Nell’anno 1988 don Achille Tronconi, all’interno del cammino dei giovani del gruppo di Noli in diocesi di Savona, guidò una serie di incontri che avevano per tema il ruolo del piacere nella proposta educativa cristiana, commentando alcuni capitoli del volume di Albert Plé, Per dovere o per piacere? Da una morale colpevolizzante ad una morale liberatrice, Gribaudi, Torino, 1988. Alcuni amici ci hanno donato gli appunti che avevano preso durante quegli incontri e, dato l’interesse dell’argomento, abbiamo pensato di trascriverli e metterli a disposizione. Come si vedrà, gli appunti sono di mani diverse e molto diseguali fra loro. Mancano, in particolare, i primi incontri dedicati alla storia del concetto di piacere nella morale. Nonostante queste difficoltà, è sembrato che la collazione di questi appunti sia lo stesso utile a ricostruire a grandi linee l’itinerario allora seguito. Il testo che mettiamo a disposizione on-line non è stato rivisto dal relatore stesso e ci scusiamo in anticipo se qualche passaggio non rispecchiasse fedelmente il suo pensiero. Anche i titoletti ed i neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2008)
Introducendo i capitoli che il Plé dedica al discorso propositivo sulla morale cristiana,
vogliamo mostrare - stando ai dati evangelici, alla tradizione ed al magistero della Chiesa – il ruolo del
piacere nella morale cristiana[1].
Il termine piacere traduce in italiano il termine latino delectatio, usato da san Tommaso
d’Aquino, oppure quello greco makarìa (= felicità, beatitudine), del mondo
greco, ma soprattutto del Nuovo Testamento. Questo termine risuona immancabilmente ai nostri orecchi - dice
l'Autore - come un termine volgare, sospetto, colpevole; talvolta in noi cristiani suscita un sospetto, se non
addirittura vergogna o senso di colpa. Infatti preferiamo usare il termine felicità,
perché suona più nobilmente del termine piacere. La felicità ha una dimensione
più intellettuale, più teorica, più astratta, più "santificante"; il piacere sa
più di "carne", più di concretezza, sa troppo d'immediatezza, troppo legato alla materia, ai nostri
bisogni e desideri. Ciò non è dovuto ad un'autentica mentalità evangelica, ma ad una
deformazione di carattere filosofico, sopraggiunta lungo i secoli.
Cerchiamo, allora, di capire bene il concetto di piacere secondo l'Autore.
Innanzitutto il Plé introduce una citazione di sant’Agostino, relativa alla finalità della vita:
Agostino afferma che ogni agire umano ha una finalità[2] – deve, cioè, avere uno scopo - che determina poi tutte le azioni.
Ora la morale ha sì per fine il Sommo Bene, ma esso non può essere disgiunto dalla
felicità. La morale, infatti, “tratta del Sommo Bene, quello al quale noi riferiamo tutte le nostre
azioni, che viene ricercato per se stesso e non in vista di altro ed il cui possesso ci dà una felicità
che appaga i nostri cuori. Ecco perché lo si chiama fine. Per esso infatti noi vogliamo ogni cosa”
(De civitate Dei, VIII, 8).
Con questo, il Plé vuole affermare che prima occorre riscoprire che esiste una finalità nell'agire
umano, una finalità di fondo e che essa consiste nel nostro piacere, nella nostra felicità. Subito
il Plé mette in relazione questi due termini – piacere e felicità – che noi, invece,
tendiamo a separare. Una prima definizione di questo legame che l'Autore dà è questa: "Il
piacere è una felicità incarnata". Felicità nel senso evangelico della
makarìa, delle beatitudini: beati, cioè felici!
Il Plé afferma: “Penso che non vi sia antinomia tra piacere e felicità”, a meno che
non si consideri il primo come “totalità inglobante, ma limitante e univoca... E’ vero che il
piacere rischia di essere vissuto come un tutto, bastante a se stesso; ma penso, al contrario, che sia fatto per
condurre al proprio superamento... Considerare felicità e piacere come necessariamente antinomici mi pare
uno degli aspetti più evidenti e deplorevoli della mentalità schizofrenica occidentale”
(pp.118-119). E conclude: “E’ per “incarnare” la felicità che preferisco parlare di
piacere” (p.119).
