possiamo non comprenderlo se non come “amore”.
Se Dio fa qualcosa per noi, lo fa a motivo e come espressione del suo amore. E’ la prima
lettera di Giovanni a darci quella definizione sintetica e straordinaria della Rivelazione di
Dio, come la comprendiamo in Cristo: “Dio è amore”. Perché Dio
si rivela? Perché ci rivela non qualcosa, qualche verità, ma ci rivela se stesso?
Perché non solo ci rivela se stesso, ma anche il suo disegno di benevolenza verso di
noi? Perché Dio è amore! Possiamo comprendere meglio così come la Dv dica
fin dall’inizio: “Piacque a Dio nella sua bontà... rivelare se
stesso”. La Rivelazione cristiana accoglie il fatto dell’amore di Dio. Accoglie non
una idea di Dio, ma l’evento del fatto che Egli ci ami e si faccia conoscere da noi e ci
ammetta alla comunione con sé. Ecco la suprema sintesi della fede cristiana: Dio
è amore. Ecco il significato della straordinaria espressione di Balthasar “solo
l’amore è credibile”. Noi crediamo perché l’amore di Dio
è credibile in se stesso. Non c’è altro che lo motivi, se non il fatto di
essere amore!
Capite subito come questa cosa richiama un altro elemento straordinario che
è la gratitudine: se è vero che ciò che avviene avviene per grazia quale
deve essere la risposta dell’uomo? Il paragrafo 5 della DV dice
A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo gli
si abbandona tutto intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e
della volontà.
Se realmente Dio è e si comporta come la Dei Verbum scrive, l’uomo cosa deve fare?
L’uomo dice di sì a Dio. La fede è questa risposta per cui l’uomo
si consegna a Dio. Qui non viene espresso, ma mi interessa farvelo notare in chiave
catechetica, il grande tema del ringraziamento, del rendimento di grazie. Chi non
ringrazia della fede non ha capito ancora l’essenziale, perché la gratitudine
è proprio la scoperta della meraviglia di un’opera di Dio. Domandiamoci
cos’è la gratitudine nella nostra vita per capire chi siamo noi. Se io ho
gratitudine è segno che ho capito di essere amato. Se io sento sempre la mancanza e non
il dono, è segno che non ho capito ancora l’amore dell’altro - o non
c’è o non l’ho capito. La gratitudine è per eccellenza il
corrispettivo del fatto che io sono stato amato, perché l’amore è libero da
parte dell’altro. Sapete quanto è importante insegnare questo ai genitori dei
bambini delle comunioni, sapete quanto è difficile che un adolescente dica grazie ai
suoi genitori. Dire grazie significa ritenere che qualcuno ha fatto qualcosa per te, che non
è una cosa scontata che la libertà operi il dono. I bambini all’inizio
dicono grazie per buona educazione, si insegna loro a dire grazie, ma solamente l’uomo
maturo, l’uomo adulto, dice: “Ma se non mi avessero dato la vita? Io sono contento
di vivere e non dico grazie ai miei genitori? Tutto quello che io faccio lo debbo ad un
altro”. La gratitudine del figlio avviene in un’età adulta, a volte ai
trenta, ai quaranta anni. Essa richiede una grande maturità. I miei genitori saranno
pure stupidi, saranno brutti, saranno cattivi, però senza il loro amore io non
esisterei, qualcosa di buono l’hanno fatto per la mia vita! Allora la gratitudine
è il corrispettivo umano, ma la fede è la relazione che l’uomo instaura in
questo rendere grazie al Signore che ha operato tutto quanto questo.
Ancora una piccola annotazione che è importante a livello metodologico.C’è
un punto che non è facile a livello catechetico, a livello spirituale, a livello
pastorale, a livello teologico. Dio, rivelandosi, per essere vicino a noi, assume linguaggi,
modi di dire, che sono i nostri, altrimenti noi non potremmo capirlo. Insieme, però, Dio
è sempre infinitamente superiore a ciò che si dice di Lui. Voi dite bene e
giustamente nella catechesi: Dio è padre. Perché alcune persone possono avere
difficoltà ad accettare un annuncio così vero e bello che Dio è padre? A
volte perché non credono, altre volte perché il loro padre è stato una
figura così arida che dire Dio è padre non fa sobbalzare il loro cuore di gioia.
Dinanzi alla loro esperienza di paternità umana conosciuta, dire “Dio è
padre” può produrre una ferita. Non è una cosa scontata per ogni uomo il
capire immediatamente che il dire che Dio è padre sia una cosa gioiosa: perché se
mio padre non mi ha mai fatto un sorriso, non mi ha mai detto bravo, brava, non mi ha mai fatto
i complimenti, un’affermazione come “Dio è padre” posso non
comprenderla immediatamente. Noi facciamo questa operazione: Dio è padre, il mio padre
umano è padre, Dio potrebbe comportarsi come il mio padre umano. Dobbiamo arrivare
allora, da un lato, a comprendere che è vero che se io non avessi conosciuto in qualche
modo l’esperienza della paternità io non potrei capire cosa vuol dire che Dio
è padre. Quando Gesù dice Dio è padre, io devo pensare al fatto che io ho
un padre, quindi è necessario che io abbia cognizione della paternità.
Però, per un altro aspetto, è Dio Padre che dice come dovrebbe essere mio padre e
che mi fa superare i problemi che quest’ultimo mi crea. E’ vedendo il rapporto
fra il Padre ed il suo Figlio Gesù, che io comprendo cosa sia veramente la
paternità. E’ un gioco continuo di rimandi dall’esperienza umana a quella di
fede. Allora a volte il catechista deve stare attento ad usare l’esperienza, deve
andarci con i piedi di piombo nel dire: “Vedi tuo padre, tua madre, tuo fratello... in
loro tu puoi intravedere la realtà di chi è Dio, del suo amore”. Proprio
perché la realtà ha ferito il bambino o il giovane, ma soprattutto perché
Dio è infinitamente superiore alla realtà delle figure umane che noi conosciamo,
anche se fossero le migliori. Nuovamente possiamo dire: “Solo l’amore di Dio
è credibile”. In altri casi vale il contrario, proprio perché quella
persona è stata straordinariamente bella come padre, tu puoi capire ancora di più
cosa vuol dire che Dio è padre, cosa vuol dire la sua paternità, la sua
creatività, la sua tenerezza.
La stessa cosa vale per l’immagine sponsale: Cristo è sposo, la chiesa è
sposa, ma se la mia sposa mi ha fatto rizzare i capelli dal primo giorno del viaggio di nozze!
C’è un gioco per cui il sacramento del matrimonio è l’evento che
ricorda al mondo che Cristo ci ama di amore indissolubile. Cristo è veramente colui che
muore per me, come il mio sposo - per i maschi e per le femmine - per la chiesa tutta insieme e
per l’umanità, ma gli sposi mi ricordano questa cosa, sono come il sacramento, il
mistero. Cristo è quello sposo che dà loro la forza di perdonare, di andare
avanti. Il “mistero” – così lo chiama San Paolo, ancora una volta
– è innanzitutto l’amore di Cristo e della Chiesa, ma di questo
“mistero” è “sacramento” l’unione sponsale concreta che
noi incontriamo sulla terra. E’ un gioco di rapporti non sempre facile. Noi dobbiamo
sempre tenere in mente nella catechesi che queste parole non sono univoche, lo sono solo in
Dio. Nel linguaggio umano sono un’analogia, perché poi Dio è al di sopra,
Dio è ben più che sposo, è ben più che padre, è ben
più che amico, ma nel “gioco” dell’annuncio, del sacramento, della
catechesi, Dio ha voluto che noi ci servissimo di immagini umane, ben sapendo che dobbiamo
essere molto attenti a non banalizzare mai Dio. San Paolo dice: “Ogni paternità in
cielo e in terra viene dalla paternità di Dio”. Se un uomo può essere padre
fisico, spirituale, è perché Dio è padre. L’uomo ha una
potenzialità paterna, perché all’origine questo evento è in Dio. Se
l’uomo può amare è perché Cristo è sposo, è
perché la Chiesa è sposa. Quello è l’evento originario di cui la
vita è sacramento, di cui la vita è segno che rimanda a quel
“mistero”.
Tutta la Rivelazione avviene
per invitare gli uomini e ammetterli alla comunione con sé.
I testi del Concilio apparentemente sono molto aridi, ma se noi li comprendiamo sono dei testi
meravigliosi. Che cosa Dio vuole fare? Dio vuole ammettere l’uomo ad avere comunione
con lui, Dio ha fatto tutta la storia della salvezza, dalla creazione all’incarnazione,
per invitare gli uomini. Notate l’espressione che noi ripetiamo a messa: “Beati
gli invitati alla mensa del Signore”. Noi siamo degli invitati, è il Signore che
dice ai nostri bambini delle comunioni: “Vieni, ti invito nella mia casa perché
fra me e te ci sia la comunione, ci sia il dono della comunione, ci sia il dono dello scambio
di amore che unisce il Cristo, il Padre, lo Spirito e unisce in questo amore tutti quanti gli
uomini”. E’ l’evento personale che si compie ancora.
Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente
connessi.
Cosa vuol dire? Economia ovviamente non vuol dire il denaro. Siamo dinanzi ad un’altra
parola di origine biblica, assunta dalla teologia per dire l’operato di Dio.
Etimologicamente “economia” è una parola greca che significa “la legge
della casa”. Per spiegarla potremmo dire: il dispiegarsi della volontà di Dio
pensato e voluto[3].
L’“economia divina” è l’opera di Dio, pensata nella sua
bontà e sapienza e pian piano realizzata nel tempo. Ognuno di noi se decide una
cosa, la pensa, la ama, poi ci mette un sacco di tempo per realizzarla. Io voglio diventare un
bravo professionista, devo iscrivermi all’università, devo fare gli esami, devo
prepararmi. L’“economia” è tutto il tempo pensato, progettato, amato,
donato per arrivare a quella comunione. Potremmo renderne così il significato: il
dispiegarsi della storia della salvezza.
Questa storia della salvezza comprende eventi e parole intimamente connessi. Allora, qui
c’è un altro punto semplice ma interessante da comprendere. Qui si afferma che
questo dispiegarsi avviene nel tempo, attraverso eventi, fatti storici, e non solo attraverso
affermazioni e verità filosofiche. Se non ci fosse il tempo e la sua
verificabilità storica il cristianesimo sarebbe un’altra cosa. La vera critica al
cristianesimo è la sua demolizione storica. Se un giorno, chiaramente questo non
sarà mai, uno dicesse: “Ho trovato le ossa di Gesù Cristo perché
stavano ancora nella tomba”, quel fatto storico contrario alla resurrezione di Cristo,
negherebbe tutta la fede. Pensate all’espressione che noi usiamo nel Credo:
“Patì sotto Ponzio Pilato”. La fede dice che questo evento, la croce di
Cristo, è avvenuto sotto un preciso governatore romano di cui io conosco il titolo ed il
nome. E’ un evento che è avvenuto. In questi giorni al Colosseo
c’è una mostra sui “misteri”, sul culto di Mitra e sugli altri
“culti misterici” antichi. E’ esposto un bassorilievo con il dio Mitra che
uccide con un pugnale un toro, ma questo è un evento mitico, non ha a che fare con la
storia. Può piacere ad alcuni - a me non piace per niente, e non capisco come possa
piacere ad altri; mi hanno raccontato i guardiani del mitreo di Sutri, poi trasformato in
Chiesa che c’è gente che va lì e vorrebbe dire oggi delle formule magiche
nel mitreo! – ma è un fatto mitico, del quale non viene fornita nessuna coordinata
storica. In che epoca il dio Mitra ha ucciso il toro, chi era l’imperatore o il
governatore sotto il quale è avvenuto questo fatto? Sono domande che non hanno senso,
nel mito.
Il cristianesimo, invece, è questo dispiegarsi storico. E’ importante, allora, che
un catechista riesca a legare la storia della salvezza ad alcuni fatti storici che i bambini
hanno studiato nella storia “profana”. Sarebbe auspicabile una collaborazione con i
vari insegnanti della scuola. Ai bambini bisogna raccontare la storia della salvezza, non
solo la “morale” di questa storia, con i fatti, le date, le cartine
geografiche. Si deve spiegare ai bambini come si costruiva una casa allora, come era fatto
il Tempio di Gerusalemme e perché era fatto così, ecc. ecc., perché a loro
piace molto. Tutto questo dice la realtà di una cosa che è vera, che è
legata ad una storia. Noi sappiamo bene che su alcuni avvenimenti, soprattutto
dell’Antico Testamento, si può discutere, ma gli eventi fondanti neotestamentari
sono reali, sono quelli. Gesù è nato sotto Augusto imperatore ed è morto
sotto Tiberio, Ponzio Pilato era un governatore della Giudea di Tiberio, ecc. ecc.: non
c’è dubbio su questo. Se non fosse così dovremmo chiudere tutte le
parrocchie del mondo, questo fatto è la realtà del cristianesimo. La catechesi
deve far “sentire” questi eventi, ridonarne lo spessore storico.
Avviene allora questa Rivelazione
con parole ed eventi intimamente connessi.
Quando si parla del cristianesimo spesso si focalizzano come due gruppi che sottolineano uno
dei due aspetti a scapito dell’altro. Ci sono quelli che dicono: “Non bisogna
parlare del cristianesimo, perché la testimonianza è la cosa più
importante. Ciò che conta è l’evento della testimonianza, come è
stato un evento la vita di Gesù. Se io nella mia famiglia vivo la carità, questo
è sufficiente, io non devo dire niente”. Altri, all’opposto, dicono:
“No, la cosa importante è la dottrina, bisogna spiegare, perché la parola
dell’annunzio è ciò che serve” e poi hanno sempre il muso, sono
sempre arrabbiati, sono sempre tristi e non danno testimonianza con la vita della gioia della
fede.
Il mistero della Rivelazione cristiana afferma, invece, che Dio ha operato in modo che le
parole e gli eventi fossero intimamente connessi. Guai se non c’è la parola,
guai se non c’è la vita. Il Cristo è il Figlio di Dio, fatto carne, pure
esso parla. A Cristo piaceva proprio parlare, parlava continuamente, raccontava le parabole,
annunciava le beatitudini. La storia della salvezza è “storia”, ma è
“storia” della quale Dio stesso ci fornisce, con le parole, con la sua Parola, la
chiave di interpretazione, perché possiamo capirla.
In realtà, quindi, quello a cui dobbiamo tendere nella catechesi è una parola che
spieghi la vita ed una vita che richieda continuamente una spiegazione. La catechesi
è un cammino da proporre e, per essa, il catechista, deve pensare un intersecarsi delle
parole da dire e delle esperienze da vivere insieme, mai le une senza le altre.
Se io sto lì un’ora e mezza, nella mia saletta di riunione con i miei bambini, ma
poi non parlo mai con loro a tu per tu, non vado mai a casa dai loro genitori, non sto mai a
giocare in oratorio con loro prima e dopo la riunione, non c’è mai un momento in
cui io vivo qualcosa con loro, ecco che mancano gli eventi della condivisione della vita. Sono
necessari gli eventi che creano la possibilità del dialogo, della parola, della
comunione di vita. Però, allo stesso tempo, se la catechesi è solo una
“caciarata”, è solo attività, recite, passatempi, ma mai spiegazione
seria della fede, mai racconto e parola precisa, ecco che si perde l’altro aspetto
dell’esperienza cristiana.
C’è un legame dell’evento e della parola dove le due realtà
appartengono entrambe all’incarnazione di Cristo e ne sono espressione. Realmente Cristo
si è fatto uomo e la sua vita è stata un intreccio di parole e di fatti, di
eventi e spiegazioni. E’ vero che manca ai nostri giorni la testimonianza, come
insegnò Paolo VI - se noi avessimo dei genitori più convinti, dei preti migliori,
dei maestri che siano anche testimoni... - però non dimenticate mai che mancano anche
dei veri maestri, delle persone capaci di manifestare tutta la ricchezza e la sapienza delle
parole di Dio, della luce di comprensione che la verità della fede proietta sulla vita
umana.
Voi sapete che tante persone fanno apparentemente mille esperienze ma si ritrovano a fare
sempre gli stessi errori, perché nessuno glieli spiega mai. Un esempio che faccio spesso
è quello di alcuni ragazzi o ragazze che hanno centinaia di ragazze o di ragazze, ma
sono tutti uguali. Una ragazza che ha avuto sempre dei ragazzi inaffidabili, sempre dei ragazzi
violenti, è vero che ne ha avuti cento ma non ha capito che deve cambiare lei per averne
uno diverso. Non basta fare un’esperienza, bisogna poi capirla. E’
necessario che questa persona si dica: perché nella mia vita mi è successa questa
cosa? Perché mi vado a cercare certe cose, perché vado sempre a finire in quella
stessa situazione? E’ una cosa importante. L’esperienza va letta dalla parola.
La parola è espressione della riflessione che faccio e che condivido con altri per
capire il perché di un evento.
Cristo nel suo manifestarsi e tutta la Rivelazione sono un continuo intreccio di fatti e di
parole, di parole e di fatti. A volte le parole profetizzano una cosa che deve ancora
avvenire, a volte avviene un fatto e poi la parola spiega. E’ un continuo mescolarsi,
perché questa è la vita, questo è l’uomo che vive e spiega quello
che vive o annunzia quello che vive, lo realizza. Tutta l’esistenza umana è un
continuo rimando di queste due realtà. Dio ha voluto servirsi della complessità
della vita umana, parole e fatti, per narrarsi a noi.
Arriviamo ora ad un passaggio fondamentale:
Cristo è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.
Parole semplici, ma di grandissimo valore. La DV vuole dire che la Rivelazione – ed in
conseguenza, per noi, la catechesi - ha come annunzio centrale Cristo. Non la Bibbia! La
Bibbia è uno strumento per arrivare a Cristo, la Parola di Dio non è
innanzitutto la Bibbia.
Che cos’è la Parola di Dio? Se voi lo chiedete alle persone vedrete una grande
confusione. Comunque alla fine, a volte dopo un’ora di tentativi di risposte, si arriva
al massimo a dire che la Parola di Dio è la Bibbia, è la Sacra Scrittura. Non
è vero: la Parola di Dio per eccellenza è Gesù Cristo. La Scrittura
è Parola di Dio non con la stessa pienezza con la quale Cristo è la Parola di
Dio. Cristo è il mediatore della Rivelazione di Dio, ma non solo è il mediatore,
è anche la pienezza della Rivelazione.
Vediamo bene queste due parole. “Mediatore” è una parola importantissima,
soprattutto in un tempo in cui noi vogliamo le cose immediate, senza mediazioni. “Io
voglio Dio, però Cristo non lo voglio, io non voglio uno in mezzo fra me e Dio”:
questo è un tipico atteggiamento del nostro tempo. Il fatto che ci sia uno in mezzo a me
non sta bene. Io voglio che non ci sia un mediatore. Invece la fede cristiana dice che se Dio
nel suo mistero ci manda Cristo, come possiamo noi arrivare a Dio senza colui che ci è
stato mandato per giungere a Lui? Se Dio, nella sua libertà, ti ha parlato proprio in
Cristo, se, nella sua libertà, ti ha rivelato se stesso in Gesù Cristo, allora
rifiutare il mediatore è rifiutare Dio. Potete leggere un testo straordinario, che
è un passo di un’efficacia straordinaria, nella II lettera di Giovanni. Tutti
conoscono la I ma ci sono anche la seconda e la terza lettera di Giovanni che sono due
piccolissimi biglietti. Vediamo 2Gv7-9, che dice così:
Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono
Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!
Io amo molto questi termini, la precisione di queste parole, nella loro intensità.
Sapete che “anticristo” - la gente non ci pensa, ma è chiaro il
rigore terribile di questa espressione - vuol dire “uno che è contro
Cristo”, uno che gli si oppone e lo rifiuta. L’anticristo non è la
guerra, l’anticristo è uno che non vuole Cristo. Infatti la parola
“anticristo” è stata inventata dall’evangelista Giovanni, o comunque
da un autore della sua scuola; non esisteva prima dell’evangelista, prima della
venuta, appunto, di Cristo. Non si può essere contro il Cristo, se il Cristo non
è ancora venuto! Giovanni è l’inventore della parola
“anticristo”. Giovanni, in 2Gv7 spiega che anticristo è colui che nega che
Gesù è venuto nella carne: ecco l’anticristo, ecco quello che ce l’ha
con Cristo. L’anticristo “si incarna”, si concretizza allora, in qualsiasi
sistema che non vuole dare la libertà alla chiesa, che non vuole che si predichi il
Vangelo, che non vuole che si vada a messa, che si dica che bisogna pregare il Cristo, che
bisogna amare Gesù, che il Cristo è la via per arrivare a Dio. L’anticristo
è colui che ce l’ha con Cristo. Il problema è esattamente questo: io voglio
arrivare a Dio, ma Cristo non mi interessa, non me ne parlate, leviamolo di mezzo!
E continua il testo di 2Gv:
Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete
conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena. Chi va oltre e non si attiene alla
dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il
Figlio.
Giovanni, il discepolo prediletto, l’amico di Gesù, dice: chi perde Cristo,
siccome Cristo è colui che il Padre ha mandato, perde anche Dio, perde il Padre. La
grande affermazione è che c’è un mediatore. Tu non puoi arrivare a Dio se
non passi per Cristo. Cristo, dice la DV, insieme a tutta la Tradizione cristiana, è il
mediatore. C’è uno in mezzo fra me e il Padre, c’è il Figlio che
lui ha mandato ed è un evento decisivo, è la Grazia. Se io rifiuto in lui la
Grazia io resto fuori. E’ un grande dramma il restare fuori. Ma Cristo non
è solo il mediatore, è anche - e questo qualifica ancora più
precisamente il cristianesimo - la pienezza di tutta la rivelazione. Cristo è
colui che sta in mezzo, il donatore, ma è anche il dono stesso. Quando io accolgo
Cristo accolgo colui che media fra me e Dio, ma, ben più profondamente, accogliendo
Cristo accolgo Dio.
Possiamo intravedere meglio questo con un confronto con la posizione islamica sulla
Rivelazione. Alcuni dicono che si possono paragonare, che si possono mettere in parallelo, i
due fondatori, Cristo e Maometto, ed i due libri sacri delle rispettive religioni, la Bibbia ed
il Corano. Questa affermazione non rispecchia per niente ciò che le due religioni
pensano di se stesse.
In realtà, se volessimo istituire un paragone, dovremmo piuttosto farlo fra Cristo
ed il Corano, da un lato, e tra la Bibbia e Maometto, dall’altro. Maometto è
sì “mediatore”: nella dottrina islamica, per sapere cosa Dio vuole, ho
bisogno di Maometto, colui che ha ricevuto la Rivelazione di Dio, ma la Rivelazione di Dio non
è Maometto. Maometto è uno che parla di una cosa che è altra da sé.
Il Corano non è Maometto. Maometto è un servitore del Corano, è il
mediatore per il quale la parola di Dio, il Corano, che è il vero e completo dono di Dio
secondo la fede islamica, giunge agli uomini.
Nella fede cristiana, invece, Cristo è il vero dono di Dio, è la Parola
vivente. Cristo non ci dona la Bibbia, ma ci dona se stesso. Il Padre, donandoci il suo Figlio,
non ha niente di più grande e perfetto da darci. La Bibbia ha, invece, il ruolo di
donatore; essa ci indica la via per arrivare a Cristo, ci permette di conoscerlo. Vedremo
meglio poi in che senso la Bibbia è anch’essa Parola di Dio. Ma ciò che il
Concilio afferma qui, prima di parlare della Bibbia, è che Cristo è la
Rivelazione piena e perfetta: Cristo è sì il donatore, ma, soprattutto
è il dono stesso. Dio ci rivela se stesso, donandoci il suo Figlio Gesù.
Per noi cristiani la Bibbia, nel Paradiso, non servirà più a niente. La Bibbia
dobbiamo amarla in terra, ma in Paradiso noi non avremo la Bibbia! I biblisti non avranno
più niente da fare in Paradiso - e lo dico da appassionato di studi biblici. Quando io
sono in comunione con Cristo, allora sono nella salvezza e nella gioia. Ma se io ho la Bibbia e
non ho Cristo che me ne faccio della Bibbia? La Bibbia è necessaria perché io
abbia comunione con Cristo e tramite Cristo con il Padre. Per giungere a Cristo, dobbiamo
passare dalla Scrittura - in realtà dobbiamo passare anche per i sacramenti, anche per
la Chiesa - ma la Rivelazione piena è la persona viva di Gesù Cristo. Per tornare
al raffronto precedente, il dono più grande che l’Islam possa ricevere, secondo la
sua concezione, è la Rivelazione della volontà di Dio sull’uomo e
ciò avviene appunto con la discesa del Corano; per la fede cristiana, il dono pieno
è la possibilità di accogliere la presenza viva del Figlio che ci rivela il Dio
che si fa conoscere e che ci fa entrare in comunione con Lui.
Proprio per questa stessa affermazione di Cristo come pienezza, noi abbiamo
un’affinità profondissima con l’ebraismo, pur avendo delle grandissime
differenze - e non c’è difficoltà a dirle, a dichiararle. Ma nonostante
queste differenze, la Chiesa sente e sa che noi facciamo parte di una storia che è
iniziata prima di arrivare al compimento. Dire che Cristo è la pienezza vuol dire anche
affermare implicitamente che Cristo non è l’inizio. Noi cristiani diciamo che
questa storia comincia prima dell’Incarnazione, perché il Padre attraverso la
storia della salvezza e l’elezione del popolo ebraico ha preparato l’uomo ad
accogliere la venuta di Gesù. Tutta la storia sacra è un anticipo di questo
incontro pieno con Dio.
Proprio perché noi diciamo che Cristo è la pienezza di una storia che Dio ha
cominciato nella storia della salvezza che precede il cristianesimo, noi non possiamo
cambiare una virgola di quella storia. Voi sapete che noi dell’AT diamo
un’interpretazione totalmente diversa da quella ebraica, ma non ne cambiamo una
virgola, a differenza della dottrina islamica tradizionale che ritiene la Bibbia inutile,
perché corrotta. Nessun islamico legge la Bibbia, perché la Bibbia non solo
è inutile, ma è dannosa.
Come cristiani, siamo obbligati a seguire sempre di nuovo tutta la storia santa, per capire in
che senso Cristo ne è la pienezza. Avere la pienezza non ci autorizza a percorrere
scorciatoie che dimentichino ciò che ha preceduto la pienezza, come vedremo meglio
poi. La Chiesa ha sempre affermato che se uno comincia solo da un certo punto, buttando a mare
ciò che Dio già aveva fatto in precedenza, il suo atteggiamento tradisce il
rifiuto dell’operato di Dio e della sua Rivelazione.
Siamo persone che hanno una storia dietro di loro, una storia che è opera di Dio, e
non se ne deve cambiare né uno iota, né un apice. Certo la pienezza di Cristo ne
fornisce la definitiva chiave di lettura, ne rivela tutto il suo significato nascosto, ma non
la elimina. Cristo è il vero interprete dell’AT, ma dell’AT non si
cambia una virgola. Il discorso cristiano è un compimento, ma non una negazione della
storia precedente che viene preservata nella sua interezza.
