I sacramenti dell’iniziazione cristiana, di Andrea Grillo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /02 /2012 - 23:21 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito per facilitare la discussione la trascrizione di una relazione tenuta dal prof. Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria presso l’Università Sant’Anselmo di Roma e Santa Giustina di Padova, presso la parrocchia di San Saturnino, il 17/1/2012. Il testo non è stato rivisto dal relatore. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (22/2/2012)

Indice

Io mi occupo di questioni legate alla liturgia dei Sacramenti pur essendo laico, sposato e padre di due bambini dai quali imparo le cose più importanti che dirò anche a voi e che dico abitualmente ai miei studenti.

L’idea è di parlarvi non tanto dei riti che costituiscono l’iniziazione cristiana, a cui ovviamente farò ampio riferimento, ma soprattutto di cercare di farvi capire perché nell’ambito di questa esperienza le cose stanno cambiando nella Chiesa. Uso un’espressione molto cauta - “ stanno cambiando” - non perché si tratta di fare qualcosa di “nuovo”, ma perché dobbiamo essere fedeli ad una tradizione. Ed è la fedeltà alla tradizione che comporta il cambiamento!

Questo vi parrà una cosa strana, perché noi siamo abituati a pensare che per essere fedeli alla tradizione bisogna restare sempre uguali. In realtà la “tradizione” di una famiglia è che ci siano nuove generazioni – solo allora ci sarà una famiglia felice! E perché ci sia una nuova generazione, bisogna tornare ad un rinnovato senso della tradizione. Questo vale anche per la prassi sacramentale che deve rifarsi alle antiche prassi, ma insieme permettere loro di esprimere oggi tutta la loro vitalità e fecondità. E per fare questo non ci basta un sapere storico, un sapere filologico - non basta sapere cosa facevano gli antichi. Dobbiamo innanzitutto interrogare la nostra esperienza.

Lo schema che seguirò è fatto di tre passi:

- Il primo passo è di sapore molto generale. Cercheremo di capire l’approccio corretto ai riti cristiani e questo è in realtà il livello più difficile, quello dove scontiamo una tradizione che non ci aiuta.

- Il secondo passo, un po’ più breve, riguarderà in particolare quel rito che è nella memoria antica di ognuno di noi, anzi prima ancora della nostra memoria, cioè il battesimo. Il battesimo dei bambini è cambiato negli ultimi cinquanta anni non tanto nella prassi, che è più o meno sempre la stessa, ma quanto alla sua concezione.

- Nel terzo passo vorrei concludere su uno dei risultati che dimentichiamo più spesso della iniziazione cristiana e cioè la capacità di pregare. Uno dei risultati più delicati dell’essere iniziati è saper pregare. Cercheremo di capire che cosa significa questa cosa.

1/ Approccio generale al tema della iniziazione cristiana

1.2/ La liturgia comincia dal tatto.

Non perdo altro tempo in premesse. La prima cosa che voglio dirvi è che la liturgia comincia sempre dal tatto, non dall’intelletto. Comincia non dalla volontà, ma dal tatto. Si celebra anzitutto con le mani, con i piedi. Dire che qualcuno celebra “con i piedi” non è negativo: vuol dire invece la coscienza che il movimento appartiene alla celebrazione! La celebrazione è anzitutto un modo corporeo del rapporto con Dio, Padre Figlio e Spirito Santo.

La liturgia è descritta, non caso, dal corpo. Riguarda appunto l’acqua, l’olio, il pane, il vino, ecc. che toccano ogni soggetto anzitutto nel corpo. Certamente l’uomo non è mai solo corpo, poiché è anche profondità della volontà, profondità dell’intelletto. Ma la liturgia tocca l’intelletto tramite il corpo! Il nostro problema è che abbiamo ridotto l’iniziazione cristiana al suo significato corretto, ortodosso, profondo, ma restringendola alla dimensione mentale. Questa invece non basta e non è mai bastata. Sopratutto nel nostro mondo non basta più. A volte, anche oggi, ci ostiniamo a dare senso alle prassi liturgiche spiegandole mentalmente. No, prima di tutto bisogna farle vivere dall’interno e poi la spiegazione verrà da sé!

Nessuno ha mai spiegato ai bambini che cosa vuol dire che quando c’è un compleanno la torta con le candeline ha un suo rito delicato. Nessuno ha mai scritto una teologia della torta con le candeline, ma nessuno perde il rapporto corporeo con quell’atto. C’è una competenza corporea delle distanze dei tempi fra un anno e l’altro, del modo di soffiare sulla candelina, del come si accende e del come si spengono, del come si aprono i regali. Quella sequenza - pur senza una teologia codificata - è accuratissima. Questo non significa chiaramente che intendiamo ridurre la Messa ad una festa di compleanno, ma ci ricorda che la logica simbolica dei riti è esattamente la stessa.

Il problema è che la tradizione teologica quasi ci costringe a tenere basso il livello corporeo ed a alzare troppo il livello mentale. Questo, invece, uccide la nostra liturgia perché con la testa tutto puoi fare meno che celebrare. Occorre che tu accetti di avere un corpo bisognoso di fare esperienza e di esprimersi.

1.2/ Il significato di ciò che accade non si può capire come diritto/dovere, ma anzitutto come dono.

In questo senso, ed è il secondo punto che voglio mettere in luce, un’altra grande difficoltà è che il significato di ciò che accade nel Battesimo, nella Cresima, nella Eucarestia non si può capire in termini di diritti e di doveri. Si può capire anzitutto in termini di una esperienza di dono.

Guardate che questo è molto difficile perché abbiamo una cultura liturgica fatta quasi solo di diritti e di doveri. Posso fare questo, devo fare quest’altro - noi pensiamo alla liturgia come occasione di fare o di non fare qualcosa in chiave di diritto e di dovere. Devo andare a Messa la domenica, posso leggere la prima lettura.

In realtà la liturgia è un’esperienza comunitaria di dono. La prima cosa da mettere in gioco è che con quell’atto si rompe con le logiche di diritti e di doveri che ci asfissiano in tutta la giornata, in tutta la settimana: almeno nel giorno del Signore tu puoi vivere un’ora o cinquanta minuti di gratuità!

