FONTI EXTRA-BIBLICHE PER LE ORIGINI DI ISRAELE

Troppo ampia è una analisi della storia di Israele in epoca veterotestamentaria, , con i suoi molteplici problemi storici, a partire dal testo biblico e delle fonti non bibliche che vanno via via aumentando di numero, man mano che ci si avvicina all'età ellenistica, per poterla descrivere in maniera esauriente.
I famosi lavori di J.B.Pritchard, Ancient Near Eastern Texts, relating to the Old Testament (ANET) ed Ancient Near East in Pictures relating to the Old Testament (ANEP), forniscono la raccolta di tutte le iscrizioni conosciute e di tutto il materiale iconografico utile sia direttamente che indirettamente per la conoscenza dell'AT. Numerose raccolte di questo materiale sono disponibili anche in italiano, come in AA VV, L'Antico Testamento e le culture del tempo, Borla, Roma, 1990.
A questo si deve naturalmente aggiungere l'indagine archeologica di tutti i siti conosciuti relativi alla storia veterotestamentaria.
E' oramai universalmente accettato che i primi undici capitoli della Genesi non sono libri "storici" nel senso moderno del termine e non descrivono "cronache" di avvenimenti conosciuti direttamente dagli autori. La loro "verità" profonda risiede nel darci, invece, una lettera "sapienziale", ispirata da Dio stesso, di ciò che è avvenuto nell'opera del Creatore e del peccato che, fin dal primo momento, l'uomo, tentato dal serpente, ha introdotto nel mondo.
Nelle fonti extrabibliche finora conosciute nessun riferimento diretto ai fatti descritti nella Scrittura è stato ancora scoperto, fino al periodo dei regni divisi di Giuda ed Israele, dopo la morte di Salomone. Siamo, però, molto informati sul contesto storico e politico, soprattutto per certi specifici periodi, dell'ambiente di quei secoli. In particolare l'archivio reale rinvenuto a Tell El-Amarna, in Egitto, dove il faraone Amenofi IV (1379-1362) aveva fatto edificare una città ed un palazzo reale, ci ha restituito una grande quantità di lettere da lui scritte o a lui indirizzate nel XIV secolo a.C., molte delle quali relative alla zona geografica della Siria-Palestina.
Troviamo la prima menzione di Israele in una iscrizione del faraone Merneptah (1224-1204), nell'anno 5 del suo regno (1220 a.C. ca.). La stele di Merneptah è stata scoperta nel 1896, nei pressi di Tebe, ed è ora al Museo egizio del Cairo. Merneptah è stato il successore di Ramses II 1290-1224). Così recita l'iscrizione, descrivendo le campagne di guerra del faraone:
"I principi sono prostrati e dicono: Pace. Tra i nove archi nessuno alza più la testa. Tehenu è devastato (la Libia); Hatti è in pace. Canaan è privato di ogni sua malvagità; Ashqelon è deportato; ci si è impadroniti di Ghezer; Yanoam è come se non fosse più; Israele è annientato e non ha più seme. Haru è in vedovanza davanti all'Egitto".
La stele è composta di 28 righe; queste qui tradotte sono le righe 26 e 27.
Per tutto questo periodo lo studio della storia di Israele può avvenire solo a partire da una ricerca interna alle stesse fonti bibliche.

LE FONTI EXTRA-BIBLICHE DAL PERIODO DEI RE

La ricerca storica si è scontrata finora con l'assenza di testi epigrafici anche per i regni di Davide e Salomone. Il primo testo extra-biblico direttamente relativo alla storia biblica è la stele in basalto nero rinvenuta in Giordania, a Kerak, che ciriferisce le imprese di Mesha, re di Moab, nemico di Israele. L'iscrizione ci da la versione moabita dei combattimenti descritti, nella versione ebraica in 2 Re 3, 6-27, nel periodo di Ioram re di Israele (852-841) e Giosafat, re di Giuda (870-848):