Una manifestazione della felicità deve essere la gioia, una gioia reale, concreta, incarnata. San Tommaso
d’Aquino così si esprime: «“Siate nella gioia” (2Cor 13,11). Questo sentimento
è necessario perché voi siate giusti e virtuosi, perché nessuno è tale se non si rallegra
delle opere virtuose e giuste... E veramente ci si deve rallegrare continuamente perché la gioia conserva
l'uomo nell’habitus del bene. Nessuno, infatti, può rimanere a lungo in ciò
che lo rattrista» (san Tommaso d’Aquino, In 2Cor 1,13, lect.5).
“La gioia è necessaria perché siate giusti e virtuosi”: Tommaso collega subito la gioia con
un comportamento virtuoso; per lui non esiste una virtù senza la gioia. “Perché nessuno
è tale se non si rallegra delle opere virtuose e giuste”. Attenzione! Non dice solamente “se non
è soddisfatto”, ma “se non si rallegra”, se non prova gioia, piacere, del bene compiuto.
“E veramente ci si deve rallegrare continuamente perché la gioia conserva l'uomo
nell’habitus del bene”: habitus qui nel senso di virtù, di abitudine al bene.
“Nessuno, infatti, può rimanere a lungo in ciò che lo rattrista”.
“Nessuno può rimanere a lungo in ciò che lo rattrista”! Sono convinto che è uno dei
motivi più importanti per cui qualcuno può lasciare il cristianesimo: perché lì si
rattristava! Se il tuo comportamento da cristiano non è nella gioia, non dura! Oppure se dura, dura per
altri motivi, che non sono quelli della fede - può durare per orgoglio o per una presunzione volontaristica di
sé o per chi sa quale altro motivo.
Il Plé fa subito intuire come il piacere di cui parla non sia fine a se stesso, come vedremo meglio
seguendo il suo ragionamento. Subito scrive, infatti: “Una morale dell’amore
(agape) è una morale della gioia che ne è il primo effetto” (p.117),
facendo riferimento a Gal 5,22: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia...”.
Ma vuole sottolineare con forza questo elemento del piacere: «Si potrebbe dire che l’uomo morale
è colui la cui vita affettiva è “muscolosa”: forte, abile, pronta e fonte di
piacere» (p.117)[3].
La gioia che si esprime dice che la persona che cercava la felicità l’ha trovata nel cammino
cristiano che sta compiendo (in questo cammino, che ha come habitus il fare il bene), ha trovato nella
fede il piacere. Certo è sempre una felicità proiettata in una dimensione escatologica, nel futuro, ma
che io cerco di ricevere già adesso e che incomincio ad incarnare nel mio cammino. Avrà la sua
pienezza soltanto in Dio, ma questa felicità che io cerco, desidero, invoco, qui sulla terra ha una dimensione
d'incarnazione, che si chiama piacere: il piacere di compiere il bene!
Apriamo una parentesi. Quando diciamo incarnazione della felicità, vogliamo dire una cosa fondamentale.
Significa che questa felicità, pur raggiungendo la pienezza aldilà della morte, non è
un'utopia, un'astrazione, una illusione, e neppure semplicemente un premio; vuol dire piuttosto che questa
felicità conosce già qui una sua realtà incarnata. Il cristiano può sentirsi e dirsi
veramente, realmente, felice: non c'è nessuno che ha più piacere di un cristiano! Perché
già qui sulla terra gusta quella felicità realmente, concretamente, dentro la sua carne; già
vive questa esperienza.
Così potremmo dire che il credere realmente alla felicità appartiene all'atto di fede: ti viene
detto che il tuo Dio vuole costruire con te la tua beatitudine, qui sulla terra. Essa avrà il suo
compimento, ma già qui sulla terra la tua felicità deve diventare carne, perché “il Verbo
si è fatto carne”. Devi crederlo, devi sperimentarlo, devi desiderarlo, devi pregarlo.
Se il piacere è l'incarnazione della felicità - e non ci può essere felicità se non
quella incarnata - essa è un piacere differente da quello che predica il mondo, perché è un
piacere che non basta a se stesso, che non si esaurisce in se stesso, ma che continua a superarsi. Il piacere
chiede il superamento del piacere stesso, superamento in una pienezza di felicità. Addirittura il vero piacere
- lo vedremo poi - è il superamento del piacere immediato, che dice di bastare a se stesso.