Come poi vedremo meglio, lo stesso si può dire degli sviluppi successivi.
C’è una continuità nella fede e nella tradizione della Chiesa. Uno che
si alzi in un certo periodo storico e butti a mare tutto ciò che è stato detto e
fatto nella Chiesa, nei secoli precedenti, volendo idealmente tornare al cristianesimo delle
origini, per ciò stesso non si situerà nel solco della Chiesa Cattolica, ma ne
uscirà fuori. Per la fede cattolica, se uno comincia “ad un certo
punto”, senza continuità con tutto ciò che lo ha preceduto, nella sua
esperienza c’è qualcosa che non va. E non è solo la mancanza di senso
storico, ma è più profondamente la mancanza della fede in un Dio che non ha
smesso di operare nella storia. Al di là delle singole dottrine e posizioni, ad esempio,
la semplice affermazione che i Testimoni di Geova siano stati fondati alla fine dell’
‘800 e che tutta la storia della Chiesa precedente non sia per loro elemento di
continuità e di legame con la Chiesa degli apostoli è, a priori, indicazione di
una deviazione dall’identità cristiana..
Facciamo una piccola sintesi dell’incontro precedente.
La parola “sintesi” è importante perché il catechista non è un
annunziatore estemporaneo, ma deve possedere una sintesi (e se non la ha ancora, deve
maturarla nel tempo). Una delle cose più difficili è avere un’idea
“ordinata” in testa: un catechista deve imparare ad avere un ordine mentale: si
comincia da A, si passa da B e si arriva a C. Poi i bambini, i ragazzi, faranno di tutto per
scombussolare il tuo “ordine” - e fanno bene, fanno il loro mestiere - ma il
catechista deve avere uno schema, un ordine di idee, che, pure buttato all’aria ogni
giorno dagli imprevisti di una riunione che vanno vissuti fino in fondo, viene ripreso e fatto
riemergere. Proprio questo disegno, che mentalmente viene dispiegato nel tempo, permette di non
andare in ansia e di non voler dire tutto ogni volta, ma di sapere che un anno si approfondisce
una cosa, l’anno successivo un’altra, e così via. Ogni dimensione del
cristianesimo, ogni suo aspetto ha un suo posto preciso ed ineliminabile.
Se voi leggete i documenti di Giovanni Paolo II si dice chiaramente che la catechesi
è un insegnamento sistematico[4], non è un insegnamento estemporaneo, pindarico, a volo
di uccello, di qua di là, secondo l’ape Maja, ma è un insegnamento che
tocca alcuni elementi fondamentali e li compone in una visione armonica.
Questo naturalmente richiede del tempo. Qualcuno di voi ha già una sintesi chiara di un
progetto, di un’idea di catechesi, altri pian piano la formeranno anche attraverso questo
corso ed il servizio da catechisti.
Possiamo riassumere l’incontro precedente in quattro brevi punti, ai quali ne aggiungiamo
uno per una sottolineatura catechetica:
Prima di passare al secondo capitolo della Dv che parla della Chiesa e della
trasmissione della rivelazione – quello che affronteremo oggi - dobbiamo ancora accennare
a qualcosa del primo capitolo.
Dopo aver detto, al paragrafo 2, che appunto Cristo è la pienezza, il testo torna
concettualmente indietro. Prima ha indicato la “pienezza” in Cristo, poi si ferma
un attimo e torna alla rivelazione divina che ha preceduto questo compimento supremo.
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre
agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20);
inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò
se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li
risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere
umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza
nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di
lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per
mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e
vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso,
preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.
La parola di Dio non piena, non ancora completa, ma che prepara questa pienezza, la troviamo
espressa, innanzitutto, nella riflessione della DV sul Dio che “crea e conserva”.
Allora anche la creazione è parola di Dio! Il catechista annunzia che il mondo, la
vita umana, le stelle, il mare, le galassie, l’evoluzione, i dinosauri, l’anima
dell’uomo, sono parola di Dio. Dio parla perché è colui che crea. Pensate,
di nuovo, quanto è più grande la Parola di Dio della semplice Bibbia, che pure
è strumento eccelso. Il catechista legge le opere della creazione, apre le pagine del
creato, indica questa parola importantissima del cosmo intero. La Dv afferma, inoltre, che
Dio non solo crea, ma anche “conserva”, mantiene in vita. Vedremo meglio questo
nel corso di Trinità, sul Dio creatore. Ma già un indicazione possiamo coglierla
qui. “Creare e conservare” - non con i conservanti possibilmente! E’ una
affermazione di grande spessore teologico: mentre nella mentalità della persona media
Dio crea solo all’inizio, quando il mondo comincia ad esistere e poi il mondo va avanti
come una pallina a cui si dà una schicchera e poi corre da sé, invece nella
visione filosofica e teologica cattolica, Dio crea sempre, crea ininterrottamente e conserva in
essere il creato, l’uomo. Dio crea quando per la prima volta esiste la materia, crea
quando ci sono i dinosauri, crea quando nasce un figlio e gli dà l’anima... Dio
è il creatore di ogni momento della vita umana, non è solamente
l’iniziatore della creazione. Se qualcosa esiste in questo momento, esiste
perché in questo momento Dio la pensa. Dio pensa a me, pensa al ragazzo della
catechesi. Se Dio non pensasse, se Dio non conservasse nell’essere le creature, le
creature tornerebbero nel nulla. Questo è un annunzio di enorme gioia: se noi viviamo e
se i nostri morti vivono nel cielo è perché Dio li pensa. Dio pensa in questo
momento a noi e ci tiene in vita, perché noi non abbiamo ragione di esistere in noi
stessi, da soli, presi così come noi siamo, ma è sempre un altro che dà a
noi la vita stessa. Qui ci sarebbe un discorso enorme da fare, ma non è possibile
seguirlo compiutamente per ragioni di tempo; diciamo che è importante che un bambino
sappia che quando lui è nato Dio era presente. Un uomo non nasce solo a motivo
dell’evoluzione - è nato certo anche per questa trasmissione ininterrotta della
vita, perché se uno avesse interrotto questa catena anche la vita si sarebbe arrestata -
ma è nato anche perché Dio in quel momento ha detto: “Tu adesso
esisti”. Sono due “cause” che si incontrano perché esista ogni
uomo.
Secondo passaggio del testo di DV: i progenitori. Una catechesi non può non
toccare, nell’arco di un periodo organico, il grande evento che si aggiunge alla
creazione del mondo: l’esistenza dell’uomo, di Adamo ed Eva - come sapete non sono
due esseri necessariamente esistiti con questi nomi propri, dato che in ebraico Adam vuol dire
“uomo” ed Eva “colei che fa vivere”, la “partoriente”,
potremmo dire. Non apriamo discussioni su questo, perché ci porterebbero lontano. Solo
ricordatevi che i primi capitoli di Genesi non sono un racconto cronachistico dello svolgimento
di ciò che Dio ha fatto: qui si afferma che l’uomo, nella sua diversità
di uomo e di donna, è stato creato da Dio. Allora l’uomo esiste perché
Dio l’ha creato, l’uomo è creatura di Dio e non è un evento del
caso.
I progenitori sono “caduti”, altro evento costitutivo della fede e della catechesi.
Nella catechesi dobbiamo affrontare il grande dramma del male. I non credenti spesso
ironizzano sul peccato originale, noi continuiamo a ripetere che il peccato originale è
una delle cose più serie e più reali della vita. Uno dei grandi maestri
dell’illuminismo, I.Kant, scrisse la sua ultima opera proprio sul tema del “male
radicale”, su questa tendenza a fare il male che è presente in ogni uomo – e
che sempre sarà presente – pur non essendo necessaria alla natura dell’uomo!
Il grande padre dell’età moderna, Kant, dedica la sua ultima opera al problema del
“peccato originale”, che egli riconosce in maniera filosofica, tanto esso è
centrale nella riflessione sull’essere dell’uomo! Io amo ripetere che ci sono solo
due cose importanti nella vita: il peccato originale e la grazia. Saper parlare di queste due
cose vuol dire essere dei bravi catechisti. Il problema della nostra vita è il rapporto
fra il peccato che è in noi e la grazia nella quale Dio ci salva. tutto il resto
è contorno. Quindi temi altissimi: il male, il peccato, la morte e così via.
Tutto questo è parola di Dio.
“A suo tempo chiamò Abramo, i patriarchi, ecc.” Parola di Dio non è
solo la creazione, non è solo il testo di Genesi 1-3, ma parola di Dio sono i
patriarchi. Nei patriarchi Dio chiama per la prima volta delle persone singolarmente.
Chiama Abramo, chiama Isacco, chiama Giacobbe, rifugge da Esaù. Ne sceglie uno, ne
sceglie un altro, accetta una storia complicata di preferenze, ecc. ecc. Ecco che la catechesi
annunzia la realtà della presenza di questa chiamata personale di Dio.
Poi trovate Mosè e con Mosè abbiamo il popolo. Non c’è più
solo la vocazione personale, ma è il popolo che viene costituito per la prima volta.
Già con l’ultimo dei patriarchi, con Giacobbe-Israele, viene costituito il popolo
che finalmente incontra Dio. E’ l’elezione di Israele che è parola di
Dio.
L’ultimo elemento a cui accenna questo brano di DV è il messaggio profetico.
Attraverso i profeti il Signore ha parlato per preparare i tempi futuri, per rivelare la
promessa. Questo è, nel paragrafo 3, la sintesi della storia della salvezza –
prima evento e poi parola scritta – con la quale Dio ha preparato la pienezza. E’
il racconto di come Dio ha preparato il dono della pienezza, che è il suo Figlio:
attraverso la parola della creazione, della conservazione del creato, dei progenitori, della
risposta divina alla caduta, dei patriarchi, di Mosè e del popolo, dei profeti. Tutto
questo è parola di Dio, è rivelazione di Dio.
Una annotazione importante: Dv ci conferma nella disposizione dei libri biblici scelta nella
Bibbia cristiana che ha, in particolare, una singolare differenza dalla Bibbia ebraica, una
differenza che non è nel testo stesso, ma nella disposizione dei libri. La Bibbia
cristiana ha spostato, seguendo la LXX, i profeti alla fine dell’antico Testamento.
Nella Bibbia ebraica l’ordine, invece, è: prima i cinque libri del Pentateuco
(chiamati Torah, in ebraico), poi i profeti, poi i libri sapienziali. Cosa ha fatto la Bibbia
cristiana? Ha spostato i profeti alla fine perché, mentre il centro della Bibbia ebraica
è nell’evento del dono della Torah e tutto il resto è suo commento –
e quindi la Bibbia ebraica guarda sempre all’inizio come al centro, pur protendendosi
anche verso il domani - la lettura cristiana conserva integralmente la Bibbia, ma afferma che
il cuore della Bibbia è nel Nuovo Testamento. Quindi qual è la parte
più importante dell’Antico Testamento? Sono i profeti perché lanciano il
ponte, promettendo qualcosa che ancora non si realizza. I profeti sono lo scritto
più citato nel Nuovo Testamento: non è il Pentateuco, non è Mosè,
la parte più citata nel Nuovo Testamento; è l’annuncio profetico, è
Isaia (oltre al libro dei Salmi).
Paragrafo 4 della DV: se questa è la preparazione ecco che, citando
la lettera agli Ebrei, “alla fine dei giorni nostri, Dio ha parlato a noi per mezzo del
Figlio”.
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio
«alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb
1,1-2).
Compare questa espressione “alla fine”, che è straordinaria. “Alla
fine” vuol dire - questo è il grande annunzio cristiano - che i tempi sono finiti.
“Alla fine” vuol dire che siamo alla fine; noi viviamo già la fine dei
tempi. Ma questo va capito e spiegato bene! Mentre altri hanno paura della fine dei tempi -
l’asteroide che distruggerà la terra, la grande onda che sommergerà il
mondo, film come Armageddon, ecc. ecc. - il cristianesimo dice che la fine, il fine,
l’evento più importante della fine dei tempi è la venuta di Cristo. Tutto
è stato fatto da Dio perché i tempi finissero con la presenza di Cristo; siccome
tutta la storia deve incontrare Cristo, quando la storia incontra Cristo è finita. La
fine non è la distruzione della storia, non è la catastrofe universale, ma
è il compimento della storia, la possibilità della storia di incontrarsi con Dio,
in Cristo. E’ l’eternità che entra nella storia ed il tempo che
raggiunge l’eternità. Quindi il tempo successivo all’Incarnazione di Cristo,
il tempo che noi viviamo, è dato da Dio al mondo perché ogni uomo, tutti gli
uomini che Dio ha pensato nella sua volontà, possano conoscere la persona di
Gesù. “Alla fine”, dopo aver parlato nella creazione, nei progenitori, nei
patriarchi, ecc. ecc. Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio. Torniamo al tema del primo
incontro, a Cristo non solo come mediatore, ma anche come pienezza della Rivelazione.
Quindi, Cristo porta a compimento l’opera della salvezza. Leggiamo ancora:
Cristo vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza, con la
manifestazione che fa di sé, con le parole, con le opere, con i segni e con i miracoli e
specialmente con la sua morte e la sua risurrezione dai morti e infine con l’invio dello
Spirito Santo, compie e completa la rivelazione.
Nella teologia di alcuni decenni fa si diceva che la prova dell’esistenza di Dio, la
prova che Cristo era Dio, era la risurrezione. Come facciamo a dire che Dio c’è:
perché Cristo ha fatto un miracolo, soprattutto perché Cristo è risorto.
La teologia della DV è molto più personale. La prova, meglio, il segno della
presenza di Dio, è Gesù nella sua completezza, la sua persona, la sua presenza in
mezzo a noi - e questo certo comporta la sua parola, la sua opera, i suoi miracoli, la sua
morte, la sua risurrezione, soprattutto la morte e risurrezione! Tutto manifesta il Figlio in
mezzo a noi. E’ il Figlio il grande motivo della nostra fede. Tutti i miracoli ed i
segni ci riconducono a Lui, che è il segno per eccellenza per cui crediamo.
Perché noi crediamo? Perché il Padre ci ha donato il suo Figlio.
Leggiamo la frase finale di questo paragrafo 4:
In quanto è alleanza nuova e definitiva, l’alleanza in Cristo non
passerà mai e non è da aspettarsi alcun altra rivelazione pubblica prima della
manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo.
Questa è una frase molto importante, lo capite subito, nella sua perentorietà.
Proprio perché siamo alla fine, perché il Figlio è stato donato, il
cristianesimo non passerà mai.
Il cristianesimo è definitivo; non ci sarà qualche cos’altro di più
importante, perché non c’è più niente da aspettarsi. Vediamo le
motivazioni e le implicazioni sottese a questa affermazione. Noi potremmo domandarci
innanzitutto: “Perché io non devo aspettare a credere? E se mancasse qualcosa che
mi farà capire meglio? Quali sono gli elementi che potrebbero mancare?” Proprio
qui la catechesi arriva ad essere “provocatoria” (a chiamare alla fede). Dopo un
po’ di tempo che incontra il catecumeno, la catechesi può e deve scuotere:
“Cristo è arrivato, ti vuoi dare una mossa?” “Ma perché, non
è meglio aspettare ancora qualcosa?” “No, non c’è da aspettarsi
nient’altro e nessun altro!” Perché è stato dato tutto nel Figlio.
Perché Dio si è donato totalmente. Allora non c’è da aspettarsi
nient’altro non perché Dio si è come “arrabbiato” ed ha detto:
“Vi ho dato mio Figlio, ora mi sono stufato, non vi do più niente - come si dice
talvolta nelle famiglie - l’ho detto mille volte, ora non lo ripeto più”.
Non è questo! E’ che una volta che Dio ha dato il suo Figlio non può darci
niente di più importante, grande, prezioso. Non può darci di più,
perché non ha più niente da darci, perché ci ha veramente dato tutto, non
gli è rimasto più niente.
La rivelazione è finita non perché Dio è arrabbiato, ma perché
più di ciò che ci ha rivelato e donato non esiste. Pensate a cosa può
voler dire questa definitività che esclude un dopo. Non è solo
l’esclusione di un dopo “cronologico”. Questa esclusione cronologica dipende
dalla completezza e pienezza del dono: è il Figlio, è Dio stesso, non è un
profeta, un messaggero, un messaggio. Dio ci ha donato se stesso! C’è altro, oltre
Dio stesso?
Uno potrebbe dire: “Ma Maometto è venuto dopo, ma Russel e Rutherford, fondatori
dei testimoni di Geova, sono venuti dopo (questi ultimi addirittura alla fine del 1800). E noi
rispondiamo, ma con garbo: “E allora?” E’ chiaro che il tempo continua, ma
quello che fa definitivo il dono è che non c’è niente di più
importante del Figlio. Cosa Dio potrebbe donarci più importante di suo Figlio che
è morto ed è risorto per noi? Tutto ciò che viene dopo, anche se
è successivo, è inferiore, ha meno valore, non è la pienezza del dono e
della rivelazione. La pienezza è lì ed, essendo pienezza, è
definitiva; non c’è più niente da aspettare.
Provate a rispondere voi stessi alla domanda: “Che cosa ti deve dare di più
Dio?” “Manca qualcosa perché tu lo possa amare?” “Ci sarà
un motivo più grande per credere a Dio, del dono del suo Figlio?” Ecco vedete
qui la sintesi suprema della teologia fondamentale: è la presenza di Cristo nel mondo il
grande motivo della credibilità cristiana e della fede. Riecheggia ancora la domanda di
Giovanni Battista nei vangeli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un
altro?” A Lui ha fatto eco, in maniera ben più completa la domanda di Paolo, nella
lettera ai Romani: “Se Dio ci ha donato il suo Figlio unigenito, come non ci
donerà ogni cosa insieme con Lui?”
E’ l’evento finale della rivelazione cristiana, perché più di questo
non è possibile. E non possiamo non sottolineare che questa nostra comprensione,
queste affermazioni della DV, si radicano nell’esperienza e nella vita di Cristo
stesso. Gesù ha avuto chiara coscienza di questo! Se voi prendete la prima
parabola che Gesù racconta nella sua predicazione nei cortili del Tempio di Gerusalemme
incontrerete la sua coscienza di venire dopo i tanti inviati nella vigna: “Il padre aveva
una vigna, mandò i suoi servi, mandò i suoi profeti, mandò tanti
servitori. Alla fine gli era rimasto uno solo, gli era rimasto il suo unico figlio. Penso
tra sé: Che cosa posso fare ora che mi è rimasto solo il mio figlio? Disse:
Manderò lui, avranno rispetto di lui, di mio figlio”. La parabola raccontata da
Gesù esprime la consapevolezza che ha avuto di essere il definitivo inviato, di essere
anche lui inviato, ma non come tutti gli altri, bensì come il figlio unigenito, come il
dono definitivo, come l’ultimo, perché di qualità diversa da tutti coloro
che prima erano già stati mandati.
E non perché non saranno inviati ancora altri - perché i catechisti sono altri
inviati successivi - ma perché essi saranno solo coloro che parleranno ancora del dono
di quell’unico Figlio. Un catechista sarà da meno di Gesù, non da
più di Gesù. Ma quando il Padre dice, nella parabola: “Chi manderò,
mi è rimasto solo lui?”... è costui che ha mandato, è il dono
definitivo. Un esempio che vi può aiutare è quello dei giovani in età
di matrimonio. Quando, dopo dieci anni di fidanzamento, la fidanzata o il fidanzato dice:
“Ti voglio sposare. Tu vuoi sposarmi?”, se l’altro risponde: “Dammi
cinque anni per pensarci” noi capiamo subito che la sua risposta non è adeguata!
L’altro ti sta dicendo: “Non c’è niente di più grande di
ciò che ti dico oggi. Ti ho amato da fidanzato per tanti anni, tutto è stato una
preparazione a questo giorno. Ci siamo conosciuti, ci siamo amati sempre più. Adesso,
dopo dieci anni, arrivo a dirti che è il momento del mio dono, del mio volermi
consegnare come sposo, come realtà definitiva e non più transitoria, non
più solo preparatoria. Sei pronto?” E’ la domanda della definitività.
“Non voglio donarti solo una parte di me stesso. E’ tutto me stesso che ti dono
oggi. Non ci sarà dono più grande di questo”. E’ solo un esempio per
dirvi che nella vita ci sono delle scelte - le vocazioni di stato di vita: il matrimonio, il
sacerdozio, la vita religiosa - attraverso le quali una persona arriva al dono di sé.
Cosa può dare di più, chi fa dono di se stesso all’altro? Ecco la
Rivelazione.
Accenniamo brevemente ai punti 5 e 6:
A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo gli
si abbandona tutto intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e
della volontà.
La DV presenta la fede non come il punto di partenza, ma come la risposta.
Cos’è la fede dell’uomo? La fede dell’uomo è la conseguenza, il
secondo momento: siccome Dio - dicevamo solo l’amore è credibile, tutto parte da
Dio che si rivela, da Dio che racconta se stesso, da Dio che manda, da Dio che crea il mondo,
da Dio che parla con i progenitori, con i patriarchi, da Dio che arriva a donare il suo Figlio
– siccome Dio rivela se stesso, allora l’uomo, avendo incontrato la persona di
Cristo, dice di sì, gli risponde con al fede, con la fiducia: “Io assento, io
obbedisco, io dico di sì con la mia vita alla fede, io riconosco che veramente questa
è la verità, che il Signore mi ha donato se stesso, mi ha donato di comprendere
il mistero della sua vita. Per questo io accolgo quello che è il suo dono”.
Per spiegarvi la rilevanza di questo, basta accorgersi di quanto, invece, appare immotivata
una fede non ancorata a Cristo, una fede che non è una risposta alla sua Rivelazione in
Cristo, ma che è solo un moto che sorge direttamente da noi, dal nostro interno, come
prima ed unica origine. Provate a chiedere a molti: “Perché credete?” I
più risponderanno: “Io sento di credere, ma non ti so spiegare perché. Lo
sento, è così, ma non ti so dare ragioni. La fede è un fatto irrazionale.
Uno ce l’ha ed un altro no! E’ un dono di Dio”. O ancora: “Io sento
perché sono stato in quel posto e ho provato una grande emozione, ho pianto, ho sentito
il profumo, ecc. ecc.” Molti, per un cristianesimo superficiale che non è da
buttare via ma certo da arricchire da parte dei catechisti, non sanno ancorare a qualcosa di
serio la loro fede. Alcuni di loro dicono: “Credere è come buttarsi da un burrone,
come buttarsi nel buio; ti devi buttare!” Ma manco per niente! Io in un burrone non mi ci
butto manco per niente. Molte persone hanno un’idea della fede come di un evento
irrazionale: più uno è irrazionale, più è credente. “Qual
è la prova che uno crede?” – dicono – “Che uno è
irrazionale” – cioè pazzo! Più uno è pazzo, più
è credente. Guardate che è presente questa mentalità! La fede cristiana
dice di no: la fede non è un evento irrazionale, l’uomo non deve essere
irrazionale. Piuttosto la fede è una risposta ad un dono che viene fatto e qui sta la
sua ragionevolezza. La fede è la risposta giusta, bella, commisurata, al dono di
Cristo. Siccome il Padre ha mandato il Figlio Gesù Cristo, io mi abbandono a Lui. Non al
nulla, non al burrone: io mi abbandono a Gesù Cristo. Per questo la fede dà le
sue ragioni. Non dimostra, come la matematica, ma mostra i suoi motivi, mostra i segni della
rivelazione di Dio in Cristo. La fede cristiana non è irrazionale, è ragionevole,
afferma con forza la teologia fondamentale.
Provate allo stesso modo a domandare: “Tu credi?” Moltissimi risponderanno, per
fortuna: “Sì, io credo”. Ma se voi subito dopo domandate: “Ma in chi
credi?” ecco che si aprirà il baratro! Pochi sanno dire in che cosa credono.
E’ paradossale: si crede senza porre la domanda di chi è colui in cui si crede,
cosa so di colui in cui credo. Questa stessa irrazionalità la incontriamo,
purtroppo, anche nel modo di vivere i sentimenti. Le persone dicono: “Io ti amo,
perché io provo qualcosa per te, anche se non ti conosco ancora bene, se non so chi sei,
se sei un farabutto od una persona onesta, se mi hai già cornificato sette volte...
però io ti amo”. L’amore, invece, prende sul serio la vita
dell’altro, perché l’amore non è una cosa che riguarda solo il mio
sentire verso di te, ma è un evento che riguarda l’incontro di due persone. Ecco
allora la definizione di fede che ci da la DV: la fede è l’obbedienza della fede
che accoglie il dono di Dio.
Perché questa obbedienza si presti non basta che Dio si doni oggettivamente in
Gesù Cristo, ma serve anche la grazia interiore. Dio agisce non solo dandomi la persona
di Cristo, ma agisce dandomi lo Spirito Santo, la sua presenza in me, che mi fa vedere la
meraviglia di Cristo.
Sarebbe da aprire qui l’ampio tema della grazia, del dono di Dio, tipico
dell’antropologia teologica. Altri ve ne parlerà, per questo ne faccio solo un
accenno nella prospettiva che stiamo vedendo. Cosa intendiamo dire, noi cristiani, quando
diciamo che la fede è un dono di Dio? Questa affermazione ha due aspetti che
non vanno confusi, ma vanno integrati. Innanzitutto la fede è un dono, perché
oggettivamente Cristo ci è stato donato. Prima di essere un dono soggettivo, la fede
è un dono oggettivamente, nella persona di Gesù nel mondo. Io credo,
perché esiste il Natale, perché “ci è stato dato un
Figlio”! Perché oggettivamente sono state date al mondo la crocifissione e la
resurrezione del Figlio, perché il Cristo è morto e risorto per noi e per
tutti.
Pensate semplicemente anche agli eventi umani. Se in una famiglia nasce un bambino, quella
nascita è un dono per tutti i parenti. Se ad un parente non importa niente e non viene
neanche a salutarvi, non per questo quel bambino non è nato e non è nato anche
per la sua gioia. C’è un fatto oggettivo che è il dono, il puro dono,
l’esistenza di quel bambino nel mondo. C’è poi il dono soggettivo, per me.
Io gioisco di quel bambino che è nato, festeggio lui ed i suoi genitori, per la vita che
hanno portato anche perché io ne gioissi. Ecco l’aspetto interiore, soggettivo.
La fede è un dono anzitutto oggettivo: noi non potremmo credere se, realmente, Cristo
non fosse venuto nel mondo. In questo senso la fede è un dono per tutti. Quel bambino
è venuto per tutti! Dio lo ha donato a tutti, anche a quelli che non lo vogliono
accogliere, che lo rifiutano o che non se ne curano. Ma la grazia opera anche soggettivamente,
nel cuore e nella mente dell’uomo, dice la DV, dando la “dolcezza nel consentire e
nel credere alla verità”.