"Sono Mesha, figlio di Kemoshyat, re di Moab, il Dibonita. Mio padre regnò su Moab per trent'anni e io regnai dopo mio padre. Io feci quest'altura per Kemosh (N.d.T. Era la divinità più importante del pantheon moabita) in Qeriho, altura (?) di salvezza, poiché egli mi salva da tutti gli assalti e mi fa trionfare su tutti i miei avversari. Omri era re d'Israele e oppresse Moab per molti giorni poiché Kemosh era in collera contro il suo paese. Gli successe suo figlio che disse: “Opprimerò Moab”. Al mio tempo egli aveva parlato così, ma io trionfai su di lui e sulla sua casa. E Israele fu rovinato per sempre. Ora Omri aveva preso possesso di tutto il paese di Madeba e vi aveva abitato durante i suoi giorni e la metà dei giorni dei suoi figli, quarant'anni. Ma, al mio tempo, Kemosh l'ha restituito. E io ho costruito Baal Meon, facendovi il deposito, e ho costruito Qiryaton. La gente di Gad aveva abitato nel paese di Atarot da sempre e il re d'Israele aveva costruito Atarot per sé. Io combattei contro la città e la presi. Uccisi tutto il popolo...; la città fu offerta in sacrificio per Kemosh e per Moab. Di là m'impadronii dell'altare del suo Prediletto (?) e lo trascinai davanti a Kemosh a Qeriyot. Vi feci abitare la gente di Saron e la gente di Maharot...
Kemosh mi disse: “Và, prendi Nebo da Israele”: Andai di notte e combattei contro di essa dallo spuntare dell'aurora fino a mezzogiorno. La presi e ammazzai tutti, settemila uomini con stranieri, donne, straniere e concubine, infatti li avevo votati all'anatema per Ashtar-Kemosh. Presi da lì i vasi (?) di Yahvé e li portai davanti a Kemosh. Il re d'Israele aveva costruito Yahaz e vi dimorava mentre mi faceva guerra, ma Kemosh lo cacciò davanti a me. Presi da Moab duecento uomini, tutta la sua élite; li guidai contro Yahaz e la presi per annetterla a Dibon. Fui io a costruire Qeriho: il muro del parco e il muro dell'acropoli. Io ho costruito le sue porte, io ho costruito le sue torri; io ho costruito la casa del re; io feci le due vasche per l'acqua in mezzo alla città. Non c'era cisterna in mezzo alla città a Qeriho e io dissi a tutto il popolo: “Costruitevi ciascuno una cisterna nella vostra casa”: Io feci scavare le fosse (?) per Qeriho dai prigionieri d'Israele.
Io ho costruito Aroer e ho fatto la strada dell'Arnon. Io ho costruito Bet-Bamoth poiché era stata distrutta. Io ho costruito Bezer poiché era in rovina, con cinquanta uomini di Dibon, essendo tutti gli uomini di Dibon miei sudditi. Ho regnato con capi di centinaia nelle città che avevo annesso al paese. Io ho costruito... Madeba, Bet-Diblathon e Bet-Baal-Maon e vi ho stabilito i... del bestiame piccolo del paese. E Horonan dove abitava... E Kamosh mi disse: “Scendi e combatti contro Horonan”: Io sono disceso... e Kemosh l'ha restituita durante i miei giorni..."

Da questo momento in poi numerosi sono i riscontri extra-biblici e le fonti per uno studio diretto della storia veterotestamentaria.

CRONOLOGIA ROMANA E NASCITA DI GESU' CRISTO

Il periodo viene detto il SAECULUM AUGUSTUM dal 63 a.C., anno della nascita di OTTAVIANO AUGUSTO, al 14 d.C. anno della morte

CRONOLOGIA ROMANA E VITA DI GESU' CRISTO

CRONOLOGIA ROMANA ED EPISTOLARIO PAOLINO

N.B. Per la cronologia paolina e neotestamentaria sono decisive due date. La prima è la morte di ARETA IV, re nabateo, avvenuta nel 40 d.C. Paolo si converte prima di questa data: "A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii alle sue mani" (2Cor 11, 32-33). La seconda data è quella dell'incontro con GALLIONE (cfr. I Tess 3, 1-2 “Restati ad Atene abbiamo mandato Timoteo per avere vostre notizie”; per questo scritta nel corso del secondo viaggio, prima ancora di arrivare a Corinto, quindi prima di incontrare Gallione, quindi nell'anno del suo proconsolato, terminato nel 52 d.C.)

CRONOLOGIA ROMANA E NUOVO TESTAMENTO

N.B. Per la cronologia neotestamentaria l'altra data decisiva, oltre a quella del proconsolato di Gallione, è quella della caduta di Gerusalemme e della distruzione del Tempio, il 70 d.C. Alcuni scritti neotestamentari sono evidentemente scritti dopo il 70 (parlano chiaramente degli avvenimenti di quell'anno), altri sono stato composti prima, poiché parlano del culto del Tempio ancora in funzione

