Che cosa si deve propriamente intendere per catechesi dei bambini e dei ragazzi di “ispirazione catecumenale”? (VII parte: In vista dell’Eucarestia. L’Eucarestia culmine, ma anche fonte. Una riflessione a partire dalla teologia della liturgia), di Andrea Lonardo
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Il Centro culturale Gli scritti (9/3/2012)
La discussione sullo spostamento della celebrazione della prima eucarestia dopo la confermazione libera veramente dai rischi di una catechesi troppo preoccupata della sacramentalizzazione o addirittura la rinforza?
La celebrazione eucaristica, infatti, non consiste semplicemente nel ricevere il corpo di Cristo. La liturgia è piuttosto un’azione vivente dove tutto l’uomo con il suo corpo partecipa insieme all’intera chiesa. Lo ricordano i migliori liturgisti contemporanei, tesi a recuperare la globalità dell’esperienza liturgica.
Così, ad esempio, Andrea Grillo[1]:
«La liturgia comincia sempre dal tatto, non dall’intelletto. Comincia non dalla volontà, ma dal tatto. Si celebra anzitutto con le mani, con i piedi. Dire che qualcuno celebra “con i piedi” non è negativo: vuol dire invece la coscienza che il movimento appartiene alla celebrazione! La celebrazione è anzitutto un modo corporeo del rapporto con Dio, Padre Figlio e Spirito Santo.
La liturgia è descritta, non caso, dal corpo. Riguarda appunto l’acqua, l’olio, il pane, il vino, ecc. che toccano ogni soggetto anzitutto nel corpo. Certamente l’uomo non è mai solo corpo, poiché è anche profondità della volontà, profondità dell’intelletto. Ma la liturgia tocca l’intelletto tramite il corpo! Il nostro problema è che abbiamo ridotto l’iniziazione cristiana al suo significato corretto, ortodosso, profondo, ma restringendola alla dimensione mentale. Questa invece non basta e non è mai bastata. Sopratutto nel nostro mondo non basta più. A volte, anche oggi, ci ostiniamo a dare senso alle prassi liturgiche spiegandole mentalmente. No, prima di tutto bisogna farle vivere dall’interno e poi la spiegazione verrà da sé!
Nessuno ha mai spiegato ai bambini che cosa vuol dire che quando c’è un compleanno la torta con le candeline ha un suo rito delicato. Nessuno ha mai scritto una teologia della torta con le candeline, ma nessuno perde il rapporto corporeo con quell’atto. C’è una competenza corporea delle distanze dei tempi fra un anno e l’altro, del modo di soffiare sulla candelina, del come si accende e del come si spengono, del come si aprono i regali. Quella sequenza - pur senza una teologia codificata - è accuratissima. Questo non significa chiaramente che intendiamo ridurre la Messa ad una festa di compleanno, ma ci ricorda che la logica simbolica dei riti è esattamente la stessa.
Il problema è che la tradizione teologica quasi ci costringe a tenere basso il livello corporeo ed a alzare troppo il livello mentale. Questo, invece, uccide la nostra liturgia perché con la testa tutto puoi fare meno che celebrare. Occorre che tu accetti di avere un corpo bisognoso di fare esperienza e di esprimersi.
[...] La liturgia si muove secondo una logica in cui prevale la molteplicità di linguaggi diversi piuttosto che un linguaggio profondo. L’esperienza liturgica è una esperienza in cui l’acqua, l’olio, la parola, la musica, il movimento ti dicono una cosa. Non è che queste cose stanno sullo sfondo ed è solo con la parola che una persona fa l’esperienza.
Nella liturgia ci siano tanti linguaggi che ci riguardano e la maggior parte di questi non sono verbali, sono linguaggi non verbali. Sono linguaggi del colore, del profumo, dello spazio del tempo, del suono. Non si possono tradurre in concetti, ma ci parlano. Noi pretenderemmo di tradurre tutto in concetti. Ma tradurre tutto in concetti non è liturgia: diventerebbe un libro, un trattato, una lettera, non sarebbe più liturgia. La liturgia è qualcosa di più originario di più elementare, di più primitivo che però è più fondamentale di tutte le tradizioni concettuali di cui pure restiamo bisognosi.