Noi crediamo sia perché oggettivamente c’è il dono di Cristo, ma anche
perché noi lo riconosciamo come bello, come vero e come buono, perché il nostro
intimo dice: “Sì, Gesù è la verità”. Sono due
elementi, uno esteriore ed uno interiore. Se uno prende solo il primo, ecco che tutto
appare vero, ma freddo: sì Cristo esiste, ma a me non importa niente. Se uno prende solo
il secondo, ecco che ci può essere tanto sentimento, ma non verità: io non
capisco niente, io non so niente, io non so spiegare niente, ma sono pieno di fuochi interiori,
col rischio di essere un folle. Il mistero della fede nasce, invece, dalla grazia esteriore, la
grazia dell’evento di Cristo, e dalla grazia interiore, che mi rivela come la sua
presenza sia l’amorevolezza stessa di Dio.
Vediamo brevemente anche il paragrafo 6:
Il Santo Concilio professa che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere
conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione a partire dalle cose
create.
La fede cristiana, pur affermando con tutta la chiarezza possibile che la rivelazione completa
è quella in Cristo, non dimentica mai che, proprio perché Dio ha creato
l’uomo e la ragione umana – anch’essa opera di Dio – questa ragione
ha la possibilità di riconoscere qualcosa di Lui anche senza la fede cattolica. Il
cristianesimo è, da un lato, così forte nel dire che Cristo è unico, che
lui solo salva il mondo, mentre, dall’altro lato, afferma che ogni uomo ha lo stesso del
bene in sé e ha la possibilità di riconoscere Dio attraverso la contemplazione
delle cose create. Quindi chi non è cristiano non è una tabula rasa, non
è il male in persona! Ha la ragione che Dio gli ha dato e, attraverso di essa,
può compiere dei passi per comprendere qualcosa del mistero di Dio. Sapete questa
è una grande differenza con una parte del mondo protestante, luterano, quella parte che
riprende le posizioni di Lutero quando, nella sua asistematicità, affermava che la
ragione umana è, dopo il peccato originale, una prostituta. Il peccato originale,
secondo questa visione, aveva corrotto talmente l’uomo che l’uomo, senza
l’incontro con Cristo, non poteva che errare ed essere incapace di ogni bene. Lutero
però è fortemente segnato da un’antropologia negativa, a motivo del
peccato; non troviamo in lui una valorizzazione dell’umano, del pensiero filosofico,
delle capacità dell’uomo senza la grazia del Cristo.
La fede cattolica afferma anch’essa che tutta la grazia viene da Cristo, ma afferma al
contempo che l’uomo e la sua coscienza non sono stati completamente corrotti dal peccato
e che, sebbene il peccato abbia toccato ogni realtà, inquinato ogni cosa,
c’è però qualcosa che riconduce continuamente a Dio e, quindi, un corretto
uso della ragione, dei sentimenti, dell’amore, della vita, porta in realtà ad
avvicinarsi misteriosamente alla presenza di Cristo.
Infine il Concilio insegna che:
è merito della rivelazione divina se tutto ciò che nelle cose divine non
è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può anche nel presente stato
del genere umano essere conosciuto da tutti facilmente con ferma certezza.
Veniamo al secondo capitolo della DV.
Il primo capitolo trattava de “La rivelazione”. Ci ha spiegato cos’è
la rivelazione ed abbiamo visto il contenuto di essa, la realtà personale di Cristo,
ciò che la prepara e così via. Il secondo capitolo parla di come questa
rivelazione si trasmette oggi, di come si trasmette nel tempo. Se la pienezza è stata
donata in Cristo, cosa succede dopo? Come continua questa realtà la sua corsa nel tempo?
Allora il problema è la trasmissione. Anche questo secondo capitolo tocca dei
temi di enorme interesse.
Dico subito ciò a cui arriveremo, poi lo vedremo nel dettaglio. In questo capitolo si
parla della Chiesa: la Chiesa trasmette questa rivelazione. Allora è evidente - lo
enuncio subito come un asserto forte – che la catechesi oggi, come sempre, deve far amare
la Chiesa. Se una persona viene ad una catechesi e non capisce il primato della Chiesa, che
è un primato sottomesso a Dio, ma è un primato - la Chiesa fa parte della
fede rivelata, poi vedremo perché - la catechesi ha fallito il suo compito. La
persona che riceve la catechesi deve amare la Chiesa e deve desiderare di entrare in essa e
proseguirne la fecondità. Non esiste una catechesi che non sia ecclesiale e che non apra
alla persona l’orizzonte della Chiesa.
Prima ancora di leggere il testo, voglio anticiparne la prospettiva che è quella
della Chiesa nella sua universalità, nella sua cattolicità. Voglio, infatti,
sottolineare le conseguenze catechetiche di un punto importante - io credo che sia, anche a
livello esistenziale, decisivo – e cioè che dobbiamo avere ben chiaro che la
chiesa non è la mia parrocchia, ma la Chiesa tutta, una e cattolica, santa e
apostolica. Se un bambino viene a Santa Melania e se ne ritorna a casa, dopo due anni,
dicendo “Quanto è bella Santa Melania”, ma non “Santa Melania è
parte della Chiesa del Signore che in tutti i luoghi ed in tutti i tempi è la
stessa” abbiamo sbagliato tutto. Un bambino deve comprendere - certo attraverso la
bellezza di un’esperienza - che da quel momento in cui ha ricevuto la catechesi in poi,
dovunque vada, sarà a casa sua nella Chiesa, in una qualsiasi Chiesa, amerà la
Chiesa, costruirà la Chiesa. La Chiesa non è la mia parrocchia, non è il
mio movimento, non è la mia associazione, non è il mio cammino, la Chiesa
è la Chiesa di Cristo. Il catechista è uno che parla al bambino della Chiesa di
Cristo - che poi lo si viva nella propria realtà, questo naturalmente va benissimo!
L’allora card.Ratzinger[5]
ha affrontato più volte questo tema perché, non solo nell’esperienza
pastorale, ma anche in alcune correnti dell’ecclesiologia moderna, alcuni hanno
affermato che la Chiesa è innanzitutto la Chiesa locale e che la Chiesa universale
risulterebbe dall’unione di tante chiese locali che riconoscendosi a vicenda, quasi per
alleanza, arrivano a fare, a costituire, un’unica Chiesa. Questa idea teologica
è poi passata anche nella mentalità pastorale di alcuni. Costoro dicono:
“C’è la Chiesa di Roma - una parrocchia non è mai pienamente Chiesa,
perché manca del vescovo ed è quest’ultimo a conferire lo statuto di Chiesa
locale – poi c’è la Chiesa di Milano, la Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa
dell’Armenia, quella di Londra, ecc. ecc. Ci vogliamo bene, ci riconosciamo gli uni gli
altri siamo la Chiesa”. Ratzinger ha sempre difeso, invece, giustamente la
priorità della Chiesa Una sulle sue concretizzazioni particolari. La Chiesa è
prima una e solo dopo composta da tante parti; non sono prima tante parti che solo poi
diventano uno! In un suo scritto presentava l’esempio del battesimo: quando tu sei
battezzato, se poi vai in un’altra Chiesa, dici forse io sono di Santa Melania o sono di
Roma o di Milano? Il tuo battesimo non ti inserisce nella tua chiesa parrocchiale o nella tua
Chiesa diocesana; il tuo battesimo è l’evento che ti rende membro vivo della
Chiesa universale, del cielo e della terra, e quindi tu non devi presentare a nessuno le
credenziali. Se vai a messa ricevi la comunione dappertutto, poiché sei parte del
popolo di Dio. Quindi la Chiesa è prima una e solo dopo è la Chiesa di New York,
di Washington, di Roma. E l’evento della Chiesa è fondamentale.
In questo secondo capitolo che affrontiamo ora è questa la prospettiva fondamentale: la
Chiesa trasmette la Rivelazione.
Dio con somma benignità dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di
tutte le genti rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
I documenti del Concilio sono apparentemente freddi, ma sono di una ricchezza, di una bellezza
straordinaria, se solo li analizziamo con un po’ di profondità. Noi colleghiamo di
solito la Chiesa a Cristo: “Chi è che ha voluto la Chiesa? Cristo”. Su
questo non ci piove. Cristo ha veramente voluto la Chiesa ed è stato Lui a
fondarla. Solo gli ignoranti come Dan Brown rispondono che la Chiesa è stata voluta,
contro la volontà di Cristo, da quei “cattivoni” degli apostoli che hanno
voluto nascondere che la Maddalena era la moglie di Gesù e cavolate seguenti... Basta
avere un po’ di familiarità con il vangelo e ci appare evidente che Cristo ha
voluto la Chiesa ed ha chiamato i dodici apostoli proprio per questo. Questo brano del
Concilio ci porta più in là. La Chiesa l’ha voluta Dio Padre che, nella sua
benignità, voleva che la Rivelazione fosse trasmessa per tutte le generazioni. Il
pensiero della Chiesa non è un pensiero del Figlio, innanzitutto, ma è un
pensiero di Dio. Dio non si è manifestato nella creazione, nei patriarchi, nei profeti,
in Cristo, perché una volta giunto Cristo tutto poi si arrestasse. Egli ha voluto che la
sua rivelazione venisse trasmessa a tutte le generazioni. L’idea che questo dono sempre
si perpetuasse è un desiderio di Dio stesso. Anche questo è un “piacque a
Dio”.
Perciò -
espressione causale, “per questo motivo, perché Dio voleva questo”,
per questo fine, per questo scopo e motivo -
Cristo Signore ordinò agli apostoli che l’evangelo venisse da loro predicato a
tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale.
Quello che era il desiderio di Dio, Cristo lo realizzò. E per questo ordinò ai
suoi apostoli, ecc. ecc. Quindi Cristo è sì, lui, il fondatore della Chiesa,
ma il fondatore della Chiesa è Dio stesso, non è Cristo. Chi ha deciso che la
Chiesa deve esistere e che deve essere trasmessa la rivelazione è il Padre, che ha
affidato questo al Figlio.
Vedremo poi che Cristo, per realizzare tutto questo, donò lo Spirito Santo perché
in tutte le generazioni la presenza di Dio fosse piena e vera - quindi anche lo Spirito
Santo, come il Padre e il Figlio, è all’origine della Chiesa, è colui che
genera la Chiesa. Voi capite già di cosa stiamo parlando: noi stiamo dicendo che
rifiutare la Chiesa vuol dire rifiutare Cristo, vuol dire rifiutare lo Spirito Santo, vuol dire
rifiutare il Padre. Un problema un po’ serio, non sono bruscolini. La Chiesa non è
una cosa che è stata decisa da quattro persone nell’anno mille o al tempo di
Costantino o nell’anno zero, ma stiamo parlando del disegno eterno di Dio, che ha
desiderato che la sua Rivelazione venisse trasmessa e comunicata.
Se voi prendete la Lumen Gentium - è un’altra Costituzione del Concilio, si
abbrevia LG, in latino vuol dire Luce delle Genti, e tratta della Chiesa – proprio questo
è l’andamento dei suoi primi capitoli nel presentare perché esiste la
Chiesa, da dove essa ha origine e, conseguentemente, qual’è la sua essenza.
La LG comincia proprio così: i primi tre capitoli dopo l’introduzione (LG2-4)
trattano del Padre che ha pensato la Chiesa, del Figlio che l’ha fondata, dello Spirito
che le dà vita. E’ lo stesso punto di partenza! Perché Dio ha creato
l’universo? L’universo è stato creato perché gli uomini entrassero
nella Chiesa. Tutto Dio ha creato in vista di questo. L’Himalaya, Andromeda, le galassie,
perché esistono? Perché Dio voleva che, nel creato, gli uomini entrassero nella
Chiesa. Il desiderio di Dio che gli uomini costituissero la Chiesa una è un disegno che
precede la creazione – capitolo secondo della LG. Terzo capitolo della LG: perché
Dio voleva questo ha inviato suo Figlio. Quarto capitolo: perché questo si realizzasse
il Figlio ha inviato lo Spirito. Quindi sono tre doni successivi realizzati perché il
disegno di Dio potesse compiersi.
Cristo Signore ordinò
Queste sono cose elementari, banali se volete. A me piacciono le cose elementari, io vivo di
cose ordinarie, fondamentali, cerco di metterle in cima ad ogni originalità. Nella
pastorale e nella catechesi, bisogna far bene le cose fondamentali e poi tutto il resto va da
sé. Questa della Chiesa è una cosa ordinaria, basilare, ma che non va data per
scontata. E’ scontata per voi chiaramente, ma non è scontata per le famiglie,
per i bambini, per i loro genitori. La nostra gente vorrebbe essere, come si dice oggi,
“politicamente corretta” - politically correct. Cosa dice allora? Siccome le sembra
che non sia garbato, “politicamente corretto”, dire che non è
d’accordo con Cristo – nessuno avrebbe il coraggio di dire che non la pensa come
Cristo e che, poiché la pensa diversamente da Cristo, dovrebbe ammettere o che sbaglia
lui o che sbaglia Cristo stesso! - preferisce dire allora che non è d’accordo con
la Chiesa – questo sì, si pensa, è politicamente corretto! Anche qui con
delle sfumature. Meglio dire che non si è d’accordo con la Chiesa da Costantino in
poi, o con la Chiesa di oggi, meno “politicamente corretto” dire che non si
è d’accordo con la Chiesa di Pietro e poi dei primi tre secoli, con la Chiesa dei
martiri, che la pensava esattamente come si è pensato poi anche dopo! Dire che
Costantino ha sbagliato, questo è politicamente corretto, lo possono dire cani e porci.
Cosa fa la Costituzione DV (e similmente la LG)? Dice, invece, una verità evidente come
il sole. Chi è che ha scelto gli apostoli perché continuassero la trasmissione
della fede? E’ stato Gesù stesso. Gesù li ha scelti uno per uno –
“ordinò agli apostoli che l’evangelo promesso venisse predicato”.
E’ una precisa disposizione di Cristo. Ora tu puoi dire che Cristo era uno stupido,
ma non puoi dire che non era una sua disposizione. Noi non possiamo accettare storicamente che
una persona dica che Cristo non ha detto questo, che non era un suo desiderio fondare la
Chiesa. Se vuoi essere coerente devi dire che Cristo si è sbagliato, quando, obbedendo
al Padre, ha dato origine alla Chiesa; io non posso accettare che tu te la prenda con
Costantino, come se la Chiesa fosse nata con lui.
Pensate come è decisivo spiegare queste evidenze ai ragazzi. Potete dir loro,
semplicemente, alcuni fatti storici indiscutibili – mai messi in dubbio anche nella
tradizione ortodossa e protestante. Ad esempio il fatto del nome di Pietro. Sapete bene che
il nome “Pietro” non esisteva prima di San Pietro, Pietro si chiamava Simone.
Gesù, volendo dire che Simone era la roccia di una costruzione nuova, lo ha
soprannominato Pietro. Questo è un desiderio esplicito di Gesù che ha dato
inizio a questa nuova realtà storica, perché fosse permessa la trasmissione della
fede attraverso la Chiesa. Anche in romanesco si dice “roccia” ad uno che è
un pilastro, una colonna, ad uno che non si smuove. Pietro è roccia, proprio nel senso
di qualcuno su cui si costruisce.
Gli apostoli, affinché l’evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella
Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi.
Nella DV c’è subito un altro passaggio: i vescovi non sono nati da soli o per
volere di Costantino, ma in realtà nascono da una precisa decisione, che troviamo
già nel Nuovo Testamento, ad esempio nelle cosiddette “lettere pastorali” a
Timoteo e Tito, disposizione della generazione apostolica che ha voluto che altre persone, dopo
di loro, continuassero l’annunzio della salvezza. E’ come una catena
ininterrotta, costituita da anelli successivi. Non ci sono dei salti, dei vuoti, dei buchi, ma
vediamo una continuità. Perché questo? Perché Dio voleva questo.
Perché lo Spirito animava questo processo. Perché Cristo lo aveva iniziato ed
aveva assicurato con la sua promessa la sua presenza in questa successione. Gesù non ha
detto “Pietro” a Simone e non ha chiamato “apostoli” i Dodici solo per
loro e senza significato per ciò che sarebbe successo dopo. Ciò che ha fatto con
loro era esemplare di ciò che desiderava succedesse anche per i tempi successivi.
Continua il testo:
Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento
sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio.
Qui cominciamo a comprendere un passaggio fondamentale che ci fa capire ulteriormente qual
è il posto della Bibbia nella catechesi. Nella trasmissione della Rivelazione divina
la Sacra Scrittura e la Tradizione sono due realtà da prendere insieme, sono due
realtà inseparabili l’una dall’altra. Non si può prendere
l’una senza l’altra, ma queste due realtà insieme sono lo specchio in cui la
Chiesa contempla Dio, lo specchio nel quale l’uomo oggi può vedere Dio, può
vedere Cristo, vedere la sua rivelazione. Vediamo Cristo, la pienezza della Rivelazione di
Dio, attraverso questa unità composta di queste due realtà, la Scrittura e la
Tradizione.
Per questo un catechista introduce il catecumeno non alla Scrittura, ma lo introduce alla
Scrittura ed alla vita della Chiesa, alla vita della Chiesa ed alla Scrittura, perché
entrambe vengono dall’unica e definitiva Parola di Dio che è Cristo. Dio ci parla
nella pienezza di questo segno unitario – Tradizione e Bibbia – che ci trasmette la
Rivelazione piena che è Cristo. Non per niente si fa la catechesi per arrivare a dare la
comunione: l’evento culminante non è dare il vangelo scritto, ma è dare la
comunione, che è un evento della Tradizione e non è un evento della Scrittura.
Non per niente si prepara un ragazzo per la cresima, si prepara un ragazzo per la professione
di fede, per la vita cristiana, perché quello che conta non è arrivare a
conoscere semplicemente la Bibbia, ma l’entrare in tutta questa dinamica di incontro con
Dio che parla.
Per capire chiaramente cos’è la Tradizione, leggiamo la
stupenda definizione – una delle espressioni più belle della DV - che la stessa DV
ce ne da, al paragrafo 8:
Così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto perpetua e
trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa
crede.
Il soggetto è la Chiesa. Cosa fa la Chiesa? Cosa fate voi,? Perché la tradizione
siamo anche noi, anche io sono la tradizione. Anche i catechisti sono la tradizione - voi
non siete la Scrittura, voi siete la tradizione! Cosa fa la tradizione? Trasmette ciò
che la Chiesa è. Voi non trasmetterete semplicemente delle nozioni, voi trasmettete
la realtà stessa della vita della Chiesa, della vita di Dio.
Pensate a cosa vuol dire preparare qualcuno alla comunione: quella persona riceverà
Cristo nel sacramento. Fare i catechisti non è essere semplicemente coloro che spiegano
cosa deve fare un bambino secondo la dottrina di Cristo, ma essere catechisti è avere la
vocazione di chi fa incontrare i bambini con Cristo, esattamente come gli apostoli si
incontravano con Gesù Cristo. La Chiesa trasmette ciò che essa è! E,
proprio perché il contenuto è parte di quest’essere ed è ciò
che ci dona questa straordinaria libertà di essere ancorati non a singole persone, non a
singoli pallini di questo o di quello, ma alla Trinità stessa, ecco che la Chiesa
trasmette anche - dice la DV - tutto ciò che la Chiesa crede: la Trinità, la vita
eterna, la risurrezione dei morti, il perdono dei peccati, l’Incarnazione accolto
realmente da Maria nel proprio grembo e così via.
Questa è allora come una definizione. Cos’è la tradizione? La tradizione
è la trasmissione di ciò che la Chiesa è e di ciò che la Chiesa
crede. Vediamo ancora una immagine che ci può aiutare: quella della trasmissione
della vita ad un nuovo bambino di una nuova generazione. E’ importante che una mamma ed
un papà si rendano conto che certo quel bambino l’hanno fatto loro, ma se un solo
anello si fosse spezzato da quando la vita umana esiste, se 3000 anni fa, ad esempio, ci fosse
stato un loro antenato che avesse rifiutato la vita, ecco che la trasmissione della vita si
sarebbe interrotta e loro non sarebbero neanche nati e non avrebbero potuto prolungare il dono
della vita nella nuova generazione. La tradizione è la trasmissione della vita
divina: una generazione, vivendo la vita cristiana, trasmette alla successiva quella stessa
vita. Se io arresto, nel mio piccolo, la Tradizione - questa è la bellezza ed il
dramma della vita – proprio perché la Tradizione è una cosa seria, ci
sarà un danno. La Tradizione non è, allora, una cosa vecchia, ma il rinnovarsi
continuo della vita divina che viene donata. Questo va spiegato, perché per le
persone la parola “tradizione” indica, nel linguaggio di molti, una cosa
tradizionale, vecchia. Tradizione, invece, deriva dal latino “tradere”, che vuol
dire “trasmettere”, ma trasmettere proprio perché è una cosa viva.
Non è un sasso che io prendo e do ad un altro; piuttosto io trasmetto la vita. E’
la generazione del 2005 che, dando la vita e la vita divina a dei bambini, permetto che nel
futuro ci siano degli altri bambini, degli altri figli di Dio. Se la mia generazione non
trasmette la vita, nel 2030 non ci sarà più nessun nuovo bambino. La Tradizione
è una cosa molto seria ed, insieme, è una cosa estremamente gioiosa,
perché è la vita stessa che viene trasmessa.
Ecco allora che possiamo immaginare la Tradizione come una serie ininterrotta di anelli e
attraverso questi anelli la vita divina, la vita della Chiesa, la vita di Dio, viene trasmessa,
mentre viene trasmessa la vita umana. Mentre una generazione fa nascere i bambini, la stessa
generazione, attraverso i genitori, i catechisti, i nonni, i preti, le suore - sapete che anche
questa è trasmissione, perché se fra i giovani di questa generazione non
nascessero preti e suore, i figli dei loro coetanei non avrebbero più il catechismo, non
avrebbero più le parrocchie, non avrebbero più i sacramenti – trasmette
tutto ciò che la Chiesa è e crede. Nella trasmissione della fede è in
gioco la realtà stessa della vita. Interrompere questo canale vuol dire far morire in
terra la realtà del dono che Dio ha fatto di Cristo a noi.
Facciamo un passo ulteriore: cos’è in gioco dietro tutto questo? P.Ignace de la
Potterie, un grande esegeta di Giovanni, recentemente scomparso, amava ripetere queste
espressioni, riprese dalla tradizione patristica e medioevale: “Se Cristo fosse morto e
risorto mille volte nel passato, ma non morisse e risorgesse oggi per te, tu saresti
perduto”[6].
La fede cristiana si basa così su due pilastri. Da un lato è legata agli
eventi storici del passato: se Cristo non fosse nato noi saremmo dei folli - San Paolo ci
dice che se Cristo non è risorto, noi siamo perduti e siamo i più sciocchi degli
uomini. Quindi la fede è legata ad un evento che è avvenuto una sola volta. Ma
anche l’altro aspetto è coessenziale: se fosse un fatto storico, certo, vero, ma
non potesse essere vero e vivo oggi, questa fede non servirebbe a niente. Se Cristo non
è vivo oggi e oggi non mi incontra nella Tradizione, ma cosa è venuto a fare? Che
senso avrebbero l’Incarnazione, la Pasqua, se fossero fatti solo del passato? La fede
cristiana ha come due poli che continuamente si rimandano l’un l’altro: è
basata su di un evento del passato che è avvenuto ed è basata su di un evento
dell’oggi nel quale si trasmette viva quella realtà già avvenuta. Quindi
è l’oggi della salvezza.
Provate a togliere una di queste due cose e finisce tutto. Non solo finisce tutto, ma non
è mai cominciato niente. Quando qualcuno dice di non credere nella Chiesa, quando
qualcuno afferma che la Chiesa è un errore, pur volendo salvare Cristo, non si rende
conto di cosa sta dicendo. Ma, allora, Cristo a cosa sarebbe servito? Sarebbe un fallito!
Che cosa ha fatto Cristo di nuovo nel mondo? Se voi guardate bene non ci ha liberati
dalle guerre - le guerre c’erano prima e ci sono adesso – non ci ha liberati dai
tradimenti - i divorzi c’erano prima e ci sono adesso, le persone non sanno che ai tempi
di Gesù si divorziava perché questo era permesso sia dalla legge ebraica che da
quella romana. Ma cosa ha fatto di nuovo nel mondo? Non c’è niente di diverso,
apparentemente. Cos’è cambiato allora? E’ cambiata una cosa: è nata
la Chiesa. La Chiesa è l’evento nuovo che Cristo ha lasciato nel mondo. Nonostante
il male che, apparentemente è lo stesso di prima, oggi all’uomo è data la
possibilità di incontrare la salvezza. Dove? Attraverso la Chiesa, che ci dona la vita
divina, che ce la trasmette. Se noi togliamo l’opera che Cristo ha fatto, la Chiesa,
realmente distruggiamo tutta la sua opera. Per questo la Tradizione è così
fondamentale: perché è l’evento tramite il quale io e tutti gli altri oggi
entriamo a far parte di questa storia. Non racconto una storia che è avvenuta –
come se dicessi che Napoleone nel 1798 è andato in Egitto - ma affermo che io, oggi,
entro a far parte di quella storia che è la storia di Gesù Cristo.
Piccola annotazione catechetica che mi sembra molto importante, come concretizzazione di
ciò che ho appena detto. Noi dobbiamo pian piano, con pazienza, ricostruire anche la
credibilità della storia della Chiesa. Dobbiamo chiedere perdono degli errori
commessi – è la “purificazione della memoria” alla quale il Papa ci ha
invitato - ma anche saper vedere tutto il bene che realmente c’è stato nella
storia della Chiesa. Di nuovo troviamo un’altra forma di questa mentalità del
“politicamente corretto”: chiunque può sputare contro la storia della
Chiesa, ma, se accenna a delle colpe gravi dell’ebraismo o dell’islam o
dell’illuminismo o della cultura laica, è un intollerante! C’è un
punto che ritengo decisivo, anche a livello culturale: se non valorizziamo come educatori le
straordinarie espressioni storiche che hanno concretizzato nel tempo la fede –
manifestazioni che, in nessun secolo sono mai mancate - perché oggi un giovane dovrebbe
desiderare di essere cristiano? Se la fede non ha portato bene al mondo, ma solo danno –
come alcuni vorrebbero sostenere - perché io dovrei essere cristiano oggi?
Provate a domandarvi come mai la cultura della libertà e dei diritti
dell’uomo, l’affermazione della dignità assoluta della persona, abbiano
trovato il suo terreno fertile in Europa? Tutto nasce dall’uomo “immagine di
Dio” e dalla morte in croce di Cristo per i peccatori. Perché proprio in Europa si
è pian piano chiarificata la distinzione della laicità? Tutto nasce dal
“dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”.
Pensate a quel desiderio di evangelizzazione che ha spinto tanti giovani in America Latina e
fin nelle Filippine nel ‘500, per portare il Signore, mentre altri volevano, invece, solo
sfruttare economicamente le popolazioni locali. Pensate alle opere di carità nate in
ogni periodo, in contesti culturali e sociali diversissimi.
