Il Canone ebraico delle Scritture non nasce “a priori”, non ha origine dalla consapevolezza piena
degli Scrittori sacri di comporre opere da inserire in un canone. E' piuttosto la Tradizione a riconoscere come
ispirati da Dio i testi che vengono riuniti poi a comporre la Bibbia. E' lo stesso procedimento che porta alla
costituzione del canone cristiano delle Scritture. Non è possibile chiarire, con i dati storici a nostra
disposizione, tutte le singole e determinate tappe del processo, ma è evidente che il dato storico si
integra con il dato di fede della tradizione.
Già nel Prologo del Siracide (che, però, per l'ebraismo, non è un libro canonico; il Siracide
è stato tradotto in greco intorno all'anno 130 a.C.) troviamo scritto: “Molti e profondi insegnamenti
ci sono stati dati nella Legge, nei Profeti e negli altri Scritti successivi ad essi” (Sir, prologo, 1). E'
la divisione in tre parti delle Scritture ebraiche che diverrà poi tradizionale: la Legge (in ebraico la
Torah, comprendente i primi cinque libri, detti in greco il “Pentatetuco”), i Profeti (in ebraico
“Neviim”, poi divisi in anteriori – quelli che nella Bibbia cristiana saranno chiamati
“libri storici” – e posteriori), gli Scritti (in ebraico “ketuvim”, che saranno
chiamati dalla tradizione cristiana i “sapienziali”). Le iniziali delle tre parti danno la parola
“Tanak” che è il modo abituale di chiamare la Scrittura nella tradizione ebraica. Questa
divisione in tre parti ritroviamo anche in alcuni passi neotestamentari, come Lc 24, 44: “Bisogna che si
compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”. Il Siracide
indica le tre parti, ma non ci dice quali libri siano compresi in questa suddivisione.
Flavio Giuseppe, due secoli dopo, ci lascia una testimonianza più esplicita del canone ebraico nel Contra
Apionem 1, 8:
“Non esiste tra noi un'infinità di libri discordi e contraddittori,
ma 22 soltanto che abbracciano la storia di tutti i tempi e che sono giustamente
considerati come divini. Sono tra essi i cinque libri di Mosè, contenenti
le leggi e il racconto degli eventi svoltisi dalla creazione dell'uomo fino alla
morte del legislatore degli Ebrei... Dalla morte di Mosè fino al regno
di Artaserse i profeti che succedettero a Mosè raccontarono in 13 libri
i fatti che si svolsero nel loro tempo. Gli altri quattro libri contengono inni
in onore di Dio e precetti utilissimi per la vita umana. Da Artaserse a noi, gli
avvenimenti sono stati parimenti messi per iscritto; ma questi libri non hanno
acquistato la stessa autorità dei precedenti, perché la successione
dei profeti non è stata bene stabilita”.
Molti studiosi ipotizzano che una vera e propria decisione ufficiale e conclusiva su quali siano le Scritture
ispirate per l'ebraismo sia stata presa in un “sinodo rabbinico” tenutosi a Jamnia (o Jabneh)
città sulla costa del Mediterraneo ad ovest di Gerusalemme. In effetti gli eventi della caduta di
Gerusalemme e della distruzione del Tempio, nel 70 d.C., e la precedente e successiva espansione del
cristianesimo, avevano sensibilmente modificato la situazione religiosa in Israele. La tradizione vuole che la
scuola di Jamnia sia stata fondata da Rabbi Johanan ben Zakkai, dopo il 70 d.C., e che, circa 10 anni dopo,
Gamaliel II sia divenuto capo della scuola rabbinica della città e, insieme ad Eleazar ben Azariah, ne sia
stato, tra l'80 ed il 117 d.C., il rabbino più importante. Sarebbe proprio in questa località che,
tra il 90 ed il 100 d.C. si sarebbe tenuto un Sinodo volto a dire una parola definitiva sul Canone ebraico.