In una parola: come tutte le cose umane veramente umane il piacere deve essere superato nella sua
immediatezza. Vediamo subito un esempio, per chiarire quello che stiamo dicendo. Se abbiamo fame, potrebbe
bastarci semplicemente il cibarci come fanno gli animali, invece noi uomini del cibo abbiamo fatto un'arte,
l'abbiamo reso umano: di un bisogno immediatamente primario (cacciare giù qualcosa per non sentire più
lo stomaco vuoto) abbiamo fatto un atto umano, anzi addirittura è un luogo di condivisione con gli altri, un
gesto sociale, un gesto artistico, un gesto di espressione, di comunicazione.
Cosa vuol dire questo? Certamente, è già un piacere quando soddisfo il mio bisogno, mangio e non sento
più lo stomaco vuoto, ma guai se mi fermassi lì, alla semplice e immediata soddisfazione del bisogno in
se stesso! Il piacere più grande è quando non solo riempio lo stomaco, ma lo riempio in compagnia di
amici, intorno ad una tavola bene imbandita, con determinati colori, sapori, odori, con tutta una serie di cose che
fanno sì che quella risposta al mio bisogno diventi una risposta umana e umanizzante il bisogno.
Non dobbiamo, però, negare, né scandalizzarci della base biologica del bisogno: è creato da
Dio ed è la nostra realtà. Invece di dare addosso ai bisogni che abbiamo, invece di rifiutarli,
dobbiamo cercare di umanizzarli sempre di più, di superarli con il nostro essere umani. Non il mero e
brutale soddisfacimento del bisogno è la via del vero piacere, ma quella di farne un gesto umano, dove viene
coinvolto il sentimento, la sensibilità, l'intelligenza. Questo mostra come nell’uomo il piacere non
basti a se stesso, ma si superi in continuazione; e solo in questo superarsi diventa realmente il piacere che l'uomo
ha come destino e come condizione.
Questo discorso viene fatto anche dalla psicologia e dalla psicanalisi (benché queste scienze –
permettetemi la battuta, lo dico in un senso molto positivo – lo facciano in maniera piuttosto brutale). Lo
si può constatare tranquillamente: nel momento in cui la persona, per ignoranza o per cattiva formazione,
crede che il piacere consista solamente nel brutale soddisfacimento dei bisogni, non è mai soddisfatta e
felice. Può essere distratta dai suoi problemi per un po’ di tempo oppure intontita da questo
soddisfacimento, ma non avrà ancora trovato la via della propria maturazione e, conseguentemente, della
propria felicità. Punterà sempre sulla quantità e non sulla qualità. Avremo
così una quantità di ripetizioni di soddisfacimento che non serviranno a niente, anzi faranno
degenerare sempre più la cosa, perché si verrà a creare una sproporzione, una inflazione di quel
soddisfacimento.
Per capire questo occorre chiarire bene che il piacere è proprio un bisogno ‘culturale’ e non
semplicemente fisico. La psicologia ha dimostrato chiaramente che il piacere dell'uomo risiede nella sua
“testa”, e non primariamente nel suo corpo. Quindi il piacere ha una base biologica, ma indubbiamente
è un problema culturale. Se io non risolvo il problema del piacere e della felicità del mio essere,
della mia mente, della mia psiche – cioè della mia vita – quello fisico sarà solo un
palliativo.
Quando affermiamo che il piacere è una realtà ‘culturale’ non intendiamo fare riferimento
alle persone particolarmente istruite e dotte. Molto più semplicemente vogliamo invece rilevare
quell’aspetto propriamente umano per il quale ogni persona è determinata dal fatto di usare il pensiero
ed il cuore: una persona che usa la testa nel suo agire quotidiano produce ‘cultura’. Anche una
persona analfabeta produce cultura.
Quello che la moderna psicologia ha scoperto è che anche i fattori biologici, se non sono vissuti anche con la
testa, non conducono a comportamenti umani. In maniera ancora più esplicita possiamo dire che le scienze
umane hanno chiarito che nell’uomo non c’è realtà biologica che non sia interpretata
psichicamente e culturalmente. Ciò che rende umano qualsiasi bisogno è il coinvolgimento anche
culturale. Questo è molto importante e molto bello. Sia gli studiosi cristiani che quelli non credenti
sono giunti alla stessa conclusione: se noi viviamo ogni nostra cosa usando la testa, la umanizziamo.
