31 luglio - 3 agosto 2000
N.B. Il testo, trascritto dalla viva voce, non è stato rivisto dall'autore.
Stamattina dico solo due cose. La prima è che cosa dobbiamo fare qui, secondo me. Perché siamo qui, qual è, dal mio punto di vista, la lettura del motivo per cui siamo qui. Come la vedo io, semplicemente. E la seconda è il discorso base della visione che ho dell'uomo e quindi di come conoscerci in maniera da mettere una base per poi costruire insieme un discorso.
Dunque noi, secondo me, siamo qui in un momento di pausa, di silenzio, di riflessione - come vorrebbe essere questo - un momento di distanza, sia geografica sia di contenuto, di atteggiamento. Prendere le distanze, vedere un'altra prospettiva, vedere di nuovo le cose sotto un altro aspetto.
Ecco momenti come questo hanno una funzione, prima di tutto - sembrerà banale, ma scusate il termine medico che rende bene l'idea – antiflogistica. Perché, quando c'è un processo di lavoro piuttosto sostenuto, il corpo umano provoca delle forme di infiammazione. C'è un richiamo al di là del normale di sangue in una particolare zona del corpo. Si ha quindi una ipertrofia, una forma di irrorazione esagerata e questo causa una forma di congestione. Ci si congestiona. Noi ed il nostro ritmo di lavoro - penso che anche il vostro in genere ormai è di questo tipo - abbiamo una forma di congestione. Quindi è necessario un momento per decongestionare la nostra situazione. Mi piace questa immagine, perché si va da un gonfiore ad uno stato normale - provate a pensarci - si va da un gonfiore, cioè da un ingrandimento delle cose, da una ipertrofia, da una forma grande, esagerata, delle cose, dei problemi, della sensibilità, delle attese, dei bisogni ad un ridimensionamento, ad un'azione anticongestionante, per cui, poi, io ritrovo quella che è una dimensione normale.
Ecco è impossibile oggi pensare - dal tipo di vita che facciamo e anche sbagliando per certi versi; soprattutto dal punto di vista interiore più che ancora del fare - è impossibile oggi fare, senza questo effetto collaterale dell'ipertrofia di determinate cose che poi vedremo insieme. Non sfugge nessuno, a nessuna età, a nessuna energia, nessuna posizione, nessun ministero, nessun ruolo perché è proprio quasi scritto nella nostra mentalità, per la quale non seguiamo più un processo naturale. Non c'è più un processo naturale. C'è quel bellissimo libro di Galimberti su psiche e techne [1] che è una cosa molto bella - leggetelo se avete modo - perché fa vedere come proprio la tensione “natura e tecnica” sia finita. Ormai la tecnica ha sostituito in pieno la natura e il nostro ritmo di vita è un ritmo senza più un processo naturale. Anche il nostro ministero non è più secondo una certa natura. Sapete, non lo dico io, ma è ben documentato ormai a livello europeo, poi vi farò vedere dei documenti eventualmente. Ecco, quindi, rispetto al classico schema degli esercizi che si applicava un tempo proprio per rivedere la volontà di Dio su di noi, noi oggi abbiamo bisogno innanzi tutto di una cosa molto più banale, molto più semplice, che però concorda con l'altra. Ecco abbiamo bisogno di toglierci i gonfiori, quelli palesi che ci danno tanto fastidio, quelli nascosti che non riescono neanche a farsi sentire, quelli che sono ormai cronici, che ci trasciniamo da anni, forse dal seminario o dall'ordinazione, e che hanno bisogno invece di una cura più lenta, finalmente una diagnosi libera, vera e con una terapia adeguata. Posso dire una frase ad effetto che vi aiuti a capire come la vedo? Più che concentrarsi e impegnarsi, io direi che bisogna lasciarsi andare - un verbo che oggi va per la maggiore, in maniera spropositata, naturalmente. Però bisogna lasciarsi andare, in questo senso di non avere difese, di non avere nascondigli, tane. Ricercare una propria nudità davanti al Signore - un tempo si chiamava spoliazione, ma mi piace di più nudità, perché ha quel po' di frizzante! Ecco però bisogna averlo questo atteggiamento proprio di rilassamento, di lasciarsi andare in modo che sia visibile quello che deve vedersi. Lasciarsi andare significa voler vedere, ma non con un impegno di concentrazione, non aggrottando la fronte, non concentrandosi su chissà che cosa. La Verità non viene dalla forza del nostro pensiero, ma dall'apertura del nostro cuore. Lì si sbaglia sempre. Si va lì e ci si impegna, si lavora. La vita è molto più semplice, molto più vera del nostro pensiero, soprattutto quando si picca di teologia. Ecco quindi noi siamo qui a fare un processo molto, molto semplice. Vogliamo recuperare una certa salute, vogliamo recuperare quindi i motivi del nostro vivere, del nostro agire, i parametri giusti dove collocarci, dove dovremmo collocarci, dove dobbiamo tendere per collocarci, e naturalmente siamo qui per vedere la verità di noi stessi, che corrisponde a quello che realmente siamo, alla nostra salute. La nostra vera salute si chiama verità. Noi stiamo bene quando siamo veri, stiamo bene sia soggettivamente che oggettivamente - se vale ancora una separazione del genere, cosa di cui dubito. Comunque è una verità: noi stiamo bene quando siamo veri. E non semplicemente con un'impronta psicologistica. “Esser se stessi”, “realizzare se stessi”: toglietele queste cose! Hanno fatto più danno che guadagno. E' vero - lo vedremo - bisogna essere se stessi, ma bisogna essere veri, che è qualcosa di più grande che essere semplicemente se stessi. Quindi la domanda grossa - concludendo questo primo punto – è: dove sono? Qual è la mia salute?
Faccio un check up di quella che è la mia situazione, approfitto di questi giorni per vedere insieme qual'è la mia situazione. Senza paura di vedere dove ho i gonfiori, dove c'è l'infiammazione, dove la VES è alta. E allora devo intervenire, devo vedere, medicare, senza paura di accorgermi che non sono di quella salute che temevo, né di quella malattia che volevo essere, perché anche lì è facile barare - sapete. Ci inventiamo le malattie, per non riconoscere quelle vere. Si gioca di strategia, di astuzia, si depista la vera ricerca con una ricerca fasulla. Ma non siamo cattivi o maligni. Siamo così complicati! Più che complessi, complicati! Ecco questo è il primo punto e questo aiuta molto sia me che parlo, sia voi che ascoltate. E quando faremo l'inverso anche. Non è necessario dire grandi cose e ascoltare chissà quali verità - così metto le mani avanti e se anche dico delle banalità, vanno benissimo - ma proprio la disposizione che ha ciascuno di ricevere quello che emerge: questo è fondamentale, la vera disponibilità. Certo non si può improvvisare, ma credo che questa disponibilità sia il vostro allenamento, la vostra disciplina di sempre, perché se no fare questo ministero, ma anche fare il ministero di uomini - non solo di preti - diventa davvero drammatico.
Allora il secondo punto. Il secondo punto è proprio questo: quando parlo di vita, di uomo, che cosa voglio dire? Ecco quello che mi interessa di come vedo questa vita e l'uomo. E quello che mi interessa che voi sappiate, da questo punto di vista, è questo piccolo schema che ci può servire parecchio a riflettere su determinate cose. Bisogna capovolgere quella che è l'immagine che di solito si ha, sia noi sia culturalmente a livello europeo, la visione del bambino, dell'adolescente, dell'adulto e del vecchio. Consideriamo questo famoso cammino dell'uomo. Bisogna capovolgerlo, in questo senso, perché visto così sembra che si vada dal semplice al complicato, al complesso. Sembra che si vada dal bambino che è tutto chiaro, luminoso, innocente e via dicendo, poi a una complessità che guarda caso ha una grossa svolta nello sviluppo sessuale - chissà come mai - comunque si ha poi una complessità da lì. Invece questo va tutto capovolto. Noi, quando nasciamo, nasciamo nella confusione. E' il momento più confuso della nostra vita quello da bambini - guardate che è fondamentale questo, perché fa capire di più tante nostre cose e le cose degli altri. Quindi il primo stadio è proprio una indeterminazione del nostro essere. Noi veniamo all'essere in maniera indeterminata, dal punto di vista antropologico. Fusi con la madre, fusi con l'ambiente, fusi con se stessi, tutto un grande Io. Ecco qui veramente c'è un Io ipertrofico. Tutto è Io. Il bambino non sa ancora capire che quella mano che vede, è una parte diversa da lui, ma è tutto un insieme. La madre è un insieme, il padre è un insieme. Noi nasciamo da una fusione. E' un pezzo fuso che deve essere ancora elaborato. Come è anche il seme - se vi piace di più l'immagine. Indifferenziato come il seme. Ha questa caratteristica! Ecco noi dobbiamo arrivare allora dalla nascita ad un processo. Subito, dal parto, abbiamo un processo di separazione. Cominciamo a separarci almeno fisicamente dalla madre- poi ci vorranno anni perché questa separazione sia davvero portata dentro - e quindi comprendiamo che questo separarsi diventa e genera la complessità del nostro vivere, la quale chiede subito il discernimento, la capacità di vedere la differenza. E' la capacità di vedere ciò che non è vero prima ancora di vedere ciò che è vero - sapete, si lavora sempre sul negativo, visto che si va da uno stadio di confusione ad uno stadio di differenziamento - si va sempre togliendo le parti, dividendo, scremando, elaborando. E' un lavoro di questo genere. Nell'antropologia che si ha di solito dentro, si vede un lavoro di aggiunta - come se vivere fosse un aggiungere cose, giorni. No, assolutamente no. E' un lavoro di separazione! Semmai si toglie! E, dall'età adulta in poi, si perde, ci si lamenta ma si perde - e per fortuna che si perde - pezzi anche di noi.
Allora - questa è una cosa molto bella – c'è il terzo stadio. Da un'indeterminatezza ad un processo di separazione che vuole discernimento, dalla complessità, adesso si va verso la semplicità.
L'essere uno! Sapete che la parola “semplice” è bellissima perché significa “senza piega”. Vuol dire che è tutto steso. Che il lenzuolo o la tovaglia è tutta stesa. Non ci sono pieghe, non c'è più nulla da stendere! Guardate che è bellissima questa immagine. Bisogna arrivare alla fine dei nostri giorni che è tutto ben teso, liso - certamente consumato - che quasi non tiene più. Che poi c'è lo strappo definitivo verso l'eternità! Ma bisogna che sia tutto teso! Noi nasciamo come uno strofinaccio tutto piegato e, giorno per giorno, anno dopo anno, stendiamo delle pieghe. Ce ne sono alcune che un tempo si chiamavano “vizi” ed era proprio questa l'idea di vizio: quella piega che non riesco a stirare. Quel “sinus”, quel “dentro nel dentro” ripiegato che non riesco neanche a vedere, non riesco a tirare fuori, non riesco a stendere, non riesco a portare alla luce. Guardate che è fondamentale questo. E quello che ci chiede il Signore, è la nostra vocazione - e anche questo lo vedremo. Vivere significa obbedire alla vita, quindi venire al mondo significa accettare questo processo, accettare di entrare in questo processo di distensione delle proprie pieghe. Quindi noi andiamo verso un processo di semplificazione, dalla indifferenziazione alla complessità, verso un processo di semplificazione, verso l'uno direbbero i mistici, direbbero i Padri. Verso l'uno! Ecco questo è il modo con cui noi dobbiamo pensare alla vita! E allora quello che facciamo qui è vedere dove siamo in questo cammino, quanta è ancora la nostra complessità, che tasso di fusione abbiamo ancora con tante cose, con persone, situazioni, perché – vedete - il posto della madre, il luogo ideale della nostra fusione, è sostituito da tante cose, anche per noi preti - non dico soprattutto, ma anche per noi preti. Abbiamo nostalgia della fusione perché crediamo che si stesse così bene - ma poi chissà se stavamo proprio così bene. Però il prezzo era troppo alto: non si era nati, non si era venuti alla luce. Per venire alla luce - e guardate in tutti i sensi, anche in quello che c'è nel Vangelo di Giovanni: venire alla luce - bisogna continuamente separare, separare, separare. In un lavoro continuo di discernimento e di libertà ritrovata.