E guardate che questa è una seconda sfida, perché come abitualmente la mente prevarica sul corpo, così i diritti e i doveri non tacciono nemmeno a Messa. Siamo bravissimi nel dare la parola anzitutto alle posizioni di pretesa di diritto e alle indicazioni di dovere anche nella liturgia. Nella liturgia, invece, questo è secondo, secondario, perché innanzitutto c’è una esperienza di dono in termini di riti d’ingresso, in termini di ascolto della parola, in termini di liturgia eucaristica, in termini di comunione, in termini di congedo. Nella liturgia si fa una grande esperienza di dono comune.

A questo bisogna iniziare: badate bene, che l’iniziazione cristiana ha questo come obiettivo. Uno degli obiettivi che metterei dinanzi a tutti noi è che la liturgia esca da un impegno pragmatico, per tornare alla logica di dono così come emerge dalla storia della salvezza. Questo vuol dire uscire anche dalla logica della Prima Comunione.

Potete dire: ma questo cosa vuole dire? Che dobbiamo contestare la Prima Comunione? Non contesto la Prima Comunione, ma è il concetto di Prima Comunione che non regge più. È un concetto che è stato elaborato tra il settecento e l’ottocento e che grazie a Pio X è entrato in una grande fortuna di prassi, ma che non ha chiaro che non si tratta di fare la Prima Comunione, bensì di entrare pienamente nella celebrazione eucaristica, che è tutta un’altra cosa.

Fare la Prima Comunione è un atto di un individuo con il suo Signore. Entrare nella celebrazione eucaristica è abitare il rapporto tra Cristo e la Chiesa, e questo fa la differenza. Allora per questo bisogna entrare in logiche di dono prima che in logiche di diritto e di dovere.

1.3/ La molteplicità estesa di una pluralità di linguaggi prevale sulla profondità intensa di un singolo linguaggio.

Un terzo punto che chiarisce cos’è la liturgia di Iniziazione - e ci aiuta a capire cosa vuol dire iniziare giovani e adulti alla fede - è il fatto che la liturgia si muove secondo una logica in cui prevale la molteplicità di linguaggi diversi piuttosto che un linguaggio profondo. L’esperienza liturgica è una esperienza in cui l’acqua, l’olio, la parola, la musica, il movimento ti dicono una cosa. Non è che queste cose stanno sullo sfondo ed è solo con la parola che una persona fa l’esperienza.

Nella liturgia ci siano tanti linguaggi che ci riguardano e la maggior parte di questi non sono verbali, sono linguaggi non verbali. Sono linguaggi del colore, del profumo, dello spazio del tempo, del suono. Non si possono tradurre in concetti, ma ci parlano. Noi pretenderemmo di tradurre tutto in concetti. Ma tradurre tutto in concetti non è liturgia: diventerebbe un libro, un trattato, una lettera, non sarebbe più liturgia. La liturgia è qualcosa di più originario di più elementare, di più primitivo che però è più fondamentale di tutte le tradizioni concettuali di cui pure restiamo bisognosi.

Non mi illudo di convincere voi, di convincere me che possiamo vivere senza concetti, guai! Ma i concetti non sono tutto, sono mediazioni fondamentali per vivere una vita molto più complicata e ricca di un concetto, fosse pure il concetto di Trinità, di Incarnazione, di Mistero pasquale.

1.4/ Nei riti che iniziano i soggetti, lo spazio e il tempo sono essenziali.

L’ultima cosa che vi dico, sulla soglia, per farvi entrare nella logica liturgica, è questa nella quale cerco di farvi riconciliare con una logica del rito che non è semplicemente quella di cogliervi l’essenziale. Noi siamo vittime di una storia complessa in cui il cristiano ha sempre vissuto in modo ricco i loro riti, ma, a causa delle spiegazioni che sono state date dei riti, pian piano ci si è accontentati di riti essenziali. Siamo stati tutti educati in una certa maniera, attraverso una tradizione medievale e moderna a ricercare l’essenziale di una Messa, a dire quale siano le parole che effettivamente determina la consacrazione, quale sia la qualifica di chi le pronuncia, quando il pane e vino siano effettivamente il pane e il vino. Quando c’è il pane e il vino, quando si pronunciano quelle parole, quando chi le pronuncia è un prete o un vescovo, allora quella è una Messa.

Ma questo è il surrogato di una Messa! È la Messa che può esserci al limite in un campo di concentramento, oppure su di un aereo che sta per cadere. Normalmente invece quegli elementi, che sono certamente essenziali, sono però in un contesto molto più ricco di parole, di gesti, di movimenti a cui noi teoricamente rinunciamo quando ragioniamo in quel modo essenzialista. Capite che, in questo modo, noi ci siamo messi in testa che i riti siano la loro essenza. Non è così.

I riti ci costringono ad uscire dalla logica del minimo necessario. Quando si celebra un rito bisogna stare su una logica del massimo gratuito. Bisogna sprecare tempo, spazio, parole. Non si tratta di dire il minimo necessario, altrimenti quello non è più un rito, ma è un atto amministrativo. Vedete la logica giuridica quanto ha inciso. Le logiche dogmatica e giuridica - di per sé logiche sacrosante – non possono determinare tutto delle forme di vita, altrimenti a lungo andare inaridiscono e sfigurano tutto. Le cose più sacre perdono il volto, si riducono a meccanismi, a meccanismi ad orologeria.

Questa riflessione, che io metto sullo sfondo, e che però come capite ci mette in discussione, turba alcune nostre certezze e continua a farlo. Una riflessione nuova è così nata ai primi del novecento, è cresciuta nel corso del novecento, ha preso forma nel Concilio Vaticano II e ha ispirato la riforma liturgica.