FLAVIO GIUSEPPE

Giuseppe Flavio nasce a Gerusalemme nel 37 o 38 d.C. da una importante famiglia sacerdotale. E' inoltre imparentato con la famiglia reale degli Asmonei. Nel 64 giunse una prima volta a Roma, per difendere, presso l'imperatore Nerone, alcuni sacerdoti giudaici. Fu protagonista, in Galilea, degli inizi della guerra giudaica contro i romani. E' difficile comprendere fino in fondo la sua strategia di guerra. Infatti, nei suoi scritti che hanno anche la finalità apologetica di difendere il suo operato di quegli anni, Flavio Giuseppe da interpretazioni diverse degli stessi fatti, a seconda delle accuse che gli sono rivolte. Esiste, comunque, un accordo degli studiosi su alcune linee di massima: fu inviato, come stratega “moderato” a difendere sì la Galilea dal nuovo attacco romano, ma, insieme, ad opporsi agli Zeloti, molto più accesi di odio anti-romano ed ai “novatori” che si avviavano a diventare “briganti”, sotto la guida di Simone bar Giora, e dovette così tenere una posizione mediana all'interno dello stesso schieramento giudaico, prima di passare all'altro fronte. Nella Guerra Giudaica, scritta negli anni 75-79, Flavio Giuseppe ci riferisce gli avvenimenti della guerra, soffermandosi soprattutto sul periodo che va dalla fine del 66 alla primavera del 67 d.C. Preso prigioniero da Vespasiano, dopo il lungo assedio di Iotpata, Giuseppe gli predisse la prossima elezione imperiale. Liberato, seguì Tito, figlio di Vespasiano, nel seguito della Guerra e, alla fine di essa, divenuto cittadino romano, ebbe tutta un serie di privilegi fino a divenire “una sorta di portavoce ufficiale della dinastia dei Flavi (così scrive G.Jossa, studioso di Flavio Giuseppe). La “Guerra Giudaica” è appunto un'opera tesa a spiegare al pubblico romano i motivi dell'insurrezione giudaica, volta a dissuadere i Giudei da ogni futura ribellione, pronta a celebrare la grandezza bellica dei romani ed a difendere il suo proprio operato, nel suo passaggio da capo dell'esercito dei rivoltosi a portavoce dell'esercito vincitore. Alcuni anni dopo, nel 93-94, Flavio Giuseppe scrisse le Antichità giudaiche, raccontando l'intera storia del popolo ebraico, perché persone di cultura romana potessero conoscerla. La concluse con una Vita, negli anni 93-94, nuova difesa delle sue scelte e del suo operato. Probabilmente una seconda edizione della Vita venne pubblicata dopo il 100, quando Giusto di Tiberiade scrive una sua Storia della Guerra Giudaica, accusando Flavio Giuseppe di essere causa della sconfitta ebraica e infamandolo presso i romani.

GIOVANNI BATTISTA IN FLAVIO GIUSEPPE

Nelle “Antichità giudaiche” troviamo riferimenti importanti a ciò che è narrato nel Nuovo Testamento. Giuseppe Flavio ci descrive la vicenda di Giovanni Battista con queste parole (le parole fra parentesi, che aiutano a contestualizzare il brano, appartengono al commento del biblista R.Penna ai testi flaviani):

Nel frattempo vennero in conflitto Areta, re di Petra, ed Erode (Antipa). Il tetrarca Erode aveva sposato la figlia di Areta ed era unito a lei già da molto tempo. In procinto di partire per Roma, egli prese alloggio da Erode (Filippo, nominato in Mc 6,17), suo fratello, essendo di diversa madre; infatti questo Erode era nato dalla figlia del sommo sacerdote Simone. Innamoratosi di Erodiade, sua moglie, che era figlia del loro fratello Aristobulo e sorella di Agrippa il Grande (=Erode Agrippa I, nominato in At 12), cominciò impudentemente a parlarle di matrimonio. Avendo ella accettato, convennero che lei si sarebbe trasferita a casa di lui, appena fosse tornato da Roma. Nei patti c'era che egli doveva ripudiare la figlia del re Areta. Trovatisi d'accordo su queste cose, egli s'imbarcò per Roma. Al ritorno, dopo aver sbrigato le sue faccende a Roma, sua moglie, venuta a conoscenza dei contatti con Erodiade e prima ancora di informarlo che sapeva ogni cosa, chiese di essere inviata a Macheronte, che era ai confini dei domini di Areta e di Erode, senza dare alcuna spiegazione delle sue intenzioni. Ed Erode la lasciò andare, senza sospettare cosa la donna tramasse. Ma questa aveva già mandato dei messaggeri a Macheronte, che allora era soggetto a suo padre, in modo che il governatore (della fortezza) potesse preparare tutto per il viaggio. Appena giunta, ella partì per l'Arabia, pensando i vari governatori al trasporto, finché giunse velocemente dal padre e gli rivelò il progetto di Erode. Quegli (=Areta) fece di ciò un motivo di inimicizia, in aggiunta alla questione dei confini nella regione della Gabalitide. Raccolte truppe da ambedue le parti in vista della guerra, designarono dei comandanti invece di prendere essi stessi il comando. Data battaglia, l'intero esercito di Erode fu distrutto, in seguito al tradimento di alcuni rifugiati, che provenivano dalla tetrarchia di Filippo e si erano uniti alle forze di Erode. Erode scrisse queste cose a Tiberio. Questi, adiratosi perché Areta aveva cominciato le ostilità, scrisse a Vitellio (Legato in Siria negli anni 35-37: cf. Tacito, Ann 6, 32) di dichiarargli guerra e di condurre a lui Areta in catene, se l'avesse catturato vivo, o di mandargli la testa, se fosse stato ucciso. Queste cose Tiberio ordinò al governatore di Siria.
Ma ad alcuni giudei sembrò che l'esercito di Erode fosse stato distrutto da Dio, e del tutto giustamente, per punire il suo trattamento di Giovanni soprannominato “battista”. Erode, infatti, aveva ucciso quest'uomo buono, che esortava i giudei a condurre una vita virtuosa e a praticare la giustizia vicendevole e la pietà verso Dio, invitandoli ad accostarsi insieme al battesimo. In ciò, infatti, il battesimo doveva risultare secondo lui accetto (a Dio): non come richiesta di perdono per eventuali peccati commessi, ma come consacrazione del corpo, poiché l'anima era già tutta purificata con la pratica della giustizia. Ma quando altri si unirono alla folla, poiché erano cresciuti in grandissimo numero al sentire le sue parole, Erode cominciò a temere che l'effetto di una tale eloquenza sugli uomini portasse a qualche sollevazione, dato che sembrava che essi facessero qualunque cosa per decisione di lui. Ritenne perciò molto meglio prendere l'iniziativa e sbarazzarsene, prima che da parte sue si provocasse qualche subbuglio, piuttosto che, creatasi una sollevazione e trovandosi in un brutto affare, doversene poi pentire. Perciò (Giovanni), per il sospetto di Erode, fu inviato in catene a Macheronte, la fortezza di cui abbiamo già parlato, e là fu ucciso. Ma l'opinione dei giudei fu che la rovina dell'esercito venne da Dio, che volle punire Erode per averlo condannato” (Giuseppe Fl, Ant. 18, 109-119).