E qui compare una qualità che ci deve essere anche nel nostro cammino di ora, che è quello della sofferenza, del dolore di capire che il processo che dobbiamo fare non è un processo di accomodamento, di aggiunta, di riempire i buchi, i vuoti per ristabilire il livello, ma è quello di scavare ancora di più. Quello di togliere quello che c'è di troppo, quello di ridursi all'essenziale, di ritornare al vero. Quindi il processo di verità è questo: non è il bambino che è vero, che è ingenuo, che è semplice - togliamocelo dalla testa! L'abbiamo confuso con il discorso del bambino evangelico - lì abbiamo fatto uno dei pasticci più dannosi, basta vedere alcuni ragionamenti per vedere quanto è stato dannoso! Io penso davvero che il Signore abbia tanta misericordia nel non farci vedere i danni che abbiamo fatto, un'infinità di misericordia. Perché non è questo! Non è il bambino che è il semplice, che è il puro, che è l'innocente, che è il chiaro, ma è il vecchio, è il presbitero - mi piace giocare con questo termine. E' il presbitero che può davvero governare la casa e la comunità, perché ora lui è vero. Meglio ancora: è più vicino alla verità. Anche per il tempo e per gli anni è più vicino alla verità - che bella questa immagine! C'è una cosa che mi incanta ed è vedere continuamente l'intreccio della vita con la fede. Notatelo, è splendido! Perché a volte abbiamo la sensazione che questa fede sembra quasi contro o sembra una resistenza. Invece c'è un intreccio bellissimo: più capisci la vita e più capisci la fede. Più entri nel discorso di fede e più la vita la vedi luminosa, piena di senso, di significato. Qui è lo stesso. Questo diventare vecchi che è diventare credenti, che è diventare sempre più veri, sempre più vicini alla verità, sempre più orientati alla verità. Quando dico “orientati alla verità” voi pensate al discorso del prologo di Giovanni: “il Figlio orientato al Padre”. Il Figlio in seno al Padre che guarda al Padre. Questo è nel prologo di Giovanni! Questi due occhi che guardano come i bambini piccoli quando si rivolgono alla madre! Ecco questo guardare al Padre, sempre meno distratti, meno presi, meno stupidi, meno ripiegati su sé stessi, ma con la capacità di alzare gli occhi e guardare al Padre. Questo è guardare la verità! Ecco, questo è quello che ci rende presbiteri. Allora lì poi facciamo il nostro servizio alla comunità e agli altri, che poi non è altro che un servizio per la verità. Non certo che glielo diciamo noi qual è la verità. Questo è il nostro lavoro, che cercheremo di fare. Non vi meravigli. Io adesso sono abbastanza calmo, poi una volta riposato sarò piuttosto violento in certe affermazioni, in certe cose. Abbiate la pazienza di prenderle così, ma hanno proprio il tentativo di sfondare le nostre difese, di togliere, strappare quei lembi di coperta con i quali cerchiamo di nasconderci. Perché lo facciamo! E poi non tutti ce la fanno a stare nudi! Noi ci copriamo. A volte ci vuole un po' di forza, un vento gagliardo, il vento gagliardo dello Spirito. Quindi più che fare qualcosa - proprio non dobbiamo fare niente - ecco il lasciarsi andare. Noi non dobbiamo fare niente, semplicemente stare alla vita, stare a questo vento, non cercare il riparo, stare al vento, stare al sole. A volte andiamo a pescare - chissà questo Dio dove sarà? - ma basta vivere. Spero che l'abbiate anche voi l'esperienza di quelli che noi chiamiamo i laici. Ci sono delle persone che io mi ci incanto a vedere come sono veri, semplicemente vivendo. Mi fanno un bene! - sapete il nostro bene viene da lì. Mi fanno un bene queste persone nella loro semplicità - ma va capito bene, nel senso che dicevo della semplificazione - mi fanno un bene veramente. La nostra dimensione clericale guardate che è di un pericoloso, proprio in questo senso. Ha ornato le pieghe con i pizzi e i merletti, le frange, le famose frange del Vangelo. Noi siamo diventati abilissimi nelle pieghe… Alla fine voi dite: “Bellissimo, surreale, splendido; ma dov'è la vita?” Vi chiedete dov'è la vita! Per giudicarla noi abbiamo creato questo livello di incenso che nasconde i profumi. E va bene io sono appassionato d'incenso ma questo nasconde i profumi. Ecco: noi non vogliamo fare niente di particolare, perché finiremmo per aggiungere cose su cose anche nella nostra povera testa e nel nostro povero cuore di cui dovremmo avere un po' più di rispetto. Non dobbiamo aggiungere; dobbiamo lasciarci andare. Dobbiamo individuare quei luoghi dove c'è l'infiammazione, dove non circola bene il sangue che si chiama Grazia. Perché il sangue che circola e che ci salva è solo quello di Gesù Cristo. E operare poi con molta umiltà, con cuore contrito; lavorare su queste cose. Sapendo che al mondo lo fanno tante persone che non hanno neanche la fortuna di essere qui in montagna tranquilli. Ma lo fanno!
Continuiamo. Questa parte più che introduttiva, vuole essere distruttiva nel senso della “pars destruens” di una volta, cioè il mettere in crisi certe nostre cose. E cominciamo subito con una botta grossa. Poi domani, semmai, se Dio vuole, cominceremo la parte costruttiva! E' indubbio quello che abbiamo detto anche stamattina: la verità è soprattutto un lavoro di scavo, non di aggiunta, è un lavoro di profondità, non di struttura. Questo va ricordato, continuamente. La verità poi intesa non come “la verità”, ma come “l'essere vero”. Allora, se la verità è “essere vero”, allora l'essere veri chiede continuamente una vigilanza. Se io facessi un piccolo sondaggio tra di voi, tutti si sentono grosso modo “veri”, tranne tracce di falsa umiltà che porterebbero a dire: “Ma no! Però ce l'ho un neo sulla spalla!”.
Essere veri, è indubbiamente il desiderio che abbiamo tutti, ma è indubbiamente una realtà fragile. Sono veramente quei vasi di cotto tra vasi di ferro. E' veramente una realtà delicata che chiede continuamente vigilanza. Dobbiamo custodire il nostro essere veri: essere vigilanti, svegli. Ecco vi faccio un esempio, parlandovi proprio di delirio. Preferisco il delirio alla falsità. Il contrario della verità non è la falsità, ma è il delirio. Così, sono fatto così. Penso che, dopo tutto il dibattito filosofico che c'è stato con Popper e compagnia bella, mette male e che il discorso di falsità e verità è un discorso di tutt'altro genere. Qui, nel nostro modo di riflettere, il contrario a questo tipo di verità, “l'essere vero”, è il delirio. Adesso vi darò alcune connotazioni riguardo al delirio, salvo le patologie naturalmente - però nessuno si senta coinvolto direttamente, non vorrei dare adito a delle auto-diagnosi piuttosto violente. Comunque vedrete che nelle descrizioni di questo ci sono delle cose interessantissime.
Ecco: che cos'è un delirio? Il delirio è una visione, sono delle idee, ma idee intese come visione. E' una “weltanschaung”, è uno sguardo sulla vita, sugli uomini, sul mondo, sulla realtà. E' una visione che ha questo di caratteristico: non ha nessuna corrispondenza con i dati reali. Ma guardate che questa non è la parte più grave del delirio. La parte più grave è che questa visione non cambia anche di fronte all'esperienza che dice il contrario. Questo è il dramma del delirante. Anche quando d'esperienza gli dice il contrario, oppure argomenti di discussione o ragionamenti o parole lo indurrebbero a cedere da questa sua posizione di verità senza fondamento, lui resiste. Il delirante resiste. Ecco l'aspetto significativo che lo caratterizza: è proprio il fatto che l'esperienza, il vivere non cambia dentro lui. C'è gente che muore come è nata: tremendo! Guardate quella lì è la disgrazia più grossa che ci possa capitare nella vita. Il cambiamento è vita. Il cambiamento è vita! Le cose cambiano, nascono, muoiono. Continuamente! Se noi riuscissimo ad aver degli occhi biologici, vedremmo continuamente questa realtà che cambia continuamente. Non è così fissa, cambia continuamente. Il nostro corpo si rinnova nel giro di quattro, cinque, sei mesi. Si rinnova completamente. E noi invece siamo in questa rigidità di ciò che è fisso, di ciò che è fermo: il rigido, così tanto bel parente e cugino prossimo col “religioso”. Il rigido!
Ecco: il delirio è davvero drammatico in questo suo rifiuto del cambiamento - rifiuto della conversione, potremmo chiamarlo giustamente. Il rifiuto di far sì che l'esperienza e la vita ti insegni e ti cambi, ti liberi. Che è la Parola stessa perché - notate bene, lasciatemeli fare questi excursus sulla teologia che poi, e non mi dilungo, lascio a voi e alla vostra conoscenza teologica e spirituale che avete - la Parola si è fatta Carne, è diventata evento, effettualità nella tua vita, che ha la pretesa di entrare nella tua vita e di cambiarla, non semplicemente di esserci. Ma vuole entrare e cambiarla la tua vita, cambiarla dentro.
Vediamo alcune caratteristiche di questa posizione. Vedrete che nel pensarci, vi aiuterà molto a capire alcune cose. La posizione del delirio ha queste caratteristiche.
Primo: non è condivisibile, cioè non la puoi condividere. Anzi, prima, innanzitutto, non è condivisa dalla società, dalla cultura, dal modo di pensare più diffuso, ma soprattutto non ne puoi far parte, non la puoi condividere. E' veramente un'esperienza proprio nel tuo delirio, che è soltanto tua. Fa ridere quando parlano di delirio collettivo: non esiste il delirio collettivo! Proprio perché ha questa caratteristica di non poter essere condiviso. Certe posizioni tutte nostre: “Ah, come non sono capito! Ah, poverino, non sono capito! Vittima dell'ottusità di tutto il mondo, di tutti gli altri, presenti, passati e futuri. Non gliela vado a dire, tanto non capisce! No, no”.
E poi un'altra caratteristica: toglie la familiarità con le cose, con la vita. La vita stessa ti diventa estranea, nemica. Nemica! Ecco: il livello più alto di estraneità è il nemico. Sapete, vedremo se riusciremo a parlare di essere fratelli. Ma qui ecco: la punta alta, massima, più lontana, il top dell'essere straniero, dell'essere foresto, è quello di essere nemico. Il mondo diventa, gli altri diventano, ma il mondo in genere ti diventa nemico. Ecco, certe filippiche che sentiamo in alcune prediche, nel modo di parlare: “Ah, la chiesa, con tutto il mondo che gli è nemico!”. Ecco il dramma. Il dramma! Il dramma di avere un nemico, comunque, sempre. Ti toglie la confidenza, la familiarità con le cose, il trovarti in casa, in casa tua, comunque. Tra gli uomini e comunque in casa tua. Nulla ti è estraneo: San Paolo, San Paolo ricordate: “Nulla mi è estraneo, nulla mi è nemico”.
Un'altra caratteristica, forse una delle più forti, più importanti - anzi da alcuni autori è ritenuta proprio la causa, una delle cause, delle matrici - sempre presente, del delirio: è proprio la passività. Passività che è la fatalità di fronte alla vita, all'evento: “Eh, capitano tutte a me. Eh, la vita è così”. Ti arriva addosso e tu non puoi farci niente. A te non è chiesto di intervenire, di interagire con la vita. Ti devi arrendere, devi lasciar perdere, perché è una fatalità che ti schiaccia, è più grande di te. Il delirio nasce proprio nel tentativo di recuperare, in modo virtuale - una realtà virtuale - in modo da recuperare una realtà che tu puoi ancora in qualche modo dominare, gestire. Ecco il delirio. Ecco perché il delirio e il delirante si inventano un mondo, una vita, dei ruoli, delle cose. Perché, per lo meno, questo mondo ristrutturato nel delirio ha ancora lui come protagonista. E' ancora, almeno, protagonista di un sogno, di un delirio, di una realtà addirittura pericolosa. Ma, per lo meno, ha un minimo che ti permette di essere ancora protagonista, perché hai dichiarato che la realtà, quella vera, non è più interagibile, in essa non si può più intervenire. Qui si aggancia molto bene sia con l'allucinazione ma anche con la depressione. La passività: non si può più fare niente. Tagliamole nelle piccole nostre cose, sia di parrocchia sia di persona, sia nei confronti dei nostri vizi, sia nei confronti… -Eh quante cose interessanti salterebbero fuori, le lascio tutte a voi.
Altra caratteristica che è abbinata a quella della passività: l'isolamento. Che significa? Che la tua interpretazione strettamente personale elimina tutte le altre. Non è soltanto la fatica di comunicare una posizione, ma è proprio l'isolamento di principio, a priori, e poi di fatto. Di fatto poi e, però, a priori diventa l'unica, scansa tutte le altre. Le altre non hanno più nessun valore. Quindi neanche il confronto. La tua visione strettamente privata e allucinata, la tua stretta visione ha eliminato tutte le altre. Le altre non hanno senso, basta. La tua le ha sostituite tutte. Tu solo hai la verità. Tu solo puoi dire come stanno le cose. Tu solo hai scoperto il segreto della vita, del mondo, della storia, di Dio.
Il delirio nasce anche da una perdita di rapporto con se stessi. Anche nelle forme patologiche gravi, nelle psicosi, abbiamo proprio questa perdita di rapporto con se stessi. E siccome si è persa la realtà del rapporto con se stessi e il rapporto con la realtà propria esterna, la si sostituisce in qualche modo. Il delirio è la sostituzione: piuttosto del vuoto, piuttosto del niente, pur di vivere! Ecco: è interessantissimo. Uno degli aspetti della follia è proprio questo, che ti dice che vuoi comunque vivere. Dentro a un delirio perché è l'unico che ti fa vivere. Ecco perché bisogna stare attenti a volte a togliere il delirio, perché ti toglie l'ultima possibilità di vita.
E' interessante proprio la perdita di rapporto con se stessi. In quel mondo dove vige la tecnica, il rapporto con se stessi non esiste più. Devi continuamente ricostruirlo, devi continuamente andarlo a pescare. Il delirio nasce ed è lì dietro l'angolo, ogni qual volta c'è un fallimento. E noi ne conosciamo tanti. Ogni volta che c'è un insuccesso. E il delirio è lì a portata di mano, per porre rimedio al tentativo che il fallimento compie nei confronti dell'immagine di te stesso. Pur di non rinunciare a quell'immagine che ti sei creato di te stesso, pur di non cambiare quello che tu pensi ti te, quello che tu hai sognato di te, quello che tu hai delirato di te, perché il fallimento è questo! Eh! I fallimenti sono una parte importante della nostra vita: un momento di estrema fecondità. Però tu ti ripari dietro il delirio, cioè inventi una responsabilità altrui: sono gli altri che non capiscono, sono i parrocchiani che non vengono, è il vice parroco, è il vescovo, è lo Spirito Santo.
La caccia al responsabile, al capro espiatorio – eh! Qui andrebbero bene quelle splendide pagine di Girard sul capro espiatorio. Interessantissimo! Come ogni religione ha avuto bisogno del capro espiatorio! Un responsabile purché sia esterno: questa è la cosa importante. Un responsabile purché sia esterno. Non io! Io non posso! E probabilmente questo nasconde un io non così strutturato, così infantile che non può stare in piedi se non con una buona dose di narcisismo. Guardate che una delle categorie più a rischio - dopo gli avvocati e i dottori - di narcisismo siamo noi, i preti. C'è una dose di narcisismo… Ne parleremo, oh, ne parleremo. Che non ce ne accorgiamo neanche perché l'abbiamo codificato, l'abbiamo strutturato, l'abbiamo reso liturgico.
Altro ancora: il delirio nasce da una mancanza di conoscenza di se stessi, meglio ancora dal timore di conoscersi. E allora proiettiamo sugli altri quello che noi temiamo di noi o che inconsapevolmente sappiamo. “Eh! Gli altri vogliono il mio male”: ma perché io dentro covo l'invidia. “Ah, gli altri come sono diffidenti”: sono io il diffidente. “Gli altri mi aggrediscono”: è la tua aggressione.