Ricordo di aver sentito una monaca – e questo mi sembrava gravissimo – affermare
che gli unici periodi belli della storia della Chiesa erano stati i primi tre secoli, fino a
Costantino, e poi il periodo dal Concilio Vaticano II in poi. Tutti i cristiani vissuti negli
altri secoli erano, tutti imbecilli, tutti peccatori, ladri, persone assetate di potere,
persone che volevano distruggere i popoli? Ma – scusate – allora: perché
dobbiamo essere cristiani se la Chiesa ha fatto solo del male? Questa sfida di una corretta
ricostruzione storica è affidata anche alla catechesi. La Chiesa deve riconoscere il suo
peccato - e stiamo ancora aspettando che altri riconoscano le loro responsabilità
storiche! - ma ammettere delle colpe non vuol dire affermare che la storia della Chiesa, che la
Tradizione, è un fallimento. La Chiesa deve anche riconoscere la meraviglia di
ciò che è avvenuto in lei, per l’opera della Chiesa. Noi non possiamo
dimenticare la nostra storia che tanto bene ha portato al mondo, in ogni tempo.
L’allora card.Ratzinger, in un intervento sull’Europa[7], faceva più o meno questa riflessione: noi europei
– senza dimenticare che il cristianesimo non è di per sé europeo,
perché è anche semitico, copto, armeno, ecc. ecc. - noi europei siamo gli unici
che odiamo la nostra stessa storia. Noi amiamo valorizzare le religione di altre tradizioni
storiche, l’ebraismo, il buddismo, ecc. ecc., ma ci vergogniamo a parlare del
cristianesimo! Ma perché non devo amare la mia storia, perché devo dire che
l’unica storia che è una storia rovinosa è quella della Chiesa cattolica?
Dobbiamo uscire, allora, dalle mode del momento e tornare a costruire una vera conoscenza e
apprezzamento della nostra storia.
Chiaramente dobbiamo farlo con intelligenza e verità, perché non vogliamo dire
delle menzogne storiche. Ma, se analizziamo non alcuni particolari, ma l’ampiezza dei
grandi periodi storici, ci accorgiamo della bellezza della storia ispirata dal cristianesimo.
Una via può essere anche quella dell’arte, della potenzialità che il
cristianesimo ha avuto di ispirare l’ingegno e la creatività dell’uomo.
Il medio evo è un periodo di una bellezza straordinaria. Se così non fosse,
perché altrimenti la gente andrebbe a visitare Santiago di Campostela? Perché
andrebbe a visitare le basiliche di Tuscanica e tutte le cattedrali romaniche o gotiche? Magari
un architetto del nostro tempo sapesse fare qualcosa di equivalente ad una chiesa romanica! Se
quelle epoche sapevano fare degli edifici di un tale splendore vuol dire che non erano
più sciocchi di noi! Io non sono migliore di un uomo del medio evo: è una grande
menzogna parlare di una nostra presunta superiorità. Gli uomini di oggi non sono
migliori degli uomini medievali o delle persone dell’età dell’umanesimo e
del Rinascimento o dell’età barocca. Perché uno va a vedere Borromini?
Borromini è un uomo barocco. Meno male che è esistito il barocco Borromini che
sapeva fare quelle cose. Sia ringraziato il cielo. Ed è per questa consapevolezza del
valore dell’opera di un cristiano dell’età barocca che i nostri fidanzati
non vogliono sposarsi nelle nostre parrocchie moderne, ma vogliono una Chiesa del Borromini per
le loro nozze! Ripeto spesso ai fidanzati dei corsi del matrimonio, come battuta: verrò
a celebrare il vostro matrimonio in qualsiasi Chiesa medioevale o barocca di Roma, però
voi vi impegnate a non parlar male della chiesa di quel periodo. Se per il vostro matrimonio
volete una chiesa medioevale o barocca, sia ringraziato il cielo che ci ha donato quei periodi
di storia della Chiesa che hanno donato ai secoli successivi questi monumenti come espressione
della loro fede, quelle Chiese che ancora oggi noi possiamo utilizzare per i nostri sacramenti
e le nostre feste!
Continua la DV:
Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza
dello Spirito Santo.
Questo è un altro punto molto importante. La tradizione cristiana da un lato - questo
è un paradosso che va capito bene - da un lato è sempre la stessa: Cristo
è ieri, oggi e sempre. Però la rivelazione progredisce. Uno potrebbe dire:
“Ma come? Abbiamo appena detto che Cristo è la pienezza? Che in Cristo
c’è tutto? Cosa vuol dire che progredisce?” Approfondiamo ancora il
problema. Quando uno si domanda: “Ma perché il Papa deve stare a Roma, se nella
Bibbia non c’è scritto?” apparentemente ha ragione, perché veramente
nella Bibbia questo non c’è scritto. Nella Bibbia non c’è scritto
nemmeno che San Pietro muore martire a Roma. E’ un evento che non è scritto nella
Bibbia. Neanche il martirio di Paolo si racconta nella Bibbia, si dice solo, nelle lettere
pastorali, che sta per morire a Roma, ma non si racconta il fatto. Dove sta scritto nella
Bibbia che i sacramenti sono sette? Se uno prende la “Sola Scrittura” –
riprendo l’espressione di Lutero che rifiutava la Tradizione, per dare valore unicamente
alla Sacra Scrittura, come fonte della nostra conoscenza di Cristo e della sua volontà
– questo è vero, non c’è mai scritto con precisione e chiarezza che i
sacramenti sono sette. Che cos’è, allora, il progresso della tradizione?
Da dove nasce questo valore che la fede cattolica attribuisce alla Tradizione? Nasce ancora una
volta dal fatto che la Parola di Dio, nella sua pienezza è Cristo stesso. E Cristo
è il risorto, il vivente, colui che ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni
fino alla fine del mondo”, colui che ha detto: “Vi manderò lo Spirito che vi
guiderà alla verità tutta intera”. E’ Cristo il Verbum Dei, la
Parola di Dio. Come vedremo poi, la DV chiama il Figlio incarnato, il Verbum Dei, chiama la
Tradizione anch’essa Verbum Dei e chiama, invece, la Bibbia Locutio Dei, il
“parlare” di Dio, il “discorso” di Dio. La realtà della Bibbia
è costitutiva per la Chiesa in terra, ma la Sacra Scrittura è inserita in una
dinamica più grande che parte dalla Parola nella sua pienezza che è Cristo
stesso, il quale ci parla non solo attraverso la Sacra Scrittura, ma anche attraverso la viva
tradizione della Chiesa, attraverso i suoi sacramenti.
La fonte della verità non è, per la fede cattolica, la sola Scrittura. Se
così fosse, è chiaro che avrebbero ragione tanti a dire che non sono essenziali
nella fede cristiana tanti aspetti nei quali la comprensione della Chiesa è cresciuta
nei secoli. L’evidenza dei sette sacramenti si è fatta strada nel tempo, non
troviamo questa sintesi sic et simpliciter nella Sacra Scrittura, ma non per questo è
meno vera.
Noi non difendiamo l’esistenza dei sette sacramenti dicendo che la Bibbia lo dice;
piuttosto noi affermiamo che lo Spirito Santo ha guidato la Chiesa a capire che questa è
la vera intenzione di Cristo e questo ci permette di accostarci con uno sguardo più
profondo alla Scrittura e di intravedere in essa già il mistero dei sette
sacramenti.
Il Padre, nello Spirito, ha guidato la Chiesa a comprendere, attraverso la Scrittura e la
Tradizione, che cosa Cristo voleva. Quindi Cristo è sempre lo stesso, ma noi, nel
comprenderlo, progrediamo. Dove sta scritto nella Bibbia che Maria è nata senza
peccato originale e che è stata assunta in cielo? Noi non ci scandalizziamo affatto del
fatto che il dogma mariano dell’Assunzione sia stato proclamato da Pio XII, nel 1950. La
comprensione del mistero della santità di Maria, ricevuta per grazia dall’intima
relazione con Cristo e vissuta in ogni momento della sua libera esistenza, per la quale Dio
l’ha assunta in cielo, prefigurazione del dono che sarà fatto alla Chiesa tutta
– e che era stato celebrato già nelle espressioni della Dormitio Mariae e di
S.Maria degli angeli – è cresciuto fino ad arrivare ad una sua più completa
chiarificazione che ha portato alla definizione del dogma dell’Assunzione. Può
darsi che fra 200 anni verrà proclamato un dogma che ancora noi non possediamo come
definizione ufficiale.
Per farvi comprendere meglio questo vero “progresso” della Tradizione vi ho
fotocopiato un testo di Vincenzo di Lerins. Questo autore è un monaco ed ha vissuto in
un’isola al largo di Cannes, in Francia. Vi invito, se andate in Costa Azzurra, al posto
di perdere tempo a vedere i grandi alberghi dei VIP, a prendere la barca e ad andare
all’isola di Lerins. C’è il monastero di Lerins - purtroppo è stato
distrutto nei secoli e poi ricostruito – nel quale tuttora i monaci vi accoglieranno per
la loro liturgia. Vincenzo di Lerins ha vissuto appunto lì. Una sua espressione
famosissima è: “Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus”: la Chiesa
crede “ciò che è sempre stato creduto, in ogni luogo, da tutti i
cristiani”.
La Chiesa trasmette ciò che essa è e ciò che crede e questa fede non si
può cambiare: ciò che è stato creduto sempre, in ogni chiesa e da tutti i
cristiani insieme, non può essere modificato, perché è Parola di Dio.
Ma allora, - si domanda - se questa è la fede non vi sarà mai alcun progresso
nella religione della Chiesa di Cristo? Anche a livello esistenziale, questa è una
domanda importante: noi per primi, come anche i nostri contemporanei, vogliamo porci delle
domande nuove, vogliamo capire delle cose nuove. Vincenzo domanda: “Ma allora non si va
mai avanti, la nostra generazione non ha niente di nuovo da dire, noi siamo dei ripetitori,
degli epigoni del passato?” e risponde: “Vi sarà un progresso ed anche
molto grande”.
Leggiamo il testo:
Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della
religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di
un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece
si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
E’ necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano
quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli
come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre
uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La
religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi...
Le membra del lattante sono piccole. più grandi invece quelle del giovane.
Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le
proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura
esistevano già nell’embrione... Questo è l’ordine meraviglioso
disposto dalla natura per ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce,
consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età.
E’ necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme
della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina
verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore
della zizzania.
E’ anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il
dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino
alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può
ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di
felice e fruttuosa coltivazione.
Il fatto che la fede sia sempre la stessa, non vuol dire che oggi non è nuova, non vuol
dire che oggi non progredisce, ma bisogna stare sempre attenti che si tratti di un vero
progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo
interno, il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra. Un
cambiamento inaccettabile sarebbe dire che Gesù non è Figlio di Dio. Questa
sarebbe la fine della fede. Se una persona, un catechista, si alzasse e dicesse di non credere
nella Trinità, dovrebbe lasciare il posto di catechista. Ma se la Tradizione comprende,
nel corso della storia, che se Maria ha portato, lei immacolata, nel suo corpo Gesù e lo
ha servito con tutta se stessa, non può, lei che non ha peccato, conoscere la corruzione
come tutti gli altri: questo non è un cambiamento, ma una crescita. E’ un
approfondimento di quell’unica realtà che è Cristo, vero Dio – tutti
i dogmi mariani hanno in realtà una rilevanza cristologica, oltre ad una antropologica,
ecclesiologica e mariologica. I dogmi mariani non hanno una valenza innanzitutto morale!
Perché di Maria si dicono certe cose? Perché lei, essendo stata così unita
a Cristo, rappresenta in anticipo quello che tutti noi saremo. Tutti noi saremo portati in
cielo da Cristo, ma Maria per prima. La Chiesa comprende nella sua Tradizione qualcosa che non
è scritto esplicitamente nella Scrittura, ma che è lo Spirito Santo stesso a
farci comprendere, meditando il mistero del rapporto fra questa donna e Cristo, fra la madre e
il Figlio. Lei è l’unica che ha portato Dio nel suo grembo. Nessuno di noi porta
Dio nel suo grembo: Maria è la piena di grazia perché ha portato nel suo grembo
il Figlio di Dio, l’Immenso. Questo ci conduce poi a rileggere la Scrittura ed a
coglierne ciò che non sarebbe stato possibile altrimenti.
Lo stesso vale per il fatto che i sacramenti sono sette. La Chiesa battezzando, dando il
crisma, celebrando i matrimoni, vive la Parola di Dio, la volontà di Cristo e questa
Tradizione porta poi a rileggere il brano di Efesini 5 – il famoso brano paolino che
mostra il rapporto misterico che esiste tra l’uomo e la donna, tra Cristo e la Chiesa e
tra il matrimonio e l’unione sponsale Cristo/Chiesa - ed a scorgervi in esso
l’annunzio evangelico della sacramentalità del matrimonio.
Allora il germe della realtà dei sacramenti c’è fin dall’inizio
nella Scrittura, perché i sette sacramenti sono volontà di Cristo. Ma la Chiesa
comprende questo pian piano. Quando un bambino è piccolo e poi diventa grande, non
diventa un altro uomo: è lo stesso bambino cresciuto. Invece se io uccido questo bambino
e ne faccio nascere un altro, questo è totalmente diverso! Se io dico che i sette
sacramenti non sono volontà di Dio e non servono per vivere, questo mi fa uscire dalla
Chiesa e dalla volontà di Dio. Ma la Chiesa sempre cresce e crescerà nel
comprendere il suo unico tesoro, deposto nella Bibbia e nella Tradizione.
La DV spiega anche come avvenga questa crescita:
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello
Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse,
sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e
51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali,
sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un
carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende
incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a
compimento le parole di Dio.
Capite, allora, ancor più, quanto è importante far amare la Chiesa nella
catechesi. E’ per la Chiesa che veramente questo progredire ci è stato donato; la
Chiesa, in questi duemila anni, ha compreso sempre più il tesoro di Cristo, lo ha
meditato, lo ha pregato, lo ha celebrato.
Permettetemi una parentesi, che ci permette di vedere l’importanza di questo anche
nell’attuale dibattito culturale sulla famiglia e le convivenze. Mi veniva in mente un
passaggio di S.E.mons.Rino Fisichella[8] in una relazione sulla famiglia. Mostrava la differenza fra
l’evoluzione dell’idea di famiglia e la sua dissoluzione. Anche i cristiani –
affermava - pensano che l’idea di famiglia debba evolversi e progredire, perché la
situazione odierna è diversa da quella di un decennio fa. Ma questo – sottolineava
– è ben diverso dalla dissoluzione del concetto di famiglia a cui si arriva se si
decide, ad esempio, che non sono più necessarie due persone di sesso diverso
perché una famiglia esista. Il cristianesimo è ben favorevole all’idea di
progresso e di crescita, mentre non lo è se con questo si vuole nascondere la proposta
di una dissoluzione culturale!
Andiamo alla fine del punto 8:
Le asserzioni dei santi padri attestano la vivificante presenza di questa
tradizione.
I santi padri sono gli scrittori dei primi secoli, che sono teologi e, per la maggior parte,
anche vescovi. Si chiamano “padri della Chiesa” gli scrittori cattolici dal I
all’VII secolo dopo Cristo e sono i grandi maestri: Sant’Agostino, San Gregorio
Magno, San Basilio, Sant’Atanasio, San Cipriano e così via. Questi padri non
hanno ripetuto la Scrittura ma l’hanno spiegata per il loro tempo, hanno approfondito
aspetti importantissimi del cristianesimo, come il rapporto fra la grazia ed il peccato, hanno
scritto il Credo di Nicea-Costantinopoli - pensate che il Credo che noi diciamo a messa non
è tratto sic et simpliciter dalla Bibbia, non c’è nel NT, ma è una
sintesi che è stata pensata dai padri della Chiesa. Noi - dice il Concilio - noi
ammiriamo questa presenza vivificante di questa Tradizione che accoglie la Parola di Dio e la
dona al proprio tempo ed a tutti i tempi con tutta la ricchezza possibile. Pensate ad un
piccolo esempio concreto, all’Ufficio delle letture, quella preghiera della Liturgia
delle Ore che unisce la lettura della Bibbia alla lettura dei Padri della Chiesa e dei
successivi dottori e santi. Perché la Chiesa fa questa proposta di preghiera? Proprio
per mostrare a colui che prega che quella Sacra Scrittura e quella parola della Chiesa si
illuminano a vicenda per comprendere l’unico Cristo. E’ importantissimo questo: uno
legge la Bibbia, ma a fianco di essa legge un autore del IV o del V secolo.
Anche un catechista può e deve raccontare i padri della Chiesa, può raccontare di
loro e non solo della Bibbia, perché sono dentro questa Tradizione. Se un catechista
vuole parlare del perché si battezzano i bambini, può raccontare di come
S.Agostimo sia arrivato a capire che questo era necessario ed era un bene inestimabile! Un
catechista deve saper trarre per la catechesi esempi dalla ricchissima storia della
Tradizione.
Un esempio ancora più chiaro: pensate alla messa, nei suoi punti nodali. Si legge la
Bibbia, lo sappiamo bene, nella Liturgia della Parola, ma non dimentichiamoci mai che è
anche obbligatorio fare l’omelia. Perché è obbligatorio fare
l’omelia ed è obbligatorio che voi l’ascoltiate? Non perché ai preti
piace fare le prediche, ma perché la parola viva della Chiesa deve spiegare la
Scrittura, perché la Bibbia e la Tradizione debbono sempre andare insieme.
L’omelia è un atto della tradizione, sono due cose che vanno sempre insieme: guai
se io faccio l’omelia e non spiego la Bibbia, guai se io leggo la Bibbia e non faccio
l’omelia. Sono due cose che sono legate. Ma, ancora più profondamente la
Liturgia della Parola conduce alla Liturgia Eucaristica. Abbiamo la celebrazione
dell’eucaristia, abbiamo, cioè, non solo la parola ma quell’evento che
è il culto, che è la presenza sacramentale di Cristo. La Liturgia, più di
ogni altra cosa, ci mostra l’unità della Parola di Dio.
E’ questa tradizione che fa conoscere alla Chiesa
l’intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente
comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Scritture.
Spieghiamo. Cos’è il canone? “Canone” è una
parola teologica. In questo contesto vuol dire la “regola” - viene
dal greco “canon” che è indica il metro di misura. Il
canone è la regola delle Scritture: le Scritture ispirate da Dio sono
quelle che sono nel Canone. Il Concilio fa una considerazione molto semplice,
ma decisiva: chi è che ha deciso quali sono le Scritture ispirate? Noi
abbiamo la Bibbia, con i suoi libri ispirati da Dio; ma chi è che ha
stabilito quali libri fanno parte della Bibbia? C’è scritto forse
dentro la Bibbia stessa? C’è una pagina biblica – che ne
so, l’ultima – che afferma qualcosa di simile a questo: “Io,
Dio, dico a te, caro Giovanni scrittore dell’Apocalisse, dell’ultimo
libro, la Bibbia è fatta di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri. Deuteronomio,
Giosuè, Giudici, ecc. ed il Nuovo Testamento di quattro vangeli, Matteo,
Marco, Luca e Giovanni, mentre gli altri non li ho ispirati io”? No! Il
canone è stabilito dalla Chiesa.
Pensate che affermazione fondamentale per capire cos’è la Parola
di Dio e come Dio si è rivelato. Questo è un problema anche per
i protestanti che affermano la sola Scrittura come unica regola della fede,
come unica fonte della verità su Cristo. Ma se l’unica regola della
fede è la Scrittura e la Tradizione, come faccio io a sapere come
è composta la Scrittura, quali sono i libri ispirati? Come posso
decidere la differenza fra i quattro vangeli del Canone ed i vangeli apocrifi?
La Chiesa ha la coscienza chiarissima che la Tradizione viene cronologicamente
prima della Scrittura. C’è stata la vita della chiesa prima
della Scrittura, quella vita che gli Atti degli Apostoli ci raccontano. Gli
apostoli non hanno per prima cosa composto il Nuovo Testamento, ma ciò
è venuto come concretizzazione scritta della loro vita, della loro fede,
delle loro celebrazioni. Gli apostoli hanno prima cantato, passeggiato, predicato
il vangelo, mangiato, litigato, fatto la pace, capito, pregato Gesù in
cielo, hanno parlato con Maria, e solo ad un certo punto alcuni di loro hanno
scritto alcuni testi perché hanno capito, sebbene Cristo non glielo avesse
ordinato espressamente, che era necessario alla Chiesa, che era volontà
di Cristo che ci fossero dei testi scritti per illuminare la vita che stavano
vivendo, per fare memoria di Gesù.
Non solo la Tradizione, la vita della Chiesa, ha preceduto la Scrittura, ma
è stata nuovamente la Chiesa, in un lungo processo di Tradizione,
a stabilire quali fossero i libri ispirati. La Chiesa, proseguendo la sua
vita man mano che gli apostoli morivano, ha detto: “Questi scritti sì
e questi invece no, questi non testimoniano veramente la Parola di Dio, il Cristo
stesso. Questi qui sono interessanti, c’è anche qualcosa di bello
– tali sono molti degli apocrifi - ma Cristo non è realmente raccontato
in questi scritti”. La decisione sul Canone è un processo ecclesiale,
è un processo della Tradizione. Capite, allora, quanto è stretto
fin dall’inizio il legame tra Bibbia e Tradizione, poiché è
la vita della Chiesa che stabilisce cos’è la Bibbia e non l’inverso!
Come è avvenuto il processo molto lungo della scrittura della Bibbia?
Anticamente, nei secoli dell’Antico Testamento, i messaggeri di Dio
hanno scritto in ebraico. Questi antichi libri, che ora sono nel Canone,
non sono stati scritti di seguito, ma un autore ne ha scritto uno, un altro
ne ha scritto un altro, un altro ci ha aggiunto un pezzo, un altro ha cambiato
una parola, ecc. ecc. La scrittura dei libri della Bibbia ha richiesto molto
tempo, secoli. Il libro biblico non ha un unico autore umano - lo sapete benissimo,
solo alcuni libri sono stati scritti da una sola persona.
Per di più i libri in ebraico erano scritti all’origine con
un testo solo consonantico, senza le vocali. Nelle lingue antiche le vocali
non si scrivono. Tommaso si scrive TMS.
Il testo ebraico è stato poi tradotto in greco intorno al terzo secolo
avanti Cristo. Questa traduzione è opera degli ebrei di Alessandria
d’Egitto che compongono quella che si chiama la Settanta (in latino
Septuaginta). Si abbrevia LXX, in numero romano (qui dobbiamo forzatamente semplificare,
perché in realtà esistettero varie versioni greche della Bibbia
ebraica). Gli ebrei di allora, ad Alessandria, crearono una leggenda per indicare
la loro coscienza che quella traduzione era stata voluta da Dio stesso –
l’ebraismo dei tempi di Gesù era molto ellenizzato e le moderne
distinzioni che vorrebbero contrapporre mentalità semitica e mentalità
greca non hanno alcun senso! Dissero che il re di Egitto chiese a settanta (per
la precisione 72) rabbini di tradurre in greco la Bibbia. Li mise in 72 stanze
diverse nell’isola di Faro (quella del faro di Alessandria, una delle
sette meraviglie del mondo antico) ed ognuno tradusse da solo la Bibbia. Le
72 traduzioni risultarono identiche. Il senso di questa leggenda è che
Dio stesso aveva voluto che la Bibbia ebraica fosse tradotta in greco. La traduzione
della Bibbia è opera della Tradizione. Il Nuovo Testamento citerà
l’Antico Testamento quasi esclusivamente secondo questa traduzione della
LXX.
Cosa succede alla Bibbia successivamente? Quando, nel 70, viene distrutto il
Tempio dai romani, poco dopo – si ipotizza intorno al 90 d.C. - si riuniscono
i rabbini (la tradizione dice a Jamnia) ed affermano che la traduzione greca
non era stata voluta da Dio. Assistiamo così ad un cambiamento nella
storia dell’ebraismo: i testi della LXX, usati dai primi cristiani,
vengono rifiutati ed, allora, questa traduzione in greco diventa l’AT
dei cristiani. I libri scritti direttamente in greco, per esempio il I e
il II libro dei Maccabei, che non hanno un originale ebraico (i cosiddetti “deuterocanonici”)
non sono accolti nel Canone dei rabbini dopo la distruzione del Tempio, mentre
sono accolti nel Canone cristiano.
Il canone ebraico si chiude così intorno al 90 d.C. - non esisteva
prima un canone completo certo ed assodato della Bibbia ebraica; c’erano
molte discussioni su alcuni libri. Anche nell’ebraismo il Canone viene
ad essere fissato a motivo di una tradizione orale che sceglie dei libri e ne
rifiuta altri.
Alcuni secoli dopo arriviamo alla Vulgata, alla traduzione latina. Girolamo
fa tradurre la Bibbia ebraica, con l’aiuto del greco, in latino (in realtà
esistevano già altre traduzioni latine, ma sorvoliamo sui dettagli, perché
in questo contesto non modificano il filo che qui ci interessa). Nelle Bibbie
moderne si abbrevia con Vulg. Notazione interessante: perché si chiama
Vulgata? Perché il greco a quei tempi era la lingua della Chiesa, la
lingua della Chiesa non era il latino. La Chiesa parlava in greco, una lingua
in Occidente più colta, mentre il popolo, il volgo, parlava in latino.
Vulgata è un’espressione, all’origine, anche un po’
dispregiativa; infatti molti non volevano che si traducesse la Bibbia in latino
perché dicevano che l’unica lingua della Chiesa, la lingua di Dio,
era il greco. Se la Bibbia sarà tradotta in latino, sarà impoverita
e si perderà l’unica lingua della Chiesa. Girolamo vuole, però,
tradurla perché la gente in greco non la capisce. E’ interessante
vedere come, nei secoli, le stesse argomentazioni usate contro la Vulgata, a
favore del greco, saranno portate contro la versione tedesca di Lutero a favore
della Vulgata (anche lì esistevano già molte versioni tedesche
della Bibbia, ma anche qui non entriamo nei particolari) e contro le versioni
moderne successivamente.
Lutero dirà che la Bibbia dell’AT, quella ispirata da Dio, è
solo quella ebraica - parliamo dell’AT – e non quella della LXX.
Ad esempio il libro dei Maccabei non c’è in una Bibbia protestante.
Si rifiuta una Tradizione, quella della Chiesa primitiva che aveva accolto questi
libri come ispirati, ma se ne sceglie un’altra, quella ebraica dopo la
distruzione del Tempio, perché una tradizione c’è per forza!
Il Concilio di Trento risolverà definitivamente la questione a livello
dogmatico - siamo intorno al 1550. Dirà, in maniera definitiva:
“Sono ispirati tutti i libri della Bibbia, con tutte le loro parti, contenuti
nella Vulgata”. Notate bene: non si dice qual è la versione
ispirata - anche perché di alcuni passi abbiamo varianti diverse e non
è possibile arrivare con sicurezza alla decisione su quale sia la “lezione”
originaria (in alcuni versetti, ad esempio, appare più originaria la
versione dei LXX che pure è una traduzione, rispetto al testo ebraico).
La presenza di testi così antichi – il testo solo consonantico,
il testo ebraico vocalizzato, il testo in traduzione greca, l’autorità
della Vulgata – porteranno l’esegeta cattolico a valorizzare tutte
queste versioni.