E' innanzitutto da rilevare come Giuseppe Flavio ci faccia conoscere degli aspetti della storia di Erode Antipa non descritti dalle fonti evangeliche. Veniamo così a sapere che era sposato con la figlia di Areta IV, re dei Nabatei, che regnò dal 9 a.C. al 40 d.C., avendo come capitale Petra (è il periodo del massimo splendore di Petra, quello nabateo; il predecessore di Areta IV è Obodas ed è lui che fa erigere la famosa Khazneh, il "Tesoro", all'ingresso della città). Il dominio di Areta si estendeva fino a Damasco (anche se, forse, non in maniera diretta) ed è da lui che l'apostolo Paolo scapperà, facendosi calare in una cesta dalle mura di Damasco (2Cor 11, 32-33 e At 9, 23-25).
Il testo di Flavio Giuseppe conferma le nozze di Erode Antipa con la cognata (e nipote) Erodiade, che già aveva una figlia, Salomé (Ant. Giud. 18, 136 ss.). Conferma altresì il grandissimo seguito di popolo che aveva il Battista. La motivazione che da dell'uccisione di Giovanni è quella della paura di una rivolta, proprio a motivo del successo della sua predicazione. Questa affermazione non deve essere preferita necessariamente alla motivazione evangelica del rifiuto del Battista di approvare le seconde nozze di Erode fino alla pubblica condanna di esse. Entrambe le motivazioni, quella dello storico Flavio Giuseppe e quella neotestamentaria, potrebbero aver indotto, insieme, alla decisione sulla condanna, presa da Erode.
Infine il teso flaviano sembra sottovalutare la motivazione del battesimo di Giovanni, come penitenza per il perdono dei peccati. Dobbiamo però considerare che Giuseppe Flavio è di discendenza asmoneo-sacerdotale e potrebbe voler riservare all'efficacia dei sacrifici del Tempio il potere del perdono.

GESU' IN FLAVIO GIUSEPPE

Il testo greco di Giuseppe Flavio che ci è pervenuto, appoggiato dalla citazione che fa di esso Eusebio di Cesarea che sembrerebbe a prima vista confermarlo, conserva un breve passo su Gesù:

"Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio, se pur conviene chiamarlo uomo; infatti egli compiva opere straordinarie, ammaestrava gli uomini che con gioia accolgono la verità, e convinse molti giudei e greci. Egli era il Cristo. E dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall'inizio lo amarono. Infatti apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. E ancora fino ad oggi non è scomparsa la tribù dei cristiani che da lui prende nome". (Ant. 18, 63-64)
 
Il passo è, però, giustamente sempre apparso sospetto agli studiosi. Infatti, già Origene precisava che Giuseppe Flavio non era certamente cristiano e che non credeva alla messianicità di Gesù. Nel 1971 è stato pubblicato dallo studioso israeliano S.Pinès una versione araba, risalente al X secolo, della "Storia universale" di Agapio, vescovo di Hierapolis in Siria, che citando lo stesso brano flaviano, così mostra di conoscerlo:

"In quel tempo ci fu un uomo saggio che era chiamato Gesù. La sua condotta era buona ed (egli) era noto per essere virtuoso. E molti fra i giudei e fra le altre nazioni divennero suoi discepoli. Pilato lo condannò ad essere crocifisso e a morire. Ma quelli che erano diventati suoi discepoli non abbandonarono il suo discepolato. Essi raccontarono che egli era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo; forse, perciò, era il Messia, del quale i profeti hanno raccontato meraviglie".
 
Questo testo è, probabilmente, molto simile al tenore originario del passo come uscì dalla "penna" di Flavio Giuseppe ed il testo che ci è giunto in greco deve ritenersi interpolato da un autore cristiano e non della mano diretta dell'autore.