Ancora: una struttura rigida e diffidente. E' interessante vederla questa struttura rigida e diffidente, non facilmente adattabile alla realtà, che fa sempre fatica ad adattarsi, fa sempre le stesse cose, deve vivere sempre nella stessa casa, non vuole cambiamenti di nessun genere - questa realtà che muta tanto, adesso poi che si sono accelerati i tempi, ogni cosa cambia continuamente! Eh ma noi… E qui abbiamo il pretesto per essere quelli dei punti fermi, quelli dei principi che non si smuovono, quelli delle crociate, sempre in un avamposto. La struttura rigida che non può far altro che diventare diffidente, maligna. Il rigido deve per forza diventare maligno, è la sua condanna. Non potendolo perdonare il male, non potendolo accettare e capire - il male altrui sempre quello altrui - lo vedrà comunque sempre e dappertutto. E per primo vedrà il male. Di ogni persona vedrà prima il male e poi, qualche volta, bontà sua…
E infine è il ruolo, la divisa. Noi siamo vestiti da preti in qualche modo - il ruolo, la divisa che soprattutto un tempo, o comunque nell'immaginario, in un certo immaginario infantile, popolar-infantile, esprime il ruolo di una persona importante, che ha potere. Ecco il potere! Il potere, la difesa del potere, anche piccolo: il poter dire la messa a quell'ora, sempre io, su quell'altare, il potere di negare qualcosa agli altri, o di ammetterlo. Qualsiasi potere – sapete - il potere di tiranneggiare sul vice parroco, sulla donnetta che mi mette i fiori, su quello che vuoi. Il potere. Il potere genera il delirio. perché il potere chiede di essere difeso. Guardate la condanna grossa di chi ha il potere è quella di dover vivere sempre per difenderlo, perché vedrà gli altri sempre a caccia di potere. E si passa la vita a difenderlo e questo provoca il delirio, perché si riorganizza tutto su un principio che non è quello della realtà, ma quello dell'immaginato.
Facciamo una prima conclusione, poi facciamo un discorso un po' diverso: la fortuna del delirio. La fortuna del delirio: l'ho chiamata così, l'ho scritta così. La fortuna del delirio. Come quando si dice la fortuna di un autore. Alla fine di un capitolo si dice: la fortuna di questo autore lungo i secoli, o di questo musicista, o artista. La fortuna - e c'è sempre stata, fin dall'antichità.
Il delirio è una delle forme più interessanti delle patologie umane. Ecco: il delirio ha una scopo protettivo. Perché è interessante – guardate - ti dà la possibilità di ristrutturare la realtà, quella realtà dove non ti ci trovi più, dove ti è nemica, dove ti è ostile. Ecco: il delirio ti dà la possibilità di inventare - noi diciamo inventare, ma è proprio un modo di ristrutturarla. Allora tu trovi un nucleo, un'idea centrale attorno alla quale tu ricostruisci di nuovo la realtà e gli dai senso. Il delirante gli dà senso e guai a portarglielo via quel senso. Gli dà finalmente senso, e lui trova significato ad ogni cosa in rapporto a quello, perfino il suo esistere - per fortuna può vivere in quel mondo lì. Ecco: il delirio è il mondo in cui lui può veramente vivere. Può ancora continuare a vivere, perché la realtà gli chiederebbe troppo di cambiare, denuncerebbe tutto il suo disagio, tutta la sua malattia, tutta la sua incapacità di stare al mondo. Il nostro piccolo mondo. Il nostro piccolo mondo, il nostro circuito parrocchiale che sembra ritagliato fuori dalla realtà, dal mondo, dalla vita. Sembriamo marziani. Facciamo dei discorsi… Ma le avete sentite le prediche che facciamo? Noi? Da marziani! Altro che delirio. Interrogatela un po' la gente, ma quella normale, non quella patologica che abbiamo sempre tra i piedi, quella normale, provate a sentirla un po': cosa ne pensano delle cose che diciamo contro il mondo, contro qui, contro là, su e giù.
Ecco, quindi, il delirio dà la possibilità. Ecco perché insisto su questo e poi spero che cerchiate di capirmi. Non voglio cambiare! Ma guardate che sono le cose che facciamo noi col peccato: io non voglio cambiare. Studio morale, così poi… E' questo il delirio, è questo il delirio! Studio morale, faccio il caso, ma io non voglio cambiare. Ma sapete che in una Facoltà hanno fatto una tesi di morale dove uno ha studiato il modo come si possa usare il preservativo legittimamente, bucandolo in cima! Ma vi rendete conto! Questo cos'è? E' delirio, no? Come lo chiamate voi? A parte la stupidità infinita: ma è delirio! Sia delle persone che l'hanno discussa e di quello che l'ha fatta! O Dio ci scampi! Non voglio cambiare e non voglio affrontare i problemi reali. Anche questo che è realissimo. Non voglio cambiare, non voglio che la realtà mi insegni, faccio resistenza alla vita, a quello che la vita mi insegna, a quello che Dio mi insegna attraverso il vivere. Non con le visioni, ma con la vita. Allora questo Dio che mi vuole insegnare qualcosa, chiede la risposta di interagire con questo. Ecco il cambiamento, il cambiamento. Allora io non voglio cambiare, però io debbo far qualcosa. Ecco allora mi invento questa realtà che è il delirio, questa realtà che si ristruttura attorno ad un'altra idea che è alternativa e soprattutto sblocca una vita che si era bloccata - perché guardate che ogni tanto la vita si blocca. Come quando avete davanti certe persone che non vanno avanti o quando vi guardate allo specchio e vedete che non andate avanti. La vita ogni tanto si blocca. Si blocca e lì dietro l'angolo c'è il delirio, nelle sue forme più nascoste, più camuffate, più devote. Perché il delirio è piacevole, proprio perché mette in moto qualcosa che si era bloccata completamente. Sblocca un'esistenza il delirio. Facendola partire per la tangente, ma sblocca un'esistenza. Il delirio fa fortuna perché ti dà subito un ruolo di protagonista. Dove tante volte devi invece essere in seconda fila, lì invece fai il dio, fai tutto, fai il protagonista. E dà un senso molto facile, dà un senso, un significato al mondo, al tuo vivere, al tuo starci. Al tuo posto, ti ritrovi al tuo posto! In quattro e quattro otto non hai più da cercare, da faticare. Non entri in ansia per trovare nel tuo posto, la verità delle cose. Ecco perché il delirio è nemico della verità. Non hai più da cercare, cambi la realtà. Perché andare a cercare la verità di quello che ti sta succedendo? Cambi la realtà - adesso poi è così facile, c'è il virtuale. Quanti preti sono incantati dal computer anche per questo! C'è il virtuale!
Il delirio, la paranoia ricostruisce il mondo. Ricostruisce il mondo che non è più - diceva un certo Sigmund una volta – un mondo che non è più splendido in verità, ma almeno ti dà da vivere. Ti dà da vivere! Questo è interessante, perché dietro ogni forma che chiamiamo di follia dobbiamo vedere questa richiesta di vita, di significato di vita. E' gente che cerca la verità. E' gente che cerca la verità in qualche modo, ed ha un suo ruolo perché fa vedere che la verità, fa vedere che il rapporto fra io e il mondo può essere davvero visto da un altro punto di vista e non solo da quello codificato dalla società, quella società potente che comanda. Eh! Quante cose si potrebbero dire riguardo a questo. Ne avremmo bisogno anche noi preti, visto che ne abbiamo a che fare parecchie volte.
Dette queste cose che vogliono essere intenzionalmente provocatorie, vogliono essere delle sassate sulla vostra coscienza, ci penserete voi e farete l'esame di coscienza. Vediamo un'ultima, piccola cosa: c'è un rischio - adesso abbiamo visto tutti questi rischi, questo delirio che è sempre dietro l'angolo, la causa di tutta questa serie di cose e di tante altre che qui non ho messo – c'è invece un rischio positivo, indispensabile, per quanto riguarda la fede. Perché la fede chiede davvero un nuovo rapporto con il mondo e con la vita Ecco perché talvolta può essere confusa col delirio. A volte il credente può essere preso per pazzo, per strambo: ma è perché davvero ci viene chiesto un rapporto diverso, diverso, con il mondo. Un altro punto di vista, un altro rapporto, un modo diverso di rapportarsi con la realtà. Partendo dal principio fondamentale che la realtà e la fede non si contraddicono, ma provengono dallo stesso Padre, generate dallo stesso Padre. Ecco perché in teologia si sta riscoprendo e si va sempre più avanti a riscoprire Dio come creatore - fondamentale, dopo aver visto tanto il Cristo Redentore - questo Dio creatore.
Facciamo l'esempio: domenica scorsa, il vangelo di domenica scorsa, Giovanni cap. 6, il discorso cosiddetto eucaristico, della moltiplicazione dei pani, che finisce con un fraintendimento, finisce con una incomprensione di Gesù, da parte della gente: lo vogliono fare re. Ma Gesù che cosa chiedeva? Gesù fa un gesto normale. Fa un gesto: dà da mangiare a della gente, dà del pane a della gente, con una modalità diversa da quella di tutti i giorni, sia per la provenienza, sia per il rito che si compie, sia per la quantità, sia per tutto. Però sostanzialmente lui sta, nei gesti esterni, sta a quel livello lì, che è quello del reale, del comune, e via dicendo. Però che cosa chiede a chi lo vede? Che loro sappiano interpretarlo ad un livello diverso: non vedano soltanto uno stomaco soddisfatto, ma lui compie quel gesto lì perché loro possano vederlo e interpretarlo in una maniera che noi diciamo superiore, ma dovremmo dire più profonda. Cioè questo gesto contiene una verità che non è lo stomaco soddisfatto ma è tutto l'altro discorso che prima ancora di essere eucaristico è il discorso di dire: guarda che c'è un Dio che ti è padre, che ti ama, ha cura della tua vita, ne ha così tanta cura che ti sommerge di pane, tanto da avanzarne. Ma questo è quello che vuol far capire Gesù: c'è una verità, c'è un altro modo di rapportarsi. Ma io, se ho fame, mi rapporto con il pezzo di pane. Questo è un rapporto normale, secondo la realtà. Questo è un rapporto normale. A me viene chiesto di impostare un nuovo rapporto con la realtà che è quella di vedere dentro al pane non semplicemente il tacito soddisfacimento del mio stomaco che è in crisi glicemica ed ha bisogno di quel pezzo di pane, ma io devo vederci tutto quello che c'è dentro un Padre che mi dona qualcosa, che quel pane mi viene da lui, devo vederci un significato della vita, un destino da compiersi, un rituale, un sacco di cose. Vedete come è facile, se non seguo un determinato criterio, arrivare al delirio? Lo vedete? Perché mi viene chiesto nella fede! Molta gente non fa questo salto - e lo dice: ma cosa c'entra con la realtà. Difatti non capisce questo vangelo, perché non è più educata ad andare in profondità delle cose, a leggere le cose. Però stiamo attenti a questa educazione alla verità, perché in agguato c'è sempre questo discorso del delirio. E allora la verità chiede davvero un lavoro di profondità, ma sano. Sano, sano! Ed è per questo che c'è stata data la parola di Dio dentro ad una comunità di credenti, la chiesa. Però un cammino sano! Attenzione, perché se deliro io cristiano, faccio delirare tutti quanti. Quante sette, quanti movimenti! Non fatemi aprire quel capitolo lì.
Ieri c'era sul giornale il Papa che richiama, il Papa che ha richiamato il dire sì al carisma, però in obbedienza al vescovo. Perché sono tutti in difficoltà con tutti questi movimenti! Lo sapete benissimo, sono tutti in crisi, in difficoltà, parrocchie e diocesi. Questo mio accenno non vuol essere un giudizio - non so voi come la pensate - non vuol essere un giudizio di per sé, ma che questi equivoci che si formano, si formano proprio dentro questo discorso che la fede chiede un livello di profondità. Io ieri dicevo ai miei fedeli nella predica che non è un salto di quantità, non è un'analogia così materiale, come il pane. Si fa quel discorso lì, poi allora dicevano giustamente i miei bambini: beh! allora è come se prima c'era un pane, invece alla fine ci saranno mille quintali di pane. No! Ecco il discorso non è numerico. E' che il numero che Dio ci chiede è un numero infinito. E' un punto infinito il numero che ci chiede - questo salto di qualità. Quindi stiamo attenti a fare certe analogie: la verità è una profondità che va ben oltre al discorso analogico semplicemente di amplificazione del numero della quantità o dell'immensità. Ecco questo riuscire ad educare la nostra gente ad una ricerca della verità, che non sia però un delirio. Per esempio - qui si aprono tanti discorsi - per esempio il presentarsi davanti alla liturgia, davanti alla parola di Dio già chiedendo alla liturgia e alla parola di Dio di dar ragioni al mio delirio, quindi già con una precomprensione. Cioè faccio dire alla parola di Dio quello che voglio che dica, cioè che dia ragione ai miei deliri, alle mie paranoie. Dobbiamo vederle queste cose, perché ci giocano dentro. Non dobbiamo aver paura, vederle per governarle - possiamo davvero governarle - stare attenti, vederle. Però dobbiamo continuamente vigilare, custodire, stare con gli occhi aperti, sapere che esiste una possibilità di delirio per tutti. E per non condurci una comunità o della gente - o nella direzione spirituale o nel discernimento - stiamo attenti! Stiamo attenti.
Anche perché questo della fede è davvero un altro modo di vedere le cose, ma sempre secondo verità. Ecco perché la verità è davvero indispensabile. Devi essere credente, cioè avere fede, ma devi essere vero. E' questo l'abbinamento che ci salva. Finito. Non preoccupatevi se mi scaldo e mi lascio andare.
Il titolo di oggi è: “ Per non delirare: punto primo”. Originali questi esercizi: “Per non delirare”! Se vedete c'è una cosa interessante: ci sono tanti belli studi da fare, che purtroppo non vengono fatti. Ce n'è uno che, secondo me, bisognerebbe fare: vedere come, dal '600 ai giorni nostri più o meno, dal Concilio di Trento ai giorni nostri, come nella liturgia, nella prassi, nella teologia, nei libri di spiritualità - è interessante – troviamo la mancanza di una dimensione. Una dimensione data per scontata naturalmente - ci mancherebbe altro - ma così scontata da non essere citata, celebrata. Ed è uno dei punti fondamentali per non delirare! Interessante. Quello che ci tiene ancorati alla realtà, alla verità è stato trascurato. Non certo dai primi secoli, anzi. Anzi, avessimo avuto più un occhio o un orecchio ai padri come si deve… ma purtroppo anche lì, lì è un altro studio! E sapete cos'è questa cosa? E' la dimensione di figlio. Gli storici della teologia dicono che si aveva paura di confondere. Che in fondo noi siamo figli sì… però il Figlio è uno solo. Insomma, c'erano tante paure - eh le paure, le paure! ti fregano le paure! - che si è adottato - lo vedete ancora adesso in quelle tremende collette che ci tocca recitare durante la liturgia, tremende, tremende - l'espressione dei figli adottivi, figli adottivi. Detto poche volte! Siamo figli, però attenzione, eh! Invece c'è quella bellissima espressione “filii in filio” che è splendida. C'è una volta sola.