Ciò che il Concilio di Trento afferma è, nuovamente, un evento
della Tradizione: se, per tanti secoli, in ogni chiesa si è pregato
con questa Bibbia, con la Vulgata, non è possibile che tutti i papi,
tutti i vescovi, tutti i catechisti, tutti i papà che hanno pregato con
questa Bibbia si siano sbagliati. La Tradizione diventa il criterio per
dire che tutti i libri e tutti brani contenuti nella Vulgata – torniamo
al quod semper, quod ubique, quod ab omnibus – sono ispirati. Poiché
nella Vulgata c’è il I libro dei Maccabei e questo libro è
stato usato nella liturgia per tanti secoli, vuol dire che la Tradizione lo
ha ritenuto ispirato da Dio e tale esso è, anche se i rabbini non l’hanno
ritenuto tale.
Possiamo aggiungere due esempi del Nuovo testamento, molto significativi. Molti
non sanno che il brano dell’adultera non c’è in tutti
i manoscritti antichi del vangelo di Giovanni. Alcuni dicono che non è
un brano giovanneo; così, in teoria, si potrebbe alzare un esegeta e
dire che siccome non l’ha scritto Giovanni allora non è ispirato
da Dio. Il Concilio di Trento ci dà la chiave per la soluzione cattolica
di questo problema. Poiché questo testo è nella Vulgata e poiché
sempre la Chiesa lo ha ritenuto ispirato, tale è e resta.
Lo stesso vale per la finale del Vangelo di Marco, forse il punto di
critica testuale più difficile del NT. Nei manoscritti antichi ci sono
finali diverse del vangelo di Marco. Gli esegeti dicono che la versione originaria
si arrestava probabilmente al versetto 8 dell’ultimo capitolo. Altri manoscritti
hanno i versetti da 9 a 20. Altri hanno almeno due varianti significative. Il
Concilio di Trento risponde: siccome nella Chiesa si è sempre pregato
con la finale che comprende Mc16,9-20 questa finale è quella che deve
essere ritenuta ispirata ed è, pertanto, quella che noi leggeremo nella
liturgia. E’ chiaro che non l’ha scritta Marco, ma a noi non
fa nessun problema, perché i vescovi, i padri, i teologi, i dottori,
i papi, i semplici fedeli – la Tradizione insomma - hanno sempre riconosciuto
che in quei versetti è veramente contenuta la Parola di Dio.
Allora il Canone è fatto conoscere ai credenti attraverso la viva tradizione
della Chiesa. Pensate che passaggio per la Bibbia: dall’ebraico, al greco,
al latino, al Concilio di Trento, alle nostre traduzioni. E’ il processo
attraverso il quale la Chiesa, pregando, celebrando la liturgia, ascoltando
i teologi, vivendo la fede del popolo di Dio, accogliendo la voce del Magistero,
ha capito che questa è realmente la piena e completa rivelazione di Dio.
Vedremo nel prossimo incontro come sia poi la Scrittura a giudicare a sua
volta la Tradizione, come la Bibbia sia norma della vita della Chiesa, in un
intreccio indissolubile delle due.
Concludo con alcuni piccoli suggerimenti di letture per approfondimenti che
trovate nella bibliografia che vi ho dato. Vi consiglierò poi dei libri,
ma, intanto, per cominciare, vi suggerisco dei testi che trovate on-line su
Internet, sul nostro sito www.gliscritti.it
Un primo testo è la relazione che mons.Rino Fisichella ha tenuto ai prefetti
della Diocesi di Roma. Spiega cosa vuol dire trasmettere la fede, approfondendo
il consegnare se stessi.
Il secondo articolo è di don Pino Pulcinelli, un assistente del Seminario
Maggiore, un biblista. E’ un articolo che analizza il significato dell’espressione
“mistero” in San Paolo.
Il terzo articolo è ancora di mons.Rino Fisichella. E’ una conferenza
su Giovanni Paolo II, nel 25° del suo Pontificato, che sottolinea l’espressione
del Concilio Vaticano II al quale l’allora arcivescovo Wojtyla lavorò.
“Alla luce del mistero di Cristo, trova luce il mistero dell’uomo”.
Il quarto articolo è una riflessione del biblista Romano Penna su cosa
voglia dire “spirituale”, nella fede cristiana.
Ultimo suggerimento: leggete le schede sulla Bibbia – il Canone, l’ispirazione,
le differenze tra la Bibbia ebraica e quella cristiana, ecc. ecc. - che erano
state preparate alcuni anni fa quando con il nostro Centro Culturale L’areopago
facemmo una mostra sulla Bibbia dal titolo L’ignoranza delle Scritture,
la Bibbia da Genesi all’apocalisse e da Qumran a Gutenberg, anche queste
ora sul nostro sito.
Facciamo una sintesi delle lezioni precedente e poi passiamo ai temi di
oggi.
Abbiamo visto che nel primo capitolo il centro del discorso è il contenuto della
Rivelazione di Dio: Gesù ci rivela Dio stesso. Non ci rivela tanto delle
verità particolari, ma la sua persona, ci rivela Dio stesso. La rivelazione cristiana
è una rivelazione personale e per questo è anche una rivelazione del disegno di
Dio sugli uomini. Noi troviamo il senso della nostra vita ascoltando chi è Dio.
Il secondo capitolo tratta, invece, della trasmissione di questa Rivelazione. Come si
trasmette al mondo, una volta che è avvenuta? Abbiamo cominciato a vedere la
relazione che c’è tra la Bibbia e la vita della Chiesa, tra la Bibbia e la
Tradizione.
La relazione tra Cristo, la Bibbia e la Tradizione
Questa relazione ci è presentata in maniera sintetica nel paragrafo 9 della DV:
La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti
tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in
certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine.
Se questa è la fonte – Cristo - da questa fonte scaturiscono entrambe, la
Scrittura e la Tradizione, ed entrambe tendono allo stesso fine e sono un tutto unico.
Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio.
Qui il Concilio usa la parola latina locutio: potremmo dire, come abbiamo già
visto, il “parlare” di Dio.
In quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra
Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio.
Qui si usa l’espressione Verbum Dei. Mentre la Scrittura è il parlare di
Dio messo per iscritto, la Tradizione trasmette la parola viva che è Cristo. Anche la
Tradizione è Verbum Dei. Cos’è più importante, la Scrittura o la
Tradizione? Il paragrafo 10 risponde a questa questione – con l’aggiunta del
Magistero del quale parleremo fra poco – mostrando l’indissolubile legame e la
compresenza di entrambe:
È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della
Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che
nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo
proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza
delle anime.
Bibbia e Tradizione scaturiscono da un’unica fonte, da Cristo stesso. Nella DV,
allora, Cristo è chiamato il Verbum Dei che parla in entrambe (Scrittura e Tradizione),
la Scrittura viene chiamata Locutio Dei, la Tradizione è anch’essa Verbum Dei e
trasmette anch’essa il Verbum Dei.
Soffermiamoci ulteriormente, perché sia il più chiaro possibile. Cristo è
la Parola di Dio, la pienezza della sua Parola, in latino possiamo dire “il Verbum
Dei”. C’è una sola Parola di Dio, c’è “il” Verbum
Dei, Cristo stesso. Ma Cristo parla a noi oggi in due modi, nella trasmissione della
Rivelazione. Parla innanzitutto attraverso la Sacra Scrittura, che è anch’essa
Parola di Dio. La Sacra Scrittura, vera Parola di Dio, ci parla della Parola completa, ben
superiore, che è Cristo stesso. Il Concilio usa, per la Scrittura una differente Parola,
la “locutio Dei”, il “parlare” di Dio, il “discorso” di
Dio. Perché Cristo che è la Parola, dice anche delle Parole e compie i fatti ed
alcuni di essi vengono scritti. La Parola piena, Cristo, è talmente importante che se io
ho la Scrittura, ma non ho il Figlio, questa parola diventa lettera morta che uccide –
“la lettera uccide, lo Spirito vivifica”.
Ma, d’altro canto, questa Scrittura, la Bibbia, è via necessaria per conoscere
questa Parola completa, incarnata. La Sacra Scrittura garantisce che il Cristo creduto non
è reinventato ogni volta, ma è veramente l’unico Figlio di Dio, che si
è fatto carne. Dobbiamo ancora vedere le caratteristiche della Parola scritta
– lo faremo subito, perché stiamo seguendo il filo della DV. Abbiamo già
visto, invece, che Cristo vivente - vivo perché risorto, vivo perché Figlio
eterno di Dio - parla anche attraverso la Tradizione vivente. Queste due Parole, la locutio
Dei e la Tradizione, hanno una relazione feconda, al punto che sono incomprensibili l’una
senza l’altra.
La Chiesa cattolica afferma, allora, che la Parola di Dio è l’insieme di queste
due cose: Scrittura e Tradizione, entrambe discendenti da Cristo. Per il mondo protestante,
invece, la Parola di Dio è solo la Scrittura. Lutero diceva: Sola Scriptura. Secondo la
concezione luterana per comprendere Gesù è sufficiente la Bibbia, la Chiesa non
è importante. La Chiesa cattolica ritiene, invece, parziale questa affermazione.
Torniamo ai fondamenti di questa convinzione: Gesù ha chiamato lui gli apostoli, ha
chiamato Simone, Matteo, Andrea, Giovanni, ecc. ecc. Ha detto a Pietro, a Paolo: “A chi
rimetterete i peccati in terra, saranno rimessi anche in cielo”. Ha detto questo, mentre
non ha mai detto: “Scrivete la Bibbia”. Eppure noi facciamo una cosa realmente
voluta da Gesù, quando leggiamo la Sacra Scrittura e la preghiamo e la commentiamo!
Sebbene non sia mai scritto il comando di scrivere!
Gesù non ha mai detto agli Apostoli di scrivere i vangeli. Gesù ha chiamato gli
Apostoli ed ha detto a Simone: “Tu sei Pietro”. E chi non accetta questo, non sta
accogliendo tutta la ricchezza di Cristo. La Chiesa è voluta da Gesù, è
il suo dono al mondo, è il suo modo di essere presente. Qui occorre spiegare ai
bambini anche un evento che ha un grandissimo significato: Gesù è stato
l’unico a chiamare i suoi discepoli, mentre i rabbini dell’epoca non sceglievano le
persone. Erano le persone a scegliere il rabbino da seguire, come oggi noi scegliamo un nostro
maestro e gli chiediamo di poterlo seguire. Non così Gesù! Gesù è
l’unico - proprio perché è il Signore - a dire: “Io voglio te, vieni
e seguimi e diventerai apostolo”. La vocazione, il rivolgersi ad un altro perché
lo segua, è una caratteristica della chiamata di Gesù.
Gesù fonda la Tradizione, chiamando gli apostoli. La tradizione poi, per l’invio
dello Spirito Santo – lo Spirito di Gesù che parla nei cuori e nella comunione
ecclesiale – arriva a scrivere la Scrittura. Per stabilire poi quali sono i libri della
Scrittura interviene di nuovo la tradizione che, sempre per opera dello Spirito Santo, in un
certo numero di anni, arriva a definire il Canone, giunge a dire: “Il Vangelo di Marco,
Matteo, Luca e Giovanni sono i vangeli ispirati che rispecchiano fedelmente la vita di
Gesù, mentre il vangelo copto di Tommaso, ad esempio, come gli altri vangeli non
canonici non nascono dall’ispirazione dello Spirito”.
Gesù quindi dà origine alla Tradizione, la Tradizione scrive la Scrittura, la
Scrittura viene riconosciuta dalla Tradizione che dice: “Questo è il canone”
ed il Canone è la regola con la quale, a sua volta, viene giudicata la conformità
della Tradizione alla persona di Cristo, la conformità al Verbum Dei, la pienezza della
Parola divina, il Figlio incarnato.
Voi capite quanto è importante la tradizione: perché gli Apostoli hanno scritto
il Nuovo Testamento sebbene Gesù non l’abbia mai chiesto? Perché ispirati
dallo Spirito Santo, dopo che Gesù era già salito al cielo, hanno capito che
dovevano scrivere la Scrittura, hanno compreso che era volontà di Gesù che questo
fosse fatto. Tra Scrittura e Tradizione c’è quindi un rapporto estremamente
fecondo, al punto che isolare una dall’altra, dice la DV, vuol dire la morte della fede
cristiana. Guai se uno prende solo la voce orale della Chiesa, ma guai anche se uno prende solo
la voce scritta. Perché c’è una relazione tra queste due e la Parola di Dio
è l’insieme di tutti questi elementi: la Parola di Dio è Cristo, è
la Scrittura, è la Tradizione della Chiesa.
Vi ho fotocopiato un piccolo testo che può aiutarci in questo contesto. E’ tratto
da una lettera di J.R.R.Tolkien, l’autore de “Il signore degli
anelli”, cattolicissimo in un ambiente anglicano. Traspare in tante sue lettere la
fatica di essere accettato in un ambiente che, a quei tempi, viveva una sottile discriminazione
verso chi si professava cattolico. E’ un testo che ci riporta alla
“crescita” ed al “progresso” resi possibili dalla presenza dello
Spirito Santo nella Tradizione:
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il
rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno
comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo
primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto;
perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è
ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento
liturgico cristiano agli inizi come adesso. (Le restrizioni di San Paolo a proposito
dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!)
Tolkien fa riferimento alla prima lettera ai Corinzi nella quale S.Paolo rimprovera i primi
cristiani sul loro modo di vivere l’eucarestia. Non erano migliori di noi, per il fatto
di essere la prima generazione cristiana. Anche i primi cristiani commettevano peccati, come le
successive. Continua Tolkien:
Inoltre la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore
perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma
perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia
all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia
– le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna
somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per
quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta,
perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina
è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile
cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue
virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero.
E’ un’immagine molto bella. E’ vero che nel seme c’è già
tutto, che nella Chiesa primitiva c’è già tutto, ma Gesù ha parlato
del Regno di Dio come di un seme dal quale nasce un albero sul quale si poseranno gli uccelli
del cielo. Ma se, una volta che l’albero è cresciuto, andassi a scavare sotto
le radici, in nome della primitività, per cercare il seme, non lo troverei più.
La meraviglia di quel seme è la pianta che ne è venuta fuori. Ed io prendo
l’ombra, la bellezza, il frutto di questa pianta nella sua completezza.
Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla
saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così
via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno
certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche
alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal
male.
Ecco la sua riflessione, di grande profondità. Noi sappiamo benissimo che alcune
affermazioni della Tradizione non sono contenute direttamente ed esplicitamente nella
Scrittura, ma noi sappiamo che Gesù ha detto agli Apostoli: “Lo Spirito Santo vi
rivelerà tutto quello che io vi ho detto”. C’è la Scrittura, ma
c’è anche lo Spirito che ha parlato negli Apostoli. Dove è scritto che
dobbiamo celebrare la domenica? Nel Vangelo non c’è scritto questo. Noi sappiamo,
però, che la Tradizione, ascoltando la Scrittura ed ascoltando Cristo, ha compreso il
valore dell’ottavo giorno, del giorno domenicale. Se io dicessi: “Siccome la
domenica non è il seme ma l’albero, allora la butto via”, sarei solo un
idiota, distruggerei la pianta. La meraviglia è che il Cristo, attraverso la Scrittura e
la Tradizione, mi dona di comprendere il senso della domenica cristiana e la possibilità
di viverla.
Noi dobbiamo aiutare i bambini ed i ragazzi a capire tutto questo. Mi permetto di sottolineare
ulteriormente il rapporto che dobbiamo curare, noi romani in particolare, con Roma: noi
dobbiamo fare amare Roma. La gente viene in pellegrinaggio da ogni parte del mondo e i nostri
ragazzi non sono mai andati a S.Pietro! Noi dobbiamo parlare dei santi, dei martiri, dei Papi
che hanno vissuto a Roma, facendo amare i luoghi nei quali sono vissuti e sono morti nella
testimonianza del Signore. Nella catechesi devono risuonare anche i grandi temi della storia, i
grandi temi di questa tradizione: la richiesta di perdono, ma anche la bellezza di ciò
che c’è stato. E’ un primitivismo sbagliato dire: “Solo la
Scrittura”. Nella fede cattolica non si legge solo la Scrittura per donare una vera e
completa catechesi!
Il testo continua ancora al paragrafo 10:
La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola
di Dio affidato alla Chiesa
Queste due realtà sono un solo deposito messo nelle mani della Chiesa
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o
trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità
è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è
superiore alla parola di Dio ma la serve
Qui interviene il terzo elemento necessario alla trasmissione della rivelazione: il
magistero. Il magistero – dal latino “magister”, “maestro” -
è l’autorità episcopale esercitata in comunione con il vescovo di Roma, il
Papa. Il magistero ha il compito di spiegare cosa è veramente conforme al Verbum Dei.
E’ quindi un’autorità necessaria. E’ Gesù che ha detto:
“Annunziate tutto ciò che ho comandato”. Gesù, attraverso la parola
detta e la parola scritta, ha dato al Magistero un compito peculiare. Il magistero non
è il potere che fa quello che vuole, ma è piuttosto il servitore di questa
Parola. Il compito del magistero - dei vescovi e del Papa - è quello di dire se
ciò che viene detto e fatto è nella volontà di Cristo o si allontana da
Lui. E’ al servizio della domanda se veramente Gesù voglia una cosa. Il magistero
può dire: “Questa affermazione, questa idea, questo movimento, questo modo di
procedere, non è secondo il pensiero di Gesù”. Ma mai il Magistero
può comandare quello che piace a chicchessia. Neanche quello che piace al Magistero
stesso, se non perché è la volontà di Cristo.
Il magistero si pone a servizio di questa Parola e aiuta a discernere la vera Tradizione,
cosa è conforme o meno nella vita della Chiesa alla parola stessa di Cristo.
Benedetto XVI ha detto chiaramente questo in un suo bellissimo discorso, uno dei primi che ha
fatto da pontefice, quando ha preso possesso appunto della cattedra nella cattedrale di Roma,
S.Giovanni in Laterano. Il papa ha detto in quell’occasione[9]: “Attenzione, io ho l’autorità come
successore di Pietro; ma questo vuol dire che io sono servo di Cristo. La mia autorità
non vuol dire mettermi al di sopra di Cristo. Io che sono il servo di Cristo devo dire: Voi
state parlando di uno che non è Gesù Cristo, quello di cui parlate non è
il Gesù Cristo che ci ha salvato, è un’altro, ve lo siete inventato. Il mio
compito di servo è quello di esplicitare continuamente cosa è secondo il Verbum
Dei e cosa gli è contrario, o indifferente”. Oppure all’opposto: “Io
vi confermo. La vostra fede, la vostra parola, il vostro operato, è realmente secondo
l’intenzione del nostro Salvatore!” Le persone vedono sempre il compito episcopale
e pontificio come potere, dominio. In realtà si tratta di un compito delicatissimo, di
enorme responsabilità, di un compito di servizio.
Anche voi catechisti riceverete un mandato: vuol dire che i vostri parroci garantiranno –
e voi stessi garantirete - che quello che sarà annunciato nella catechesi sarà
l’insegnamento di Cristo. Sarete servitori della Parola, non dominatori di essa o per
mezzo di essa. E, per questo, sarete sempre nella comunione ecclesiale. Lo ripeto: un
catechista non può essere un cane sciolto, uno che pensa quello che vuole, dice quello
che vuole, non sta con i fratelli, non vive la comunione, non ascolta i preti, i vescovi, il
Papa. Un catechista è un uomo della comunione ecclesiale: dove c’è lui,
c’è la Chiesa. Questo è fondamentale.
Cosa fa allora il magistero dinanzi ad un problema, ad una disputa, ad una deviazione dalla
fede cristiana? Dice: “Questo aspetto veramente aiuta a vivere Cristo, quest’altro
stona, non appartiene a Gesù”. Il magistero ha il compito di vigilare che la
Parola di Dio venga trasmessa nella sua pienezza e nella sua verità.
Arriviamo ora al capitolo III della DV. Il capitolo III entra nel merito
della Scrittura. Avendola situata in un contesto più ampio ora approfondisce il
significato ed il valore della Scrittura. Ci aiuta a comprendere il ruolo della Bibbia nella
vita della Chiesa. Leggiamo il paragrafo 11:
Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra
Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede
apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo
Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo
(cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16).
Questa è un’affermazione importantissima: veramente la Scrittura è
Parola di Dio. Dopo aver detto che la Scrittura non è da sola la Parola di Dio, ora
il Concilio afferma però che la Scrittura è veramente Parola di Dio. Quando noi
leggiamo la Bibbia veramente ci accorgiamo che lo Spirito Santo ne è l’autore.
(I libri sacri) hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la
composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro
facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo,
scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero
scritte.
Qui c’è tutto il paradosso della concezione cattolica dell’ispirazione della
Scrittura. Veramente la Bibbia è Parola di Dio, veramente Dio ne è
l’autore, ma, allo stesso tempo, veramente la Bibbia è parola umana e gli uomini
ispirati da Dio ne sono autori. Gli autori hanno, cioè, agito come veri autori.
Facciamo un confronto con le altre religioni. Nell’Islam, Maometto non è il vero
autore del Corano, non ci ha messo nulla di suo. Questo almeno stando alla tradizione ufficiale
della Rivelazione Coranica (sebbene alcuni autori islamici contemporanei abbiano cominciato a
discutere di questo aspetto). Nella tradizione musulmana “ortodossa”, Dio ha
parlato ad un angelo e gli ha dettato il Corano in arabo, l’angelo ha parlato a Maometto
in arabo. Maometto l’ha dettato in arabo ai suoi scrittori (perché Maometto non
sapeva scrivere). Quindi il Corano è stato “dettato”, Maometto non
è un autore. Nella concezione cattolica della Bibbia invece Luca è davvero
l’autore del suo vangelo. Un esegeta leggendo un versetto riconosce S.Luca. Ogni
autore di un libro biblico scrive in modo diverso, scrive secondo il suo stile. Nella Bibbia
voi incontrate l’opera dello Spirito Santo, ma anche l’autore umano è vero
autore.
Bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza,
fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse
consegnata nelle sacre Scritture.
Questo passo della DV definisce, conseguentemente, cosa dobbiamo cercare come esente da
errore nella Bibbia: la “verità per la nostra salvezza”, la
“verità salvifica”. Quindi la Bibbia non ci dice la verità
storica di ogni singolo evento, non ci dice la correttezza scientifica di ogni sua
affermazione, ma la “verità salvifica”. Facciamo un esempio per chiarire
questo: in un famoso passo della Scrittura, Giosuè dice: “Fermati o sole”.
Questo modo di scrivere non vuol dire che veramente il sole si sia fermato. E’ un modo di
dire: quella giornata è stata così importante che non finiva mai, è stata
lunghissima. Ma non si può trarre da questa frase la concezione che la terra sia al
centro dell’universo ed il sole che gli ruota intorno debba fermarsi. Perché
l’autore di Giosuè è vero autore della Scrittura. Dio non si è
servito di lui per darci una conoscenza del sistema solare o delle nozioni di astrofisica. Che
cosa veramente Dio voleva insegnare? La verità per la nostra salvezza.
Dobbiamo cercare nel testo di Giosuè questa verità. Giosuè vuole parlarci
della protezione divina su Israele. Dio è il motivo della vittoria, non le forze
dell’uomo. Questo è quello che lo Spirito Santo ha ispirato, ma alcuni particolari
del racconto sono dovuti all’autore, alle conoscenze proprie dell’epoca ed al modo
di esprimersi di quel tempo e di quell’autore.
Ma tutto ciò che quel libro dice per la nostra salvezza, lo Spirito Santo l’ha
voluto veramente, l’ha ispirato realmente. Ma altre cose, che non c’entrano con la
nostra salvezza, non devono essere prese alla lettera. Le letture fondamentaliste –
soprattutto molte sette americane e sudamericane leggono la Scrittura come se ogni
affermazione, essendo ispirata da Dio, avesse una verità non solo salvifica, ma anche
scientifica e storica – fanno, invece, esattamente questo. Secondo la loro lettura,
se nella Bibbia c’è scritto che Matusalemme ha vissuto un certo numero di anni,
per la precisione 969, tu non puoi dire niente di diverso da questo. Noi rifiutiamo questo
atteggiamento. L’autore di Genesi ha raccontato Genesi, ispirato da Dio, per la nostra
salvezza dandogli il vero significato che va capito, ma Dio ha rispettato il modo di esprimersi
di quell’autore di quel tempo e non lo ha ispirato sotto dettatura.
Quel particolare narrativo l’ha scritto l’autore secondo il suo stile espressivo.
La Scrittura è ispirata, ma questo non vuol dire che noi dobbiamo leggerla come un libro
di storia. Ci sono date sbagliate, fatti scientifici espressi nelle concezioni del tempo, ecc.
ecc. perché i suoi autori avevano la cultura del loro tempo. Nella Bibbia però
non c’è niente - un punto, un apice - che non sia ispirato da Dio, perché
Dio si è servito di tutto questo per parlarci della nostra salvezza. Così
è importante capire che questo non vuol dire che la Bibbia ci racconta con esattezza la
storia degli assiri o degli egiziani.
Come deve essere quindi interpretata la Sacra Scrittura, una volta compresa la sua origine
divina, pur nella mediazione umana? Perché la Bibbia è un libro che ha veramente
Dio per autore, pur avendo veramente l’uomo per autore - questo è il paradosso
affermato dalla fede cristiana – lo Spirito Santo è veramente autore della Bibbia,
pur se si è servito di veri autori umani. In primo luogo, guai a chi prova a dire che lo
Spirito Santo non ha ispirato la Bibbia ed anche guai a chi sostiene che lo Spirito abbia
ispirato altri libri all’infuori di quelli del Canone. Alcuni vogliono affermare che
tanti altri libri sono ispirati, anche i testi di altre religioni. Noi diciamo che solo la
Bibbia è ispirata. Ci sono cose belle ed importanti in altri testi religiosi, ma Dio
è autore solo di questo libro. La Bibbia, unico libro della Parola di Dio, va
interpretata alla luce di quello stesso Spirito che l’ha ispirata.
Ecco perché nella liturgia si leggono solo i testi biblici, perché sono i soli
ispirati. Non è un disprezzo per gli altri testi, ma il rispetto per la
peculiarità di quello che stiamo celebrando. Se facciamo una riunione va tutto bene,
possiamo prendere un testo non biblico, possiamo commentarlo, ma anche ognuno ha poi il diritto
di criticare quel testo, di non essere d’accordo, di dire che quel testo non gli piace,
non gli dice nulla. Questo non è possibile dinanzi al testo biblico, che è per
noi vincolante. Non possiamo dire: “Non sono d’accordo con ciò che dice la
Parola di Dio!” Ecco che nella liturgia il testo viene “proclamato”: ha un
valore superiore rispetto ad un altro testo dinanzi al quale c’è la libertà
di opinione.
Ma, poiché, al contempo è un testo scritto da uomini - continuiamo al paragrafo
12:
Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana,
l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci,
deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio
è piaciuto manifestare con le loro parole.