GIACOMO IL MINORE IN FLAVIO GIUSEPPE

Del martirio di Giacomo il Minore abbiamo notizia, oltre che in Flavio Giuseppe, in Egesippo, autore cristiano del II secolo, del quale Eusebio di Cesarea ci conserva un frammento che afferma che Giacomo il Minore fu prima precipitato dal pinnacolo del Tempio, poi lapidato ed infine finito con un bastone. Giacomo il Minore è chiamato nel NT ed anche in Flavio Giuseppe il "fratello del Signore", da non confondere sicuramente con Giacomo il Maggiore, l'apostolo fratello di Giovanni e, nemmeno, probabilmente, con Giacomo di Alfeo, altro apostolo. L'espressione "fratello" è interpretata nella Chiesa ortodossa (a partire da alcuni testi apocrifi) come riferimento ad un vero fratello di Gesù, nato da un primo matrimonio di Giuseppe rimasto poi vedovo e risposatosi con Maria. Nella Chiesa Cattolica, a partire dalla frequenza con cui i parenti di primo grado vengono definiti "fratelli" in ambiente biblico (così, ad esempio, dei cugini Abramo e Lot, nella Genesi), viene invece più comunemente interpretata come riferimento ad un parente stretto del Signore. Dopo la partenza di Pietro da Gerusalemme (At 12, 17) Giacomo il Minore vi esercitò la presidenza della comunità gerosolimitana, fino al suo martirio, avvenuto nel 62 d.C. Di questa morte ci da appunto testimonianza Flavio Giuseppe, raccontandoci come il sommo sacerdote Anano approfittò della vacanza di autorità romana tra la morte di Festo e l'arrivo di Albino, per poter eliminare Giacomo:

Venuto a sapere della morte di Festo, Cesare (Nerone) mandò in Giudea come procuratore Albino. Il re (=Erode Agrippa II) depose Giuseppe dal sommo sacerdozio e ne affidò la successione al figlio di Anano, anch'egli chiamato Anano. Dicono che Anano il Vecchio (=lo Annas dei vangeli, suocero di Caifa) sia stato sommamente fortunato; infatti egli ebbe cinque figli e tutti divennero sommi sacerdoti di Dio, dopo che egli stesso per primo occupò questo ufficio per lungo tempo: cosa che non capitò mai a nessuno dei nostri sommi sacerdoti. Anano il giovane, di cui abbiamo detto che ottenne il sommo sacerdozio, era di carattere avventato e insolitamente audace; faceva parte del gruppo dei sadducei, i quali, come abbiamo già mostrato, quando siedono in giudizio sono sconsiderati più di tutti gli altri giudei. Essendo dunque di tal fatta, Anano, pensando di avere dalla sua un momento favorevole, dato che Festo era morto e Albino era ancora in viaggio, fece radunare il sinedrio per un giudizio, conducendo davanti ad esso il fratello di Gesù detto Cristo, chiamato Giacomo, ed alcuni altri, accusandoli di trasgressione della Legge e condannandoli ad essere lapidati (Ant. 20, 197-203).
 
L'epistola neotestamentaria di Giacomo si presenta come opera di Giacomo il Minore.

LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO E L'ETA' AUGUSTEA

La nascita di Gesù Cristo avviene nel cosiddetto “saeculum augustum”, età di grande prosperità dell'Impero romano, caratterizzata dalla stabilità del governo imperiale per la lunghissima durata dell'autorità di Ottaviano Augusto. I poeti latini dell'epoca lasciano intravedere le attese del momento e si schierano a fianco del sovrano per esaltarne le imprese e la sua capacità di “pacificare” l'Impero (almeno dal punto di vista romano, non da quello dei popoli conquistati). Così Virgilio, nella IV Egloga:

Giunge ormai l'ultima età dell'oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall'alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto)
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell'oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere e grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orgem).
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell'antica malvagità
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. Oh, rimanga a me l'ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese.

 
Così lo studioso R.Penna commenta il testo da lui tradotto: “A parte le apparenti risonanze messianiche del testo, nell'intenzione del poeta il fanciullo potrebbe essere: o un figlio del console Pollione (che era stato uno dei protagonisti dell'accordo di Brindisi nel 40, mirante a porre fine allo ostilità fra Antonio e Ottaviano); o un figlio auspicato (ma fu poi una figlia, Antonia Maggiore) di Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, le cui labili nozze sancirono appunto l'accordo di Brindisi; o Marcello, nato però già nel 43 da un precedente matrimonio di Ottavia e prediletto da Ottaviano (e morto poi nel 23 a. C.); oppure un simbolo della stessa nascente età dell'oro inaugurata poi da Ottaviano. Comunque, in questo contesto di fervide attese, Augusto, proseguendo sulle orme del prozio Giulio Cesare, poté gettare le basi di un nuovo ordinamento pubblico”.

IL CRISTIANESIMO A ROMA SOTTO CLAUDIO

Un dato straordinario che risulta dai testi antichi è la velocità di diffusione del cristianesimo primitivo, ben prima della stesura definitiva del Nuovo Testamento. Ne abbiamo testimonianza, ancor prima del racconto degli Atti degli Apostoli, dalle notizie che gli storici romani ci riferiscono sulla presenza dei cristiani a Roma sotto l'imperatore Claudio (41-54 d.C.).
Così scrive Svetonio:

“I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli (= Claudio) li scacciò da Roma (Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantis Roma expulit)” (Claudius 25).