Abbiamo inventato il termine “fedeli” - i tuoi fedeli. Poi quando si è avuto un rigurgito popolare, democratico, è venuto il termine “popolo”. I fedeli! Ma chi sono i fedeli? Noi siamo i figli! Noi siamo i figli. Provate a guardarla questa liturgia, veramente. E' che noi poi lo diamo per scontato; ma è interessante vedere la paura, la paura di questo termine, la paura di questo termine - perché evoca tante cose, tante cose, troppe. Eppure questa – questa, la dimensione di essere figlio! - io la ritengo uno dei punti fondamentali - ci sono pochi punti fondamentali nella vita, forse sono tre o quattro, non ce ne sono di più, tre o quattro, di cui uno è questo. Ci àncora alla verità di noi stessi, del mondo, di Dio, di tutto, del presente, del passato, del futuro, dell'eternità perché è la dimensione che saremo, che sarà così per l'eternità. Di tutto il resto non ci resterà niente su niente, ma dell'essere figlio! Santo Cielo, dell'essere figlio! Se non vogliamo delirare, cioè andare contro la verità, la realtà di ogni cosa, bisogna avere la coscienza di essere figlio. Vediamo cosa significa. Ho messo giù dei punti. Naturalmente, trattandosi di presbiteri, certamente più esperti di teologia di me, non faccio riferimenti biblici o teologici. Ogni tanto dò alcuni richiami o rimandi che voi però vi annoterete, vedrete, sentirete, saprete documentare meglio di me. Io vi do soltanto degli spunti sui quali voglio che ci sia la vostra riflessione, ma soprattutto la sensibilità, la coscienza di figlio - poi per noi che facciamo i preti! Eppure questo è quello che ci salva!
Essere figlio; provate a pensare. Il primo pensiero è che non c'è altro modo di venire al mondo che essere figlio. Non c'è un'alternativa. “Venire all'essere” significa già “essere figlio”. E' un tutt'uno con l'“essere” l'“essere figlio”, anzi si può dire per noi che è sinonimo di uomo. Uomo è sinonimo di figlio. Mi viene in mente così - però non proprio in modo pertinente - l'espressione “figlio dell'uomo”. Che bella che è, vista così! Figlio dell'uomo! Quel tono generico - dicono gli esegeti che ha un tono generico, oltre che specifico nel senso del profeta Daniele, ma è molto bello – “figlio dell'uomo”. E' la prima verità di ciascuno che non può mai essere negata: tu sei figlio. Proprio perché esisti. Anche se vegeti in un letto, anche se sei inchiodato, anche se sei fuori di testa, anche se sei moribondo, anche se sei delinquente - se mai esistono - tu sei “figlio”. Ah quante cose cambierebbero: provate a pensare la ricchezza di questa visione. Tu sei figlio.
Secondo: essere figlio vuol dire - ecco questa è un'altra di quelle cose che, è un punto che risana tutta la nostra vita, la risana completamente, perché noi abbiamo sempre bisogno di essere un pochino medicati, consolati - un figlio che nasce da un atto d'amore. Quindi noi siamo nati perché amati. Quanto meno elemosinare a destra e a sinistra un po' di lusinga, un po' di seduzione, un po' di sfregamento fisico e psicologico. Quanto pomiciare meno virtualmente. Se noi capissimo! E poi quell'altro aspetto: quanto meno depressione, quanto meno scoramento, sapendo che soltanto aprendo gli occhi al mattino, soltanto affrontando la vita, soltanto svegliandomi, io so che sono lì - anche se poi me lo chiedo perché o per cosa e tante volte mi viene la domanda - ma sono lì per un atto d'amore. Sono lì per un atto d'amore che anche se non è proprio dei miei genitori - anche dei miei genitori, ma a volte non lo è proprio - comunque anche dei miei genitori, comunque è un atto d'amore di Dio, il quale amandomi mi ha partorito. Lui mi ha partorito. Dio mi ha partorito. Ma quale altra dignità andiamo a cercare? Dio mi ha partorito e per amore. Io sono certo che sono stato voluto per amore. Guardate che questo ci dà una forza, una dignità, una robustezza spirituale che non ce la sogniamo neanche con tutti gli altri prontuari di spiritualità. Questo dobbiamo celebrare la domenica nell'Eucaristia, questo noi dobbiamo celebrare, questa nostra fierezza di essere lì perché siamo figli, comunque e sempre, tutti. Questo dovremmo dare al nostro popolo, questa consapevolezza - non la fierezza di essere in chiesa, di essere cristiani, non la fierezza di essere qui o essere là - ma figli, ma figli. E quindi non per merito nostro. Non abbiamo proprio nessun merito. Un dono, una grazia, Uno che ha deciso di amarci e, amandoci, ci ha fatto esistere. Mi direte: ovvietà questa. Benissimo: ovvietà! Ma non sono mica tanto ovvietà nella nostra prassi cristiana, sapete, e neanche nella nostra vita spirituale. Basta sentire il tipo di confessione, il tipo di accusa, il tipo di impostazione. Altro che trovarci dietro un figlio! Ci troviamo dietro uno che si sente un dio, non un figlio. Allora ciò che - e questa l'altra grande verità della nostra vita - ciò che rende figlio, ciò che rende figlio è l'essere nati per amore. E' questo che rende figlio. E se tu non lo capisci, non puoi sentirti figlio. Tu devi sentirlo che sei nato per amore, tu ne devi aver viva e lucida coscienza che sei nato per amore, che è un gesto d'amore che ti ha fondato. E' questo che ti rende figlio! Questo! La tua coscienza. Quindi figlio è un dono oggettivo che ti viene dato, perché tu nasci, nasci come figlio. Ma poi, per diventarlo tu figlio, devi averne la coscienza. Tu divieni figlio. Come sempre un dono di Dio è sempre un impegno di risposta da parte tua. Tu dopo devi rispondere e diventare quello che sei. Tu devi diventare quello che sei da parte di Dio. Lui ti ha fatto dono di essere figlio, ma poi tu lo devi divenire questo figlio e lo divieni soprattutto con la consapevolezza che sei stato amato. Il tuo esistere è la dimostrazione di essere amato. Non starai più a cercare i segni dell'amore a destra e sinistra - fammi vedere quanto mi ami - ma la tua esistenza, il tuo aprire gli occhi, il tuo vivere, il tuo pensare, il tuo amare è la continua testimonianza che tu, tu sei amato. Ma dobbiamo farlo riscoprire soprattutto ai giovani! Chiudo qui se no non finiamo più. Ho fatto otto punti, siamo al secondo! Ma qui non si può non ricordare gli Efesini, l'inno: “Ci ha scelti prima della creazione”. Ecco quell'atto d'amore! Il nostro concepimento – sapete - è quello lì. “Ci ha scelti prima della creazione” - che bello! - “predestinandoci ad essere suoi figli”. Basterebbero queste due righe per fondare tutta la morale cristiana e non tutte le altre balle che abbiamo scritto e detto! Guardi il mondo e dici: “Io sono stato scelto prima”. Guardi il Monte Bianco e dici: “Io sono stato scelto prima”. Sapete queste cose fanno bene! Queste cose fanno bene, non sono romanticismi: è la parte più sana di noi. Il gusto dell'essere, il gusto dell'esserci, ci viene da questo. Pensate al grande vuoto che c'è nell'animo dei nostri ragazzi: il vuoto. Sono orfani, sono veramente orfani, altro che venire da un atto d'amore! E chi ha sbagliato allora? Loro o una chiesa che non gli ha fatto sentire che c'è un amore che li ha voluti al mondo?
Vediamole queste caratteristiche del figlio. Terzo: il figlio impara dal padre. Lo dice l'evangelista Giovanni. Gesù dice: “Queste cose le ho imparate dal Padre mio, io compio le opere del Padre”. Questo imparare che nasce dallo sguardo verso il Padre. Gesù ha lo sguardo verso il Padre. Gli occhi del garzone che guarda il padre che fa il falegname e impara: è la stessa cosa sapete? Guardate che la cifra umana è la cifra di interpretazione del divino, non c'è verso dall'Incarnazione. E quindi noi dobbiamo vederlo questo bimbo che impara dal padre. E il mistero di Nazareth è anche questo. Questo sguardo, vedetelo così. A me piace vederlo questo bambino in braccio al padre oltre che alla madre. A me piace tanto vederlo in seno al Padre. Quello che ha contemplato Giovanni nel prologo: “nel seno del Padre”. E la bellezza - e qui c'è stata tanta discussione, ricordate le eresie, il monarchianismo e compagnia bella, ma vediamo che è il punto più sottile di tutta la riflessione teologica, secondo me, riguardo a tutto questo rapporto – di vedere, è bellissimo vedere che il figlio dice - e lo dimostra più volte, è inutile che ce lo nascondiamo - che lui è inferiore, proprio perché è figlio, lui è inferiore al Padre. Ma questo non lo diminuisce, questo non lo altera, questo non gli impedisce di essere se stesso. Proprio questo è un mistero grandissimo, ma è vero! E' vero. Il Padre è sempre più grande, il padre è il più grande. Per ogni bimbo il padre è più grande, anche per il bimbo Gesù, per il Figlio. Questo è un mistero grande, molto bello anche per noi che ci troviamo di fronte a un Padre così. Per cui poi non dobbiamo temere di dire: “Faccio la sua volontà”. Non ho più la paura di venire meno alla mia. Quando Gesù dice: “Ma le mie opere sono le sue”. L'unica volontà, ma “la mia volontà è fare la sua volontà, io sono qui per fare solo quello”. Sembra davvero una rinuncia a se stessi e invece…
Quarto punto: il figlio rimane nella casa, non ci sta lo schiavo. Ce lo dice Giovanni: “Il figlio rimane nella casa”. Che bella questa espressione, con tutto ciò che significa in Giovanni “rimanere”. I verbi di Giovanni: “rimanere”… E' il figlio che rimane, guardate che è splendido. E vuol dire rimanere nella casa, vuol dire un'intimità con il Padre. Ciò che caratterizza il figlio è l'intimità con il Padre. E guardate che senza intimità non c'è cambiamento, anche con le persone. Si sta un mucchio di tempo insieme, ma se non c'è intimità non si cambia, anche nella coppia. Se non c'è intimità in ogni rapporto, se non c'è intimità, non c'è cambiamento. Non c'è cambiamento nel rapporto, nella comunicazione. Visto nel nostro aspetto teologico vuol dire che non c'è cambiamento nella storia della salvezza, perché il mio rapporto con Dio è la mia storia della salvezza e non c'è quindi quel cambiamento, non c'è la conversione. Nella comunicazione non c'è l'ascolto della parola, allora non c'è la parola che mi cambia. Stare nella casa del Padre è fare esperienza di vicinanza. Guardate che è fondamentale questo: è veramente lo Spirito Santo. E' qui il Consolatore, l'esperienza di vicinanza di Dio alla mia vita ed io della sua. Siamo vicini. Pensate che bello affrontare la vita con tutte le sue prove, da vicini a Dio e lui vicino a noi. Esperienza di vicinanza. E' lo Spirito Santo. Stare nella casa del Padre vuol dire la preghiera. Preghiera è questa intimità, è questo dirsi le cose fra Padre e figlio, il farsele spiegare. E' rinnovare la fiducia quando lui sta zitto, quando io non so parlare. Quando io uso le sue parole, perché non ho le mie. Che splendore quando ci tocca pregare con le preghiere sue. Eh, il Figlio tante volte è “infans” [2] , non parla. A volte siamo così piccoli che dobbiamo prendere in prestito le parole.
Quinto: il figlio ha come ministero, come compito, di rivelare il Padre. Compie le sue opere, fa la sua volontà, mostra il volto del Padre. Quindi ha una vita che è un rimando. Ma non per questo è meno autentica. E' un rimando al Padre. E' una vita che diventa via al Padre e quindi verità. Non abbiamo altro da dire noi, che il Padre.
Sesto punto: il figlio ama con l'amore del Padre. Il figlio che si sa amato e perciò diventa amante, con la forza di colui che è amato. E capisce nell'esperienza dell'essere amato e nel voler amare, che non c'è altro amore che quello del Padre. Proprio l'amore è quello che lui riceve dal Padre. Non va a cercarne un altro, non lo inventa, non lo delira un altro amore. Impara dal Padre ad amare. Nel ricevere l'amore si impara ad amare. Il figlio è colui che ha conosciuto l'amore e lo testimonia: “Noi abbiamo conosciuto l'amore, noi l'abbiamo toccato, visto” - questo lo diciamo noi, lo dice Giovanni, lo possiamo dire noi, ma lo dice anche Gesù, Gesù che è rimasto in seno a questo Padre. L'ha toccato, l'ha visto, l'ha sperimentato e da lì non è più venuto via. “Io sono sempre col Padre”. Che è la nostra storia. Una volta toccato l'amore mai più nessuno riesce a venire via. Qui è il punto. Meno male che l'amore seduce. Meno male, che mi sono lasciato sedurre, ma meno male! Ma possiamo stare solo per questo in casa del Padre: ma perché sedotti, conquistati. Il figlio che conosce l'amore vuole amare di quell'amore. Di quell'amore vuole amare! Questa è l'ascesi, questa la morale, questo l'uomo giusto: di quell'amore io voglio amare, non di un amore qualsiasi, non del mio amore, ma di quell'amore. Ma deve conoscerlo però.