Sappiamo, dalle fonti rabbiniche, con certezza che a Jamnia si svolse un dibattito relativo alla
canonicità di Qohelet ed Ester e che la decisione finale fu che essi sono libri “che sporcano le
mani”, ossia “ispirati da Dio”, da non maneggiare alla leggera e che richiedevano di
purificarsi le mani, dopo averli toccati. Sempre da fonti rabbiniche (Tosephta, Yadaim 2, 13) sappiamo che i
rabbini arrivarono alla conclusione che il Siracide, invece, “non sporcava le mani”, ma non sappiamo
precisamente dove e quando ciò sia avvenuto. Ne troviamo infatti copia sia nella sinagoga di Masada, che
fu espugnata dai romani nel 73 d.C., sia nella “gheniza” della Sinagoga del Cairo.
Concludendo, possiamo renderci conto, attraverso le tappe sopra descritte, di come si arrivò alla
conclusione condivisa dei libri appartenenti al Canone del Tanak. Furono esclusi dal Canone tutti i libri
composti dal giudaismo alessandrino e presenti solo nella LXX. La maggior parte di questi testi sono stati
scritti direttamente in greco, ma alcuni hanno, invece, un originale ebraico, come appunto il Siracide. Forse
concorse a questa esclusione anche il fatto che la traduzione della LXX che li conteneva, nata nel giudaismo, fu
poi quella usata dal cristianesimo nascente ed è quella che è continuamente citata nel NT. Il
bisogno originario di provare l'origine divina di questa traduzione, che vediamo testimoniato nella famosa
lettera di Aristea, opera di un ebreo ellenistico, cedette il passo al bisogno di distanziarsi da essa.
I testi presenti nella LXX e non nel Canone ebraico sono Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Baruc e l'epistola di
Geremia (=Bar 6), Siracide e Sapienza, più alcune sezioni greche dei libri di Daniele ed Ester.
Anticamente, secondo la terminologia di Eusebio di Cesarea, in ambiente cristiano, i libri accettati da tutti
venivano detti “omologoumenoi” (cioè “unanimemente riconosciuti”), mentre gli
altri venivano detti “antilegomenoi” (cioè “discussi”).
Dopo il Concilio di Trento Sisto da Siena (morto nel 1569), per indicare i libri non accolti dalla Riforma
protestante, usò per primo l'infelice parola “protocanonici” ad indicare quelli che sarebbero
stati accolti in un primo momento da un ipotetico “primo canone” e “deuterocanonici”
quelli su cui si sarebbe creato solo successivamente un consenso in un presunto “secondo canone”. E'
l'espressione che viene usata abitualmente negli studi recenti.
La tradizione ebraica suddivide i libri biblici in tre gruppi. All'inizio sta la Torah, che comprende gli stessi
primi cinque libri del Pentateuco greco. La sua posizione iniziale indica la sua priorità e la sua
importanza. Nella lettura sinagogale la Torah viene letta continuativamente, in maniera da terminarne l'intera
lettura ogni anno. La finale della Torah, come evidenziano gli studi di J.L.Ska, ci indica la consapevolezza di
questa rilevanza:
“Non è più sorto in Israele un profeta come Mosé – lui con il quale il
Signore parlava faccia a faccia – per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a
compiere… e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosé aveva operato davanti agli occhi
di tutto Israele Dt 34, 10-12).
Alla Torah seguono immediatamente i Neviim, i Profeti (quelli che il cristianesimo chiama “libri
storici” sono chiamati anch'essi dalla tradizione ebraica “libri profetici” ed, in effetti, al
loro interno la presenza profetica è rilevante, basti pensare che la storia di Elia, colui che rappresenta
tutti i profeti, è descritta proprio in questi libri). La loro posizione suggerisce che il loro ruolo
specifico è quello di commentare la Torah, di aiutare a comprenderla meglio. I versetti finali dell'ultimo
dei libri profetici, il profeta Malachia (secondo la disposizione canonica della Bibbia) così recita,
rinviando al passato ed, insieme, aprendo al futuro:
“Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull'Oreb, statuti e norme per
tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore,
perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io
venendo non colpisca il paese con lo sterminio” Mal 3, 22-24.