Questa breve notizia pone almeno tre problemi: chi era “Cresto”, quale ampiezza ebbe il provvedimento di Claudio e quando esso fu preso. Gli studiosi moderni sono giunti alla conclusione che, per il fenomeno dello iotacismo (l'evoluzione fonetica del suono “e” in “i” e viceversa), si tratta realmente di un riferimento al Cristo (spesso, in testi antichi i cristiani sono detti “crestianoi”). Svetonio, non bene informato, non è in grado di rendersi conto di chi sia questo “Cresto”, ma ha notizia che, a causa del suo nome, c'era agitazione nelle sinagoghe romane di quegli anni.
Secondo gli Atti degli Apostoli “l'ordine di Claudio allontanava da Roma tutti i giudei” (At 18, 2). Questa descrizione estensiva (che pure ci conferma il fatto) non appare avvalorata da un secondo scritto latino che si riferisce allo stesso avvenimento. Così, infatti, Dione Cassio, vissuto a cavallo fra il II ed il III secolo d.C. scrive:

“Quanto ai giudei, i quali si erano di nuovo moltiplicati in così grande numero che, a motivo della loro moltitudine, difficilmente si potevano espellere dalla città senza provocare un tumulto, egli (Claudio) non li scacciò, ma ordinò loro di non tenere riunioni, pur continuando nel loro tradizionale stile di vita. Egli sciolse anche le associazioni ripristinate da Caligola” (Hist 60, 6, 6).
 
E' probabile allora che Claudio avesse scacciato solo i giudei ed i giudeo-cristiani (conosciamo, sempre da At 18, 2, i nomi di Aquila e di sua moglie Priscilla, espulsi da Roma in quella circostanza) coinvolti nel tumulto, mentre per tutti gli altri avesse solo emanato provvedimenti restrittivi.
Lo storiografo cristiano Paolo Orosio, vissuto nel V secolo d.C., attribuisce questi avvenimenti all'anno 49. Sembra invece più plausibile la data di Dione Cassio che li pone all'inizio del regno di Claudio, nell'anno 41. Certo è che, in un solo decennio, già il cristianesimo era talmente conosciuto da essere motivo di discussione a Roma, nelle sinagoghe.

IL CRISTIANESIMO A ROMA SOTTO NERONE

Della persecuzione dei cristiani sotto Nerone abbiamo notizie precise negli Annali di Tacito. Egli, dopo aver raccontato del grande incendio che scoppiò a Roma, distruggendo gran parte delle zone adiacenti ai Fori, e di come corresse voce fra il popolo che fosse stato lo stesso imperatore a provocarlo per impossessarsi di quei luoghi per costruire la sua residenza privata (quella che sarà poi la Domus Aurea), ci racconta del tentativo neroniano di indicare come capro espiatorio i cristiani. E' la persecuzione in cui periranno i cosiddetti “protomartiri romani” (i primi martiri romani) e, con loro, Pietro e Paolo. La tomba di Pietro sorge, sotto l'attuale basilica, proprio a fianco del circo neroniano - che aveva al suo centro l'obelisco che è stato poi spostato al centro di piazza S.Pietro - uno dei luoghi dell'eccidio, avvenuto nell'anno 64 d.C. Così recita il testo di Tacito:

Ma né interventi umani, né largizioni del principe, né sacrifici agli dei riuscivano a soffocare le voce infamante che l'incendio fosse stato comandato (quin iussum incendium crederetur). Allora, per mettere a tacere ogni diceria, Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati coloro che i volgo chiamava Crestiani, odiosi per le loro nefandezze (quos per flagitia invisos vulgus Chrestianos appellabat). Essi prendevano nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio (auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat); repressa per breve tempo, quella funesta superstizione (exitiabilis superstitio) ora riprendeva forza non soltanto in Giudea, luogo d'origine di quel male, ma anche nell'urbe, in cui tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. Furono dunque arrestati dapprima coloro che confessavano (di essere cristiani), poi, sulle rivelazioni di questi, altri in grande numero (ingens multitudo) furono condannati non tanto come incendiari quanto come odiatori del genere umano (odio humani generis). E alle morti furono aggiunti i ludibri, come il rivestirli delle pelli di belve per farli dilaniare dai cani o, affissi a delle croci (crucibus adfixi) e bruciati quando era calato il giorno, venivano accesi come fiaccole notturne.
Nerone aveva offerto i suoi giardini (hortos suos) per tali spettacoli e dava dei giochi nel circo (circense ludicrum edebat) ora mescolandosi alla plebe vestito da auriga, ora stando ritto sul cocchio. Così, benché criminali e meritevoli delle maggiori pene, nasceva pietà per loro (miseratio oriebatur), perché venivano messi a morte non per il bene di tutti, ma per saziare la crudeltà di uno solo (Annales 15, 44, 2-5).