Settimo: il figlio è libero. La libertà del figlio! La libertà del figlio. Perché convinti che si è sempre e prima di tutto amati: questo è il fondamento della nostra libertà. Non temiamo di essere nudi davanti al Padre, con tutte le nostre magagne, ferite, sconcezze debolezze, sconfitte, inganni. perché noi siamo certi che noi siamo sempre - sottolineatelo quel sempre - sempre amati. perché un figlio è figlio comunque, sempre. Sempre. Ormai segnato dall'essere - sia benedetto l'essere, non perché ci ha fatto inventare la metafisica, ma sia benedetto l'essere - perché una volta posto l'atto non più nessuno, neanche Dio può tirarsi indietro. E Dio è fedele all'essere e alla storia. Quando diciamo che Dio è fedele alle sue promesse, non dimentichiamo che la sua prima promessa è proprio quella dell'essere. E' la sua prima promessa l'essere - e benedetto sia l'essere che quando pone un atto, e qui c'è tutto il discorso del matrimonio, di ogni altra scelta compresa anche la nostra. Ogni atto consegnato all'essere è custodito da Dio. Più nessuno, più niente lo può negare. E questo “essere mio figlio”, essere figlio, questo “mio essere figlio”… Ma non ne abbiamo coscienza, non possiamo dire di averne veramente coscienza. Altrimenti certi discorsi, certe paure, certi scrupoli, certi drammi morali, certe stupidaggini, non li avremmo più e non avremmo mai paura di andare dal Padre, mai paura. Paura non esiste con Dio! Non esiste con Dio. Questo amore che ti libera quindi, che ti toglie questi ceppi di spavento, di terrore, di fantasmi - i nostri fantasmi che ci girano dentro e che proiettiamo a destra e sinistra, compreso Dio. Finalmente qualcuno di cui sono certo che mi amerà sempre. Posso star davanti a lui in verità, nudo. L'essere figlio lo posso rifiutare, ma nessuno me lo può strappare – sapete - nessuno, manco il demonio, manco il nemico, che è lì, che è l'ostacolo. E' proprio il nemico. Ha il compito di fare divisione tra me e il Padre, proprio come ha tentato con Gesù nel deserto. La divisione tra il figlio e il Padre: questo è l'obiettivo del demonio, questo è veramente il vero obiettivo del demonio. Farmi credere che mi ha portato via dal Padre, strappato dal seno del Padre. Quel rapimento che c'è nell'Apocalisse, proprio questo strappare, portarti via, il tentativo di portarti via dal Padre, perché il demonio sa che quello è il posto della nostra pienezza, della nostra felicità. Che lui non ha. Però nessuno me lo può strappare, da quando c'è il sigillo: Gesù Cristo. E' il sigillo Gesù Cristo. E' il sigillo che il figlio è accanto al Padre, che noi siamo figli nel figlio. Più nessuno, più niente potrà cambiare questa cosa – pensate - questa è veramente l'altezza dell'esperienza spirituale.
Libertà che viene anche dalla consapevolezza che tutto il resto conta poco o niente. E' solo stare col Padre che conta, è la storia con lui che dà il senso a tutto il resto. E quindi sono libero da ogni altra cosa, anche da me stesso. Che pace che dà questa consapevolezza! Dona la pace.
Ultimo punto, però anche questo molto bello - lo accenno soltanto, meriterebbe una meditazione da solo -: il figlio è riconosciuto. L'eudochia! “Ecco il figlio che ho amato, nel quale mi riconosco”. Guardate che questo è il gesto dell'eternità, della pienezza: il figlio che viene riconosciuto e per l'eternità. E' il destino del nostro cammino: essere riconosciuti dal Padre. Ma pensate che meraviglia! Essere riconosciuti dal Padre: “Questo è il figlio che amo. Mi ritrovo in lui, mi riconosco in lui”. E' intraducibile quella cosa lì. E quindi tutto il nostro impegno che si dice ascetico, tutta la nostra disciplina, tutto quello che facciamo: non vogliamo che quella porta - come spesso c'è nel Vangelo - si chiuda. Dice: “Non so chi sei”. Pensate un po': “Non so chi sei”. Il figlio non riconosciuto. Questo è l'inferno - sapete. Perché tu rimani figlio, ma non riconosciuto. L'inferno lo si può attraversare - bellissima anche quella dimensione lì, in cui Von Balthasar ha visto nella trilogia dei tre giorni, che si può attraversare l'inferno - perché in fondo c'è l'abbraccio del Padre. Splendido! Tu puoi entrare, lo attraversi, perché sotto c'è proprio l'abbraccio, ci sono le mani del Padre che ti accolgono nel seno. Come in fondo ad ogni dolore, in fondo alla morte, c'è il riconoscimento del figlio. Ho finito.
Oggi consideriamo la tentazione, come altro punto per evitare il delirio. La tentazione intesa come la possibilità reale di peccare. La tentazione è la possibilità reale di peccare, dove la nostra debolezza può farci rinunciare alla nostra verità di figlio. A causa della nostra debolezza rinunciamo alla nostra verità che è quella di essere figlio. In un certo senso il peccato ci falsifica. Stiamo attenti a dire che il peccato fa parte della natura dell'uomo – non possiamo qui aprire il capitolo di come era la natura di Adamo ed Eva con tutti quei bei problemi, che oggi vanno certamente riconsiderati a partire dagli studi recenti. Sta di fatto che questo discorso del peccato è certamente un processo di falsificazione dell'uomo, gli toglie la sua identità di figlio - o almeno il suo comportamento non è quello di un figlio. E non è il caso di invocare sempre il tentatore; perché è nella vita stessa, è l'economia della vita che esige la tentazione. La vita esige la tentazione – sapete - perché la tentazione è il luogo della scelta, è il luogo delle decisioni, perché lì la vita ha questi spazi di scelte, di decisioni. E' il luogo di libertà o di schiavitù.
E' la prova vista come spazio reale della nostra libertà. E' necessaria per la nostra crescita. Noi abbiamo bisogno che ci sia davvero uno spazio reale di possibilità di scelta. Perché un “no” vale perché esiste una possibilità reale di “sì” e il “sì” esiste perché c'è la possibilità reale di un “no”. Ma non la finta di un “no”. Io dico di “sì” alla castità, perché tanto con una donna non ce la farei - scusate l'esempio un po'… Oppure l'obbedienza passiva da tonno, proprio nei confronti di qualcuno, perché non ho sufficiente carattere per contrastare, per stare dritto davanti a lui. Mi piego automaticamente. Quando uno è più dritto di me, io mi piego automaticamente. Mi mancano gli addominali per stare dritti.
Quindi un vero “sì”, un vero “sì”, vale in proporzione della tua reale possibilità di un “no”. Questa è la tentazione. E sia benedetta la tentazione - lasciatemelo dire - sia benedetta la tentazione! E non vediamola così nemica, così uno spauracchio, per cui io per presumermi santo devo far vedere che non sono neanche più tentato, tanto sono santo. Dovrei dire castrato non santo! E lasciatemi dire anche che non bisogna fuggire davanti all'umiliazione inflitta dalla tentazione: è sacrosanta, è benedetta l'umiliazione che ti viene dalla tentazione. Anzi la devi abbracciare questa umiliazione, la devi fare tua, la devi spiritualmente assimilare, perché in essa noi ci si invera, si diventa veri. Si diventa, si toglie la maschera. Ti vengono strappati da dosso tutti i gingilli e le frange di ogni tipo che ti servono per nasconderti e per dare agli altri un'immagine di quello che non sei poi dentro. Ben venga la tentazione.
E qui tocchiamo un tasto importante, veramente importante - anche questo capitolo bisognerebbe aprire e fare degli studi interessantissimi, poi vi dirò. Nell'umiliazione della prova - è davvero umiliante la prova, quando ci sei dentro è umiliante perché ti accorgi che sei debole come un cane, sei debole, altro che! - cosa succede nell'umiliazione della prova: che il cuore di pietra va in frantumi e si rivela il cuore di carne, il cuore di figlio. Ecco qui il concetto sul quale qualcuno dovrebbe studiare veramente: che il cuore contrito, significa, il cuore mandato in frantumi, frantumato. Questo è il cuore contrito, questo è il vero concetto, altro che la compunzione e tutte quelle espressioni strane e difficili che sono state inventate per non dire: il cuore contrito. E se volete un concetto del cuore contrito lo trovate nel salmo 51, il Miserere, al versetto 19: “sacrificio a te gradito è un cuore contrito”. Un cuore andato in frantumi. E' la vera prova della nostra vita – sapete. Questa è la vera prova della nostra vita. Se questa vita la prendiamo in pieno –sapete - come si prende in pieno una corriera che ti viene addosso, un treno, se tu questa vita la prendi in pieno, ti manda in frantumi il cuore. Questa è la vera prova. Se non ti nascondi, se non ti difendi ad oltranza, se non scappi da codardo davanti ad ogni prova, ecco il cuore va in frantumi.
Agostino che è sempre maestro in eterno di tutti noi, usava il termine “pressura”. Splendido! La pressura. Cioè tu sei dentro a questa macchina che ti spreme e si vede di che sugo sei fatto. La pressura! Che è poi anche la macina del frumento per fare il pane. E' quello dell'uva per il vino. La pressura!
Ma sia benedetto quando la prova manda in frantumi il nostro cuore, perché insieme al nostro cuore va in frantumi anche il nostro specchio narcisistico, che tanto curiamo, lucidiamo ogni mattina, gli facciamo le greche attorno, nuove tutti i secondi. Ah, il nostro specchio, anche quando ci diamo addosso – sapete - anche quando siamo i più colpevoli del mondo, i più grandi peccatori. Un giorno ho mezzo scandalizzato la mia gente perché mi hanno sentito fare una risata enorme dal confessionale, perché una signora è venuta da me e m'ha detto: “Ho fatto tutti i peccati!”. Le ho detto: “Signora, non ci sono mai riuscito neanch'io”. Questo mi bruciava, che lei ci fosse riuscita! Non l'avrei tollerato!
Va in frantumi il nostro specchio narcisistico, si smaschera la tentazione, si smaschera ciò che non è vero in noi. Vengono a galla tutte le tossine di menzogne che portiamo dentro, tutti i luoghi, tutte le varie leghe che facciamo, leghe, perché facciamo proprio delle leghe che hanno bisogno del fuoco per essere purificate. Tutti quei miscugli nei quali sguazziamo con tanta facilità e comodità.
Bisogna davvero invece guardare questa tentazione negli occhi, guardarla negli occhi. La prova va guardata, va affrontata da uomini, con tutti gli organi a posto. E bisogna seguire le tracce della grazia che ci spinge così fino in fondo. Le tracce della grazia! Lì c'è Dio ugualmente, nella prova c'è Dio - non dimentichiamolo - è lì. Quella che un tempo veniva chiamata “la grazia preveniente”, è lì la sua presenza d'amore. Un padre accanto al figlio che sta facendo la prova, perché è nell'umiliazione accettata e fatta nostra che la salvezza ci attende.
Vi faccio una citazione dagli “apoftegmi” dei padri, questi bellissimi testi: “Quando siamo tentati allora dobbiamo abbassarci di più”. Notate, è un'immagine bellissima. A me ha fatto tanto bene questa cosa. “Quando siamo tentati, allora dobbiamo abbassarci di più, perché Dio, vedendo la nostra infermità ci protegge, ma se ci innalziamo ci toglie la sua custodia e siamo perduti”. Ecco l'immagine del padre e del figlio. Nel momento in cui io ho la consapevolezza di essere nella prova, di essere tentato e sono consapevole, lucidamente consapevole della mia infermità, della mia debolezza, del mio essere piccolo, non devo puntare sulle mie stupide, velleitarie forze, ma devo giocarmi tutto proprio sul fatto che sono debole e piccolo e puntare su quello e Dio allora mi custodirà perché è Padre e non abbandona suo figlio. Ma io devo restare figlio in quel momento e non fare il galletto, che lui ormai con le prove già superate, con le ascesi, con i libri studiati, con le varie castrature, posso affrontare qualsiasi prova! Oh, poveretto! Mi verrebbe da dire un altro termine! Oh, poveretto! Nel momento in cui tu sei tentato, abbassati di più - l'umiltà, l'umiliazione dentro quella prova - confida nel Signore, non disperare, affidati a quel discorso. Lì c'è la grazia di Dio. Quando siamo tentati, allora dobbiamo abbassarci di più. E' bellissimo. Applicatelo. E insegnate a farlo.
Quindi, questo è il cammino dell'uomo, di questo scontro doloroso tra la libertà ferita e tradita dal peccato - il peccato tradisce la nostra libertà, la ferisce e la tradisce - da una parte e la grazia restauratrice dall'altra. Da una parte le nostre ferite, dall'altro l'olio della consolazione. di una grazia che restaura, di un amore che è così rispettoso ma nello stesso tempo è perfettamente sovrano, è perfettamente signore. Nello stesso tempo lavora, mi medica, mi fascia, mi custodisce, mi salva, ma nello stesso tempo è sovrano, perché la grazia ha vinto il peccato. E noi là! Smentiamo la grazia tutte le volte che affrontiamo la prova temendola, bestemmiando oppure facendo finta di niente. La grazia ha vinto il peccato. Ed è sovrabbondante.
Questa umiliazione che ci viene dalla prova è fatta per condurci all'umiltà, l'unica virtù cristiana, l'unica. Questo l'aveva già capito Agostino. C'è un bel testo nei Sermones, il 351 - questo splendido sermo, discorso, andatelo a vedere - dove dice: “Humilitas una disciplina cristiana est”. Cioè c'è pressoché un'unica disciplina cristiana: l'umiltà. Anche qui sarebbe interessante ricostruire questo tema dell'umiltà. Tommaso non ha avuto neanche il coraggio di chiamarla veramente virtù, l'ha sostituita con la modestia, con la “mediocritas”, tanto si era creato tutto un pasticcio. Eppure è l'unica grande virtù. E' la disciplina in cui cresce il figlio, è il cammino che ci è dato perché noi possiamo conoscere la salvezza, il cuore in frantumi, andato a pezzi con tutto il suo codazzo di specchi e gingilli, questo cuore andato in frantumi, è costretto ad assumere un vuoto, un vuoto dentro di sé che è una capacità di accoglienza della grazia. E Agostino ancora: “Noi siamo, ognuno è capax Dei”, capaci nel senso proprio del vuoto, di accogliere la grazia. Però c'è bisogno che il cuore si frantumi. Non solo, ma il cuore in frantumi si fa vero desiderio di grazia. Brucia dalla voglia che questo vuoto, questo vuoto diventi invocazione. Diventa pianto, diventa grido di salvezza. E' il vuoto però, non quando siamo tronfi di noi stessi, facciamo le preghiere stando ritti in piedi, anche se stiamo in ginocchio e prostrati.