2/ Il rito del Battesimo dei Bambini

Uno degli elementi che è cambiato in questa riforma liturgica è l’esigenza, e qui veniamo al nostro punto, che l’iniziazione cristiana ritrovi il suo aplomb, la sua logica elementare. La logica elementare di una iniziazione cristiana è che si entra in un processo, un processo che dura anni, per tutti, sia che uno nasca già cristiano, come è successo ancora a noi, sia che lo diventi nel tempo. E questo processo ha una logica interna per cui comincia, attraverso la “porta”, il battesimo. Nella tradizione occidentale c’è poi un altro passaggio che è la Confermazione o Cresima, dico nella tradizione occidentale perché il Battesimo e la Cresima nella nostra tradizione si sono distanziati e non rientrano più ancora oggi nello stesso momento. Nella nostra tradizione abbiamo perso la possibilità che si possa battezzare un neonato e riteniamo, anche per buoni motivi, che la Cresima riguardi un’età più avanzata. Il battesimo si può anticipare il primo giorno di vita, ma la cresima no.

Tra il Battesimo e la Cresima si crea uno spazio ma la Cresima è a confermazione del Battesimo che ti porta nella Comunione Eucaristica e dunque alla Comunione, terzo. La sequenza elementare, Battesimo , Cresima, pienezza di vita Eucaristica, quella che chiamiamo Prima Comunione, con il problema che la comunione che hai conosciuto è precaria, la puoi perdere, e dunque c’è una soglia ulteriore che non è più iniziazione, ma di recupero dell’iniziazione perduta che si chiama quarto sacramento o penitenza.

Facilmente ognuno di voi può dire: ne hai detti quattro. E ce n’è solo uno che è al posto suo oggi, mentre tutti gli altri li abbiamo sperimentati in un posto diverso. Infatti, per la mia esperienza che credo abbiamo in comune con molti di voi, è chiaro che al primo posto c’è l’essere stato battezzato.

Io sono stato battezzato in ospedale, come si usava negli anni sessanta. Se ci pensate bene, battezzare un bambino in ospedale ha dietro l’idea che prima lo battezzi meglio è. Piuttosto lo fai battezzare da un soggetto ecclesiale che non lo vedrà mai più in vita sua. Così succedeva: il frate che mi ha battezzato, che allora era il cappellano dell’ospedale, non l’ho più visto in vita mia. Pur di non aspettare una settimana, quindici giorni, un mese per celebrare in parrocchia - che è la logica che è cresciuta dal concilio in poi.

Io sono stato battezzato nel 1961 appena prima del concilio, ma qualche anno dopo si è tornati alla prassi del battesimo parrocchiale, nonostante si nascesse in ospedale. E – notate! - qui c’è una logica che è cambiata profondissima. La sintesi più bella di questo cambiamento è stata fatta da un teologo americano che ha detto: «Per molti secoli noi abbiamo battezzato i bambini avendo come presupposto una domanda che stava dietro il battesimo e che potremmo formulare così: “E se dovesse morire?”». Se tu battezzi a partire da questa domanda, non aspetti neanche dieci minuti, appena nato lo battezzi.

Quel teologo americano ricordava che dopo il concilio lentamente è emersa un’altra domanda - ed è ovvio che quello che sto dicendo è emerso in un mondo che conosce una mortalità infantile più bassa, perché lì dove i bambini muoiono facilmente ancora oggi è chiaro che quella domanda è ancora una domanda forte. Diceva quel teologo: «Nel nostro mondo ci possiamo permettere il lusso di battezzare i bambini con la domanda: “E se dovesse vivere?”».

Capite che un conto è battezzare in vista di una possibile morte, un conto è battezzare in vista della vita. Nel primo caso è chiaro che il battesimo è l’unico atto necessario, poi puoi anche chiudere la baracca lì, perché l’essenziale è stato fatto. Se battezzi per la vita il battesimo allora è il primo passo. La “porta”, come lo chiamavano gli antichi, dopo di che devi vedere qualcos’altro. Si battezza inaugurando una storia che diventa, attraverso la confermazione, pienezza di vita eucaristica.

Il primo segno della nuova mentalità è manifesto nel fatto che nel 1969 (udite, udite, solo nel 1969) si è compilato il primo rito del battesimo dei bambini. Io a volte dico ai miei studenti o alle persone che ascoltano conferenze su questo tema che se tra tremila anni qualche storico, come fanno gli storici quando interpretano la realtà non esagerando il valore delle carte, potrebbero inventarsi la menzogna, che però avrebbe qualche fondamento, che il rito del battesimo dei bambini è cominciato nel 1969!

Perché di fatto quel rito è la prima formalizzazione di una prassi che è esistita sempre nella Chiesa. Già nel primo secolo ci sono testimonianze del battesimi di bambini e poi diciamo dal quarto secolo in poi è divenuta la prassi straordinariamente più facile. Si battezzano i bambini.

Ma noi abbiamo battezzato per mille e ottocento anni i bambini con il rito degli adulti. Solo nel 1969 si è fatto un rito per i bambini, il che vuol dire che si è divenuti consapevoli che il destinatario dell’atto quando si tratta dei bambini è diverso da chi riceve il battesimo facendo personalmente la professione di fede.

Guardate che questa è una differenza che per una iniziazione cristiana è fondamentale. Noi siamo la seconda generazione che vive in un contesto nel quale non ci si illude più che si possa attribuire al bambino la volontà del genitore. Continuiamo a farlo - ed è giusto - ma sappiamo che tra le generazioni occorre ricostituire un passaggio significativo, che non possiamo più dare per scontato.

Con il rito precedente la domanda si faceva al bambino e rispondeva il genitore. Oggi la domanda si fa al genitore. Questa è la differenza che significa accollarsi il salto generazionale e dover lavorare sui bambini e sugli adulti.

Una delle novità del rito dopo il concilio è appunto la domanda che evidenzia chi si prenderà cura dell’iniziazione cristiana: oggi si rivolge al genitore che viene con il bambino da battezzare. Per questo tu puoi dire: non facciamolo subito, prendiamo tempo, facciamolo tra un mese, tra tre mesi, tra sei mesi e intanto camminiamo nella fede.