Quando io leggo un testo devo stare attento a cosa l’autore diceva come uomo. Dio si
è servito di quell’uomo e costui ha parlato come uomo del suo tempo, con modi
espressivi che erano legati ad un contesto e, perciò, non validi letteralmente a priori
per ogni altro contesto. Prendiamo la famosa frase di S.Paolo: “Le donne tacciano in
assemblea”. Se uno facesse una lettura letterale direbbe che nessuna donna può
parlare in un’assemblea, nemmeno leggere una preghiera dei fedeli. Ma noi comprendiamo
che quella lettera è stata scritta da un uomo che viveva in un contesto storico e che
Dio non ha voluto che la verità salvifica annunciata fosse direttamente il silenzio
delle donne in assemblea, bensì una compostezza nella liturgia che non creasse scandalo
rispetto alla mentalità dell’epoca. Quindi le donne, cambiato questo contesto,
possono tranquillamente leggere nell’assemblea. Quello che Paolo voleva trasmettere
è il senso della dignità dell’assemblea liturgica, l’equilibrio e
tante altre cose.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi
letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario
modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione.
Siccome è l’uomo che scrive, ma è Dio che di lui si serve, dobbiamo
stare attenti nel considerare se quell’uomo scriveva con lo stile della poesia, o della
cronaca storica, o del genere profetico, ecc. ecc.. Quando si presenta un testo della
Scrittura nella fede, bisogna fare attenzione a questo. Quando noi leggiamo ai bambini:
“Dio ha creato il mondo, primo giorno, secondo giorno, terzo giorno fino al settimo, lo
shabbat nel quale si è riposato”, noi non stiamo leggendo un testo scientifico, ma
un testo che ha un valore poetico, sapienziale. E’ come una poesia, un testo che descrive
la meraviglia dinanzi al Creatore. Noi non insegneremo perciò che Dio ha fatto il mondo
in sette giorni, ma non staremo neanche zitti. Non è che, siccome è un testo
poetico, noi lo trascuriamo e non lo leggiamo. Noi lo leggiamo perché è uno dei
testi più belli che siano mai stati scritti dall’umanità. Lo commenteremo
dicendo che subito, fin dalla prima pagina della Genesi, Dio vuole insegnarci la divisione
della settimana in sette giorni, secondo una scansione del tempo che abbia come culmine la lode
di Dio, nel giorno a Lui dedicato: l’uomo è fatto per lodare Dio. Un uomo che
lavori sempre e mai si fermi a ringraziare il Creatore ed a celebrare la comunione con Lui
sarebbe un “maledetto”, uno che ha sbagliato tutto della vita. L’uomo deve
arrivare a riposarsi, a dormire, a ringraziare il Signore, a lodarlo, ad essere felice della
sua presenza. Già dal primo capitolo l’autore biblico, ispirato da Dio, ha voluto
manifestare la pace di Dio stesso, mentre creava. A maggior ragione l’uomo che lavora,
deve fermarsi a lodarLo, a ringraziarLo. Se noi capiamo che non è un testo scientifico,
che non è un testo storico, che non è in disputa con Darwin, capiamo che è
un testo che ha un suo significato all’interno di una logica che va portata alla
luce.
Dobbiamo fare questo lavoro che ci aiuta a capire lo spessore umano di un testo ed, attraverso
di questo, il suo significato voluto da Dio ispiratore di quel testo. Non bisogna aver paura di
dire che questo testo, essendo scritto da un uomo, è legato al tempo ed all’autore
che lo ha scritto.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla
luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza
il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e
all'unità di tutta la Scrittura,
Questa è un’altra affermazione chiave, che ci riporta alla specificità e
profondità cattolica nell’interpretare la Scrittura. Se, da un lato, il lettore
della Bibbia deve fare attenzione alla mentalità, allo stile, alla conoscenza storica e
geografica dell’autore di quel tempo, dall’altro, non deve mai dimenticare che
è lo Spirito lo ha ispirato. E lo Spirito ha ispirato non un solo brano della
Scrittura, ma tutto l’insieme di essa. Per questo quel brano fa parte di un disegno
unitario di tutta la Scrittura: la Scrittura è una. Il catechista, lo studioso, il
vescovo, vedono l’unità di questo testo. Esso è molteplice, scritto da
molte mani umane, ma unitario, uno, nel suo complesso, perché ispirato dallo Spirito che
è uno, secondo il disegno del Padre che è uno, perché rivelasse la Parola
di Dio, il Figlio, che è uno.
Ecco il rapporto fra Antico e Nuovo Testamento che è caratteristico della Bibbia
cristiana. Non posso io fermarmi, nell’interpretazione della Bibbia, solamente a
ciò che il suo autore umano coscientemente voleva dire e capiva nel momento in cui ha
scritto quelle parole. Facciamo un esempio. Quando Isaia dice: “La vergine
concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà l’Emmanuele”,
probabilmente Isaia non aveva la minima idea di Maria. A Isaia non era così chiaro che
il Figlio di Dio si sarebbe incarnato. Non posso entrare nei particolari, ma, come abbiamo
già visto il testo ebraico è passato poi nella traduzione greca dei LXX ed, in
questa traduzione, è stato utilizzato dagli scrittori del Nuovo Testamento. Matteo, nel
suo vangelo, rilegge il testo di Isaia, comprendendone il suo pieno significato, come profezia
del Dio in mezzo a noi, la presenza di Gesù fra gli uomini, per opera di una vergine,
Maria. Ha capito ciò che Dio ha voluto ispirare ad Isaia, in un “senso più
pieno”. Questo modo di leggere la Bibbia – il “sensus plenior”
– è fondamentale nella fede cattolica. Leggete su questo la scheda
sull’interpretazione cristiana della Bibbia che vi ho suggerito nella bibliografia. Se
anche Isaia non era pienamente cosciente di quello che diceva, era, però, ispirato da
Dio e, soprattutto, lo era Matteo che, anche lui guidato dallo Spirito e dall’esperienza
di Gesù, ha riletto quell’antico testo in una luce nuova. La lettura cristiana
dell’Antico Testamento non è una invenzione della Chiesa successiva, ma è
il modo di leggere la Scrittura che è stato proprio di Gesù – che leggeva
l’Antico Testamento come una preparazione della sua venuta – ed è il modo di
leggere della Chiesa primitiva. Così fanno gli evangelisti, così Paolo: per loro
è evidente che l’Antico Testamento non parla solo di fatti antichi, ma parla di
Cristo stesso.
Se io mi fermassi a dire che Isaia non sapeva tutto lo sviluppo della fede e mi limitassi a
leggere i suoi versetti solo nel significato che avevano coscientemente nella sua mente, io
starei distruggendo l’unità della Scrittura. Alcuni vorrebbero fare solo questo
lavoro: leggere Isaia e studiare ciò che Isaia ha detto coscientemente. Questo è
necessario – torniamo ad Isaia come vero autore di quel testo – ma, se lasciato a
se stesso e non completato da una lettura nell’unità della Bibbia, diviene
parziale. Lo stesso potremmo dire, per fare un secondo esempio importantissimo – ma
potremmo moltiplicare all’infinito gli esempi – per la lettura di Genesi 2-3. Noi
dobbiamo leggere questi testi alla luce dei paralleli del Vicino Oriente antico, ma anche alla
luce di S.Paolo che, nella lettera ai Romani, commenta questo testo a partire dalla
consapevolezza che Cristo è morto per tutti, perché tutti sono peccatori. Se
qualcuno non fosse stato peccatore, non avrebbe avuto bisogno della morte di Cristo per lui.
E’ il Cristo, con la sua morte per i peccati, che diviene la chiave di lettura per capire
il peccato originale, il peccato che ha condizionato tutti gli uomini!
Il compito del catechista è, sempre, quello di mostrare l’unità della
Scrittura, come Dio abbia preparato una storia che, arrivata al suo compimento, manifesta tutta
la sua ricchezza, la sua grandezza e la sua bellezza. Prendiamo un esempio della nostra
vita che ci può aiutare – pur sapendo che è solo un paragone. conoscete
sr.Mimma, una delle suore Pastorelle, che giovedì farà la professione perpetua.
Sicuramente ci sarà qualcuno dei parenti che dirà: “Io la conosco da
sempre, da quand’era piccola. Quando aveva cinque anni, l’ho vista che pregava in
Chiesa, mi ha colpito come era disponibile, come sorrideva. Si capiva, già allora, che
sarebbe diventata una suora”. In realtà se quella persona non avesse visto ora
sr.Mimma, non avrebbe mai detto la stessa cosa. La luce proiettata dall’evento di oggi,
ci fa rileggere tutto il passato. Ma, soprattutto, la storia di sr.Mimma è
un’unica storia, guidata da Dio che l’ha amata prima ancora che nascesse e poi nel
suo crescere. Dio ha guidato quella storia dall’inizio alla fine. Le ha fatto fare quella
piccola esperienza di preghiera, quell’esperienza di servizio, le ha fatto incontrare
quella persona o quella comunità che l’hanno aiutata a capire la sua vocazione.
Pian piano l’ha preparata, perché lei arrivasse a donarsi totalmente. Se noi
non vedessimo, però, la pienezza del giorno della sua decisione di farsi suora
rispondendo alla chiamata di Dio, non capiremmo il significati dei singoli brani della sua
storia, dei suoi incontri, delle sue esperienze.
Quando il Figlio, Gesù Cristo, è venuto in mezzo a noi, noi abbiamo letto in un
modo nuovo e più ricco, in un senso “più pieno”, tutta la storia che
aveva preparato l’evento dell’incarnazione.
Noi abbiamo ri-compreso, nello Spirito Santo, tutta una storia. Abbiamo compreso
l’unità del disegno di Dio.
Noi crediamo che la storia sia una trama tessuta da tanti fili che, quando “il tempo
è compiuto”, ci svela tutto il disegno. Allora Isaia era vero uomo, ma
veramente Dio gli diceva di annunziare un concepimento, che poteva anche essere la nascita di
un figlio nella famiglia del re di allora, come segno del rinnovamento che Dio è sempre
capace di operare nella storia, senza che Isaia avesse la capacità e la preoccupazione
di comprendere tutto fino in fondo. Quando il tempo sarà maturo, Dio stesso avrebbe
inviato ancora un suo messaggero, l’evangelista, a mostrare il senso nascosto di
quell’annunzio.
Potete leggere i due documenti scritti dalla Pontificia Commissione Biblica –
composta da biblisti e teologi – con delle preziose introduzioni dell’allora
cardinal Ratzinger, che trattano della lettura cristiana della Bibbia oggi e dei suoi metodi.
Spiegano come un esegeta cristiano debba fare attenzione al metodo storico-critico ed, insieme,
debba leggere la Bibbia nello Spirito Santo. Mai una cosa senza l’altra. Trovate
un’espressione molto bella dell’allora card.Ratzinger che afferma che se un testo
volesse dire solo quello che voleva dire quando è stato scritto, ne nascerebbe come
conseguenza che l’Antico Testamento a noi non direbbe più nulla[10]. Sapete che ci sono stati autori
antichi, come Marcione - che è stato poi dichiarato eretico - che diceva: “Siccome
l’Antico Testamento non parla di Cristo, allora ne è autore un altro dio, nemico
di Cristo. L’Antico Testamento è opera di un dio cattivo, di un dio che conosce
solo la giustizia, il Nuovo Testamento è opera del Dio buono che ha mandato Gesù
ed in Lui ci ha rivelato la misericordia”. Siccome non leggeva l’AT in vista del
NT, ma come una cosa a parte, lo rifiutava, come una realtà diversa ed estranea, senza
relazioni con la venuta di Cristo. Invece l’AT che noi leggiamo ancora oggi è
un testo che spinge in avanti, che parla di qualcosa che si deve realizzare, che si protende
oltre di sé. Ed è solamente ciò che viene dopo, che lo farà
comprendere appieno.
I libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica,
acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc
24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.
E’ quello che abbiamo appena visto. La Scrittura è costituita da un rapporto tra
AT e NT, perché l’AT si capisce veramente e solamente quando c’è il
NT, ma il NT aiuta a capire quanto è ricco l’AT. Si illuminano a vicenda.
Qui si potrebbero aprire delle parentesi enormi e di grandissimo interesse – che,
però, dobbiamo subito chiudere per ragioni di tempo - a livello di dialogo
interreligioso, per esempio con l’ebraismo. Noi chiediamo solo di poter affermare che la
nostra lettura è una lettura possibile. Quando i Profeti affermano che ci sarà un
momento nel quale tutti i popoli conosceranno la legge di Dio, la legge data ad Israele, noi
cristiani crediamo che veramente Dio ha dato i Dieci comandamenti ad Israele – e noi
studiamo lungamente ogni particolare del testo ebraico dei comandamenti e tutti i bambini del
catechismo studiano i Dieci comandamenti – ma crediamo insieme che, nella venuta di
Gesù e attraverso l’opera della Chiesa, Dio ha compiuto la sua promessa che la sua
Legge sarebbe divenuta legge per tutti i popoli.
Ma noi cristiani non perdiamo mai l’amore a questo testo, a questa Bibbia così
come è stata scritta, all’Antico Testamento, nella sua letteralità.
E’ veramente la Parola di Dio. E qui si palesa la differenza del dialogo
cristiano-ebraico rispetto al dialogo cristiano-islamico. L’Islam riprende alcuni
personaggi della Bibbia – circa una ventina, gli altri sono ignorati – ma rifiuta
il fatto che Dio abbia ispirato la Bibbia. Nell’Islam troviamo Abramo, ma anche
l’affermazione che ciò che si dice nella Bibbia di Abramo non corrisponde a
verità. Non solo la Bibbia non è interessante, per la concezione islamica, ma,
soprattutto, è menzognera. La vera storia di Abramo è quella scritta nel Corano.
Abramo, Mosè, Giovanni Battista, Maria sono sì personaggi ricordati nel Corano,
ma hanno una identità diversa da quella biblica. Innanzitutto non sono ebrei, per la
visione coranica. Sono semplicemente “credenti”. Soprattutto è la loro
storia ad essere diversa. Il caso più clamoroso – lo sapete – è
proprio quello di Gesù, che è considerato un profeta, ma, secondo l’Islam,
non è mai morto in croce. La morte in croce è una invenzione dei cristiani;
Gesù è asceso in cielo, assunto da Dio, senza mai essere stato crocifisso. Ma non
è solo il Gesù del Nuovo Testamento ad essere rifiutato. E’ tutta la storia
della salvezza, così come è descritta nella Bibbia ed è la lettera
dell’Antico Testamento che non è Parola di Dio.
Per noi cristiani, invece, la Scrittura non si può cambiare. La si interpreta a
partire da Cristo, ha delle potenzialità che si manifestano nella loro verità
solo quando arriva Cristo, ma il testo è veramente ed oggettivamente quello degli
ebrei. Dio ha rivelato la sua Parola nell’ANtico Testamento e Lui è
l’autore del testo che noi abbiamo ricevuto dal popolo ebraico e che il popolo ebraico
custodisce. Non se ne può aggiungere, né togliere “un apice o uno
iota”, come ha insegnato Gesù. La Bibbia allora è una base del dialogo fra
ebrei e cristiani – almeno nella sua prima parte, quella che noi chiamiamo Antico
Testamento. La Bibbia non è, invece, una base di dialogo accettata dall’Islam,
perché gli islamici non la leggono, non la conoscono e non la amano.
Vediamo ora alcune affermazioni del V capitolo della DV:
I quattro Vangeli sono di origine apostolica.
Questa affermazione è importantissima. Secondo la tradizione noi usiamo definire i
vangeli chiamandoli: “secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni”. Questo
“secondo” in greco si dice “katà”. E’ un’espressione
antichissima di difficile traduzione. Si potrebbe rendere con “secondo lo stile
di”, “alla maniera di”. Noi abbiamo sempre la stessa storia di
Gesù, ma “secondo uno stile”, con delle peculiarità proprie di uno o
di un altro degli evangelisti. Una persona si ricorda delle cose, un’altra se ne ricorda
altre. La Dei Verbum non prende posizione su chi siano gli autori storici dei vangeli. Matteo
è l’apostolo Matteo o non è lui? La DV non risponde a questo quesito e lo
lascia agli esperti. Se uno sostiene che il vangelo di Matteo non l’ha scritto
l’apostolo Matteo non è un eretico. Si può sostenere che gli effettivi
autori dei vangeli non siano coloro dei quali la tradizione ci ricorda i nomi. Non è
fuori dalla Chiesa chi volesse sostenere questo. Quello che la DV impegna a credere è
che, chiunque sia l’autore di ogni vangelo, tutti i vangeli sono “di origine
apostolica”. La Chiesa tiene a questo, la Chiesa chiede di credere questo. E’
la sua fede e la sua convinzione. Se anche non sono stati scritti dagli apostoli, sono stati
scritti in comunità presiedute da apostoli che hanno conosciuto questo processo di
scrittura, ne sono stati all’origine e ne sono stati garanti. Ciò che è
scritto nei vangeli è veramente ciò che gli apostoli hanno garantito. I vangeli
sono lo specchio della predicazione apostolica, anche se non li avessero scritti gli apostoli
personalmente.
Se voi prendete la finale del vangelo di Giovanni, abbiamo un esempio chiarissimo: Gv 21,24.
Questo versetto dice: “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi
fatti e li ha scritti, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”. Ma chi
sono questi “noi”, se il vangelo lo ha scritto solo Giovanni? Se troviamo scritto:
“Io, don Andrea, scrivo la storia della parrocchia di S.Melania e noi sappiamo che quello
che ha scritto don Andrea è vero”, chi ha scritto questo? E’ chiaro che
c’è stato un intervento di qualcun’altro. Evidentemente questo versetto
l’ha scritto qualcuno che non era Giovanni. Si può discutere su chi sia
l’autore dell’intero vangelo di Giovanni, ma questo versetto non è
sicuramente di Giovanni. La cosa importante è che la Chiesa crede che anche questo
versetto è di origine apostolica. Giovanni o gli altri apostoli erano contenti che
questo versetto fosse inserito nel vangelo di Giovanni. Essi, guidando le prime comunità
ed insegnando loro, hanno fatto sì che esse recepissero il loro insegnamento e lo
trasmettessero ancora. Un secondo esempio: sapete che il vangelo di Marco ha varie finali.
Nella tradizione manoscritta, nei differenti Codici che ci sono arrivati, incontriamo almeno
tre finali diverse. A noi non fa problema. Noi sappiamo che la finale che sta nella Bibbia
canonica, nella Bibbia stabilita infine dal Concilio di Trento, è di origine apostolica.
Secondo me non l’ha scritta Marco ma un’altro autore, ma questo non è un
problema. Quello che la Chiesa non può accettare è che qualcuno dica che la
finale di Marco non l’abbia scritta qualcuno che non era interno alla cerchia
dell’obbedienza agli Apostoli e che non rispecchi l’insegnamento degli apostoli.
Insomma, anche la finale canonica di Marco, Mc16,9-20, è “di origine
apostolica”, anche se non sappiamo con precisione chi l’abbia scritta.
Ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in
seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia
tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme
secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Ed, ancora, al paragrafo 19:
La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza
che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità,
trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini,
effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui
fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2).
L’inciso di cui afferma senza esitazione la storicità è stato
espressamente voluta da Paolo VI. Fa capire dove questo testo vuole arrivare. Il testo
vuole dire che i vangeli sono, proprio perché di origine apostolica, un documento serio,
una fonte storica seria per conoscere la vita di Gesù Cristo e la sua identità.
Tre passaggi sono particolarmente importanti in questo paragrafo: si parla innanzitutto di
Gesù Figlio di Dio, poi degli Apostoli, poi degli Ascoltatori che divennero Autori
sacri. All’interno degli ascoltatori ci sono gli agiografi o autori sacri.
Questo testo vuol dire che il NT nasce da un triplice passaggio. Gesù non ha mai
scritto il NT. Gesù non è uno scrittore, non ha mai scritto niente. Lui ha
chiamato gli Apostoli, ha vissuto con loro, ha insegnato, ha compiuto miracoli dinanzi a loro,
per loro, con loro. E’ stato tradito, è morto, è resuscitato, ha donato lo
Spirito.
Secondo passaggio: gli Apostoli hanno predicato ciò che Gesù
effettivamente ha operato e insegnato. Essi sono stati testimoni fino al giorno della sua
assunzione al cielo ed hanno raccontato secondo verità ciò di cui sono stati
testimoni.
Terzo passaggio: gli autori sacri ci presentano con verità ciò che gli
apostoli hanno testimoniato di Gesù. Per i libri neotestamentari che sono direttamente
opera di apostoli questo va da sé, dato il passaggio precedente. Per gli autori sacri
che non sono stati testimoni diretti di Gesù, ma sono stati ascoltatori degli apostoli,
la DV afferma la loro veridicità. Hanno ascoltato, hanno rispettato ciò che gli
apostoli hanno detto, perché lo avevano ricevuto dal Signore e non poteva essere
alterato.
Questo triplice passaggio, che ci fa vedere quanto breve e verificabile sia il tempo che
intercorre tra Gesù e gli autori sacri, è descritto in maniera esplicita in Lc
1,1-4. Luca è l’unico evangelista che ci spiega come ha scritto il
vangelo:
Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di
noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero
ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni
circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre
Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti
che hai ricevuto.
Qui Luca presenta se stesso. Dice che ci sono tanti che hanno scritto su Gesù –
questo “tanti” non va interpretato, secondo molti esegeti, alla lettera, ma vuol
dire piuttosto “alcuni”. Luca, volendo essere sicuro e volendo che anche Teofilo
fosse sicuro (non sappiamo se qui Teofilo sia un nome proprio o un modo generico per parlare a
tutti i cristiani, “amici di Dio”, poiché questo significa letteralmente
Teofilo, “amico di Dio”) di quello che realmente è avvenuto ha fatto
ricerche per stendere un resoconto ordinato dei fatti.
Ha fatto ricerche presso coloro che furono testimoni dei fatti e sono divenuti testimoni della
parola. Luca rappresenta il terzo passaggio che abbiamo visto: è un autore sacro. Si
è rivolto a coloro che hanno vissuto con Gesù , a coloro che lo hanno predicato,
dopo averne ricevuto mandato dallo stesso Gesù. E’ il secondo passaggio, quello
degli apostoli.
Gli apostoli, a loro volta, hanno riferito su Gesù, essendone stati veri testimoni. Essi
hanno visto, udito, toccato il Signore. Eccoci all’origine, al primo passaggio che ci fa
risalire dagli apostoli a Gesù stesso. E’ per questo che Teofilo può essere
sicuro di ciò che ha ricevuto e crede.
La Chiesa afferma che in tutto questo procedimento è garantita l’origine
apostolica. Può anche darsi che Luca non abbia mai visto Gesù, ma questo non
è un problema, perché Luca è un ascoltatore degli Apostoli che potevano
intervenire a garanzia della corrispondenza tra quello che veniva scritto e quello che
Gesù aveva detto.
Cosa hanno fatto, allora, gli autori sacri, come veri autori dei vangeli?
Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose.
Prima affermazione interessante: rintracciamo il loro stile proprio nel fatto che scrivendo
un racconto non hanno potuto scrivere tutto, ma ognuno ha scelto e scritto solo qualcosa.
Nella catechesi provate a fare una prova con i bambini: raccontate una cosa e fate fare un
riassunto e poi leggete tutti i riassunti. Vedrete che ognuno ricorda dei particolari che gli
altri hanno trascurato, perché hanno scelto di raccontare quella cosa che li ha
più colpiti piuttosto che un altra. Ogni racconto è un vero racconto di quella
cosa, ma i particolari scelti dipendono dalla prospettiva, dal punto di vista. Nessuno
può raccontare tutto, interamente, tanto più quando la storia ha la ricchezza
infinita della persona di Gesù. poi c’è lo Spirito Santo che lo ispira.
Seconda cosa: gli autori sacri hanno fatto un riassunto.
Redigendo un riassunto
Nei Vangeli noi non troviamo un libro di storia, una cronaca che ci descrive ora per ora. Il
riassunto è a volte molto compresso. Facciamo un esempio: nei vangeli di Luca, Matteo e
Marco, Gesù va a Gerusalemme solo una volta. Se uno leggesse solo il vangelo di Marco
potrebbe dedurre che Gesù è stato una volta sola a Gerusalemme. Il vangelo di
Giovanni, però, ci racconta di tre Pasque di Gesù a Gerusalemme - i famosi
trentatre anni di Gesù che vanno considerati approssimativi sono il risultato della
somma dell’età nella quale Gesù inizia la sua vita pubblica, secondo Luca
circa all’età di trent’anni, più i tre anni nei quali si reca a
Gerusalemme, secondo il vangelo di Giovanni. Questo fatto ci mostra che i vangeli riassumono. I
sinottici hanno riassunto la vita di Gesù, non raccontandoci le altre sue
“salite” a Gerusalemme. Può darsi che Gesù sia stato quattro volte a
Gerusalemme e questo non sia stato raccontato.
Spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese.
Questo è un altro aspetto interessantissimo. Gli autori sacri non hanno scritto in
astratto, ma hanno cercato di presentare il volto di Gesù in modo che fosse
comprensibile ai loro ascoltatori, che erano diversi per ogni evangelista. Faccio un
esempio: le parole di Gesù sul divorzio.
Ai tempi di Gesù tutti potevano divorziare, ma solo i maschi, non le donne.
L’inventore dell’indissolubilità del matrimonio è veramente
Gesù! Può piacere o non piacere, ma non è la Chiesa che si è
inventata l’indissolubilità del matrimonio, ma è una decisione che ha un
motivo teologico, che ha origine in Gesù e nella sua esplicita parola.
Gesù dice, ad esempio in Mt 5,31-32:
Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi
dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone
all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Però, come spiegavo, nella società nella quale viveva Gesù, era solo
l’uomo che poteva divorziare. Se voi guardate bene, vi accorgete che, in Matteo, si parla
solo della donna ripudiata, perché l’uomo non può essere ripudiato. I
rabbini dei tempi di Gesù discutevano sui motivi per i quali si poteva divorziare;
cercavano di interpretare il passo del Deuteronomio dove si dice che si può ripudiare la
donna se la si trova a commettere una “cosa riprovevole”. Ma cos’è una
“cosa riprovevole”? I rabbini rigoristi, come Hillel, sostenevano che il divorzio
è ammesso se si trova la propria moglie con un altro uomo, in flagrante adulterio. I
rabbini lassisti, come Shammai, dicevano invece che è sufficiente che la moglie bruci
l’arrosto. Bruciare l’arrosto, non saper cucinare è una “cosa
riprovevole”. Gesù parla chiaramente, invece, dell’impossibilità
morale di ripudiare la moglie.
Marco scrive il vangelo probabilmente a Roma o comunque in un ambiente latino e nel suo vangelo
troviamo Gesù che dice in Mc10,112:
Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio.