Andiamo avanti. Oso dire che in questo discorso della tentazione perfino la tentazione quando vince, cioè il peccato, ci può condurre all'umiltà più di tante altre cose. I padri lo dicevano spesso: meglio un peccatore umile, che una vergine o un monaco orgogliosi. Lo avevano molto più chiaro, loro, questo discorso dell'umiltà. Ci sono le Conferenze di Cassiano, c'è tutta una predica - poi ve la citerò - di Basilio - sono una cosa splendida! - dice tutti i trucchi dei monaci, ma anche dei religiosi, tutti i trucchi possibili che si erano inventati per sfuggire all'umiliazione. Cassiano dice che anche quando sei nel digiuno, quando non mangi tanto, ti sembra di essere tale, poi quando però digiuni e non lo dici a nessuno, quando digiuni nella tua cella poi però sei orgoglioso del digiuno che hai fatto nella tua cella, e - va avanti la storia - e non pervieni mai all'umiltà, perché il tuo cuore non è mai andato in frantumi. Non è mai stato umiliato. E qui come non ricordare proprio l'episodio di Davide. Che splendida figura che è Davide! E' l'unico re che si salva nonostante il suo peccato. Tutti gli altri un disastro. E' un re verso il quale Dio ha avuto delle enormi debolezze, un re viziato Davide, enormemente amato. Bella figura, veramente grande. Purtroppo non è più in circolazione - anche se Piemme ne ha preso i diritti, dato che la Rusconi ha chiuso - un bellissimo libro, se vi capita leggetelo, su Davide. E' un romanzo, ma è più di un romanzo. L'autore si chiama Carlo Coccioli, è un perfetto sconosciuto in Italia anche se è un grande autore. Ha scritto questo libro “Davide” della Rusconi - adesso dovrebbe essere di Piemme, però non è ancora stampato. Se vi capita di leggerlo, è un libro bellissimo: ha capito più lui di tanti esegeti. E' Davide che fa il diario della sua vita e parla di questo amore per Dio nonostante la carne di Betsabea – bellissimo! “Nulla e nessuno ho amato più di te, neanche la carne di Betsabea, giglio di carne, e neanche Assalonne, il figlio tanto amato. Nulla e nessuno ho amato più di te”. Dolce preghiera. Leggetelo è splendido questo libro. La figura di Davide è la figura del pentimento, dove grazie al peccato egli vede Dio con un altro sguardo. Lo dico: grazie al peccato - con consapevolezza. “Un cuore affranto e umiliato, Signore, tu lo gradisci”. Ha capito questa grande cosa di Dio. E guardate che Dio lo ha viziato veramente, non ha trattato nessuno come ha trattato Davide. E Davide - quando c'è questo gioco d'amore - Davide capisce che un cuore pentito è un sacrificio gradito a Dio. Bello quando l'esagerazione di un amore, genera nell'altro un'esagerazione di conoscenza. E la Scrittura è stata fatta grazie a queste cose: all'esagerazione di Dio, Dio è davvero un esagerato. Uno smodato. Ha fatto scialo di sé e del creato per l'uomo, per questo amore forte.
Oppure il pentimento di Pietro - e qui andate a vedervi l'omelia sull'umiltà di Basilio il Grande: è splendida. Possiamo dire davvero che è l'umiltà che spesso libera chi ha più volte e gravemente peccato. E' l'umiltà che libera chi ha più volte e gravemente peccato. Che bello! Che bella che è la nostra fede! Così è veramente bella. Inimmaginabile alla fantasia umana: non la poteva creare nessuno una storia così. E' un gioco, capite, è un gioco, quello della tentazione è un gioco, un gioco di Dio, è un gioco d'amore, è un gioco della grazia. Non è un Dio sadico che vuol metterti alla prova: ma lo sa quanto siamo forti e quanto siamo deboli, ma lo sa! Ma siamo noi che facciamo dire a Dio quelle cose che lui non si sognerebbe mai. E' un gioco d'amore dove quello che gli interessa è che noi diventiamo adulti, diventiamo grandi. E' l'immagine del Padre - la usano sia in oriente che in occidente - l'immagine del bambino che fa fatica a stare in piedi da solo e il padre lo accompagna. Poi cade. Per forza! Per imparare a camminare il bambino cade. Le avete mai visto che facciate che si danno questi bambini, li avete mai visti? E' uno spettacolo vederli. Si imparano così tante cose a guardare i bambini piccoli. Impari la pedagogia di Dio. E guai se una mamma fosse sempre lì a non fargli prendere gli angoli dei tavoli. Guai! Non imparerebbe più. Adesso la Chicco ha fatto anche gli angoli di gomma, li avete visti gli angoli di gomma? E noi sono 2000 anni che li facciamo!!! Altro che Chicco, noi, anche noi li facciamo gli angoli, per non far prendere le facciate eh?!! Preservare è il verbo giusto. E' tutto un preservativo anche in certe educazioni pseudocristiane.
Che paura che abbiamo che la gente cresca! Che paura che abbiamo che sappia camminare con i suoi piedi, che stia in piedi da sola! Metti tutte le stampelle possibili, tutte anche quelle inimmaginabili. Le amicizie pericolose! Oh, non fare amicizie! Oh che morbosità, te lo dico io! Niente, stai solo, che quello lì poi… Eh, guai! Bisogna stare attenti. Non sono molto lontani questi tempi! E pensare che questa caduta ti fa rinascere più grande. Si muore per essere più grandi dopo, si rinasce più grandi.
Isacco il Siro, questo grande padre, forse il più grande, di cui si stanno stampando e conoscendo finalmente i testi - ne sono usciti parecchi, anche inediti, molto belli; se vi capita c'è un'antologia molto bella, prendetela - Isacco il Siro dice che l'umiltà è il vestito di Dio - ve la lascio come riflessione - è il suo vestito. Cosa significa poi vestito? E' il modo di presentarsi, di essere presente in mezzo a noi. E allora come non ripensare alla famosa “felix culpa”, tolta però da ogni retorica, da ogni finto compiacimento. “Ah, felix culpa”, poi però tutto il resto lo contraddiceva. No, davvero felice colpa!
Noi dobbiamo dire con tanta pace, con tanta serenità, con tanta convinzione: felice colpa, che ha permesso a Dio di dimostrarci un amore ancora più grande che non quello della creazione, che non quello del famoso atto d'amore che ci ha generato.
E allora qui nascono le lacrime, le vere lacrime di pentimento. Una delle cose che rimpiango della vecchia liturgia che c'era proprio la messa “per chiedere al Signore le lacrime”. Fatevela prendere, è bellissima. C'era una messa dove si chiedeva il dono delle lacrime. Cioè piangere il proprio peccato, ma non con il senso di colpa, ma proprio di chi veniva graziato e quindi queste lacrime diventano lacrime d'amore. Le lacrime di Maria di Magdala, quelle del giardino!
Chi ha il cuore in frantumi è realmente cambiato. Guardate, quello è lo spartiacque della nostra vita. Arrivi in un punto e allora cambi perché il tuo cuore è andato in frantumi e vedi le cose in un altro modo. Hai misericordia per tutti, perché hai conosciuto il tuo peccato. Non giudichi, perché il giudizio ti avrebbe ucciso. Non ti spaventa più nessuna prova, anzi, quasi la desideri perché Dio ti possa amare ancora di più. Nel toccare l'abisso profondo del peccato, si trova il Padre che ci ama! Pensate un po' questo è il grande mistero! In fondo ad ogni cosa c'è Lui, anche in fondo al nostro peccato. Chi ha il cuore cambiato, reso carne, ha imparato a non aver più paura di Dio, allora è un figlio, è il figlio che non ha più paura. Non ha più paura di Dio, non vuole più difendersi, ha rinunciato ad ogni giustizia personale, a rivendicare qualsiasi diritto, qualsiasi medaglia di decoro, qualsiasi premio, ha rinunciato ad ogni sfoggio di virtù, non ha più un progetto di santità. Non ce l'ha più un progetto di santità - non esistono i progetti di santità - ma solo una grazia ricevuta, una realtà graziata, risanata, perché di nuovo amata, perché di nuovo voluta, perché di nuovo generata. Di nuovo sono figlio, e più figlio di prima. Finalmente Dio è Dio e basta! E nient'altro. Dio è Dio, Dio è Padre, finalmente Dio è Padre e tu lo vedi finalmente come Dio. E' Padre! Non il luogo delle tue paure, delle tue superbie. E tu sei in pace perché ti riconcili con te stesso, perché Lui si è riconciliato con te. Questa è la fonte della nostra pace: Lui si è riconciliato con te. Tu hai assistito alla liturgia della riconciliazione con te, hai visto cosa ha fatto per celebrarla con te quella riconciliazione e allora ti riconcili con te stesso e conosci finalmente la pace che nessun turbamento ti può togliere.
Finalmente Dio è Dio! Che bello! Una cosa grandiosa! Lui è libero di essere Lui e tu sei libero di essere te! E guardarvi negli occhi e amarvi, come una sposa con lo sposo. E tu finalmente non ti azzardi più a confidare in te stesso. Ah! E qui tutti i salmi – va bene, vedeteli voi i riferimenti. Finalmente tu non confidi più in te stesso ma solo in Dio, nella forza del suo perdono, nel suo atto rigenerante e paterno.
Concludo con una citazione. Un altro autore che amo è Giovanni di Ruysbroeck. “L'ammirabile” viene chiamato - 1300, Olanda. Sentite questo testo: “Quando l'uomo osserva al fondo di se stesso, con occhi brucianti d'amore, l'immensità di Dio, quando poi guardando se stesso conta i propri attentati contro l'immenso e fedele Signore, non conosce un disprezzo abbastanza profondo da potergli bastare. Cade così nello stupore strano di non potersi disprezzare abbastanza profondamente e allora si rassegna alla volontà di Dio e nell'intimo dono di sé trova la pace autentica. Persino i nostri peccati sono divenuti per noi sorgente di umiltà e di amore. Essere sprofondati nell'umiltà è essere sprofondati in Dio poiché Dio è il fondo dell'abisso.”
Basta. Ci vediamo a messa.
Allora l'altro punto, facile da capire, l'altro punto per non delirare, sono i fratelli. Che io lo voglio o no, ho dei fratelli! E' la grande fregatura dell'essere – sapete. E' questa la vera metafisica! La grande fregatura dell'essere! Che tu lo voglia o no! Quando viene qualcuno: “Eh! Non mi capiscono. Basta, basta… ”. Ecco: che tu lo voglia o no, sono tuoi fratelli. Tu non lo vuoi, ma sono tuoi fratelli. Caino e Abele - che è l'immagine di ogni omicidio - Caino e Abele comunque vengono presentati come fratelli. Cioè quello che dà fastidio, quello che dà fastidio di Caino - c'è l'espressione molto bella “lui mette l'occhio fra me e me”, il fratello è colui che mette l'occhio fra me e me, bellissima quell'espressione - a Caino e Abele quello che gli dà fastidio è la prossimità, è avere un altro accanto. Guardate che la prima sensazione ci dà fastidio: noi abbiamo tutti la sindrome delirante del figlio unico! Tutti ce l'abbiamo! Noi, la prima cosa che facciamo al fratello: lo vogliamo far fuori.
Nella nostra parrocchia a Savona, ci sono due fratellini. Li abbiamo chiamati Giacomo e Giovanni. Sono due splendori. Giovanni è il più anziano, ha quattro anni. Gli è nato il fratellino e dice, viene da me e dice: “Ma adesso posso ucciderlo?”. Proprio così! E' di una vivacità! Siccome capisce che ho un ruolo in qualche modo, mi dice: “Posso ucciderlo?”. E' bellissimo!
Sì è quello che vogliamo fare. La prima cosa è che il fratello ci dà fastidio. Caino e Abele! Però ecco qui la rivincita dell'essere – splendido - la rivincita dell'essere. Contemplatela questa cosa: che tu lo voglia o no, sei nato insieme a dei fratelli, comunque. E non puoi scappare da questo. Lo vedremo dopo.
Allora questi qui, i fratelli, sono un dono, una realtà e un dono. Un dono perché l'avere fratelli l'ha inventato Dio e Dio non sa altro che inventare dei doni. La cosa più bella nella vita è fare regali. Veramente! Noi ci siamo così deformati che il fare il dono è un eccesso di generosità, è una cosa in più, da ammirare - che bravo! - da ammirare, ma è una cosa in più il dono. Invece è la verità di noi, il dono. E' la nostra verità. E se noi non siamo capaci di donare, siamo falsi, non siamo veri. Un dono perché è pensato per la nostra salvezza, perché è la via per la nostra verità. I fratelli sono la via per la nostra verità. E sono il criterio - le ho pesate bene queste parole - il criterio conoscitivo e costitutivo della comunione con Dio. Cose che sapete, però criterio conoscitivo e costitutivo della comunione con Dio. Non c'è altro criterio. Non andiamo a cercarlo. Non ho bisogno che mi appaia nessuna Madonna, nessun santo, per conoscere Dio. E guardate che però - togliamoci l'illusione che questo ci sia naturale, non è vero, non è vero! - dobbiamo convertirci per crederlo soltanto questo. Perché non ci crediamo. Noi vogliamo andare a Dio da soli. Ah da soli! Nel mio eremo! Chi non ha mai pensato di finire in un eremo? “Ah, io da solo, io col Signore! Il Signore è tutto”. Non ditela più quella frase lì! Non è vero, non è vero! Non lo vuol sentir dire neanche Lui.
E' la via per la nostra verità per questi due motivi: primo, perché è il rapporto che ci invera. E' il rapporto. Non è l'autoanalisi, è il rapporto che ci invera. Non è guardandoci allo specchio. E' un vero rapporto con l'altro. E secondo, dice la nostra verità perché dice tutto il nostro bisogno di comunione, la voragine di comunione di cui abbiamo bisogno. Siamo una voragine di comunione. Queste sono le nostre verità.