GESU' NEL TALMUD

Nelle fonti ebraiche rabbiniche troviamo alcuni accenni a Gesù. Il passo più interessante è riportato nel Talmud e, sebbene alcuni vi vedano riferimenti ad un personaggio diverso da Gesù, la maggioranza degli studiosi non ha dubbi che ci si riferisca a lui:
Viene tramandato: Alla vigilia (del ðabbât e) della pasqua si appese Jçðu (han-n? srî = il nazareno). Un banditore per quaranta giorni andò gridando nei suoi confronti: “Egli (Ješu han-nôsrî) esce per essere lapidato, perché ha praticato la magia e ha sobillato [hissit] e deviato [hiddia h] Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa, venga e l'arrechi per lui”. Ma non trovarono per lui alcuna discolpa, e lo appesero alla vigilia del (ðabbât e) della pasqua. Ulla [un rabbino del IV secolo] disse: “Credi tu che egli (Jçðu han-n? srî) sia stato uno, per il quale si sarebbe potuto attendere una discolpa? Egli fu invece un mesît [uno che conduce all'idolatria] e il Misericordioso ha detto: Tu non devi avere misericordia e coprire la sua colpa [Dt 13,9]!”: Con Jçðu fu diverso, poiché egli stava vicino al regno [malkut] (Talmud Babilonese Sanhedrin 43a).
Il testo conferma la datazione evangelica della passione (Gv 19, 14. 31), alla vigilia della Pasqua, che in quella circostanza cadeva di sabato. L'accusa è quella di "magia" (riferimento negativo alla pretesa dei miracoli) e di incitamento alla deviazione dalla retta fede. "Appendere", una parafrasi del verbo "crocifiggere" è usata, come in alcuni passi del NT, ad indicare la crocifissione.
Il bando di 40 giorni, chiaramente non fondato storicamente, potrebbe essere un tentativo di ribattere ad accuse sulla brevità e rapidità del processo a Gesù a Gerusalemme. Il passaggio dalla lapidazione, proposta inizialmente, alla crocifissione finale suppone un passaggio dalla giustizia ebraica a quella romana.
Un secondo brano ci riporta alla polemica con i cristiani:
Abbahu dice: “Se qualcuno ti dice “Io sono Dio ('anî' el)”, egli è un mentitore; (se ti dice) “Io sono il figlio dell'uomo ('anî ben-'a dâm)”, alla fine egli do vrà pentirsene; (se ti dice) “Io ascenderò al cielo”, lo dice e non lo può fare” (Talmud Palestinese, Ta'anit II, 1, 65b).
  Abbahu è un rabbino vissuto a Cesarea nel III secolo. Il testo riporta in chiave polemica affermazioni sulla identità di Gesù.
Un terzo brano ci fa intravedere una discussione sulla interpretazione della Torah:
Rabbi Eliezer disse: una volta camminavo al mercato superiore di Sefforis e incontrai uno dei discepoli di Gesù il Nazareno (Ješu han-nôsrî), chiamato Giacobbe del villaggio di Sekhanja. Egli mi disse: “Nella vostra Torah è scritto: “Non porterai il denaro di una prostituta nella casa del Signore” (Dt 23,19). Com'è? Non si può con esso costruire un cesso per il sommo sacerdote?”. Io non gli risposi. Ed egli mi disse: “Così mi ha insegnato Gesù il Nazareno: “Fu raccolto a prezzo di prostitute e in prezzo di prostitute tornerà” (Mi 1,7); da un luogo di sozzura è venuto e in un luogo di sozzura andrà”. La parola mi piacque; perciò io fui arrestato a motivo di eresia (minut) (Talmud B abilonese Ab. Zarâ 16b).
R. Eliezer ben Hyrkanos, maestro del famoso R. Aqiba, è scomunicato per un certo tempo dalla sinagoga, perché apprezza una interpretazione troppo libera della Torah data da un cristiano a Sefforis, vicino Nazareth.