Non mi illudo di convincere voi, di convincere me che possiamo vivere senza concetti, guai! Ma i concetti non sono tutto, sono mediazioni fondamentali per vivere una vita molto più complicata e ricca di un concetto, fosse pure il concetto di Trinità, di Incarnazione, di Mistero pasquale. [...]
Noi siamo vittime di una storia complessa in cui il cristiano ha sempre vissuto in modo ricco i loro riti, ma, a causa delle spiegazioni che sono state date dei riti, pian piano ci si è accontentati di riti essenziali. Siamo stati tutti educati in una certa maniera, attraverso una tradizione medievale e moderna a ricercare l’essenziale di una Messa, a dire quale siano le parole che effettivamente determina la consacrazione, quale sia la qualifica di chi le pronuncia, quando il pane e vino siano effettivamente il pane e il vino. Quando c’è il pane e il vino, quando si pronunciano quelle parole, quando chi le pronuncia è un prete o un vescovo, allora quella è una Messa. Ma questo è il surrogato di una Messa! È la Messa che può esserci al limite in un campo di concentramento, oppure su di un aereo che sta per cadere. Normalmente invece quegli elementi, che sono certamente essenziali, sono però in un contesto molto più ricco di parole, di gesti, di movimenti a cui noi teoricamente rinunciamo quando ragioniamo in quel modo essenzialista. Capite che, in questo modo, noi ci siamo messi in testa che i riti siano la loro essenza. Non è così.
I riti ci costringono ad uscire dalla logica del minimo necessario. Quando si celebra un rito bisogna stare su una logica del massimo gratuito. Bisogna sprecare tempo, spazio, parole. Non si tratta di dire il minimo necessario, altrimenti quello non è più un rito, ma è un atto amministrativo».
Questa prospettiva fornisce un quadro veritiero nel quale collocare il posto dell’eucarestia nel cammino dei bambini già battezzati. Essi scoprono il mistero eucaristico domenica dopo domenica, attraverso il canto, i gesti, le immagini, i segni, gli oggetti liturgici, i movimenti della comunità e del sacerdote, ecc. ecc. Per questo, in una corretta “esperienza” catechetica e liturgica, l’eucarestia è “fons” e non solo “culmen”. Ed è il giorno del Signore, celebrato settimanalmente, ad essere l’asse portante della catechesi.
La domenica con la celebrazione non deve pertanto essere proposta, in maniera artificiale secondo schemi pedagogici nati al di fuori dall’esperienza cristiana, al termine del cammino, bensì accompagnarlo, settimana dopo settimana!
Sempre Andrea Grillo, nella relazione già citata, ricorda come nel cammino dei bambini questo corrisponda pienamente al loro modo di essere e di crescere:
«In questo la lezione migliore l’ho ricevuta dai miei figli. Io ho due bambini, otto anni Margherita, sei anni Giovanni, pregano da qualche anno. Io quando ho cominciato a concepire che potessero essere iniziati all’atto di preghiera della sera ho insegnato loro una piccola forma introduttiva: Padre Nostro e Ave Maria, e una formula di conclusione. Per una settimana la cosa ha retto più o meno. Apro una parentesi, io facilmente frequento luoghi anche monastici e a volte i mie figli sono con me, conoscono Camaldoli, conoscono Santa Giustina, hanno orecchiato vari stili di preghiera. Dopo dieci giorni mia figlia mi dice: “Perché non cantiamo qualcosa?” È strano che una bambina al padre che fa il liturgista gli dia una sollecitazione come questa, il che vedete è una istanza corporea, canora, che è un altro registro, perché un conto è recitare le preghiere, un conto è cantarle.
Tutte le grandi preghiere il meglio di se lo danno quando le canti. Poi possiamo anche solo recitarle, ma dovremmo essere iniziati a conoscerle per il di più, poi possiamo anche restare al meno. Allora che il pregare sia anche atto del corpo, atto del canto, atto dell’orientamento, atto dell’atteggiamento».
Note al testo
[1] I sacramenti dell’iniziazione cristiana, di Andrea Grillo