Sono una realtà oltre che un dono, perché ci sono necessari e si chiamano legami. Noi nasciamo nella necessità di dipendenza, noi nasciamo dipendenti, che lo vogliamo o no. L'altro mi è necessario, non soltanto l'altro mi riguarda - e mi riguarda sempre l'altro, sempre mi riguarda - ma mi è necessario, io ho bisogno dell'altro. E quando dico io ho bisogno dell'altro non è un bisogno consolatorio, periodico, occasionale o strumentale. Io ho bisogno dell'altro per essere me stesso, per essere io. Io ho bisogno dell'altro, semplicemente per essere. E qui c'è una cosa interessante - vedete, a guardare la realtà si capisce Dio, veramente! Se tu guardi anche questo ultimo discorso che è stato fatto per il DNA, una cosa affascinante, bellissima. Ci sono due cose che mi hanno aiutato tanto a pregare in questo periodo e a capire determinate cose: un trattato sull'infinito, di Zichichi, e un volume sul DNA che riesce a farti capire l'immensità del discorso. E la parte interessante è che vedi dietro a queste cose che c'è un Dio che a tutti i costi, che si è proprio impegnato a fare le cose diverse. Ma proprio tutte le combinazioni del DNA, tutte le combinazioni possibili, tutte le forme possibili, tutto il discorso della materia. Questo discorso della materia - è una cosa splendida - ti fa capire proprio che Dio quando ha pensato queste cose ha avuto cura, un'attenzione proprio quasi maniacale - se uno non avesse problemi di quel genere - proprio di fare delle cose diverse. Quindi smettiamo di meravigliarci che siamo diversi e usare quell'espressione: “E' strano, oh come è strano!”. No, è diverso. E' diverso! E noi lì a caccia di qualcuno da omologare, di qualcuno da farlo diventare la nostra copia, o una nostra parte, come certi genitori che tirano su i figli come se fossero un loro ectoplasma. Diversi. E sia benedetto che è diverso! E meno male! Ogni figlio deve deludere il genitore, lo deve deludere, se vuole stare secondo la volontà di Dio. Lo deve deludere in questa aspettativa. Così anche ogni coniuge deve deludere l'altro, se l'altro tenta di omologarlo, di farlo diventare… - quando vedo questi due, marito e moglie, che vanno in giro vestiti allo stesso modo! Vestiti allo stesso modo! Toni e Beta, mi viene da chiamarli. Ma la diversità! Garanzia di libertà, la diversità. Ma così li ha voluti Dio, così li ha voluti Dio. E' uno spettacolo meraviglioso questa diversità. Ci rompe tanto le scatole, eh! Perché se fossimo tutti… Oh che meraviglia - per la comodità - tutti, si patisce in famiglia perché hanno tutti la testa diversa, e si patisce in parrocchia, e si patisce con gli amici, e si patisce!!! Questo rapporto! E ti viene proprio voglia di chiudere la porta e mandare tutti a quel paese, ti vien proprio voglia, eh! Sì, sì! Almeno tre volte al giorno. Sì, se la conosci e la incontri davvero questa diversità e ne senti tutto il peso, non puoi non sentirne anche tutta la fatica. Chi non la sente più è perché non vede più le diversità. Ascolta, ma fa così con la testa, come quei cagnolini che una volta si mettevano sulla macchina - li avete mai visti? Ascolti - sì, sì, sì - tanto chi se ne frega.
E questa diversità - me lo sono chiesto tante volte: ma a che cosa serve? - perché Dio ha tutto un suo disegno. Questa diversità ti chiede, proprio per poterci stare, per poter non vedere l'altro soltanto come nemico e via dicendo, questa diversità invoca di per se stessa - e torniamo ancora all'essere - invoca la reciproca conoscenza e quindi la comunicazione, quindi la parola. E' bellissimo questo, come è stato messo giù la cosa. La comunicazione, la parola! E questo è il lavoro di tutta la nostra vita: comunicare per conoscersi, comunicare per amare, comunicare per essere noi stessi. Non è un di più. E' la nostra verità. Ma per comunicare - e qui sta l'inghippo - ma per comunicare io ho bisogno di elaborare che, in altri termini, è pensare. Nella Bibbia pensare sono le parole del cuore, quel che dice il cuore. Pensare, dire la parola del cuore. Preferisco “elaborare” che “pensare”, perché pensare è più contaminato come termine. Ma ecco: “elaborare”. Tu devi elaborare. Che significa avere un ascensore dentro che va su e giù a livelli diversi di profondità, su qualsiasi cosa e su qualsiasi argomento. Non puoi permetterti di rispondere semplicemente con la pelle, in nessun caso. In nessun caso, se vuoi essere vero e te stesso. Allora devi elaborare. Tutto bisogna elaborare tutto, tutto. Il nostro cervello è in grado di farlo, soltanto se noi vinciamo la nostra pigrizia, il nostro spavento riguardo alla verità - perché non vogliamo sapere e a certi livelli con l'ascensore non ci andiamo mai. E noi invece siamo lì. E non sto facendo discorso da inconsci - tutte quelle storie lì, lasciatele da parte. Vedete è semplicemente un discorso di chi ha consapevolezza, lucidità. E' presente a se stesso in ogni cosa. E non è esagerazione, non è esagerazione. E' la verità dell'uomo. E dobbiamo insegnarlo questo: riprendere a pensare, a elaborare. Questi giovani che conoscono 42 vocaboli e basta e 2500 grugniti. Non sanno esprimere, usano un termine per esprimere tutta la sfumatura di emozioni che hanno dentro. Ma di chi è la colpa? Non hanno parole per dire. Gli dici: “Ma spiegati, spiegati”. Stai lì delle ore: “Ma”, “però”, “sì”, mezze frasi non complete, oppure una valanga di parole senza senso, per raccontarti delle stupidaggini qualsiasi. Il non dire di dentro. Il non dire di dentro! E guardate che è il dramma dei ragazzi di oggi, il dramma dei ragazzi di oggi e dei bambini che stanno nascendo. Oggi sono favolosi. E' una cosa stupenda contemplare questa evoluzione umana, di generazione in generazione, è una cosa meravigliosa. Hanno una capacità di risposta. Se dai un oggetto di peluche o il telefonino, o il telecomando della televisione, scelgono il telecomando, non scelgono più il peluche. Hanno attrazione per ciò che è elettronico, per ciò che è automatico e risponde immediatamente. Hanno tutto un apparato neurologico adattato, è una cosa splendida. Ho un amico architetto che ha una figlia di tre anni che, senza che nessuno glielo spiegasse, ha imparato ad usare il computer col plotter e si disegna le casine col computer! E quasi quasi non sa neanche lui usarlo. Una facilità splendida! Però gli manca tutto il resto. E i nostri giovani ugualmente, che smanettano sul telefonino, mandando i messaggi, poi non ti sanno dire l'emozione, non sono attrezzati per comunicare le emozioni. Sono degli handicappati nei confronti della vita, di una intelligenza grande che diventa un handicap, di una sensibilità grande, di una capacità di risposta e di un'energia forte e poi vanno allo sfacelo al primo dolore. Gli faccio sempre la battuta, li faccio ridere: “Vedi tu - quando incontro questi ragazzi di 13, 14 anni - tu la mattina, se ti alzi e vedi che hai un foruncolo, pensi al suicidio”. Eh! E' vero. C'è un aumento dei suicidi che fa impressione. Ho rovinato il look! Se poi la ragazzini ha un po' di adipe – ah! - tutto, tutto crolla, non vale più niente, maledetto Dio che mi ha fatto ingrassare. Non sto esagerando, eh!!?
Ecco, il fratello è la salvezza al nostro delirio, perché per poterci stare - ci devo stare, che lo voglio o no ci devo stare - io devo imparare ad elaborare, per poter comunicare con lui. Nello sforzo di dire a lui quello che penso, quello che sento, quello che vedo, quello che provo, avrò consapevolezza. Anche a me stesso, lo dico a me stesso dicendolo all'altro – sapete. Nello sforzo di dire all'altro, conosco me stesso. Ma nello sforzo di dire all'altro! E' fondamentale, guardate. Sono le cose primarie della vita, ma le abbiamo dimenticate. L'altro è la possibilità della mia conoscenza. L'altro!
I legàmi. Vi dò un input che vi condizionerà - lo voglio fare apposta - in questo senso: quando dite “legàmi”, pensate con l'altro accento “légami”. Basta cambiare un pochino l'accento. Ci vuole niente nella vita a fare dei legàmi una prigionia. Legami: mamme, papà, fratelli, sorelle nel sangue, parenti, i conterranei, i colleghi: legami. Il nostro mondo in cui veniamo gettati, proprio gettati - Heidegger - gettati lì, gettati in quel mare di legami. E sembra tanto, a volte sembra una pentola che bolle di tante cose. Appiccicosa. Mamme e papà. E non apro questo capitolo perché sarebbe.... L'ho fatto l'anno scorso, semmai vi fate dare gli appunti da d.Angelo, sulla figura della mamma, sul prete e la mamma. Il prete e la mamma! E' uno di quei libri che mi piacerebbe scrivere nella vita: “Il prete e la mamma”. “Rari sunt” i preti che nella mia vita ho incontrato, con un buon rapporto con la madre. Ne ho incontrati tantissimi. Però rari, rari, veramente rari. E quindi dando credito a certe motivazioni psicanalitiche riguardo al farsi prete, all'andare a finire da un'altra mamma che è la chiesa, a un'altra mamma che è la parrocchia, vabbè!? Il legame con il papà: abbastanza problematico. Il destino di questi legami - non voglio soffermarmi perché non è questo il discorso - il destino di questi legami è quello di Luca 8, 19-21: “Ma chi è mio padre, chi è mia madre? Ci sono fuori i tuoi fratelli. Ma chi è mio padre, chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?”. Guardate che Gesù l'ha detto con questo tono, io ci credo. Poi l'ho sviluppato in quella meditazione là - ve la vedete.
I legami non sono oggetto né, di condanna nè di approvazione. Fanno parte dell'essere - non “dobbiamo”, “è giusto”, “non è giusto”, niente! Noi nasciamo con un padre e con una madre, senza dire: “Oh che fortuna, oh che meraviglia!” e senza dire neanche: “Oh che disgrazia!”. Niente. E' un dato di fatto, come il fatto che io nasco maschio, nasco femmina, nasco in questo mondo con due gambe, due braccia. Questo è un dato di fatto. Nessuno può venire al mondo senza un padre e una madre. E senza dei legami. Non si può. Allora tu devi fare i conti con i legami, ma i legami devono fare i conti con te. Quindi il destino dei legami è diventare sempre di più non tanto una dipendenza strettamente necessaria, ma devono tendere sempre di più verso - tendere eh! non lo diventano mai perché devono restare tali, tuo padre e tua madre resteranno sempre tuo padre e tua madre - ma sempre con un'intonazione più fraterna, cioè da adulto ad adulto, non da bambino a mamma. Devono tendere sempre di più ad un alto tasso di libertà, di indipendenza e di amore. Una madre la si ama da adulto, non da bambino. Al bambino non gliene fotte niente di amare la madre – credetelo. Sono tanto carini, ma non gliene fotte niente di amare la madre. Ama la sua tetta che gli dà il latte, non la mamma. Smettiamola con queste poesie! Ma non ci spaventa il fatto. Il bambino è un perfetto egoista, veramente deve pensare a se stesso, a crescere e a tutto quello che gli serve. Nient'altro. E' da adulti che si amano le mamme e i papà, da adulti che si amano veramente. Così anche i fratelli. I fratelli e le sorelle sono o un attaccamento morboso o una rottura di scatole, però poi si amano da adulti. Un buon rapporto lo si deve instaurare da lì e si deve avere poi il tempo di impostarlo. Questo è il primo livello dei nostri rapporti. Questo è il primo livello - così molto buttate lì le cose, perché non è questo che mi interessa.
Il secondo livello invece è quello dei fratelli nella fede. E qui il discorso si fa grave. Anche questi non li abbiamo mica voluti noi. Ci sono dati i fratelli nella fede, perché abbiamo un unico Padre e quindi siamo fratelli. Sembra una banalità, ma ditelo continuamente alla vostra gente: abbiamo un unico Padre, quindi siamo fratelli. Tutti quanti!
Matteo al cap. 5, versetto 38: “Avete inteso che fu detto occhio per occhio e dente per dente, ma io vi dico di non opporvi al malvagio, anzi se uno vi percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra e chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello”. Qui è chiarissimo qual'è il significato di queste cose. C'è gente che ci ha girato intorno, ma è chiarissimo, molto chiaro. Anche quando l'altro ti offende e non si comporta da fratello, lui rimane tuo fratello. Ecco perché gli devi porgere l'altra guancia! Perché al fratello si porge l'altra guancia. Ma non perché sei un debole rammollito oppure devi far l'eroe a tutti i costi. Ma queste sono... stupidaggini. No. Semplicemente perché la realtà di fratello rimane, anche quando l'altro non si comporta da fratello. Anche quando l'altro ti è ostile, ti è nemico tu devi comportarti da fratello, devi ribadire e ristabilire lo statuto di fratello fra te e lui. Questo è il discorso. Non ti è permesso di comportarti in maniera diversa da quella di essere fratello, non ti è permesso, anche se l'altro ti offende, è questo il discorso. Questo vuol dire “porgere l'altra guancia”: ribadire l'essere, che ci fa fratelli comunque. Guardate questo è il criterio di comportamento con l'altro, sempre, sempre. Perché non è che l'altro se lo merita o tu ti senti o non ti senti. E' così, è un omaggio alla verità, è un omaggio all'essere questo che devi fare. E non c'è niente che dà più gloria a Dio che quello della fedeltà all'essere. Avevano ragione in questo senso tutta la scuola dei Vittorini (?). Splendidi quei testi lì. Bisogna omaggiare l'essere. Ma è qui che devi omaggiare l'essere, non l'essere, ma la verità, la realtà. Ed io devo comportarmi da fratello perché ho dignità e rispetto di quello che sono io. Di quello che sono io!
La figura più alta dell'amore è quella del nemico, o no? Il sacerdote che passa lì – nel brano del buon samaritano, il Signore dice che va distante - è il non vedere, il non riconoscere. Noi abbiamo bisogno del nemico, perché il nemico sembra che ci autorizzi al fatto di dire: “Non è più mio fratello, è un nemico”. Questo perché abbiamo bisogno del nemico: perché ci autorizza a non trattarlo più da fratello. Ah! Finalmente qualcuno che ce la facciamo a togliercelo dai piedi. E quando qualcuno viene a chiederci l'elemosina, noi pensiamo e diciamo: “Eh, così poi viene tutti i giorni, poi diviene una consuetudine, poi diviene un rapporto”. Perché questo mi dimostra che è mio fratello e mi viene a trovare tutti i giorni. Questo è il punto: io ho paura della consuetudine! Io ho già quelle due, tre o quattro persone che mi devono dare consuetudine, da fratello e sorella. Creo tutto – vedete - tutto quello che è negativo, l'avere il nemico, l'egoismo, perché sono tutte forme contro l'essere. Ecco perché sono un peccato gravissimo! Non contro la generosità, il sentimento, l'emozione, la devozione - devo essere prete, cristiano; queste espressioni sono cavolate qui! Perché poi quelle cose lì ce le giochiamo come vogliamo! E' l'essere, piuttosto!
E' così. E' così! Questo è mio fratello. E me lo devo ribadire continuamente: è mio fratello! Non è che chi fa una diagnosi sull'altro dicendo: “Questo qui è un po'…” pecca - sono stupidaggini! E' il fatto di dire che io stabilisco che tu, tu sei anormale, stabilisco che tu sei di un'altra razza, stabilisco una differenza tale che mi permette di non considerarti più mio fratello. Questo è il punto e questo lo facciamo con tutti i diversi. Meno male che è diverso! Così…
C'è l'altra espressione molto bella che c'è nei Vangeli, soprattutto in Matteo tante volte. In Giovanni addirittura si arriva a 75, per 75 volte c'è Gesù che dice - e adesso finalmente ci sono delle buone spiegazioni al riguardo “Padre vostro e Padre mio” - in Giovanni c'è “Padre vostro” 75 volte. E lo dice solo ai discepoli. Alla gente quando parla del Padre parla in parabole, ma ai discepoli dice: “Padre vostro e Padre mio”. Perché il discepolo che conosce Gesù capisce che da Gesù qual'è il rapporto tra il figlio e il Padre. E allora capisce lì come lui deve trattare i fratelli. Come il Padre tratta Gesù e come il Padre tratta noi, noi dobbiamo trattare i fratelli. Come Gesù tratta me in quella intimità, in quella consuetudine con Gesù, io imparo qual'è il modo di amare il fratello. “Padre mio e Padre vostro”!