Più lontani dal cuore del Tanak, la Torah, stanno gli Scritti, i Ketuvim. Anche essi terminano, e con
essi la Bibbia ebraica, guardando al passato, indicando il Tempio, la cui costruzione è descritta nei
Neviim, ma insieme con uno sguardo che si protende al futuro, la ricostruzione del Tempio:
«Dice Ciro, re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli
mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo
popolo, il suo Dio sia con lui e parta!» (2 Cr 36, 23).
La Bibbia cristiana, pur scoprendo nel nuovo contesto di Cristo e del dono dello Spirito Santo, un “sensus
plenior” dell'Antico Testamento, tuttavia venera anche il senso letterale di esso. Vi è, in questo,
una profonda differenza rispetto all'atteggiamento islamico nei confronti dei testi biblici. L'Islam non solo
reinterpreta le storie bibliche, ma soprattutto ne rifiuta la “lettera” dichiarando le Scritture
corrotte e falsificate da ebrei e cristiani (e, per questo, non ne riporta mai versetti come citazioni).
Già la disposizione dei Libri veterotestamentari nella Bibbia cristiana ne indica la loro peculiare
lettura. Essi sono visti come prefigurazione e annuncio della venuta del Cristo e, per sottolineare questo, i
Libri profetici sono maggiormente svincolati dal Pentateuco e sono disposti alla fine, subito prima dei Vangeli e
del Nuovo Testamento, come anello di passaggio verso la Nuova Alleanza in Cristo. Questo passaggio è
operato attraverso una divisione dei Neviim, in due gruppi, il primo dei quali è detto dei “Libri
storici” e segue immediatamente il Penatteuco, come nella Bibbia ebraica, il secondo, invece, quello dei
“Profeti” veri e propri è posto dopo i “Sapienziali” che corrispondono ai Ketuvim,
agli Scritti delle Scritture ebraiche.
DISPOSIZIONE DELLA |
DISPOSIZIONE DELLA |
TORAH |
PENTATEUCO |
NEVIIM (PROFETI) |
LIBRI STORICI |
KETUBIM (SCRITTI) |
SAPIENZIALI |
|
PROFETI |
L'interpretazione cristiana peculiare poi sottolinea, già nella stessa “lettera”
neotestamentaria, ancor più l'attesa del “nuovo” rivelato in Cristo. La chiusa del Pentateuco,
con la morte di Mosè che non entra nella terra promessa viene riletta non come punizione divina, ma come
prefigurazione che la Terra Promessa non è quella terrena (altrimenti Mosè avrebbe dovuto
entrarvi), bensì quella che solo la venuta di Cristo apre agli uomini, così il non pieno possesso
della terra da parte di Abramo e così via. Mosè non è entrato, perché, in fondo, non
era importante entrarvi e, soprattutto, come attesa del “vero ingresso”:
“Per fede Abramo soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le
tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città
dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso… Nella fede morirono tutti
costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di
essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di
una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi;
ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi
loro Dio: ha preparato infatti per loro una città… Per fede Mosè, divenuto adulto,
rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di
Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo
ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa… Eppure, tutti costoro, pur
avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista
qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi” (Eb 11, 9-10,
13-16, 24-26, 39-40).
La fede ebraica afferma che esiste, a fianco della Torah scritta, una Torah orale che è stata ricevuta
anch'essa al Sinai. E' evidente nell'ebraismo, ciò che è vero nel cristianesimo ed in ogni
religione, cioé il fatto che è la tradizione viva che da la corretta interpretazione di ciò
che viene tramandato per iscritto. Così scrive il Sifre Deuteronomio, che è una delle raccolte
più antiche di commentari rabbinici al libro del Deuteronomio, redatta prima del 250 a.C.):
“Essi insegnano i tuoi giudizi a Giacobbe, le tue Torot (plurale di Torah) a Israele” (Dt 33,10).
Questo insegna che due Torah sono state date a Israele, una scritta e una orale. Agnitos il governatore
domandò a Rabban Gamaliel: Quante Torah sono state date a Israele? Egli rispose: Due, una scritta e una
orale” (Sifre Deuteronomio, su Dt 33,10).