Perché l’atto di fede non si può sostituire, bisogna che ci sia. Che sia o del bambino o del genitore o del padrino o del parroco, ma qualcuno deve sostituire il bambino se questi non può dirlo. Non deve essere una finzione: ci deve essere qualcuno che, sostituendo, si accolla il compito dell’educazione, dell’accompagnamento, del dare sensibilità, del dare le parole, del dare spazi e tempi al cammino cristiano.

Questo è ragionare secondo una logica che coinvolge più sacramenti attraverso i quali io divento cristiano - non importa ora in che ordine. È cioè entrare in un processo che chiamiamo iniziazione cristiana. Questo processo è un processo non solo mentale, ma che si compie con il corpo, perché avviene tramite la liturgia.

Il rito per il bambino neonato può essere contratto in mezz’ora, sia pure in una celebrazione che ha però mantenuto nel rito dei bambini del 1969 la struttura embrionale del rito degli adulti dove appunto c’è un rito di accoglienza, c’è la liturgia della parola, c’è il rito del battesimo, dove la chiesa è presente nelle sue articolazioni, dove non c’è soltanto il prete ed il bambino ma c’è anche chi proclama la parola, c’è anche chi serve intorno all’atto celebrativo, c’è anche chi risponde. È convocata una chiesa intorno al bambino che chiede attraverso i suoi genitori di entrare nelle Chiesa.

Questo, vedete, è la fuoriuscita da un modello individualistico che non è originario nella chiesa ma che, soprattutto tra il settecento e l’ottocento, è il modello che ha prevalso come se appunto si entrasse nella Chiesa con logiche di diritto e di dovere. Invece no, si fa una grande esperienza di dono che convoca una comunità. Sempre di più, anche se con una certa fatica, le comunità si fanno accoglienti dei bambini che entrano nella chiesa. Di modo che non dovrebbero più entrare nella chiesa alle quattro del pomeriggio con le loro famiglie quasi di nascosto, ma piuttosto entrano nella celebrazione Eucaristica. Normalmente noi abbiamo questo fenomeno di attrazione degli altri sacramenti da parte dell’Eucarestia. Il Battesimo celebrato nell’Eucarestia non è semplicemente una nuova moda dopo il concilio, bensì è ricollocarlo nel suo posto originario che era anche la sua destinazione.

Diceva San Tommaso «Nessuno è battezzato senza il voto dell’Eucarestia». Anche il neonato attraverso i genitori ed i padrini esprime la destinazione ad arrivare alla Comunione Eucaristica. Si è battezzati per entrare in un percorso che ti soddisfa solo quando stai dentro la celebrazione dell’Eucarestia in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella forma dell’unico pane spezzate e dell’unico calice condiviso. Questo è ciò per cui siamo battezzati, ciò in vista di cui siamo battezzati.

3/ Prospettive “oranti” e provocazioni pastorali della “iniziazione cristiana”

Allora, vedete, quello che vi ho detto ci porta al terzo punto in cui mi fermerei un po’ di più e forse quello al quale siamo immediatamente meno preparati perché l’iniziazione cristiana è entrare nel discepolato di Cristo, diventare nella sua figliolanza figli dello stesso Padre.

Ma è un percorso che ci dà una capacità di ascoltare e di prendere la parola. Ci dà un modo dell’ascolto e un modo del linguaggio del tutto particolare. Nell’iniziazione cristiana quando la pensiamo per l’adulto, nel Rito della iniziazione cristiana per l’adulto, ci sono due atti che ad un certo punto intervengono formalmente. Sono due consegne: la “traditio Symboli”, cioè il consegnare il Credo, il simbolo della fede, e la “traditio Orationis Dominicae”, la consegna del Padre Nostro.

Sono due gesti simbolici, dove da un lato si consegna il contenuto raccontato della fede, e dall’altro si consegna la preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato. Anche queste consegne possono essere prese come un atto formale - ti consegno il Credo, ti consegno il Padre Nostro. In realtà viene tramandata una certa forma di narrazione di sé nel rapporto verbale con l’altro e siamo riabilitati non solo con le parole, ma anche con i contesti, con le musiche, con il movimento, con il modo di vivere il silenzio, lo spazio, il tempo, siamo abilitati a raccontare noi stessi nella storia di Dio che è Figlio, Padre e Spirito Santo. È una storia dentro cui ci troviamo con sorpresa nella novità di queste parole sorprendenti.

Consegnare il Credo, consegnare il Padre Nostro, è un altro modo di raccontare, è un altro modo di parlare. Non è semplicemente, come pure è necessario, il comunicare alcune nozioni. Se i bambini non sanno il Credo, se non sanno il Padre Nostro, finché non sanno il Credo, finché non sanno il Padre nostro, non ricevono il Battesimo, non ricevono la Comunione, non vengono cresimato – così si pensa. Questo è l’inevitabile passaggio pedagogico educativo, come una piccola sanzione, diciamo così.

In realtà noi sappiamo bene che lì si tratta di essere abilitati ad un altro modo di raccontare se stessi, un altro modo di parlare agli altri e di sé. Però – attenzione! - sia la competenza sul Credo, sia la competenza sulla Preghiera, non è una competenza anzitutto individuale. Il Credo è un linguaggio comunitario e così il Padre Nostro. Diciamo, infatti, Padre “nostro”, non “mio”: è un linguaggio comunitario. È una forma di presa di parola che è vera soprattutto, anzitutto, quando la dico e la ascolto con gli altri e dagli altri.

Qui , vedete, è fondamentale che queste due grandi “traditiones”, quella del Simbolo e quella del Padre Nostro, non siano soltanto la consegna delle parole di cui sono composte, ma anche dei contesti che danno loro senso. Non a caso le riceviamo formalmente - magari le sappiamo già per altre vie, ma le riceviamo formalmente - in condizione rituale, alla luce di una parola proclamata dentro un atto di celebrazione Eucaristica e questo è significativo.

Solo quel contesto dice la verità di quelle parole, poi quelle parole diventano nostre, le possiamo ripetere, meditare in tutti gli ambienti, come è giusto, fortificano ovunque, ma il loro senso pieno lo hanno solo dove i discepoli di Cristo si radunano per celebrare la loro salvezza, il Vangelo.