Terzo livello. Allora il primo livello sono i legami, il secondo la fraternità nella fede, terzo livello: l'amicizia. La forma più alta d'amore. Chi affronta il Vangelo di Giovanni ha vari tormentoni, di cui uno è il famoso “Giovanni, il discepolo che Gesù amava”. Quell'espressione lì: “il discepolo che Gesù amava”! A me che sono per natura e per formazione molto spregiudicato incuriosiva questa cosa. Chissà mai? Magari Gesù aveva tendenza omosessuali, chissà mai? Qualcuno l'ha anche ipotizzato e ci è stato fatto anche un trattato. Nelle bellissime poesie di Testori al riguardo, andatele a vedere, sono molto belle, al di là del tono un po' blasfemo. “Nel tuo sangue” è intitolata la raccolta. Cercare di capire cos'era questa cosa qui. Ho letto tutto quello che si poteva leggere, ho confrontato, ho visto riguardo a questo. Interessante, perché c'è tanta paura ad affrontare il discorso e poi anche perché effettivamente mancano parecchi dati per poter arrivare ad una conclusione. E allora ho trovato la mia e ve la dico, è la mia. Che per ora mi basta. Magari poi fra qualche tempo la ripenserò, perché è così che si deve fare. Ed è proprio riguardo l'amicizia. “Il discepolo che Gesù amava”. Mentre gli altri erano fratelli, Giovanni - se vogliamo chiamarlo così, sapete il problema dell'autore, chiamiamolo Giovanni - ecco Giovanni è l'amico. E che differenza c'è? Che differenza c'è? Ecco c'è questa differenza che mentre i legami e i fratelli possono essere anche tenuti su da soli, l'amicizia ha bisogno di reciprocità, ha bisogno di una risposta e tra i discepoli colui che ha risposto a Gesù è stato proprio Giovanni. Ha risposto nell'amore. Gesù lo ha amato e Giovanni ha amato Gesù, di questa amicizia, di una risposta. Vedete i legami per fortuna esistono, meno male che esistono i legami. I legami stanno in piedi anche da soli, cioè un padre è sempre un padre anche se il figlio se ne va, lo pianta lì, non ne vuol più sapere. Un fratello anche. Se tu nasci con un altro fratello e poi lui va in America e lo trovi dopo 50 anni, rimane comunque tuo fratello, anche se non lo vedi più, anche se fa la sua vita, domani avessi bisogno, è là. C'è tuo fratello, eventualmente. Se non si è litigato. Sono legami che sono indipendenti dalla volontà e dalla scelta di ciascuno, stanno in piedi anche da soli. Perfino il matrimonio spesso sta in piedi anche da solo - certo bisognerebbe che fosse reciproco - ma sta in piedi anche se è soltanto una delle due persone che ama. Quante volte ci tocca, purtroppo vedere questi casi. Il matrimonio sta in piedi anche quando una delle due porta avanti l'amore e l'altro non fa altro che sottrarsi. Non scappa, sta lì. Ma l'amicizia no. Ecco perché l'amicizia muore facilmente. Ecco perché l'amicizia è rara, perché ha bisogno che stia in piedi da parte di tutti e due. Lo devono volere continuamente tutti e due. Nel momento in cui uno dei due cessa di volere l'amicizia, l'amicizia si rompe, non esiste più, anche se l'altro si dispiace o vorrebbe. Non esiste più. E' la corrispondenza quella che caratterizza l'amicizia. E Giovanni è colui che l'ha amato in questo modo, fino all'ultimo, ecco perché è sotto la croce. Vedete, è una mia teoria. Non sono un biblista, ma serviva a me per capire. Tutte le volte che trovavo questa cosa mi arrabbiavo, dicevo: “Ma cosa vuol dire?”. Mi interessa proprio il vangelo di Giovanni, proprio particolarmente!
Partendo da lì ho capito alcune cose riguardo l'amicizia. Allora, l'amicizia ha queste caratteristiche: la reciprocità, la scelta continua, la gratuità - cosa che non c'è in nessun altro rapporto, neanche in quello del matrimonio, è chiaro che ha degli interessi se non altro per i figli - e la libertà, perché non ha nessun altro fine. Ecco, è questa è la cosa bella dell'amicizia. Ecco perché ritengo che sia la forma più alta dell'amore. E qui c'è Giovanni 15: “Non c'è amore più grande che dare la vita per gli amici”. Ma l'amore più grande non vuol dire che è più grande dell'altro: è proprio un discorso di diversità di significato, poi lo vedremo.
Qual'è il fine dell'amicizia? Perché Dio ha inventato l'amicizia? Ecco proprio, grazie a queste caratteristiche, si viene a capire che l'amicizia ha un unico fine: il rapporto in se stesso. E' il gusto del rapporto fine a se stesso. Guardate è la cosa bellissima dell'amicizia. Ma perché stiamo insieme? Perché proprio il gusto di stare insieme, il gusto del rapporto, senza nessun altro fine. Ecco perché quando interviene un fine, i soldi, l'interesse, un'altra donna, un altro uomo, quando intervengono determinate cose, succede che l'amicizia si sfalda. L'amicizia deve poter essere veramente questo gustarsi il rapporto in se stesso, che è la risposta più alta a tutte le nostre paure che dicevamo all'inizio: non voglio il rapporto, non voglio i fratelli, che rottura e via dicendo. Questa è l'esperienza più alta, è il punto estremo dall'altra parte, della paura dell'altro. Invece qui si ha il gusto e il piacere - semplicemente - dell'altro. Non ti porta in tasca niente, non hai nessun interesse, non ci guadagni niente, solo il gusto di dire: “Siamo amici”, di aver qualcuno come amico. Certo poi aiuto e tutto quello che voi volete, ma il fine proprio è il gusto del rapporto. Ecco perché è rara l'amicizia. Se ne devono avere uno o due nella vita contemporaneamente, non di più. Anche Gesù aveva Giovanni, aveva forse Lazzaro e Marta e Maria. Il Vangelo non parla d'altro. Aveva discepoli, aveva belle figure. Anche Pietro, anche Pietro lo ama. E' un altro rapporto. Infatti, sapete che la tradizione vede in questo il fatto che Giovanni corre per primo al sepolcro. Corre per primo, perché l'amore arriva prima di Pietro. Poi fa entrare Pietro per primo, però arriva prima lui. E sotto la croce chi c'è? C'è Giovanni! Nessun altro. Nessun altro! A me piace questo: nell'incarnazione Gesù ha conosciuto anche l'amicizia. Dio gli ha fatto conoscere attraverso Giovanni - certamente è quello di cui siamo certi - ha fatto conoscere al Figlio anche l'amicizia, questa splendida esperienza umana, che ci fa capire il rapporto con Dio proprio perché ti presenta il gusto del rapporto gratuito e libero. Aiuta molto a capire il rapporto con Dio! Tutti i rapporti ci aiutano - quello coniugale, quello sponsale, quello di figlio a padre - ma così gratuito, così grande come quello dell'amicizia... Questo è il fine dell'amicizia. Ma a che cosa serve all'uomo l'amicizia? Oltre ad avere questo gusto, quindi è una rivelazione, è una epifania di come dovrebbe essere il rapporto. Tecnicamente e praticamente ha una funzione vitale, perché ha il compito di misurare il tasso di gratuità e di libertà di tutti gli altri rapporti. Avere un amico nella vita ti serve per capire il tasso di libertà e di gratuità che hai con tua moglie, con i tuoi figli, con i tuoi fratelli, perché sennò… Vedete quei poveretti - sono proprio dei poveretti - che hanno come unica esperienza l'esperienza di coppia. A dodici, tredici anni si fidanzano, poi vivono tutta una vita solo di coppia. Sono dei poveretti perché non hanno conosciuto altra forma d'amore che quella e gli sembra che l'amore debba avere quei moduli. Io poi me ne accorgo perché si rapportano un po' con te, come si rapportano con la fidanzata o il fidanzato, perché non hanno altri moduli. Tremendo – guardate – tremendo! Una delle disgrazie più grosse della vita! E l'amicizia non è l'esperienza dei ragazzini e degli adolescenti. L'abbiamo resa la poesia della stagione, poi si comincia la vera vita, per cui poi non c'è l'amicizia. “Ah! Gli amici? Ma figurati!”. Infatti poi si è tutti sospettosi, gli adulti nei confronti dei figli. Ti dicono: “Amico? Amico? Poi quando hai bisogno vieni in casa”. No: amico, amico! “Trovati una moglie, altro che gli amici!” - come se fosse l'alternativa. Ecco non per niente l'amicizia è così sospettata. L'amicizia è una faccenda di adulti, non di bambini. I bambini non conoscono l'amicizia. Neanche l'adolescente, perché non è capace di gratuità l'adolescente. L'adolescente sta con gli amici, coi compagni, perché gli servono, gli servono a toglierlo dall'ansia, dalla solitudine, dalle paure, dal sentirsi non protetto. Il gruppo è un luogo, è una nuova tana. L'amicizia è un fatto da adulti. E' quando tu sei capace di vivere senza dipendenza, sei capace di gratuità e di libertà, altro che storie.
Un rapporto di coppia - se deve andar bene fra marito e moglie – non devono avere amicizia. Non è possibile essere amici tra marito e moglie. Assolutamente! Quelle sono stupidaggini che servono per confondere le cose. Bisogna stare attenti alle confusioni. Quando c'è qualche marito che dice: “Ah, è tutto per me, è la mia amica, mia sorella, mia madre”. Tremendo, tremendo. Non si può essere amici tra marito e moglie. Dove c'è sesso non c'è amicizia.
Voglio darvi alcune indicazioni. Qualcuno me le ha anche chieste. Ho l'ardimento di chiedervi, voi che abitate a Roma, che avete rapporto con Roma, di scoprire o di riscoprire la produzione invece della Facoltà di Milano. Perché dal punto di vista sia teologico, soprattutto dal punto di vista morale è il centro di riferimento che maggiormente ha qualcosa da dire in Italia. Stanno portando avanti un ottimo discorso dal punto di vista teologico, che si apre finalmente a nuove prospettive che sono in sintonia col sentire di oggi. Veramente delle cose interessantissime, per esempio quel volume che è pesante, ma veramente cambia la mentalità teologica, che è quello di Sequeri, Un Dio affidabile, Queriniana. Provate ad affrontarlo. Perché poi c'è tutto questo discorso dei sentimenti, della parte emotiva, che è tutta da riscoprire, nella teologia, nella vita spirituale. Sequeri, Pierangelo Sequeri, quello che fa il musicista.
“3Un Dio affidabile”, anche già il titolo. E' un mattonaccio così, ma spaccatevi le ossa. E' un mattonaccio anche un altro grande testo da vedere, molto bello, di H.Kessler, un perfetto sconosciuto, La risurrezione di Gesù Cristo, sempre Queriniana. Finalmente fa un quadro preciso del discorso della risurrezione che è splendido - mi fa piacere perché lui è un laico. E' un bellissimo testo.
E poi c'è sempre di Milano - c'è la loro l'editrice la Glossa, la conoscete probabilmente - Il profeta ammutolito, splendido su Ezechiele, di Angelini. Angelini è preside della Facoltà, è stato docente di Morale ed ha un libro nella Vita e Pensiero che riguarda il nostro discorso, intitolato proprio Il figlio. Prendetelo, è di Vita e Pensiero, di Giuseppe Angelini.
Poi per chi ha problemi di discernimento con i giovani e via dicendo, può essere utile un volumetto Le ragioni della scelta di Qiqajon, della Comunità di Bose, scritto da lui, un libricino piccolo, ma interessante, intelligente. Poi c'è, sempre scritto da Angelini - sulla Scrittura, è una cosa bellissima da dare ai giovani, un primo approccio per capire come si fa a leggere la Bibbia, come si fa ad ascoltarla - Lettera Viva di Vita e Pensiero. L'altro che consiglio, anche se datato, è Vivere la parola di Enzo Bianchi.
Ecco sempre di Angelini - a chi interessa - è uscito tutto il volume della morale, cioè proprio tutto il discorso, proprio un trattato dal titolo Teologia morale fondamentale. E' un mattone anche lui! Ma c'è tutto il discorso - è molto bello, mi dispiace dire il termine nuovo, perché non rende l'idea - che però finalmente non è la solita cosa che poi devi fare i salti mortali per farla concordare con quello che si vive.
E' uscita anche un'altra bella cosa che vi voglio dire. Un'altra mia grande passione è il Vangelo di Giovanni. Finalmente è uscita una traduzione splendida, questa qui della Società biblica britannica. A Roma la trovate facilmente, costa pochissimo. E' il Vangelo secondo Giovanni – costa 15.000 lire soltanto, è scritto bene. Ha persino delle appendici su Giovanni e l'arte, su Giovanni e la musica, delle cose interessantissime, una cosa splendida. Anche Ravasi, recensendolo, ha detto che è la migliore traduzione attuale, e vale la pena per chi si addentra in Giovanni, perché guardate che la nostra traduzione CEI non è sempre buona.
N.B. Sono disponibili presso di noi le ultime due meditazioni non ancora on-line.
Meditazioni su Abramo e Isacco, Giacobbe e la lotta
con l´angelo, la morte di Mosè
Sul diavolo
Egli, chinandosi così, sul petto di Gesù
(Chi è Giovanni, l´evangelista?)
Le beatitudini: un Padre che vuole
i suoi figli felici
Pasqua 2005: Morte e Vita si sono affrontate
in un prodigioso duello
Dio è un Padre di figli vivi
Sul matrimonio
Gesù Cristo modello per la donna
La vera e propria scelta cristiana
non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo,
ma davanti alla Chiesa
Per dovere o per piacere? Il
ruolo del piacere nella morale cristiana: la proposta educativa di Albert Plé,
di Achille Tronconi
[Nota 1] U.Galimberti, Psiche e techne, Milano, 1999.
[Nota 2] Riferimento all'etimologia della parola “infans”, “il non parlante”, “colui che non parla”.