Pier Paolo Pasolini: in Supplica a mia madre una descrizione commovente e autobiografica del fondamento del proprio orientamento affettivo e sessuale, di Giovanni Amico

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /11 /2025 - 23:40 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione all’affettività e Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (30/11/2025)

Necessaria è una premessa: ciò di cui si parlerà è relativo esclusivamente ad una determinata lirica di Pasolini e, indirettamente, alla sua vita, non avendo la pretesa di comprenderla – ogni vita è un mistero -, né tanto meno di comprendere a partire da questi versi l’omosessualità.

Nondimeno tale componimento poetico si presta, proprio per la libertà della poesia, a considerazioni che sarebbero altrimenti non politicamente corrette.

In Supplica a mia madre, Pasolini la descrive con espressioni che fanno comprendere quanto l’amore per lei fosse assoluto e nessun essere femminile le potesse essere paragonato: la madre, Susanna, è l’“anima”, al di fuori della quale non ci sono che corpi.

In un diverso testo che narra in maniera autobiografica la propria vita è noto che Pasolini visse un rapporto conflittuale con il padre, profondamente consapevole fino al disprezzo dei limiti della sua figura paterna e dei vizi che lo tormentavano: egli risultava pertanto essere una figura tutt’altro che ideale rispetto alla madre[1] – la diversità dei rapporti con il padre e la madre si rifletteva anche nell’amore di Pasolini per il dialetto friulano che era quello della madre e non quello del padre.

Pasolini scrive della madre: “Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”. Nessun’altra donna – aggiungiamo noi – potrebbe esserti paragonata e potrebbe colmare la sete di amore che soddisfo solo in te.

“È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”. L’infinito amore che ho per te è l’origine della mia angoscia: è amore, ma lo è a tal punto da tramutarsi in angoscia, in morte, in disfatta.

Incredibile è il passaggio: “E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”.

La devozione a corpi sempre diversi è “fame d’amore”, ma lo è solo parzialmente, perché l’unica “anima”, riconosciuta come tale e sentita “grande”, è quella della madre. Degli amanti si riconoscono i “corpi”, non perché questi non abbiano “anime”, ma perché “l’anima è in te, sei tu”, e nessuno ha un’anima pura e pari alla tua.

“Ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”: dinanzi alla madre vale l’inverso, c’è un amore assoluto alla sua anima, ma è interdetto l’amore al suo corpo, perciò il fatto di sovra-esaltarla rende schiavi in quanto impossibilitati ad amare ogni altra anima con la stessa devozione.

È raro trovare una descrizione così precisa - seppure poetica e non scientificamente psicologica - della presenza di una donna sentita come assoluta da un figlio e come precludente rapporti analoghi con altre donne e spalancante, invece, il rapporto con corpi maschili, vissuto però senza un trasporto spirituale paragonabile a quello.

È una narrazione poetica e in versi di “una” omosessualità, che non può essere elevata a chiave per comprenderne altre, ma, al contempo, nemmeno è possibile negare che tale lirica di Pasolini interroghi chi vuole comprendere il mistero dell’origine del volgersi maschile all’amore di altri uomini.

Qui la lirica completa, tratta dalla raccolta Poesia in forma di rosa (1964):

Supplica a mia madre, di Pier Paolo Pasolini

È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile.



[1] Così Pier Paolo Pasolini descrive suo padre: «Passionale, sensuale e violento di carattere: era finito in Libia, senza un soldo; così aveva cominciato la carriera militare; da cui sarebbe poi stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo. Questo non lo poté accontentare e quindi lo angosciò sempre, fino a una forma quasi paranoidea negli ultimi anni, al ritorno dalla sua terza guerra. Aveva puntato su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le prime poesie a sette anni: aveva intuito, pover'uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni. Credeva di poter conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo. L'inconciliabilità lo ha fatto impazzire: nell'atto stesso di capire non capiva più niente... La sua acutissima intelligenza non gli serviva: era uno strumento che non ha mai il suo uso. E ci esasperava, ruggiva, smaniava, era al mondo per soffrire, e quanto ci ha fatti soffrire, me e mia madre! Quando nel 1942 uscì il mio primo libretto, Poesie a Casarsa (in friulano! Fatto assurdo per lui, che, ufficialetto di primo pelo, era capitato a Casarsa, e lì aveva conosciuto mia madre, impadronendosene subito, con la sua prepotenza infantile e centralistica): lo ricevette nel Kenya, dove era prigioniero. Ma, malgrado la assurdità del linguaggio usato, era dedicato a lui, e questo lo consolava, lo faceva gongolare. Quando tornò io ero a Casarsa, sfollato con mia madre: ero perduto come in una sconfinata intimità il che faceva del Friuli la mia folle sede oggettiva. Mio fratello Guido era morto, partigiano. Mia madre ed io eravamo mezzi distrutti dal dolore. Egli finì cosi a Casarsa, in una specie di nuova prigionia e cominciò la sua angoscia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i miei primi libretti, in friulano, seguì i miei primi piccoli successi critici, mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi guarisse, avrebbe della sua malattia lo stesso ricordo che ho io di quegli anni. Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da piazza Costaguti saremmo andati ad abitare a ponte Mammolo [...] anni di lavoro accanito, di pura lotta [...] e mio padre sempre là, in attesa, solo nella sua cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti. [...] Mio padre poté finalmente occuparsi di un trasloco che gli dava soddisfazione, che vellicava in lui il piacere del comando, della vanità, del decoro borghese. Andammo a stare a Monteverde, in via Fonteiana. [...] Ma la vita nella mia casa era sempre la stessa, sempre uguale alla morte. Mio padre soffriva, ci faceva soffrire: odiava il mondo che aveva ridotto a due, tre dati ossessivi e inconciliabili: era uno che batteva continuamente, disperatamente, la testa contro un muro. La sua agonia vera durò molti mesi: respirava a fatica, con un continuo lamento. Era malato di fegato, e sapeva che era grave, che solo un dito di vino gli faceva male, e ne beveva almeno due litri al giorno. Non si voleva curare, in nome della sua vita retorica. Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai a casa, appena in tempo per vederlo morire» (da P.P. Pasolini, Racconto la mia vita, in L’Unità, 4/11/1975, già pubblicato in E.F. Accrocca (a cura di), Ritratti su misura, Venezia, Editore Sodalizio del Libro, 1960; non è stato possibile controllare tale testo reperito on-line sull’originale, ma esso è sostanzialmente fedele).
Nel testo si accenna anche alla morte del fratello Guido, 19enne, ucciso dai partigiani rossi, in quanto partigiano non comunista, appartenente invece alla Brigata Osoppo, insieme agli altri sedici che vennero uccisi nell’eccidio di Porzûs.