Qui vorrei anche aggiungere che la consegna formale del Padre Nostro è in realtà la consegna di una abilità, di una capacità, di una abilitazione alla preghiera che è molto più articolata del Padre Nostro. Il Padre Nostro è l’inizio e la fine della preghiera cristiana, è il punto di partenza, è quello che ci ha detto autorevolmente Gesù. Come forma di preghiera è la preghiera a cui arriviamo come vertice, però in mezzo c’è una grande selva di espressioni oranti alle quali i bambini a modo loro, gli adulti a modo loro, debbono essere iniziati.

Essere battezzati e cresimati, entrare nella pienezza Eucaristica, significa anche entrare in questo grande arcipelago di diverse forme di preghiera. Abbiamo pregato l’Ave Maria sulla soglia del nostro incontro, ma pensate alla foresta dei salmi, alla foresta simbolica dei salmi, che appunto possiamo chiamare foresta, ma è anche il deserto: dal deserto alla foresta. Nei salmi c’è ogni tipo di paesaggio, ogni tipo di sentimento, dalla più grande gioia, alla più grande disperazione, dalla compagnia degli uomini alla solitudine,dalla possibilità di trovare tanti amici a non trovarne nemmeno uno affidabile. Ogni esperienza dei salmi è in qualche modo meditata, riflettuta, per entrare nel rapporto ricchissimo, complicatissimo con il prossimo e con Dio.

Ma pensate alla preghiera Eucaristica, alla grande preghiera che domenicalmente, quotidianamente, prevale al centro della celebrazione Eucaristica, e poi può indicarci benedizioni: è un arcipelago di linguaggi tra loro diversi ai quali oggi non possiamo pensare siano competenti solo i preti e noi ne prendiamo i frutti. Questo è un modello di Chiesa che non funziona non da cinquanta, ma da almeno cinquecentocinquanta. Un modello di Chiesa che ancora oggi sarebbe perfetto tanto per i preti quanto per i laici se si pensasse che uno solo lavora, che uno solo fa il suo mestiere, e gli altri ne raccolgono i frutti: allora sarebbe bene così. Ma la Chiesa così non ha mai funzionato, tanto meno può funzionare oggi. Se qualcuno è illuso che questa sia la soluzione dei mali, in realtà c’è un errore, perché condurrebbe la Chiesa ad un male molto peggiore dell’attuale.

Oggi noi viviamo l’incertezza di un grande cambiamento dove il prete non è più il rappresentante della Chiesa, ma il ministro di una comunità. E la Chiesa è una verità complessa, ma con al suo interno tanti talenti, tanti carismi e tanti ministeri diversi che devono trovare la loro verità nella loro iniziazione compiuta che si esprime nella preghiera.

Ma che cos’è pregare? Chiediamocelo in modo piuttosto frontale. Pregare è una esperienza umana che possiamo ricostruire a due livelli. Ciò a cui ci abilita l’iniziazione cristiana è dare voce a una logica della necessità del pregare. Il pregare come momento necessitato da circostanze che ci premono, che ci spingono, che ci conducono quasi naturalmente ad una esperienza di richiesta, di domanda, di lamentela, di protesta. C’è una preghiera di cui il salterio è molto riccamente dotato che è invocazione, supplica, intercessione, protesta, maledizione.

Sapete che c’è stato un tempo in cui i salmi pensavamo di doverli emendare nelle espressioni più pesanti. Come si può sopportare che in Chiesa si dica «maledetto te, maledetti i tuoi figli, che possano morire tutti». Nei Salmi c’è anche questo, quando la preghiera si traduce in maledizione addirittura. Ma vedete questa è la porta di ingresso della preghiera attraverso cui tutti prima o poi passiamo.

Ma i Salmi, il Padre Nostro a maggior ragione, l’Ave Maria, l’eterno Riposo, gli inni, i cantici, ci fanno fare quel salto di qualità in cui dalla dimensione della pressione e dell’esigenza dell’intervento di una forza più alta che ci liberi dalla malattia, che ci salvi dal naufragio si dischiude un linguaggio sorprendente perché il primo piano della preghiera non è questo, questo è sempre il secondo piano. Il primo piano della preghiera è il dischiudersi della esperienza gratuita del pregare e possiamo concentrare in tre grandi esperienze che sono: la lode, il rendimento di grazia e la benedizione.

Pregare come frutto di una iniziazione cristiana che è appunto incontrare Cristo, vivere di lui, ascoltare la Sua parola, accompagnarlo nel sacrificio, diventare Corpo di Cristo e Sangue di Cristo. È imparare la lode, imparare il rendimento di grazia, imparare la benedizione. Io credo che questo sia fondamentale nell’esercizio del ministero dell’annuncio della catechesi, fondamentale oggi tanto quanto ieri, ma oggi con risorse di linguaggio, di pratiche, di accompagnamento ancora più raffinate. Oggi occorre superarsi nel linguaggio perché bisogna avere la forza e la pazienza di comunicare questa esperienza.

Lodare, cos’è lodare ? Lodare non è il linguaggio tecnico della Chiesa o della scuola, perché sta di fatto che nel nostro mondo, nell’italiano di oggi “lode” tu lo senti dire in Chiesa e a scuola. Difficilmente per strada tu senti dire “ti lodo molto perché…”. A Roma, ma anche a Savona, anche a Palermo, lodare è diventato ed è un linguaggio tecnico. Ma lode è gioire del bene altrui e guardate che questa è una esperienza elementare dell’uomo autentico, della donna autentica, cosi difficile perché purtroppo il bene altrui da fastidio.

L’invidia è il vizio capitale che è appunto sentire fastidio per il bene altrui. L’esperienza che l’iniziazione cristiana ci conduce a fare nell’espressione verbale e non verbale - perché noi preghiamo con le parole, ma si prega anche con il corpo, con il rapporto che si costituisce con l’altro - che il bene dell’altro mi fa gioire, mi fa star bene.

Il rendimento di grazia è reciproco, rendimento di grazia vuol dire che il mio bene non è originariamente mio. Vedete che sorprendente dislocazione! Quando si prega in fondo si fa continuamente, si dà parola a questa esperienza e la si rende possibile. Se stai davvero dentro la logica della preghiera ti accorgi quanto limitato è quel mondo a cui appartieni che si lamenta del bene altrui e ritiene di avere originario diritto alle cose che ha. Mediamente può essere utile pensare così, ma se ti affidi a queste logiche ti maledici da solo. Libero davvero, salvo davvero è quell’uomo e quella donna che sa ancora lodare, rendere grazie e benedire.

Il terzo atto è dire bene, del mondo, degli altri, delle cose, piuttosto che maledire. È ovvio che la lode ha come contrario l’invidia, il rendimento di grazia l’ingratitudine e la benedizione ancora di più il suo contrario che è la maledizione, l’arte in cui siamo tutti specialisti. Sempre, quando vediamo una cosa diciamo: «Beh, poteva essere più caldo oggi… invece che così freddo...».

Pensate quanto siamo iniziati all’arte del maledire continuamente, e notate che non ci vuole una ottica perversa, basta pensare solo in termini di diritti e di doveri e prima o poi non fai altro che maledire. La benedizione è nonostante il male che incontri dare parola al bene, far spazio al bene, promuovere il bene. Benedizione non è soltanto quella che chiediamo a Dio, ma anche quello che anche di Dio e del mondo diciamo.

Vedete, allora che l’iniziazione cristiana ci da forma di lode, di rendimento di grazia, di benedizione, non solo con le parole, ma con i contesti in cui la celebrazione di un battesimo, di una penitenza, di una eucarestia, di un matrimonio ci inserisce. E ci inserisce in modo coerente, partendo da vissuti diversi, soglie vitali come la nascita, come la celebrazione delle esequie nella morte, come un cambiamento di stato di vita, come una ripetizione settimanale, quotidiana del rendimento di grazia che è lode e benedizione.

Tutto questo lo edifica passando attraverso tanti linguaggi, non solo a parole ma in contesti spaziali, temporali, attraverso un certo modo di far silenzio, attraverso un certo modo di cantare. Allora capite queste sono tutte mediazioni delicate di questa esperienza originaria che il nuovo Adamo restituisce all’uomo, l’uomo che da Adamo viene.

Non ci lamentiamo: c’era una volta negli anni trenta l’incapacità di lodare tanto quanto oggi. Da Adamo in giù abbiamo perduto la capacità di cominciare dalla lode, dal rendimento di grazia e dalla benedizione. Non guardiamo con troppa nostalgia ai tempi dei nostri nonni perché erano pieni di problemi tanto quanto i nostri, se non di più. Le navi naufragavano esattamente quanto oggi, se non di più. Ma con tutto il progresso guarda te che naufragio e lì dove c’è competenza tecnologica basta una svista significativa e 4000 persone sono in balia degli elementi naturali.

D’altra parte proviamo a vedere tutte le navi da crociera che sono partite e sono tornate quanto dono di se c’è dietro ad una nave che torna in porto. Perché siamo bravissimi a vedere quanto poco dovere c’è stato nella nave che naufraga, ma quanto dono di sé ch’è in ogni nave che torna in porto, in ogni aereo che decolla da terra, in ogni treno che arriva più o meno puntuale.

In questo sta la forza della liturgia che è la liturgia di Battesimo e Cresima e la liturgia di continuità dell’Eucarestia. Notate dell’iniziazione cristiana che la logica antica è una logica saggia perché approda all’unico sacramento che si ripete strutturalmente. Anche altri sacramenti possono ripetersi, ma l’unico sacramento che è fatto per essere ripetuto almeno ogni domenica è l’Eucarestia. Lì ti consegna la iniziazione, lì finisci e da lì comincia la vita ecclesiale, la tua vita ecclesiale, nell’approfondimento rituale almeno una volta alla settimana, e nel vivere la preghiera ritualmente, nelle giornate, secondo logiche temporali, come continua riconduzione a questo centro perché la vita ti porta inevitabilmente a considerare prioritarie altre logiche come è giusto.

Logiche di diritti, logiche di doveri esistono, ma c’è una logica più profonda che è una logica di dono, una logica che puoi riconoscere, alla quale puoi dedicare la tua fede. Voi vedete l’atto di fede non è dire sì ad una imposizione, ma cercare che la cosa fondamentale sia donare - non è frutto di una tua prestazione.

Qualche battuta diciamo ancora per dare maggior corpo iniziatico a questa capacità di fare della lode, del rendimento di grazia e della benedizione la verità della nostra esistenza. Per prima cosa le parole e le idee. Pregando si impara a credere. Vedete tutti coloro che esercitano la catechesi hanno giustamente nella loro esperienza il primato di alcuni concetti, di alcune nozioni che ti permettono di pregare. Se non sai chi è il Padre, chi è il Figlio, chi è lo Spirito Santo, che cos’è la Chiesa, chi è Maria, che cosa sono i Vangeli, di cosa parla la Pasqua, è chiaro che tu parli di cose vuote e questa è una parte ed è almeno mezza verità. Ma c’è l’altra metà della verità che solo quando vivi queste logiche di linguaggio verbale, di contesti spaziali, di ritmi temporali entri davvero nel mistero che è enunciato dal Vangelo.

È vero, da un lato, che se non pensi, non puoi parlare, ma dall’altro è quando impari a parlare che cominci a pensare. Così è negli uomini e nelle donne, così è per il credente. Altrimenti sarebbe vero un modello intellettualistico come se noi imparassimo prima a pensare e poi solo dopo a parlare italiano. No, tu impari una lingua che può essere l’italiano, il francese o il tedesco e in quella lingua impari a parlare, a pensare.

Tu vivi una celebrazione e dentro quella celebrazione ti si dischiude un mistero pasquale: non è che lo conosci già prima e poi lo devi celebrare. Celebrandolo sei più vicino alla sua verità di quanto non puoi fare sul Catechismo, su di un libro di San Tommaso o ascoltando una omelia per televisione. Solo quando lo celebri con tutto il corpo con tutta la tua esperienza, con l’integralità della tua esperienza, sei davvero dentro la sua logica.

Il mistero non si guarda da fuori, ci si sta dentro in forma anzitutto rituale, anche se poi ovviamente i riti si devono anche abbandonare, quando si entra nella vita non rituale, ma ci si ritorna con una certa regolarità che non è la regolarità solo del precetto, ma la regolarità del riconoscimento del dono. È più un bisogno che non un dovere alimentarsi alla parola, alimentarsi al pane a al calice per vivere l’identità che ci circonda.

Seconda caratteristica: stupirsi del bene prima che del male, questo credo che sia l’originalità della lode. C’è un peccato originale, ma c’è una grazia originale. Il peccato originale è dentro una più originale grazia. Le logiche con cui noi ci stupiamo del male devono stare dentro più forti logiche in cui ci stupiamo del bene. Dobbiamo sorprenderci per il fatto di essere vivi tutte le mattine, di poter ancora lavorare.

Le crisi della salute, le crisi del lavoro, sono cose molto serie, ma che rischiano di amareggiare totalmente la vita che non riesci a leggervi più, come stupefatto, il bene. Vedete, questo è davvero uno dei frutti dell’iniziazione cristiana, è entrare in questa logica. Ed è chiaro che i bambini o i ragazzi arrivano a questo se sono accompagnati da una comunità adulta nella lode, nel rendimento di grazia e nella fede e nella benedizione. È chiaro che se queste cose le consideriamo cose da bambini o cose da preti o cose da stati di vita particolari, non siamo neanche entrati nella logica della iniziazione. L’iniziazione cristiana abilita ogni soggetto a fare un’esperienza sorprendente della propria vita.

E questo ci porta a onorare il silenzioso primato del dono. Ad uscire da meccanismi veramente pesanti in cui la vita familiare, sociale, scolastica, lavorativa, politica a tutti i livelli, eletta solo come il contrasto, la faticosa lotta tra diritti e doveri. Questa è certamente una nostra grande novità tanto moderna, della quale però dobbiamo fare un uso limitato. Se la estendiamo a tutta l’esperienza amareggia tutto.

Le cose fondamentali sono logiche di dono, il che - non è un discorso fondamentalistico - apre lo spazio dei diritti e dei doveri relativo, non assoluto, altrimenti non c’è più spazio per l’altro, non c’è più vero spazio per l’altro. Lo spazio per l’altro c’è solo se riconosco di non essere io il mio inizio. Di essere non solo generato, ma promosso dal prossimo, costitutivamente, strutturalmente.

Questo allora genera comunità che fanno una esperienza singolarissima di fraternità. In fondo, la lode, il rendimento di grazia e la benedizione in Cristo, sono il frutto della iniziazione cristiana, il punto di arrivo costruito lentamente in percorsi educativi, formativi, riservati ai più giovani, ma che vivono della testimonianza dei meno giovani. Sono una forma di lenta elaborazione di una esperienza radicale di comunione che è segnalata e testimoniata nell’esperienza cristiana da quel gesto elementarissimo che sta a compimento della celebrazione Eucaristica che è fare la Comunione.

Come dicevo all’inizio, fare la Prima Comunione poi fare la Comunione, che è una interessante espressione, perché dice, faccio la Comunione, vivo una esperienza di radicale comunione mediata dall’unico pane spezzato e dall’unico calice condiviso. La tradizione ecclesiale ha stilizzato il gesto, lo ha stilizzato in molti modi. Lo ha stilizzato perché per i cattolici intanto il calice è stato non esistente per molti secoli, adesso raramente appare. E il pane si è stilizzato anche dal punto di vista della forma. Ognuno ha un tondino.

In realtà noi abbiamo una particola. Il termine particola dice tutto meno che tondo. Particola è un frammento informe dell’unico pane. Ognuno riceve una parte dell’unico pane per essere lui parte dell’unico corpo. La logica è non che ognuno ha un binario riservato al suo Gesù, ma attraverso la comunione con gli altri è lui corpo di Cristo. Ma in comunione con gli altri è in comunione con il suo Signore.

La forma dello spezzare il pane manifesta che è un unico pane che nutre tutti perché tutti, ricevendo un frammento, una particola con gli altri, costituiscono il corpo di Cristo. E lo stesso vale per il calice. Un unico calice a cui tutti bevono è un segno elementare di fraternità, mangiare tutti lo stesso pane e bere tutti nello stesso bicchiere sono un segno elementare dell’essere fratelli. Uno potrebbe dire: “Ma che siamo della stessa famiglia?” Molto di più. Molto di più che essere della stessa famiglia. Nella mia famiglia di origine la sospensione della Comunione ad un unico pane ed ad un unico calice, ad un unico piatto ed ad un unico bicchiere era quando uno aveva l’influenza, ma normalmente lo scambio del bicchiere era una forma di comunione.

È un linguaggio elementarissimo. E lì c’è un concetto più alto. Ma è il linguaggio del corpo. Sorprendente. E notate che i bambini, i ragazzi e gli adulti li portiamo lì. Fare la prima Comunione: è la prima volta che alla luce del Battesimo, attraverso la Cresima, puoi partecipare alla verità della fraternità in Cristo al punto che l’unico pane nutre anche te e l’unico calice disseta anche te. Partecipi del corpo e del sangue di Cristo, vivi della logica di lode, del rendimento di grazie e del dono che chiamiamo il suo sacrificio come sacrificio della Chiesa. Con questo passaggio, di quello che Lui ha fatto e facciamo noi, in quello che noi facciamo e lo assume Lui.

Ma se l’iniziazione cristiana è questo percorso non solo verbale, corporeo di lenta assimilazione a Cristo, allora io credo che tre piccole conclusioni potrebbero essere riguardate.

Che si ricominci proprio dal pregare comunitario e lo si riscopra come custodito da pratiche anche non verbali. Non è solo sapere le preghiera, questa è una competenza che non voglio assolutamente contrastare. In questo la lezione migliore l’ho ricevuta dai miei figli. Io ho due bambini, otto anni Margherita, sei anni Giovanni, pregano da qualche anno. Io quando ho cominciato a concepire che potessero essere iniziati all’atto di preghiera della sera ho insegnato loro una piccola forma introduttiva: Padre Nostro e Ave Maria, e una formula di conclusione. Per una settimana la cosa ha retto più o meno. Apro una parentesi, io facilmente frequento luoghi anche monastici e a volte i mie figli sono con me, conoscono Camaldoli, conoscono Santa Giustina, hanno orecchiato vari stili di preghiera. Dopo dieci giorni mia figlia mi dice: “Perché non cantiamo qualcosa?” È strano che una bambina al padre che fa il liturgista gli dia una sollecitazione come questa, il che vedete è una istanza corporea, canora, che è un altro registro, perché un conto è recitare le preghiere, un conto è cantarle.

Tutte le grandi preghiere il meglio di se lo danno quando le canti. Poi possiamo anche solo recitarle, ma dovremmo essere iniziati a conoscerle per il di più, poi possiamo anche restare al meno. Allora che il pregare sia anche atto del corpo, atto del canto, atto dell’orientamento, atto dell’atteggiamento.

Questo è viscerale, ma non perché dobbiamo disciplinare i giovani iniziati, piuttosto perché solo il corpo coinvolto nella preghiera fa della preghiera un atto vitale, qualche cosa che dice la qualità della tua esistenza. E provate a pensare che cosa sarebbe se scommettessimo davvero domani - e non lo dico con quel senso di colpevolizzazione che è sempre facile da parte dei teologi quando intendono dire: “che cosa aspettiamo a farlo” – se riscoprissimo la possibilità di fare di una preghiera comune un atto penitenziale.

Veniamo da una tradizione che ci ha educato fino da bambini che la penitenza dell’atto sacramentale della confessione consiste in un certo numero di preghiere personali, rigorosamente individuali. Ma questo è un modello borghese, individualistico che dobbiamo superare. Ci metteremo cent’anni, ma dobbiamo farlo. Il penitente deve essere rimandato ad una comunità che prega e che gli insegni a pregare perché se tu il penitente lo riconduci alla sua individualità come non sapeva pregare prima, così non sa pregare dopo.

Se c’è qualche speranza che reimpari a pregare, questo dipende da una comunità che prega. Certo la Parola di Dio fa molto, ma la parola del prossimo fa qualche cosa che Dio non può sostituire. E allora io a volte dico ai parroci, solo per questo motivo cioè per accogliere i penitenti, che devono non tanto fare penitenza ma reinsegnare a pregare. Pensate ad una comunità che celebri un’ora liturgica al giorno, diversa dalla Messa, che celebri le lodi o il vespro o l’ora media, la compieta o il mattutino - a seconda delle regioni si può trovare la quadratura migliore e una bella compieta alle sette di sera. La compieta è una preghiera breve, ma se la curi può diventare un quarto d’ora indimenticabile, di soglia prima della fine della giornata, del sonno.

E lì rimandare, rinviare, quelli che devono reimparare a pregare. Piccole scuole di preghiera. In ogni parrocchia ci possono stare. Ma sono appunto scuole non solo verbali, non solo individuali, bensì corporee, comunitarie, di ascolto, di silenzio, di canto.

Ultimo punto, la preghiera comunitaria, che è la celebrazione Eucaristica domenicale, ma non solo quella. I sacramenti patiscono sempre sia quando vengono dimenticati, ridotti al lumicino, sia quando sono troppo presenti. Celebrare sempre la Messa, in ogni occasione. Ad esempio, si inaugura l’anno scolastico e si celebra la Messa, si apre un negozio e si celebra la Messa: questo vuol dire analfabetismo sulle facoltà, sulle capacità celebrative che la Chiesa ha: dalla benedizione, alla liturgia della parola, alla liturgia penitenziale, ai vespri, alle lodi, alla Messa. Abbiamo diverse forme, ma poi noi formalmente ne viviamo solo una. E questo è grave.

Recuperare l’articolazione delle esperienze, questo deve avere di mira l’iniziazione cristiana: dare diversi registri del pregare, dell’atto di culto, della relazione con il Signore. Di questo oggi abbiamo bisogno come risultato di una iniziazione cristiana ed è ovvio che quello che pensiamo come risultato per coloro che si mettono in cammino, giovani o adulti che siano, è in qualche modo quello che dobbiamo pensare come il vissuto della comunità che li accoglie.

Allora non si tratta di fare la rivoluzione nella Chiesa, ma di uscire da un modello individualistico che pensa i Sacramenti come atti puntuali. Entrare in una processualità, un processo lento di acquisizioni di competenze non solo mentali ma corporee, come imparare davvero a cantare insieme.

La prima competenza canora di una comunità non è l’acuto straordinario del tenore o la forza dirompente dei bassi, ma il ritmo: il tenere il ritmo, regolato e significativo, è una forma di comunione radicale. Quando nella Chiesa si sta davvero al ritmo di quel canto e non si rallenta in due strofe dall’attacco, ma si sta al ritmo vuol dire che si fa esperienza di comunione nel canto.

E quell’esperienza di comunione nel canto diventa volano, alimento, fa fiorire l’esperienza di comunione interpersonale, teologale, spirituale. Canto e fede si corrispondono ed è altrettanto vero che un canto tirato giù, pieno di disattenzione in cui uno non ascolta l’altro è la prova che ognuno canta da sé. Cantare insieme è uno degli atti di comunione più intenso, ma bisogna farlo, e ci vuole esercizio. Non dico di fare le prove tutti i giorni tre ore, ma essere consapevoli che lì si gioca una parte non secondaria dell’identità che si sta celebrando.

Ma in questo, appunto, il cammino delle comunità è un cammino aperto. Sappiate però che la cura non è soltanto la cura dell’interiore: c’e invece una cura della esteriorità non formalistica, ma autenticamente umana dove la parola, il gesto, il movimento, lo stare nello spazio, il vivere il tempo sono tanto importanti quanto il concetto.