Gesù questa frase non l’ha mai detta. Marco ha capito - è già la
tradizione che interpreta, guidata dallo Spirito, le parole di Gesù - che Gesù
teneva all’amore fedele tra uomo e donna, e siccome, nell’ambiente marciano anche
le donne potevano divorziare, Marco attira l’attenzione sul fatto che il divieto del
divorzio non vale solo per gli uomini, ma anche per le donne. Marco ha capito in
profondità il discorso di Gesù e l’ha insegnato “con riguardo alla
situazione delle chiese”. Nel Vangelo noi non troviamo così sempre esattamente le
parole di Gesù, ma parole che sono fedele interpretazione delle sue parole. Il lavoro
che la Chiesa primitiva ha fatto è stato quello di comprendere ed applicare
l’annuncio di Gesù nelle varie situazioni delle persone che pian piano diventavano
cristiane e delle loro comunità.
Conservando infine il carattere di predicazione.
I Vangeli non sono una cronaca. Se io devo scrivere un articolo su di una rivista di storia
devo mettere le note, debbo citare le fonti, passaggio per passaggio. I Vangeli hanno il
carattere della predicazione. In alcuni momenti l’autore, per opera dello Spirito
Santo, annunzia una cosa e non si preoccupa della precisione di tutti i particolari. Un esempio
classico: Gesù in un vangelo a Gerico guarisce un cieco, in un altro ne guarisce due.
Quanti erano in realtà? Non lo sappiamo. Da questo punto di vista chi critica i vangeli
ha ragione. Ma noi sappiamo benissimo che all’evangelista interessava dire che nel
guarire dalla cecità Gesù annunziava che lui era la luce del mondo. I criteri di
storicità ci aiutano, li vedremo poi se ci sarà tempo, a vedere come comportarci
nella ricostruzione storica in casi come questi.
Quando noi risaliamo da ciò che dice l’autore sacro a ciò che diceva
Gesù facciamo un lavoro complesso. Non dobbiamo prendere per oro colato ogni singola
parola che viene detta nei vangeli, come fosse cronaca. Per fare un lavoro storico dobbiamo
lavorare un po’ di più. Per alcune cose arriveremo ad una conclusione, per altre
potremmo anche restare incerti. Ma non ci dobbiamo scandalizzare. Gli autori volevano
annunziare ed i vangeli conservano sempre il carattere di predicazione, pur basandosi, nella
loro origine apostolica sul fondamento storico della persona di Gesù e della sua reale
esistenza storica.
Sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere.
Detto tutto questo però la DV ci tiene a dire che in sostanza i vangeli, proprio per
questa vicinanza e questa autorità degli Apostoli, realmente ci trasmettono tutto
l’essenziale della storia di Gesù. E’ importante sapere che i generi
letterari: poesia, profezia, storia, valgono anche nel NT. Per esempio i primi due capitoli di
Matteo e Luca non sono esattamente storici come il resto del vangelo. Alcune persone hanno dei
dubbi storici su alcuni episodi di questi capitoli e questo non ci deve scandalizzare. Gli
autori in questi brani hanno fatto una rilettura sapienziale di alcuni brani dell’AT. Non
è importante allora verificare, ad esempio, qual è il percorso della stella
cometa. Quando invece si dice che Gesù fu giudicato sotto Ponzio Pilato, fu accusato di
dirsi Figlio di Dio e lui rispose: “Lo sono”, lì veramente troviamo la
consapevolezza propria del Gesù storico.
Cenni di cronologia neotestamentaria
Siamo al termine dei nostri tre incontri sulla teologia fondamentale. Vi ho preparato due
schede che leggerete con calma. Mi posso limitare solo ad alcuni accenni sulle problematiche
che affrontano, di grande importanza. Per darvi ulteriori elementi sulla storicità dei
vangeli, vi presento in una scheda alcuni dati sulla cronologia del Nuovo Testamento,
perché vi possiate rendere conto di quanto i testi che possediamo siano vicini agli
eventi che ci narrano. Nella seconda scheda vi presento in forma sintetica le conclusioni degli
studi di p.R.Latourelle sui criteri che ci aiutano a verificare la storicità dei fatti
narrati sulla vita di Gesù Cristo.
Innanzitutto due cenni sulla cronologia. Ho fatto un elenco di alcune date abbastanza
sicure del NT. Sapete che Gesù è nato sotto l’imperatore Ottaviano
Augusto ed è morto sotto Tiberio. Ponzio Pilato è un governatore di
Tiberio. Probabilmente Gesù è nato tra il 6 ed il 4 a.C. Il nostro anno zero,
a partire dal quale contiamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo” è
una data approssimativa, per l’errore compiuto da Dionigi il piccolo (VI secolo d,C.) che
ha commesso alcuni errori di calcolo nella cronologia che è divenuta poi quella usuale.
Infatti sappiamo con certezza che Erode il Grande è morto il 4 a.C. e, poiché
Gesù è nato sotto il suo regno, deve essere nato qualche anno prima della morte
di Erode il Grande. Erode è detto “il Grande” – ci sono altri due
Erode nella storia neotestamentaria - per la grandiosità delle costruzioni da lui
realizzate. La grande spianata del Tempio di Gerusalemme l’ha fatta costruire lui ed
è stato autore anche del completo rifacimento del Tempio stesso, che non possiamo
più vedere perché è stato distrutto dai romani. Recandoci, però, al
cosiddetto “Muro del pianto” vediamo che le pietre alla base sono ancora quelle
erodiane e comprendiamo la magnificenza che doveva avere questo edificio.
Di Giovanni Battista ci parlano non solo i vangeli, ma anche altre fonti ebraiche. Flavio
Giuseppe ci racconta la storia di Giovanni con particolari non raccontati dai vangeli. Di
sicuro la predicazione di Giovanni Battista si svolge tra il 27 ed il 29 d.C. Vi consiglio
in bibliografia uno splendido testo del prof. Romano Penna, che presenta ed analizza tutti i
testi su Gesù e le informazioni che conosciamo sull’ambiente del tempo, che
possiamo desumere da fonti non cristiane.
Intorno al 30 - non possediamo, però, la data precisa - Gesù viene ucciso.
Sappiamo con certezza che la sua morte avviene sotto Ponzio Pilato, che è stato
governatore della Giudea dal 26 al 36 d.C. Pensate che nel Credo, quando diciamo
“patì sotto Ponzio Pilato” parliamo di un pagano, di un romano, nel dire la
nostra fede, proprio a significare la concretezza storica della fede cristiana.
E’ una cosa straordinaria del cristianesimo.
Gesù viene ucciso per volontà del Sinedrio perché si fa Figlio di
Dio. La critica sta facendo giustizia di tutte quelle interpretazioni che sono andate di
moda per qualche decennio che affermavano che Gesù era stato ucciso perché era un
rivoluzionario politico, perché stava dalla parte dei poveri, perché il potere
politico aveva paura di lui e di una possibile sollevazione popolare al suo seguito. Quello che
non si sopportava, piuttosto, era il suo vivere, parlare e comportarsi come l’interprete
autentico della volontà di Dio. Pertanto, la condanna di Gesù è veramente
una decisione dei capi del Sinedrio. Pilato – il politico che difende gli interessi di
Roma – pur accorgendosi che nessun problema politico gli deriverebbe dal messaggio di
quell’uomo, pur volendo per questo salvarlo a norma del diritto, decide di condannarlo
perché il malcontento provocato dalla non ottemperanza ad una richiesta del Sinedrio
– questo sì – avrebbe creato moti popolari. L’appello a Pilato
è comprensibile secondo lo speciale statuto giuridico del Sinedrio di allora, che aveva
sì autonomia sulle questioni religiose della popolazione ebraica, ma non poteva
condannare nessuno a morte, senza l’autorizzazione del potere romano che si incaricava
dell’esecuzione di queste sentenze.
In molti film vediamo, in maniera non storica, i romani cattivissimi, una sorta di SS ante
litteram. Questo non è vero. Pilato non era uno stinco di santo – ne abbiamo
notizia da altri brani del NT e da fonti extra bibliche – ma, globalmente, lo stile
romano era quello di governare attraverso il diritto. Siccome tragicamente in passato talvolta
i cristiani hanno accusato gli ebrei tout court della morte di Cristo e questo è stato
motivo di odio anti-ebraico, ora si dà la colpa di tutto ai romani, per evitare quei
sentimenti. Il vero modo di non attribuire la responsabilità della morte di Gesù
al popolo ebraico, non sta nell’attribuirne la colpa ai romani, ma piuttosto, nel vedere
come non sia stato il popolo a volere questo, ma solamente il Sinedrio, e, soprattutto, nel
comprendere che Cristo è morto per il peccato di tutti gli uomini, per il nostro peccato
e non solo per il peccato di chi lo ha condannato in quel momento.
Un’altra data importante è il 40 d.C. In quell’anno muore il re Areta IV,
re nabateo che aveva la capitale a Petra. Probabilmente – c’è
discussione fra gli storici – almeno uno dei famosi templi di divinità nabatee di
Petra è stato scolpito nella roccia per ordine di Areta IV. Poiché S.Paolo
fugge da Damasco prima che muoia Areta, prima del 40, la sua conversione è da porsi
negli anni precedenti, probabilmente intorno al 36 d.C.
Funge da riferimento cronologico per noi anche un altro importantissimo evento di cui ci
è testimone Svetonio, nelle Vite dei Dodici Cesari. Sotto l’imperatore Claudio
- questo è un dato straordinario - già i cristiani a Roma fanno discutere.
Svetonio scrive, infatti, che a Roma si litigava nelle sinagoghe “a motivo di uno che
spingeva alla tensione di nome Cresto” – “impulsore Chresto”
dice il testo delle Vite dei Cesari. Per il fenomeno linguistico dello iotacismo –
l’interscambio dei suoni “e” ed “i” – la maggioranza degli
studiosi ritiene, credo a ragione, che Chresto sia Cristo. Svetonio, non conoscendo
precisamente la storia di Cristo, scambia l’annuncio degli evangelizzatori cristiani nel
nome di Cristo con la presenza viva dello stesso Cristo e attribuisce a lui la tensione che si
avverte a Roma negli ambienti giudaici. Siamo solo nell’anno 41 e già il nome di
Cristo è ben conosciuto a Roma nelle sinagoghe alle quali si rivolgevano i primi
cristiani. La discussione è talmente grande che l’imperatore Claudio decide
– ci dice Svetonio - di espellere gli ebrei da Roma. Probabilmente non si deve intendere
questa espulsione come un fatto generalizzato, ma come un intervento verso alcune persone.
Negli Atti degli Apostoli troviamo un riferimento a questa espulsione nella vicenda di Aquila e
Priscilla, compagni di evangelizzazione di Paolo, che furono cacciati da Roma sotto Claudio,
appunto.
Un’altra data certa – e decisiva per la cronologia paolina - è il
proconsolato di Gallione in Acaia precisamente a Corinto. Gallione è il fratello del
filosofo Seneca, a sua volta consigliere di Nerone, fino al suo ripudio, da parte
dell’imperatore che decreterà la sua morte. Gallione è in Acaia tra il 50
ed il 52 d.C. – possediamo delle fonti epigrafiche in merito. Siccome S.Paolo scrive la I
lettera ai Tessalonicesi prima dell’incontro con Gallione – la scrive da Atene,
subito prima di giungere a Corinto, dove sarà condotto innanzi a Galiione - siamo certi
che questa lettera è stata scritta prima della fine del 52, data dopo la quale
non avrebbe più potuto incontrare il proconsole. Possiamo così dire che,
probabilmente, la 1Tes è il più antico scritto del cristianesimo che ci sia
pervenuto integralmente.
Un altra data importantissima per la cronologia neotestamentaria è il 70, quando
Gerusalemme viene distrutta da Tito, figlio di Vespasiano. Tito dà alle fiamme anche
il Tempio che, da quel momento ad oggi, non sarà più in attività. E’
l’inizio del giudaismo, di una nuova fase della storia dell’ebraismo. Pensate che
fino al 70 d.C. a Gerusalemme c’erano ancora i sacrifici degli animali. Le guide
riconosciute del popolo non erano i rabbini, ma i sacerdoti, coloro che erano i custodi del
Tempio e celebravano i sacrifici. I testi del Nuovo Testamento nei quali si parla della
distruzione di Gerusalemme come di un evento già accaduto – pensiamo al vangelo di
Luca – hanno avuto la loro redazione finale dopo il 70. Si ipotizza per Luca una data
negli anni 80-85. I testi che, invece, ci descrivono il Tempio ancora in attività
– ad esempio, la lettera agli Ebrei che fa continuo riferimento alla liturgia cultuale ed
ai sacerdoti che officiano nel Tempio di Gerusalemme – sono, invece, certamente anteriori
all’anno 70.
Veniamo, in maniera ancora più sintetica, perché non abbiamo
più tempo, alla scheda che vi ho dato sui criteri di storicità che possiamo usare
per valutare l’attendibilità dei vangeli.
Come vi dicevo, mi rifaccio, in particolare alla sintesi del prof. R.Latourelle. Trovate
una spiegazione molto più esauriente nell’articolo dello stesso professore che
è on-line sul nostro sito, nella sezione Approfondimenti. Potete leggere anche
l’articolo del prof. G.Manicardi, anch’esso in bibliografia, per gli studi
successivi a quelli di Latourelle.
Gli storici, dunque, hanno elaborato quattro criteri di storicità più
significativi. Essi vanno usati in maniera convergente. Dove è possibile verificarli
tutti e quattro, il grado di attendibilità storica di un fatto o di un’espressione
di Gesù è altissimo.
Il primo criterio è il criterio di molteplice attestazione: se troviamo
raccontato un fatto od una parola della vita di Gesù in vari testi indipendenti tra loro
il testo deve essere considerato storico. La specificazione che i vari testi debbono essere
indipendenti tra loro dipende dal fatto che sappiamo che i tre vangeli sinottici si conoscono
l’un l’altro. Se troviamo, allora, attestato lo stesso fatto in Marco e Luca non
possiamo applicare questo criterio, perché i testi dipendono l’uno
dell’altro. Ma se troviamo lo stesso fatto nei sinottici, in Giovanni e nelle lettere
paoline – testi che sono indipendenti l’uno dall’altro – allora
possiamo applicare questo criterio.
Il secondo criterio è quello di discontinuità: ci sono cose che sono
così nuove rispetto all’ebraismo del tempo ed al mondo ellenistico di allora che
questi fatti sono allora propri di Gesù. Pensate a quando Gesù dice:
“Questo è il mio sangue”. E’ un’affermazione scandalosa per
l’ebraismo di allora. Il sangue non si può dare agli altri; il sangue, essendo la
vita stessa, rende impuro chi viene a contatto con esso. Il sangue è intoccabile. Ecco
una parola certa di Gesù, la parola dell’istituzione dell’eucarestia.
Possiamo applicare ad essa il criterio di discontinuità ed, insieme, quello di
molteplice attestazione, perché troviamo l’istituzione dell’eucarestia nei
sinottici ed in Paolo, oltre che indirettamente, in Giovanni.
Il terzo criterio è quello di continuità: un fatto, una parola, pur
essendo propria di Gesù deve essere inserita nel contesto del suo tempo. Se trovassimo
un versetto che ci parla di un computer, sarebbe chiaramente un testo scritto ai nostri giorni.
Questo criterio è così legato al precedente. Noi vediamo che, proprio
perché il sangue esprime la vita stessa nel contesto ebraico di allora, Gesù
può riprendere questa espressione conferendole un suo significato proprio.
Il quarto criterio è quello della spiegazione necessaria: alcuni fatti raccontati
dai vangeli sono necessari per motivare fatti successivi dei quali siamo certi. La
cancellazione della realtà di questi fatti renderebbe incomprensibile lo svolgersi
successivo degli eventi. Come è possibile che delle persone che non credevano alla
resurrezione, che si allontanano piangendo da Gerusalemme, che vanno a piangere Gesù
morto, che sono chiusi in casa per paura delle persone ostili a Gesù, vadano a farsi
uccidere, se Gesù è solo un cadavere? C’è un elemento che è
necessario a questa trasformazione: l’evento delle apparizioni.
Esistono poi dei criteri derivati che sono lo stile di Gesù,
l’intelligibilità interna del racconto, l’interpretazione diversa in un
accordo di fondo, ma di questo non abbiamo più tempo di parlare. Approfondite tutto
questo con la lettura della breve scheda e, soprattutto, con gli articoli che vi ho
consigliato.
Voglio concludere con una bellissima e fortissima espressione della DV che, citando S.Girolamo, dice, al paragrafo 25, per raccomandare la lettura delle Scritture a tutti i cristiani ed, in particolare, a chi ha un ministero di annuncio e di catechesi: “L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Se Cristo è ben più delle Scritture, le Scritture sono via indispensabile per arrivare a Lui. Chi non le ama, non le scruta, non le conosce, non le prega, non le ascolta, non arriva a Gesù. Amate la Scrittura ed insegnate ad amarla. Attraverso la catechesi fate che ogni persona sia abbondantemente nutrita con il cibo solido della Parola di Dio, fate che sia nutrito della Scrittura e della viva Tradizione della Chiesa, fate che non abbia cibi contraffatti o impoveriti, ma si nutra di tutta la ricchezza della Parola di Dio, per possedere Cristo stesso, la Parola del Padre.
N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nel corso di formazione per i catechisti
1. In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3). Perciò seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.
Natura e oggetto della Rivelazione
2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona (Seipsum revelare)
e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli
uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e
sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione
infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come
ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per
invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione
comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio
nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà
significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse
contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla
salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e
la pienezza di tutta intera la Rivelazione.
Preparazione della Rivelazione evangelica
3. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre
agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20);
inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò
se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li
risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere
umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza
nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di
lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per
mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e
vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso,
preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.
Cristo completa la Rivelazione
4. Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio
«alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb
1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti
gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv
1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini
», « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di
salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il
quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la
manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli,
e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio
dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la
testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del
peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in
quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da
aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore
nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).
Accogliere la Rivelazione con fede
5. A Dio che rivela è dovuta «l'obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr.
Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente
prestandogli «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» e
assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa
fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori
dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e
dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità».
Affinché poi l' intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo
stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni.
Le verità rivelate
6. Con la divina Rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso e i decreti eterni
della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, «per renderli cioè
partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana». Il
santo Concilio professa che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere
conosciuto con certezza con il lume naturale dell'umana ragione a partire dalle cose
create» (cfr. Rm 1,20); ma insegna anche che è merito della Rivelazione divina se
«tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla
umana ragione, può, anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da
tutti facilmente, con ferma certezza e senza mescolanza d'errore».
Gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo
7. Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di
tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio
altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e
da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di
ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni
divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione
orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla
bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai
suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i
quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa,
lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio
posto di maestri». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e
dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra
contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli
è (cfr. 1 Gv 3,2).
La sacra tradizione
8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri
ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi.
Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto,
ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per
iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa
una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto
contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così
la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le
generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello
Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro
(cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle
cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno
ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende
incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a
compimento le parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione,
le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega.
È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e
nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le
stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di
parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva
voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti
alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua
ricchezza (cfr. Col 3,16).
Relazioni tra la Scrittura e la Tradizione
9. La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti
tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in
certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è
parola di Dio (locutio Dei) in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito
divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio (Verbum
Dei) affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori,
affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente
la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la
certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e
l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e
riverenza.
Relazioni della Tradizione e della Scrittura con tutta la chiesa e con il
magistero
10. La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della
parola di Dio affidato alla Chiesa; nell'adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai
suoi Pastori, persevera assiduamente nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione
fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel
ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una
singolare unità di spirito.
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa,
è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è
esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è
superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato
trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente
ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico
deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da
Dio.
È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della
Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che
nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo
proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza
delle anime.
Ispirazione e verità della Scrittura
11. Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della
sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre
Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che
del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello
Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati
consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di
uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo
egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che
egli voleva fossero scritte.
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è
da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della
Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la
nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto «ogni
Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per
correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato
ad ogni opera buona» (2Tim 3,16-17).
Come deve essere interpretata la sacra Scrittura
12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana,
l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci,
deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio
è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi
letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in
vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione.
È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate
circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi
letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti
in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far
debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare
vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei
rapporti umani.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso
Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei
sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di
tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e
dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme,
alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura,
affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della
Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura,
è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino
mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.
La «condiscendenza» della Sapienza divina
13. Nella sacra Scrittura dunque, restando sempre intatta la verità e la santità
di Dio, si manifesta l'ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza, «affinché
possiamo apprendere l'ineffabile benignità di Dio e a qual punto egli, sollecito e
provvido nei riguardi della nostra natura, abbia adattato il suo parlare». Le parole di
Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell'uomo, come
già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece
simile all'uomo.
La storia della salvezza nei libri del Vecchio Testamento
14. Iddio, progettando e preparando nella sollecitudine del suo grande amore la salvezza del
genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo al quale affidare le promesse. Infatti,
mediante l'alleanza stretta con Abramo (cfr. Gn 15,18), e per mezzo di Mosè col popolo
d'Israele (cfr. Es 24,8), egli si rivelò, in parole e in atti, al popolo che così
s'era acquistato come l'unico Dio vivo e vero, in modo tale che Israele sperimentasse quale
fosse il piano di Dio con gli uomini e, parlando Dio stesso per bocca dei profeti, lo
comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e lo facesse conoscere con
maggiore ampiezza alle genti (cfr. Sal 21,28-29; 95,1-3; Is 2,1-4; Ger 3,17). L'economia della
salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova in qualità di vera
parola di Dio nei libri del Vecchio Testamento; perciò questi libri divinamente ispirati
conservano valore perenne: « Quanto fu scritto, lo è stato per nostro
ammaestramento, affinché mediante quella pazienza e quel conforto che vengono dalle
Scritture possiamo ottenere la speranza » (Rm 15,4).
Importanza del Vecchio Testamento per i cristiani
15. L'economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare
profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1 Pt 1,10) e a significare con diverse figure (cfr. 1
Cor 10,11) l'avvento di Cristo redentore dell'universo e del regno messianico. I libri poi del
Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere umano prima dei tempi della
salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e chi è l'uomo e il
modo con cui Dio giusto e misericordioso agisce con gli uomini. Questi libri, sebbene
contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina. Quindi i
cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in essi si esprime un vivo senso di Dio;
in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio, una sapienza salutare per la vita dell'uomo
e mirabili tesori di preghiere; in essi infine è nascosto il mistero della nostra
salvezza.
Unità dei due Testamenti
16. Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è
l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse
svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo
(cfr. Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti
nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo
Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.
Eccellenza del Nuovo Testamento
17. La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede (cfr. Rm
1,16), si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del Nuovo
Testamento. Quando infatti venne la pienezza dei tempi (cfr. Gal 4,4), il Verbo si fece carne
ed abitò tra noi pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14). Cristo
stabilì il regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e
se stesso e portò a compimento l'opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa
ascensione, nonché con l'invio dello Spirito Santo. Elevato da terra, attira tutti a
sé (cfr. Gv 12,32 gr.), lui che solo ha parole di vita eterna (cfr. Gv 6,68). Ma questo
mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi
apostoli suoi e ai profeti nello Spirito Santo (cfr. Ef 3,4-6, gr.), affinché
predicassero l'Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo Signore e radunassero la
Chiesa. Di tutto ciò gli scritti del Nuovo Testamento presentano una testimonianza
perenne e divina.
Origine apostolica dei Vangeli
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli
possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza
relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e
in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica.
Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per
ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in
scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo,
Marco, Luca e Giovanni.
Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande
costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la
storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante
la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna
salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi,
dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva
detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati
dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli
autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che
erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o
spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il
carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù
cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza
di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della
parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la «verità»
(cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.
Gli altri scritti del Nuovo Testamento
20. Il canone del Nuovo Testamento, oltre i quattro Vangeli, contiene anche le lettere di san
Paolo ed altri scritti apostolici, composti per ispirazione dello Spirito Santo; questi
scritti, per sapiente disposizione di Dio, confermano tutto ciò che riguarda Cristo
Signore, spiegano ulteriormente la sua dottrina autentica, fanno conoscere la potenza salvifica
dell'opera divina di Cristo, narrano gli inizi della Chiesa e la sua mirabile diffusione nel
mondo e preannunziano la sua gloriosa consumazione. Il Signore Gesù, infatti,
assisté i suoi apostoli come aveva promesso (cfr. Mt 28,20) e inviò loro lo
Spirito consolatore, il quale doveva introdurli nella pienezza della verità (cfr. Gv
16,13).
Importanza della sacra Scrittura per la Chiesa
21. La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di
Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita
dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme
con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la
regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una
volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle
parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque
che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata
dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con
molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di
Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e
per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e
perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra
Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di
Dio» (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i
santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).
Necessità di traduzioni appropriate e corrette
22. È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo
motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l'antichissima traduzione greca del Vecchio
Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le
versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché,
però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura
con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue,
di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri. Se, per una ragione di
opportunità e col consenso dell'autorità della Chiesa, queste saranno fatte in
collaborazione con i fratelli separati, potranno essere usate da tutti i cristiani.
Impegno apostolico degli studiosi
23. La sposa del Verbo incarnato, la Chiesa, ammaestrata dallo Spirito Santo, si preoccupa di
raggiungere una intelligenza sempre più profonda delle sacre Scritture, per poter
nutrire di continuo i suoi figli con le divine parole; perciò a ragione favorisce anche
lo studio dei santi Padri d'Oriente e d'Occidente e delle sacre liturgie. Gli esegeti cattolici
poi, e gli altri cultori di sacra teologia, collaborando insieme con zelo, si adoperino
affinché, sotto la vigilanza del sacro magistero, studino e spieghino con gli opportuni
sussidi le divine Lettere, in modo che il più gran numero possibile di ministri della
divina parola siano in grado di offrire con frutto al popolo di Dio l'alimento delle Scritture,
che illumina la mente, corrobora le volontà e accende i cuori degli uomini all'amore di
Dio. Il santo Concilio incoraggia i figli della Chiesa che coltivano le scienze bibliche,
affinché, con energie sempre rinnovate, continuino fino in fondo il lavoro felicemente
intrapreso con un ardore totale e secondo il senso della Chiesa.
Importanza della sacra Scrittura per la teologia
24. La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta,
inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce
sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le
sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di
Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l'anima della sacra teologia. Anche il
ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di
istruzione cristiana, nella quale l'omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in
questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore.
Si raccomanda la lettura della sacra Scrittura
25. Perciò è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e
quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola,
conservino un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno
studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore della parola di Dio
all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé», mentre deve partecipare ai
fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra
liturgia. Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli,
soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo»
(Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L'ignoranza delle Scritture,
infatti, è ignoranza di Cristo» (S.Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo). Si
accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è
impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte
a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa,
lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra
Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra
Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando
leggiamo gli oracoli divini». Compete ai vescovi, «depositari della dottrina
apostolica», ammaestrare opportunamente i fedeli loro affidati sul retto uso dei libri
divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli, grazie a
traduzioni dei sacri testi; queste devono essere corredate delle note necessarie e veramente
sufficienti, affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e profitto
con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito. Inoltre, siano preparate edizioni della
sacra Scrittura fornite di idonee annotazioni, ad uso anche dei non cristiani e adattate alla
loro situazione; sia i pastori d'anime, sia i cristiani di qualsiasi stato avranno cura di
diffonderle con zelo e prudenza.