L'ALLONTANAMENTO DEI CRISTIANI DALLE SINAGOGHE

Il Talmud babilonese (TB Ber. 28b-29a) ci attesta che la preghiera ebraica delle "Diciotto Benedizioni" fu composta a Jamnia verso la fine del I secolo d.C. La primitiva recensione palestinese di questa preghiera ebraica ci da testimonianza della cosiddetta "scomunica" verso i cristiani, della quale troviamo, forse, traccia anche in alcuni versetti neotestamentari (Gv 9, 22: "Infatti i Giudei avevano già stabilito che se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga"). E' la Birkat ham-minim ("benedizione dei minim"), dodicesima delle "Diciotto Benedizioni":
"Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e gli eretici ("minim"): siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu, Yahweh, che pieghi i superbi!"
L'apologeta cristiano Giustino, alla metà del II secolo, nel "Dialogo con il giudeo Trifone" ne conferma l'esistenza affermando:
"Voi nelle vostre sinagoghe maledite coloro che si son fatti cristiani" (Dial. 96 e 107).
L'importanza dell'uso di questa formula è attestato da un altro passo del Talmud babilonese:
"Se qualcuno commette un errore in una qualunque benedizione, lo si lasci continuare; ma se si tratta della benedizione dei "minim", lo si richiama al proprio posto, poiché lo si sospetta di essere lui steso un "min" (TB Ber. 29 a).
  L'espressione "min" (plurale "minim") vuol dire letteralmente "quelli di un genere a parte". Probabilmente include le posizioni di più gruppi ritenuti eterodossi dal giudaismo rabbinico, ma comprende sicuramente anche i cristiani, chiamati nella "benedizione" i "nazareni".
Questo lo si evince anche da un midrash a Gen 1, 26 che, riferendosi all'interpretazione cristiana primitiva che vede nel plurale della creazione dell'uomo "facciamo" l'opera delle tre persone della Trinità della Trinità, così afferma:
"Quando Mosè scrivendo la Torah arrivò (a questo passo) esclamò: Signore dell'Universo, quale argomento dai ai "minim"! E l'Eterno gli rispose: Continua a scrivere; e quelli che si ingannano, peggio per loro" (midrash di Gen. R. su Gen 1, 26).

I CRITERI DI STORICITA' NELLO STUDIO DEI VANGELI

"Se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la vostra fede" (1 Cor 15, 14). Fin dall'origine il cristianesimo ha ben compreso di non essere solo parola o predicazione o morale, ma annunzio della realtà dell'Incarnazione e della Pasqua di Cristo che è motivo della salvezza.
Il teologo von Balthasar commentando la frequenza del verbo "vedere" negli scritti neotestamentari, così commentava: "Vedere non è tanto il contemplare di Platone, quanto lo stare di fronte all'evidenza dei fatti".
Dinanzi a correnti riduzioniste che negano la portata storica degli eventi e vi sostituiscono una "gnosi", una salvezza data solo dalla dottrina, ma non dalla realtà dei fatti, la "teologia fondamentale" (la branca della teologia che studia i fondamenti del discorso teologico e dei motivi della credibilità del cristianesimo) ha approfondito la ricerca sulla storicità dei vangeli, per gettare luce sul Gesù storico e sulla sua identità con il Cristo della fede.
Una vasta opera di sintesi del lavoro di decenni è stata compiuta dal teologo canadese
R.Latourelle, nella sua opera "A Gesù attraverso i vangeli. Storia ed ermeneutica", Cittadella editrice, Assisi, 1979. Quattro criteri fondamentali, analoghi a quelli di ogni ricerca storica, vengono applicati in modo convergente al testo evangelico: il criterio "della molteplice attestazione" (un fatto è accertabile storicamente se attestato da più fonti indipendenti fra loro, poiché "testis unus testis nullus", "un solo testimone è un testimone non valido"), il criterio "di discontinuità" (garantisce che un fatto non sia esemplato su di un altro, ma sia originale, in discontinuità, in rapporto di novità con il suo contesto), il criterio "di conformità" (pur nella originalità il fatto deve appartenere a quell'epoca ed al suo contesto storico; un testo totalmente difforme dal suo contesto è stato scritto in un'epoca differente), il criterio "di spiegazione necessaria" (esistono fatti senza i quali non è pensabile ciò che è successivo e storicamente certo).
Ad esempio lo studio dei testi dell'"ultima cena", può avvalersi di una molteplice attestazione di fonti indipendenti (sia i sinottici, sia le lettere paoline, sia, a suo modo, il racconto eucaristico del pane del cielo di Giovanni), risulta di una discontinuità sorprendente (l'affermazione "Questo è il mio sangue", in un contesto ebraico che rispetta il "sangue" come simbolo della stessa vita) pur nella continuità evidente con ciò che sappiamo della celebrazione del seder pasquale ebraico (la cena della Pasqua). Non vi è alcun dubbio fondato, secondo gli studiosi, sulla sostanziale storicità dell'ultima cena, come ce la descrivono i vangeli. Un secondo esempio è l'espressione aramaica "Abba", "Padre", che ci è conservata dai testi evangelici nella forma originale in cui Gesù la pronunciava. Il criterio della "spiegazione necessaria" viene applicato ai miracoli ed, in particolare, a quello che precede immediatamente l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, la resurrezione di Lazzaro. Come spiegare altrimenti l'immenso tripudio di folla e attesa della popolazione di Gerusalemme e le accuse di "magia" che troviamo nelle fonti extrabibliche rivolte a Gesù?
Un secondo gruppo di criteri di storicità è individuato, una volta che alcuni fatti centrali sono stati sufficientemente accertati e determinati, nella aderenza a quello che possiamo chiamare lo "stile di Gesù", il suo peculiare modo di essere e parlare ed, inoltre, nello studio della "intelligibilità interna del racconto" oltre che nella analisi di brani che hanno una "interpretazione diversa, ma un accordo di fondo". La moderna critica storica sulla vita di Gesù afferma che, sebbene i vangeli non siano "cronache" nel senso moderno del termine, tuttavia la sostanziale storicità di ciò che è raccontato è ragionevolmente sostenibile secondo i moderni criteri storici.


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