O ancora:
“Rabbì Chaggai, in nome di Rabbì Shemuel bar Nachman, dice: Sono state dette delle parole
oralmente (letteralmente “per bocca”) e sono state dette delle parole per iscritto. Noi non sappiamo
quali siano, delle due, le più preziose. Ma per il fatto che sta scritto: “Perché sulla base
(letteralmente “sulla bocca”) di queste parole io ho contratto un'alleanza con te e con
Israele” (Es 34,27), si deve dire che le più preziose sono quelle orali” (j.Peah 2, 4;
17a).
Il trattato “Avot”, “I padri”, il trattato della Mishnah che presenta le catene di
maestri che hanno trasmesso la Torah orale, così comincia:
“Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli Anziani,
e gli Anziani ai Profeti, e i Profeti la trasmisero agli Uomini della Grande Congregazione. Questi dicevano tre
cose: Siate cauti nel giudizio; educate molti discepoli; fate una siepe intorno alla Torah” (Mishnah, Avot
1, 1).
Questa ultima espressione “fare una siepe intorno alla Torah” è una chiave di comprensione
dell'interpretazione biblica del giudaismo successivo. Essa invita ad accertarsi che il “giardino dei
comandi della Torah” non venga calpestato e, a tal fine, si erige intorno ai comandi una serie di precetti,
una “siepe” che salvaguarda dalla possibilità di trasgredire la volontà divina. Uno
degli esempi notevoli è quello di alcuni precetti alimentari, nei quali il comando biblico viene
interpretato nella sua possibilità più estensiva. Il versetto “Non farai cuocere un capretto
nel latte di sua madre” (Es 23, 19; 34, 26; Dt 14, 23, il cui significato originario è probabilmente
“non ucciderai un capretto quando ancora allatta” o “se uccidi il capretto per cibarti, lascia
in vita sua madre”) viene interpretato come comando divino di non mescolare mai, nella preparazione dei
cibi, nessun ingrediente che viene dalla carne con nessun ingrediente che proviene dal latte. Questa costante
attenzione ai precetti, diviene segno di una vita che, in ogni suo particolare, è sotto lo sguardo di
Dio.
La ricchezza della molteplicità delle interpretazioni è conservata, spesso senza che una ne
escluda un'altra, tanto è grande la ricchezza della rivelazione divina:
“Rabbì Jochanan dice: Che cosa significa ciò che sta scritto: “Il Signore ha dato
una parola, annunci per un'armata numerosa” (Sal 68, 12)? Ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza
sul monte Sinai si divideva in settanta lingue. E' stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmael:
“Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che
frantuma la roccia?” (Ger 23, 29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni
parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue” (b.Shabbat 88b).
La tradizione orale è stata messa per iscritto in due opere che sono caposaldi della fede ebraica: la
Mishnah ed il Talmud. La Mishnah (“ripetizione”, “cosa insegnata per tradizione orale”,
dal verbo “shanah” che vuol dire “ripetere”) racchiude i detti dei “tannaim”,
i maestri del periodo tannaitico (dall'aramaico “tene” che vuol dire “studiare”,
“imparare”), che vanno dall'inizio dell'epoca talmudica (con i maestri contemporanei di Cristo,
Hillel e Shammai) fino al 200 d.C. Redattore della Mishnah è considerato Jehudah ha-Nasì (Giuda il
“principe” o “patriarca”).
Il Talmud (“studio”, “dottrina”) si presenta come un ulteriore commento autorevole alla
Mishnah. Raccoglie il lavoro dei maestri detti “Amoraim” (dall'ebraico “'amar”,
“interpretare”) che vanno dal 200 (anno di chiusura del periodo mishnaico) al 600 d.C.
Ne esistono due grandi recensioni, il Talmud palestinese o gerosolimitano (Talmud Jerushalmi) redatto all'inizio
del V sec. ed il Talmud babilonese (Talmud Babli) della fine del sec. VI o degli inizi del sec. VII.