Conclusione
26. In tal modo dunque, con la lettura e lo studio dei sacri libri «la parola di Dio
compia la sua corsa e sia glorificata» (2 Ts 3,1), e il tesoro della rivelazione,
affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall'assidua
frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito
sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall'accresciuta venerazione per la parola di Dio,
che «permane in eterno» (Is 40,8; cfr. 1 Pt 1,23-25).
18 novembre 1965
Quod semper, quod ubicumque, quod ab omnibus
Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione
nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un
cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si
ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
E’ necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto
più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di
tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali
il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La
religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi...
Le membra del lattante sono piccole. più grandi invece quelle del giovane. Però
sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle
del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già
nell’embrione... Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per
ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce,
consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età.
E’ necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme
della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina
verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore
della zizzania.
E’ anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo.
Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla
maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può ancora
svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e
fruttuosa coltivazione.
I. Il corpo del Signore
Il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: “Io sono la via, la verità e la
vita; nessuno viene al Padre se non per me. Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il
Padre mio; ma da ora in poi voi lo conoscete e lo avete veduto”. Gli dice Filippo:
“Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gesù gli dice: “Da tanto
tempo sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me, vede anche il Padre
mio” (Gv. 14,6-9).
Il Padre abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm. 6,16), e Dio è spirito, e nessuno ha
mai visto Dio (Gv. 4,24 e Gv. 1,18). Perciò non può essere visto che nello
spirito, poiché è lo spirito che da la vita; la carne non giova a nulla (Gv.
6,64). Ma anche il Figlio, in ciò per cui è uguale al Padre, non può
essere visto da alcuno in maniera diversa dal Padre e in maniera diversa dallo Spirito
Santo.
Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l’umanità,
ma non videro né credettero, secondo lo spirito e la divinità, che egli è
il vero Figlio di Dio, sono condannati. E così ora tutti quelli che vedono il
sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l’altare nelle
mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo
spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del
Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché è l’Altissimo
stesso che ne dà testimonianza, quando dice: “Questo è il mio corpo e il
mio sangue della nuova alleanza [che sarà sparso per molti] (Mc. 14,22.24), e ancora:
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna” (cf. Gv.
6,55).
Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il
santissimo corpo e il sangue del Signore. Tutti gli altri, che non partecipano dello stesso
Spirito e presumono ricevere il santissimo corpo e il sangue del Signore, mangiano e bevono la
loro condanna (cf. 1Cor. 11,29). Perciò: Figli degli uomini, fino a quando sarete duri
di cuore? (Sal. 4,3). Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di
Dio? (cf Gv. 9,35).
Ecco, ogni giorno egli si umilia (cf. Fil. 2,8), come quando dalla sede regale (cf. Sap.
18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza
umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E
come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi
nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di
lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio,
così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere
fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero.
E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli, come egli stesso dice:
“Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo” (Mt. 28,20).
Da una lettera di J.R.R.Tolkien a Michael Tolkien in J.R.R.Tolkien, La
realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien),
Bompiani, Milano, 2001, pag.442.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il
rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno
comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo
primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto;
perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è
ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento
liturgico cristiano agli inizi come adesso. (Le restrizioni di San Paolo a proposito
dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!) Inoltre la “mia chiesa” non è
stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di
eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si
sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina
tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non
c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è
completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita
è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita
e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal
seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste
più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene:
le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che
posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con
trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei
danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima
giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.
L’altro motivo (che ora è così confuso con la tentazione primitivistica,
anche nelle menti dei riformatori): aggiornamento; ammodernamento; anche questo presenta dei
pericoli, come la storia ha dimostrato. Con questo aspetto si è confuso anche l’
“ecumenismo”.
2. 4. Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri
allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro
discorso vibra della gioia stessa che proviamo e riesce più facile e più
gradito...
La cosa difficile è raccomandare in quali modi si debba preparare la catechesi
perché il catechista insegni con gioia (infatti, quanto più sarà pieno
di gioia tanto più riuscirà accetto presso chi lo ascolta): è questo il
massimo impegno a cui occorre dedicarsi. Ed in proposito la regola è evidente e nota.
Se Dio, infatti, ama chi dispensa con gioia i beni materiali, quanto più amerà
chi dispensa in egual modo i beni spirituali? Quanto poi al fatto che una tale gioia sia
presente al tempo opportuno, dipende dalla misericordia di Colui che la raccomanda.
4. 7. Qual è il motivo più grande della venuta del Signore se non quello di
mostrare da parte di Dio l’amore che ha per noi, raccomandandocelo sommamente?
Perché mentre eravamo ancora suoi nemici, Cristo è morto per noi. E per
ciò la carità è fine del precetto e pienezza della legge, così che
pure noi ci amiamo l’un l’altro e, come egli ha dato la propria vita per noi, anche
noi diamo la nostra per i fratelli; se un tempo si provava riluttanza ad amarlo, almeno ora non
la si deve più provare nel rendere l’amore a quel Dio che per primo ci ha
amati e non ha risparmiato il suo unico Figlio, ma lo ha dato per noi tutti. Non vi
è infatti invito più efficace ad amare che esser primi nell’amare; e troppo
duro è il cuore che, non avendo voluto spendersi nell’amare, non voglia neppure
contraccambiare l’amore.
4. 8. Se dunque Cristo è venuto perché l’uomo conoscesse quanto Dio lo ami
e lo sapesse per infiammarsi d’amore verso chi per primo lo ha amato e per amare il
prossimo secondo il precetto e l’esempio di lui che si è fatto prossimo
dell’uomo amandolo quando non gli era vicino, ma andava errando da lui lontano; se
tutta la Scrittura divina che è stata redatta prima, lo è stata per preannunciare
la sua venuta, se ciò che in seguito è stato tramandato per iscritto e confermato
dall’autorità divina narra di Cristo e raccomanda l’amore, è
evidente allora che in quei due precetti riguardanti l’amore di Dio e del prossimo si
raccolgono non solo tutta la legge e i profeti (la sola Scrittura esistente quando il Signore
diceva quelle cose), ma anche tutti i restanti libri delle lettere divine, composti più
tardi per la salvezza degli uomini e tramandati ai posteri. Per ciò nell’Antico
Testamento è adombrato il Nuovo e nel Nuovo Testamento è reso manifesto
l’Antico.... Pertanto, dopo esserti proposto un tale amore come fine a cui orientare
tutto ciò che dici, esponi ogni cosa in modo che chi ti ascolta ascoltando creda,
credendo speri e sperando ami.
25. 49. Unisciti ai buoni, a coloro che tu vedi condividere con te l’amore per il tuo Re.
Scoprirai infatti che ce ne sono molti, se anche tu comincerai ad esser tale. Poiché
se tu agli spettacoli desideravi la compagnia e la vicinanza di coloro che con te avevano la
passione per un auriga, un gladiatore o per un qualche attore, tanto più ti dovrà
procurar piacere l’essere unito a coloro che con te amano Dio, di cui mai si
vergognerà chi lo ama, perché non solo lui non può essere vinto, ma rende
invincibili anche coloro che lo amano. Tuttavia non devi riporre la tua speranza neppure in
coloro che sono buoni, che ti precedono o ti accompagnano nel cammino verso Dio, perché
non devi riporla nemmeno in te stesso, per quanti progressi abbia fatto, ma devi riporla in
colui che loro e te rende quali siete, giustificandovi.
"L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che
non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, è un
ausilio per comprendere come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare
un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del suo momento attuale e
nondimeno proprio così crea l'unità del suo insieme".
Così il card. J.Ratzinger ha sintetizzato, nella prefazione al documento "Il popolo
ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana" il senso del documento della
Pontificia Commissione Biblica "L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa", pubblicato nel
1993.
Il documento fa il punto sui diversi metodi ed approcci al testo biblico adoperati dalle
diverse scuole esegetiche, ne indaga la complementarietà e si sofferma sul “senso
spirituale” delle Scritture, cioè sull'inserimento dei testi nel conteso del
mistero di Cristo.
Viene inizialmente presentato il moderno metodo storico di studio dei testi biblici:
"Il metodo storico-critico è il metodo indispensabile per lo studio scientifico del
significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto “Parola di Dio
in linguaggio umano”, è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in
tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede,
l'utilizzazione di questo metodo".
"I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell'Antico Testamento, molto
diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di
senso effettivamente presente nei testi. Come un «rivelatore» durante lo sviluppo
di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno
fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere
percepita. Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l'Antico un
triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione" (n.
64).
Il documento "Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana" della Pontificia
Commissione Biblica, pubblicato nel 2001, intende così rifiutare
"un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso
che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza
storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di
Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere
anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria
dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal
Nuovo Testamento stesso appariva finita" (prefazione del card. J.Ratzinger al documento).
Già nella stessa Scrittura, testi successivi rivelano un senso più pieno di
un'espressione precedente. Questo viene tradizionalmente indicato con l'espressione "sensus
plenior" ("senso più pieno"). Così l'esegesi cattolica non fa che continuare
ciò che la stessa Scrittura fa. Ma anche il magistero interviene ad indicare una
comprensione più profonda di un determinato testo. Quando si parla di "sensus
plenior"
"si tratta o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui
anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del
significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare dà a un
testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà un senso pieno all'oracolo
di Is 7, 14 sulla "almah" che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei
Settanta (parthenos): “La vergine concepirà”. L'insegnamento patristico e
conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell'insegnamento del Nuovo Testamento
su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del
Concilio di Trento fornisce il senso pieno dell'insegnamento di Paolo in Rm 5,12-21 circa le
conseguenze del peccato di Adamo per l'umanità. Ma quando manca un controllo di questo
genere - da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, - il
ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni
validità.
Non è solo la Scrittura a rileggere se stessa, in maniera sempre più piena. La
chiave di volta ed il compimento della rivelazione divina è il Figlio Gesù
Cristo. Il Concilio Vaticano II usa distintamente due espressioni significative: la Bibbia
è "locutio Dei", il Figlio è il "Verbum Dei". Lo Spirito Santo, da lui donato
alla Chiesa, la guida alla comprensione della "verità tutta intera". La lettura della
Scrittura nel contesto della morte e resurrezione di Cristo e del dono dello Spirito Santo
permette di cogliere quello che la Tradizione chiama il "senso spirituale" delle Scritture.
"Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede
cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l'influsso dello
Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta.
Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento
delle Scritture. E' perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo
contesto, quello della vita nello Spirito".
Una vasta opera di sintesi del lavoro di decenni è stata compiuta dal
teologo canadese
R.Latourelle, nella sua opera "A Gesù attraverso i vangeli. Storia ed ermeneutica",
Cittadella editrice, Assisi, 1979.
Quattro criteri fondamentali, analoghi a quelli di ogni ricerca storica, vengono applicati in
modo convergente al testo evangelico:
Ad esempio lo studio dei testi dell'"ultima cena", può avvalersi di
una molteplice attestazione di fonti indipendenti (sia i sinottici, sia le lettere paoline,
sia, a suo modo, il racconto eucaristico del pane del cielo di Giovanni), risulta di una
discontinuità sorprendente (l'affermazione "Questo è il mio sangue", in un
contesto ebraico che rispetta il "sangue" come simbolo della stessa vita) pur nella
continuità evidente con ciò che sappiamo della celebrazione del seder pasquale
ebraico (la cena della Pasqua). Non vi è alcun dubbio fondato, secondo gli studiosi,
sulla sostanziale storicità dell'ultima cena, come ce la descrivono i vangeli. Un
secondo esempio è l'espressione aramaica "Abba", "Padre", che ci è conservata dai
testi evangelici nella forma originale in cui Gesù la pronunciava. Il criterio della
"spiegazione necessaria" viene applicato ai miracoli ed, in particolare, a quello che precede
immediatamente l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, la resurrezione di Lazzaro. Come
spiegare altrimenti l'immenso tripudio di folla e attesa della popolazione di Gerusalemme e le
accuse di "magia" che troviamo nelle fonti extrabibliche rivolte a Gesù?
Un secondo gruppo di criteri di storicità è individuato, una volta che alcuni
fatti centrali sono stati sufficientemente accertati e determinati, nella aderenza a quello che
possiamo chiamare lo "stile di Gesù", il suo peculiare modo di essere e parlare
ed, inoltre, nello studio della "intelligibilità interna del racconto" oltre che
nella analisi di brani che hanno una "interpretazione diversa, ma un accordo di fondo".
La moderna critica storica sulla vita di Gesù afferma che, sebbene i vangeli non siano
"cronache" nel senso moderno del termine, tuttavia la sostanziale storicità di
ciò che è raccontato è ragionevolmente sostenibile secondo i moderni
criteri storici.
Su www.gliscritti.it :
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sulla Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Ecco solo una delle tante citazioni che si potrebbero fare dagli scritti autentici di Francesco d’Assisi, tratta dal Testamento del 1226:
[111] 4 E il Signore mi dette tale fede nelle chiese che io così semplicemente pregavo e dicevo: 5 Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
[112] 6 Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. 7 E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.
[113] 8 E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. 9 E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. 10 E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri.
[2] Questo il testo di
Balthasar, a cui si fa riferimento nella lezione, tratto da H.U.von Balthasar, Solo
l’amore è credibile, Borla, Roma, 1977, pagg.54-55: “Due accostamenti si
offrono, che finiscono poi per convergere in unità: uno è quello personalistico
menzionato da ultimo, perché nessun io ha la possibilità ed il diritto di
violentare concettualmente la libertà del tu che gli si fa incontro, di dedurre a priori
e di comprendere a priori il suo comportamento. Un amore che mi è donato, posso
“intenderlo” sempre e solo come un miracolo, non posso manipolarlo empiricamente o
trascendentalmente, neppur conoscendo il carattere comune della natura umana: perché il
tu resta sempre l’alterità a me contrapposta. (Nell’istante in cui io
affermo di avere capito l’amore di un’altra persona per me, cioè lo
spiego o con le leggi della sua natura umana o lo giustifico con motivi esistenti in me, questo
amore è definitivamente perduto e fallito e la via per il contraccambio è
tagliata. Il vero amore è sempre incomprensibile e solo in quanto tale è dono).
La seconda concezione consiste nello stato estetico, che rappresenta accanto alla sfera del
pensiero ed a quella dell’azione una terza sfera non riconducibile ad una delle
precedenti. Nell’esperienza che si fa di una superiore bellezza – nella natura o
nell’arte – il fenomeno, che altrimenti si presenta più occulto, più
mascherato, può essere colto nella sua differenziazione: ciò che ci sta dinanzi
è di una grandiosità schiacciante come un miracolo e in quanto tale non
può essere mai colto, raggiunto da colui che ne fa l’esperienza, ma possiede,
proprio in quanto miracolo, la facoltà di essere compreso: esso vincola e libera
al contempo, giacché si mostra in forma inequivocabile come “libertà
manifesta” (Schiller) di una necessità interiore indimostrabile. Se esiste
il finale della sinfonia Jupiter – cosa che non posso supporre, dedurre e spiegare
attraverso nulla che sia intrinseco a me – essa non può essere che così
com’è: in questa forma sta la sua necessità, nella quale nessuna nota
può essere spostata salvo che dallo stesso Mozart. Una simile coincidenza
d’incomprensibilità da parte mia con la più convincente plausibilità
per me si dà soltanto nel campo del bello puro, disinteressato. E’ bensì
vero che la plausibilità in ogni bello terreno resta delimitata dalla comune natura
terrena nell’oggetto e nel soggetto: conformità, adeguatezza ed opportunità
giuocano un ruolo connettivo e quindi lo stato estetico – come prima l’accostamento
personalistico – può tutt’al più servire come richiamo al
cristianesimo. Ma questo richiamo è valido solo in quanto, come nell’amore fra gli
uomini incontriamo l’altro come altro, che nella sua libertà non può
essere da me costretto, violentato, così nell’intuizione estetica è
impossibile una riconduzione della forza che si manifesta alla propria immaginazione, alla
propria fantasia. “L’intendimento” di ciò che si rivela non è,
in entrambi i casi, una riduzione di questo, un suo assorbimento in categorie della conoscenza
che lo costringano e gli si impongano: né l’amore nella libertà della sua
grazia né il bello nella sua assenza di ogni determinazione finalistica possono
“essere manipolati” (Rilke), almeno attraverso un’esigenza del soggetto. Una
simile riduzione ad “esigenza” significherebbe diffamare e profanare cinicamente
l’amore con l’egoismo; soltanto se viene riconosciuta la pura grazia
dell’amore, colui che ama può manifestare la sua compiuta realizzazione attraverso
un tale amore.
Nei confronti di questa maestà dell’amore assoluto, che è il fenomeno
originario e fondamentale della Rivelazione, ogni autorità che funge da mediatrice verso
l’uomo presenta carattere derivato. L’autorità originaria non la possiedono
né la Bibbia (in quanto “Parola di Dio” scritta) né il cherigma (in
quanto proclamazione viva della “Parola di Dio”) né il ministero
ecclesiastico (in quanto rappresentazione ufficiale della “Parola di Dio”); tutti e
tre sono esclusivamente Parola e non ancora carne, e in tal senso anche l’Antico
Testamento come “Parola” rappresenta soltanto uno stadio sulla via che conduce
all’autorità definitiva. Questa autorità originaria la possiede soltanto il
Figlio, che interpreta il Padre nello Spirito Santo come l’amore divino”.
[3] Papa Benedetto XVI,
nell’Udienza del mercoledì, 23 novembre 2005, dedicata al commento al Cantico del
primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini, Dio Salvatore (3-10), si
è così espresso:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a
coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio:
è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In
questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico
dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del
corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del
cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si
configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la
volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
[4] Giovanni Paolo II,
Catechesi Tradendae, nn.19 e 21: “La specificità della catechesi, distinta dal
primo annuncio del vangelo, che ha suscitato la conversione, tende al duplice obiettivo di far
maturare la fede iniziale e di educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza
più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio del nostro
signore Gesù Cristo... Nel suo discorso di chiusura della IV assemblea generale del
sinodo, il pontefice Paolo VI si rallegrava nel «constatare che era stata sottolineata da
tutti l'assoluta necessità di una catechesi ben ordinata e coerente, poichè un
tale approfondimento dello stesso mistero cristiano distingue fondamentalmente la catechesi da
tutte le altre forme di annuncio della parola di Dio».
Di fronte alle difficoltà pratiche debbono essere sottolineate, tra le altre, alcune
caratteristiche di tale insegnamento:
-esso deve essere un insegnamento sistematico, non improvvisato, secondo un programma che
gli consenta di giungere ad uno scopo preciso;
-un insegnamento che insista sull'essenziale, senza pretendere di affrontare tutte le
questioni disputate, nè di trasformarsi in ricerca teologica o in esegesi
scientifica;
-un insegnamento, tuttavia, sufficientemente completo, che non si fermi al primo annuncio
del mistero cristiano, quale noi abbiamo nel kèrigma;
-un'iniziazione cristiana integrale, aperta a tutte le componenti della vita
cristiana.
Senza dimenticare l'interesse che hanno le molteplici occasioni di
catechesi in relazione con la vita personale, familiare, sociale, o ecclesiale - occasioni che
bisogna saper cogliere e sulle quali ritornerò al cap. VI - io insisto sulla
necessità di un insegnamento cristiano organico e sistematico, perchè da diverse
parti si tende a minimizzarne l'importanza”.
[5] Questi alcuni
passaggi di un articolo del cardinal Joseph Ratzinger sulla rivista dei gesuiti
americani America (19 novembre 2001) cui il testo fa riferimento:
Nella lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come
comunione (Congregazione per la Dottrina della fede 28, giugno 1992) troviamo il principio che
la Chiesa universale (ecclesia universalis) è, nel suo mistero essenziale, una
realtà che precede, ontologicamente e temporalmente, le singole Chiese
locali…
Dio trova e prepara per sé la Sposa del Figlio, l’unica Sposa che è
l’unica Chiesa. Sulla scorta dell’espressione del Genesi che un uomo e sua moglie
diventano “due in una sola carne” (Gen , 24) l’immagine della sposa si
è fusa con l’idea della Chiesa come corpo di Cristo, che per parte sua è
basato sulla pietà eucaristica. L’unico corpo di Cristo è reso disponibile;
Cristo e la Chiesa saranno “due in una sola carne”, un corpo; e così Dio
sarà tutto in tutte le cose…
C’è solo una sposa, solo un corpo di Cristo, non molte spose, né molto
corpi. La sposa, certamente, come hanno detto i padri della Chiesa, richiamandosi al salmo 44,
è vestita “di abiti multicolori”; il corpo ha molti organi. Ma il privilegio
sovraordinato è in ultima analisi l’unità…
Ho mostrato come il Concilio risponda alla domanda su dove si possa vedere la Chiesa
universale come tale, parlando dei sacramenti: C’è prima di tutto il battesimo:
E’ un evento trinitario, cioè prettamente teologico, e significa molto di
più che la socializzazione nella Chiesa locale… Il battesimo non deriva dalla
comunità locale; piuttosto col battesimo ci viene aperta la porta dell’unica
Chiesa; è la presenza della Chiesa una, ed esso può venire solo da essa, dalla
Gerusalemme celeste, nostra nuova madre. Nel battesimo la Chiesa universale precede
continuamente e crea la Chiesa locale. Su questa base la lettera della Congregazione per la
Dottrina della Fede può affermare che non ci sono stranieri nella Chiesa. Chiunque al
suo interno è a casa sua dappertutto… Chiunque battezzato nella Chiesa a Berlino
è sempre a casa sua a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o dovunque, come se
fosse stato battezzato lì. Lui o lei non deve compilare un certificato con il cambio di
residenza, è una e la stessa Chiesa. Il battesimo nasce da essa e ci consegna (dà
alla luce) ad essa…
E allora non si può dire che la “visione universalistica” della Chiesa
è “ecumenicamente escludente”.
[6] Vedi, ad esempio,
Origene, In Lucam homil. 22, I:
Quid enim tibi prodest, si Christus quondam venit in carne
nisi ad tuam quoque animam venerit?
Che cosa ti giova, se Cristo è venuto una volta nella carne,
ma non viene anche alla tua anima?
[7] Questo il testo a
cui si fa riferimento:
(Voglio) mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto
nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto
per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare
anche in colui che non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene
infranto, in una società va perduto qualcosa di essenziale. Nella nostra società
attuale grazie a Dio viene multato chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le
sue grandi figure. Viene multato anche chiunque offende il Corano e le convinzioni di fondo
dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i
cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare
il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la tolleranza e la libertà in
generale. La libertà di opinione trova però il suo limite in questo, che essa non
può distruggere l’onore e la dignità dell’altro; essa non è
libertà di mentire o di distruggere i diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si
può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se
stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e
distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è
grande e puro.
L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile –
accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene
continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e
rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la
multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è
sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro,
ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi (da
J.Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani di Joseph Ratzinger, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2004).
[8] Questo
il passaggio della relazione di S.E.mons.Rino Fisichella in una riflessione
ai parroci del settore Sud della Diocesi di Roma, tenuta il 22 gennaio 2004
(Il testo integrale della relazione è nella sezione Approfondimenti di
www.gliscritti.it):
E' bene chiarificare subito che un cambiamento culturale per essere efficace
non porta di per sé immediatamente all’assunzione di modelli costruiti
soltanto ideologicamente con un’intenzionalità che si oppone alla
fede. Esemplifichiamo. E’ come se, di fatto, la fine del progresso culturale
dovesse essere in qualche modo determinata dalla conservazione del modello di
fede. “Voi cattolici – essenzialmente – non volete il progresso!”:
questa è l’istanza che normalmente viene provocata. “La fede
con il mantenimento della sua visione, della sua identità impedisce il
progresso! Impedisce che ci siano nuove forme, nuovi modelli che si immettono
all’interno della cultura e della società”. Questa è
una grande trappola! Perché qualsiasi cultura, quando corrisponde alle
determinazioni che la rendono cultura, quando è tale, è sempre,
per definizione, dinamicamente aperta ad evolvere il modello che porta in sé
e non a distruggerlo. L’evoluzione non è distruzione, perché
altrimenti non siamo davanti ad un fenomeno culturale... Quando culturalmente
si ha un vero progresso nei confronti della famiglia? C’è un pensiero
che sta alla base delle diverse leggi, che sostiene “l’allargamento”
del concetto della famiglia, estendendolo oltre a quella che è la dinamica
tradizionale che abbiamo sempre visto: l’uomo e la donna, che vivono un
rapporto stabile. Ebbene questa situazione dell’allargamento della famiglia,
come viene proposto, questa dimensione, di fatto, è all’opposto
del concetto di cultura e di progresso culturale. La contraddizione dell’estensione
del concetto di famiglia porta concretamente, di fatto, a distruggere la forma
originaria della famiglia. Ciò che ne consegue, quindi, è l’alterazione
e non il progresso. Perché il progresso, per paradossale che vi possa
sembrare, richiede la conservazione! Vi rimando per questo, ad esempio, ai nn.
50 e seguenti della Gaudium et Spes, dove si parla del concetto di cultura,
che è un concetto desunto dalla filosofia di Maritain. Vedete, il concetto
di cultura in Maritain, essenzialmente, è questo: cultura è l’espansione
della vita propriamente umana, che consente di condurre un’esistenza eticamente
conforme alle leggi della natura e in grado di svilupparsi in questo senso.
E’ un concetto filosofico, ripreso da Gaudium et Spes.
Queste semplici considerazioni preliminari mi sembravano necessarie per non
confondere i piani su cui alcune tendenze dei nostri giorni cercano di esporre
le loro opinioni, come se di fatto la proposta che avanzano riguardo alla famiglia
sia una ineludibile conseguenza del progresso culturale e quanti non vogliono
adeguarsi a questo sono da identificare come i fautori di un movimento di conservazione,
che si oppone alle leggi del progresso. A me sembra che sia questo elemento
che non funzioni e che ci debba far dire che questa dimensione di fatto arriva
all’asfissia del concetto stesso di progresso e di cultura, se non al
suicidio.
[9] Questo il passaggio
dell’omelia per l’insediamento sulla cattedra di Roma, pronunciata da Benedetto XVI
il sabato 7 maggio 2005:
Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così
la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di
insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal
Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui
comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero
dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una
all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce
vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò
che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di
notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la
Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può
fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci,
nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche
morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle
sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa
affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.
Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si
chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione
contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da
Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La
potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza
alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al
contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso
la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente
se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i
tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo.
[10] Questo il
passaggio dell’Introduzione al documento della Pontificia Commissione Biblica,
L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, a cui fa riferimento la lezione:
Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato
l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità
di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo
metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La
ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel
passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato
può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore,
Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di
realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era
necessariamente soggetta a discussione.
Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie
idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo
storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che
restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di
là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché
un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico
ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un
dibattito che non è concluso finora in nessun modo... La parola biblica ha la sua
origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche
dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando
però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che
il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via
verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive.