Il documento recente più importante della Chiesa cattolica
che spiega la sua dottrina sulla rivelazione di Dio e sulla Bibbia è
la costituzione conciliare Dei Verbum, redatta dal Concilio Vaticano II. Fin
dal suo inizio il documento afferma con forza e chiarezza che Dio ha voluto
manifestare se stesso e non primariamente delle verità o una condotta
di vita.
“Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona
e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il
quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre
nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18;
2 Pt 1,4)” (DV 2).
Ciò è avvenuto nel dono del Figlio eterno, fattosi carne. E' Lui
la Parola del Padre.
“La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio
e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è
insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione” (DV
2).
Non solo Gesù Cristo è la “via” per cui si giunge
al Padre, ma egli è anche la “vita”. Il Figlio non solo è
la persona che trasmette la verità, ma è Lui stesso la pienezza
della rivelazione. I Padri conciliari usarono una importante distinzione affermando
che la Bibbia è la “locutio Dei”, mentre il Figlio è
il “Verbum Dei”. Pertanto il cristianesimo non è una religione
del libro e non c'è una idolatria della Bibbia. La Scrittura è
necessaria, ma è via al Figlio incarnato. Tutto è preparazione
alla venuta del Figlio:
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in
diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni,
ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose
e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione
della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza
della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è
assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, ed è diventato
tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il
nome che ha ereditato” (Eb 1, 1-4).
Il testo conciliare della Dei Verbum dichiara che non è possibile andare oltre Cristo, perché
è Lui in persona “il mistero nascosto nei secoli, ma ora rivelato al mondo”. L'espressione
“mistero” ripresa dall'epistolario paolino sottolinea – a differenza dall'uso profano della
parola che la identifica con ciò che non è comprensibile – il segreto che Dio ha voluto far
conoscere agli uomini e che è la rivelazione del suo volto in Gesù Cristo.
“Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua
presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli,
e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di
verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio
è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna.
L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non
è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro
Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)” (DV 4).
Per il documento “il fatto stesso della presenza” di Cristo è il grande segno della
credibilità della fede. E' Lui in persona il segno dell'amore del Padre, l'Emmanuele, il Dio con noi. Le
sue parole e opere, i suoi segni e miracoli, la sua morte e resurrezione, sono indissolubilmente legati
all'unità della sua persona donata agli uomini.
La storia della salvezza, dalla creazione ai patriarchi, dall'alleanza alla profezia, nelle parole e nei segni,
è preparazione a questa rivelazione definitiva (DV 3).
La costituzione dogmatica Dei Verbum riafferma la coscienza che la Chiesa ha sempre avuto del carattere divino
delle Sacre Scritture:
Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono
scritte per ispirazione dello Spirito Santo (DV 11).
Dio è veramente l'autore della Bibbia e, nonostante la varietà dei suoi redattori umani, la Sacra
Scrittura è un testo profondamente unitario, proprio a motivo dell'unicità del suo Autore:
Tutti i libri sia del l'Antico che del Nuovo Testamento hanno Dio per autore e come tali sono stati
consegnati alla Chiesa (DV 11).
Questa affermazione di fede non toglie, però, il fatto che l'opera di Dio nei confronti degli autori dei
diversi libri della Scrittura non è avvenuta tramite una specie di "dettatura", ma, piuttosto, essi hanno
composto le loro opere ispirate da Dio secondo le particolarità del loro modo di scrivere:
Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro
facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri
autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte (DV 11).
Il dono di scrivere sotto l'ispirazione divina è un dono importantissimo, ma è solo uno dei tanti
doni che lo Spirito Santo ha distribuito nella storia della salvezza e nelle prime comunità cristiane.
Questa opera molteplice dello Spirito nulla toglie alla libertà piena dell'uomo ed alla sua
creatività, anzi la corrobora e fortifica. La verità delle Sacre Scritture, perciò, riguarda
non ogni aspetto degli scritti (ad esempio, non è garanzia di verità di dettagli scientifici o
storici), ma “la verità salvifica”:
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con
certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata
nelle sacre Scritture (DV 11).
Con forza la Tradizione della Chiesa riafferma con la Dei Verbum le parole dell'apostolo Paolo:
Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, per convincere, per correggere, per
educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona (2 Tim 3,
16).
“Tradizione” viene dal latino “tradere”, tramandare, trasmettere. La Tradizione è
“la Chiesa che nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le
generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (DV 8). La parola
teologica “Tradizione” non fa così riferimento a ciò che è antico, vecchio, ma
alla vitalità e fecondità del trasmettere la rivelazione di Dio in Cristo Gesù. Così
la Chiesa non solo trasmette ciò che crede, ma anche e soprattutto “ciò che lei stessa
è, avendolo ricevuto in dono”. Dio stesso ha voluto così che il vangelo proseguisse la sua
corsa fino alla fine dei tempi.
La Tradizione non solo conserva il deposito della fede e lo trasmette, ma “questa Tradizione di origine
apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto
delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in
cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose
spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma
sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della
verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (DV 8).
E' la Tradizione della Chiesa che ha stabilito quali libri siano ispirati e facciano parte delle Sacre Scritture
e quali no. “È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e
nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre
Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio
diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di
questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in
tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16)” (DV 8).
La Tradizione è espressione della presenza dello Spirito Santo che rende sempre nuovamente vivo l'unico
vangelo: “La sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo
Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con
la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa
attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra
devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza” (DV 9).
Il magistero poi “non è superiore alla parola di Dio ma la serve”. Il suo ministero è
quello “d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa” e la sua
“autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo”.
|
|
|
|
I simboli dei quattro evangelisti, nel Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (secolo V d.C.)
|
La parola “secondo” (in greco “katà”, in latino “secundum”) si trova
attestata già fin dal sec. II nel Frammento Muratoriano, ed indica l'autore dei singoli Vangeli. Che
questa parola possa indicare l'autore di un libro risulta da 2 Mac 2, 13 (le memorie “katà
Neemìan”, cioè di Neemia) e da altri esempi della letteratura ellenistica. L'aver scelto
questa perifrasi per designare l'autore rivela la coscienza dell'unità fondamentale del Vangelo: non ci
sono tanti Vangeli, ma uno solo, che è il Vangelo di Gesù Cristo, scritto da (katà)
quattro singoli autori. La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione, Dei Verbum, distingue
l'apostolicità dei Vangeli dalla loro attribuzione a determinati autori. L'origine apostolica dei Vangeli
è affermata con forza, ma è lasciato agli studiosi libero campo nella ricerca sugli autori della
redazione dei Vangeli. Diversi studi sono stati compiuti per quanto riguarda la dipendenza letteraria di un
Vangelo dall'altro e sulla identificazione di fonti scritte precedenti la redazione ultima dei Vangeli e
incorporate in essi. Quanto all'autore del quarto Vangelo, c'è oggi tra i critici una forte tendenza a
rivalorizzarne la singolare testimonianza storica alla luce di fatti nuovi, fra cui sia la scoperta dei papiri
più antichi (P52 Rylands del 130 ca., P66 Bodmer II, 200 ca.) contenenti Giovanni e
non i sinottici, sia la correttezza delle affermazioni giovannee nell'ambito della topografia biblica e
dell'aderenza alle usanze ebraiche del periodo subito precedente alla distruzione del Tempio.
L'iconografia, nella rappresentazione dei quattro evangelisti, si è appropriata dei simboli di Ap 4, 6-8,
a sua volta ispiratosi a Ez 1, 5-10 ed Is 6, 2, per rappresentare gli evangelisti. I quattro “esseri
viventi”, “il leone, il vitello, l'essere d'aspetto umano e l'aquila”, sono originariamente,
nel simbolismo dell'Apocalisse, “degli schemi simbolici” (così U.Vanni) che esprimono la
partecipazione di tutto il creato alla lode di Dio, insieme ai “24 vegliardi” che simboleggiano le 12
tribù di Israele più i 12 apostoli, cioè tutto il popolo raccolto dell'Antica e della Nuova
alleanza. Nella tradizione iconografica divengono i simboli dei quattro evangelisti che annunziano a tutto il
mondo il Santo Vangelo. Gregorio Magno (Omelie su Ezechiele IV, 1), ad esempio, propone l'identificazione del
Leone con Marco, perché Mc inizia con la predicazione di Giovanni Battista, il leone del deserto,
dell'Uomo con Matteo, perché Mt inizia con la genealogia umana di Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale
è nato il Cristo, del Vitello con Luca, perché Lc inizia con il Tempio di Gerusalemme, luogo dei
sacrifici, infine dell'Aquila con Giovanni, perché Gv è come l'aquila che vola più in alto
di tutti e non si ferisce gli occhi, secondo la tradizione antica, guardando dritta con i suoi occhi il sole.
La DV afferma che i quattro Vangeli canonici sono di origine apostolica .
“La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica.
Infatti, ciò che gli Apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito
Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandati in scritti, come fondamento della fede,
cioè l'Evangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni” (DV 18).
Ciò non vuol dire che tutti i quattro Vangeli abbiano avuto per autore uno dei dodici Apostoli. Si vuole,
invece, con questa espressione affermare il fatto che essi sorsero dalla predicazione apostolica e sotto
il controllo e con l'approvazione degli Apostoli e che essi furono accettati dalla Chiesa del periodo apostolico
come conformi all'insegnamento evangelico.
In ogni luogo del NT troviamo delle comunità strutturate e non in preda a fanatismi od isteria. E' una
costante neotestamentaria la preoccupazione di non mutare il “deposito della fede”. Possiamo leggere
nella lettera ai Galati:
“Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito:
vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo
esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver
corso invano. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i
circoncisi - poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche
in me per i pagani - e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne,
diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi
verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di
fare” (Gal 2, 1. 7-8).
La Dei Verbum descrive il cammino che ha portato alla redazione dei vangeli, a partire da Lc 1, 1-4:
“Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce
li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così
ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un
resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli
insegnamenti che hai ricevuto”.
Vengono indicati sinteticamente i tre passaggi – la vita e la predicazione di Gesù, la predicazione
apostolica, l'opera di redazione dei vangeli – che devono essere ripercorsi per verificare
l'attendibilità del testo evangelico.
“La Santa Madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima, che i quattro suindicati
Vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù
Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro
eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At. 1, 1-2). Gli Apostoli poi, dopo l'ascensione
del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che Egli aveva detto e fatto, con quella più
completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di
verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che
erano tramandate a voce o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla
situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da
riferire su Gesù con sincerità e verità. Essi, infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia
alla testimonianza di coloro, i quali “fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della
parola”, scrissero con l'intenzione di farci conoscere la “verità” (cfr. Lc. 1,2-4)
delle cose sulle quali siamo stati istruiti” (DV 19).
La Costituzione conciliare afferma la continuità tra ciò che Gesù operò e
insegnò e quanto i Vangeli narrano di lui per chiarire che tale narrazione è fedele. La
costituzione conciliare parla della piena comprensione data agli apostoli dall'incontro con Gesù risorto e
dalla presenza dello Spirito santo che guida alla verità tutta intera. Questo passaggio non solo non
stravolge la memoria di Gesù, ma anzi la fa comprendere nel suo più intimo significato. E'
sottolineata anche l'originalità di ciascun evangelista che “scelse, sintetizzò,
spiegò con riguardo alle Chiese, scrisse per annunziare e predicare” – cosa che spiega le
differenze fra gli evangelisti – “sempre però riferendo con sincerità e
verità”. “Ho derciso anch'io di fare ricerche accurate, perché tut ti possa rendere
conto della solidità degli insegnamenti ricevuti” (Lc 1, 3-4). Fu il papa Paolo VI in persona a
volere l'inserimento dell'espressione: “di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità”.
"L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, è un ausilio per comprendere come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del suo momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità del suo insieme".
Così il card. J.Ratzinger ha sintetizzato, nella prefazione al documento "Il popolo ebraico e le sue Sacre
Scritture nella Bibbia cristiana" il senso del documento della Pontificia Commissione Biblica "L'interpretazione
della Bibbia nella Chiesa", pubblicato nel 1993.
Il documento fa il punto sui diversi metodi ed approcci al testo biblico adoperati dalle diverse scuole
esegetiche, ne indaga la complementarietà e si sofferma sul “senso spirituale” delle
Scritture, cioè sull'inserimento dei testi nel conteso del mistero di Cristo.
Viene inizialmente presentato il moderno metodo storico di studio dei testi biblici:
"Il metodo storico-critico è il metodo indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto “Parola di Dio in linguaggio umano”, è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l'utilizzazione di questo metodo".
Tale metodo è stato oramai purificato dai presupposti filosofici razionalisti dai quali era nato. Proprio per la ricchezza di ogni testo letterario ed ancor più del testo biblico, il documento sottolinea, però, che tale metodo non è l'unico da tenere presente, ma, al contrario, l'utilizzo dei nuovi metodi letterari (l'analisi retorica, narrativa e semiotica), come gli approcci basati sulla Tradizione (che si avvalgono ora della coscienza dell'unità canonica della Bibbia, ora delle tradizioni di lettura ebraica delle Scritture, ora della storia degli "effetti del testo") apre ulteriori possibilità di comprensione. Il documento sottolinea come questi metodi, rispetto al metodo storico-critico, tendano a privilegiare lo stadio finale di redazione, quello accolto come ispirato dalla Tradizione cristiana. Vengono scandagliati anche gli aspetti positivi e negativi degli approcci alla Bibbia attraverso le scienze umane (sociologico, antropologico-culturale, psicologico e psicoanalitico) o con sottolineature contestuali (approccio liberazionista e femminista). Solo la lettura fondamentalista delle scritture è rifiutata "in toto".
Il documento "L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa", dopo aver analizzato i differenti metodi dell'esegesi e la loro complementarietà, considera la specificità della lettura cristiana della Bibbia:
"L'esegesi cattolica non cerca di distinguersi usando un metodo scientifico particolare… Di conseguenza, utilizza senza secondo fine, tutti i metodi e approcci scientifici che permettono di meglio comprendere il significato dei testi nel loro contesto linguistico, letterario, socio-culturale, religioso e storico… Ciò che la caratterizza è il suo situarsi consapevolmente nella tradizione vivente della Chiesa, la cui prima preoccupazione è la fedeltà alla rivelazione attestata dalla Bibbia. Le ermeneutiche moderne hanno messo in luce… l'impossibilità di interpretare un testo senza partire da una “precomprensione” di un genere o dell'altro. L'esegesi cattolica si avvicina agli scritti biblici con una precomprensione che unisce strettamente la moderna cultura scientifica e la tradizione religiosa proveniente da Israele e dalla comunità cristiana primitiva. La sua interpretazione si trova così in continuità con il dinamismo ermeneutico che si manifesta all'interno stesso della Bibbia e che si prolunga poi nella vita della Chiesa. Corrisponde all'esigenza di affinità vitale tra l'interprete e il suo oggetto, affinità che costituisce una delle condizioni di possibilità del lavoro esegetico".
Già nella stessa Scrittura, testi successivi rivelano un senso più pieno di un'espressione precedente. Questo viene tradizionalmente indicato con l'espressione "sensus plenior" ("senso più pieno"). Così l'esegesi cattolica non fa che continuare ciò che la stessa Scrittura fa. Ma anche il magistero interviene ad indicare una comprensione più profonda di un determinato testo. Quando si parla di "sensus plenior"
"si tratta o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare dà a un testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà un senso pieno all'oracolo di Is 7, 14 sulla "almah" che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta (parthenos): “La vergine concepirà”. L'insegnamento patristico e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell'insegnamento del Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno dell'insegnamento di Paolo in Rm 5,12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l'umanità. Ma quando manca un controllo di questo genere - da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, - il ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.
Non è solo la Scrittura a rileggere se stessa, in maniera sempre più piena. La chiave di volta ed il compimento della rivelazione divina è il Figlio Gesù Cristo. Il Concilio Vaticano II usa distintamente due espressioni significative: la Bibbia è "locutio Dei", il Figlio è il "Verbum Dei". Lo Spirito Santo, da lui donato alla Chiesa, la guida alla comprensione della "verità tutta intera". La lettura della Scrittura nel contesto della morte e resurrezione di Cristo e del dono dello Spirito Santo permette di cogliere quello che la Tradizione chiama il "senso spirituale" delle Scritture.
"Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l'influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. E' perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito".
La Novo Millennio Ineunte (NMI) non in maniera teorica, ma con esempi mostra come la Parola di Dio, il Figlio,
non si manifesti solo nella Scrittura, ma anche nella Tradizione della Chiesa, nel “grande patrimonio che
è la teologia vissuta dei santi”” (NMI 27). Per dare luce al grido di Gesù sulla croce,
alla sua esperienza insieme di abbandono e di confidenza nella presenza del Padre, il Papa cita S.Caterina da
Siena – “E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione
e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello,
l'Unigenito Figlio di Dio, il quale stando sulla croce era beato e dolente” – e S.Teresa di Lisieux
– “Nostro Signore nell'orto degli ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua
agonia non era meno crudele. E' un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco
qualcosa”. Ecco un esempio di esegesi spirituale, di lettura nello Spirito della Sacra Scrittura. Il Papa
che prima si era espresso indicando l'importanza di riscoprire la fondatezza storica dei testi del Nuovo
Testamento, attraverso un lavoro di teologia fondamentale (NMI 17-18), da qui una testimonianza del leggere la
Scrittura nello stesso Spirito Santo con cui è stata scritta.
Di questa feconda tensione vive la collocazione della Scrittura nella liturgia cristiana, che deve sempre essere
proclamata, ma accompagnata obbligatoriamente dalla viva voce della Chiesa che, attraverso l'omelia, la manifesta
viva per il giorno che viviamo.
Così sintetizza la costituzione conciliare Dei Verbum: "La Sacra Scrittura deve essere letta e
interpretata nello stesso Spirito nel quale è stata scritta" (DV 12).
"I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell'Antico Testamento, molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi. Come un «rivelatore» durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere percepita. Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l'Antico un triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione" (n. 64).
Il documento "Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana" della Pontificia Commissione Biblica, pubblicato nel 2001, intende così rifiutare
"un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita" (prefazione del card. J.Ratzinger al documento).
Una lettura unilateralmente storico-critica dell'Antico Testamento negherebbe la stessa verità del Nuovo
Testamento che si propone proprio come compimento in chiave cristologica dell'Antico e condurrebbe
inevitabilmente a ritornare alla posizione di Marcione che, già agli inizi del cristianesimo, vedeva un
Antico Testamento opera di un Dio senza Cristo e, conseguentemente, lo rifiutava.
La ferma condanna degli eventi drammatici della persecuzione ebraica nazista non deve portare ad un abbandono
della lettura cristiana dell'AT, ma anzi la deve confermare, proprio in un clima di accresciuto rispetto verso il
popolo ebraico e di vero dialogo nella conoscenza reciproca dei due diversi filoni di lettura dei testi
veterotestamentari:
"Lo sconvolgimento prodotto dallo sterminio degli ebrei (la shoa) nel corso della seconda guerra mondiale ha
spinto tutte le Chiese a ripensare completamente il loro rapporto col giudaismo e, di conseguenza, a
riconsiderare la loro interpretazione della Bibbia ebraica, l'Antico Testamento. Alcuni sono arrivati a
domandarsi se i cristiani non debbano rimproverarsi di essersi impadroniti della Bibbia ebraica facendone una
lettura in cui nessun ebreo si riconosce. I cristiani dovrebbero allora leggere questa Bibbia come gli ebrei, per
rispettare realmente la sua origine ebraica?
Ragioni ermeneutiche obbligano a dare a quest'ultima domanda una risposta negativa. Infatti, leggere la Bibbia
alla maniera del giudaismo implica necessariamente l'accettazione di tutti i presupposti di quest'ultimo,
cioè l'accettazione integrale di ciò che è costitutivo del giudaismo, in particolare
l'autorità degli scritti e delle tradizioni rabbiniche, che escludono la fede in Gesù come Messia e
Figlio di Dio.
In rapporto alla prima questione, la situazione è invece diversa, perché i cristiani possono e
devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in
continuità con le sacre Scritture ebraiche dall'epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura
cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con
la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un'espressione, risultando di conseguenza
irriducibili l'una all'altra.
Sul piano concreto dell'esegesi, i cristiani possono, nondimeno, apprendere molto dall'esegesi ebraica praticata
da più di duemila anni, e in effetti hanno appreso molto nel corso della storia. Dal canto loro possono
sperare che gli ebrei siano in grado di trarre profitto anch'essi dalle ricerche esegetiche cristiane"
(n.22).