Ma oggi chi la usa più la testa! E’ difficile insegnare ad avere una capacità critica, oppure una
mentalità storica dove puoi far riferimento a ciò che è successo, a ciò che hanno vissuto
gli altri, una mentalità di confronto. Eppure questo è cultura! Avere una capacità critica,
saper vagliare le cose, avere una libertà di giudizio, una libertà interiore che permette di giudicare
le cose non come le vuole il mondo, la gente, maturare una capacità di riferimento al passato e al
presente. Tutto questo ci rende liberi dal nostro bisogno; se non si hanno questi mezzi, è chiaro che si
può rispondere subito ad un bisogno come fa la scimmia!
Siamo talvolta dinanzi ad una pseudo-cultura per la quale essere uomini significa semplicemente conquistare quello
che piace; una mentalità che non dice più che per essere uomini e donne bisogna faticare, imparare a
ragionare, imparare a discernere il bene dal male, imparare a gustare quello che è il prodotto dell'uomo o di
Dio stesso (una poesia, un'opera d'arte, la bellezza del creato). Tutto questo non nasce bello e pronto: per
questo esiste la civiltà, esistono gli adulti. L'adulto ha il dovere sacrosanto di insegnarti questo. La
cultura dovrebbe servire per rompere questi meccanismi per i quali avviene una progressiva infantilizzazione del
mondo.
E’ questa maturazione umana, questa ‘cultura’ che caratterizza l’uomo e lo differenzia dagli
animali[4], che allarga la mente ed il cuore a
comprendere come il piacere non consista nella soddisfazione del bisogno, ma conduca più oltre, ad un piacere
più raffinato che è la vera felicità, il vero star bene, costituito di qualità e non
di quantità ossessiva e compulsiva.
Lo scopo fondamentale di quest'incontro era capire bene e rivalutare il termine “piacere”, che purtroppo
è stato colorato dalla storia - soprattutto in relazione alla dimensione sessuale - di un alone di colpa, di
sospetto. Invece dobbiamo recuperare questa dimensione del piacere come una realtà innanzitutto donata
dall'alto (è Dio che dona la beatitudine) e incarnata, affinché non resti eterea ma ci
raggiunga.
Come Paolo dobbiamo dire: “Questa fede che io vivo, la vivo nella mia carne”. Non abbiamo altro
luogo dove viverla; la fede non la si vive per aria e così neppure la beatitudine.
Quindi questo concetto di piacere come una felicità incarnata, che mi raggiunge, che si è resa storia,
è fondamentale per capire che noi siamo stati messi al mondo non per patire, non per essere tristi, ma
perché “la nostra gioia sia piena”. Certo che se abbiamo un concetto di gioia sbagliato, se
noi riteniamo la gioia come l’assenza delle prove, della fatica, del dolore, non abbiamo capito niente!
La gioia non è l'assenza di queste cose, ma è il fatto di vivere e passare attraverso queste cose
continuando ad amare. Questa è la gioia! Che niente e nessuno ci separerà dall'amore di Cristo - e
questo deve essere in grado di comunicarmi la gioia, il piacere.
Sono convinto che nessuno ha più piacere di un cristiano, proprio perché accetta la beatitudine di Dio
nella sua incarnazione. Quindi quel cristianesimo colpito da Nietzsche e dagli altri "maestri del sospetto"
– “la vita concepita come un castigo, la felicità come una tentazione, le passioni divenute
diaboliche e la fiducia di sé empia” (F.Nietzsche, La volontà di potenza),
secondo la lettura che Nietzsche voleva dare della nostra fede - non è il cristianesimo. È la forma
di cristianesimo che purtroppo lui conosceva, ma che anche noi rifiutiamo.
Gesù Cristo non ci ha mai dato la vita come un castigo, ma quante persone lo pensano! Fate attenzione a quando
si domanda, quando qualcosa va male: "Che cosa ho fatto di male? Per che cosa ricevo questa punizione?" La vita,
per il cristiano, non è un castigo, la felicità non è una tentazione da cui difendersi tutta la
vita!
La vita pensata come castigo, come mortificazione ad oltranza, come rinuncia a tutto, come quel sacrificio in cui
macerarsi, tutto questo non viene da Gesù Cristo, non viene dal vangelo: viene dalla nostra psicologia,
dalla nostra carne, non dalla fede. È la nostra carne che ha bisogno di queste macerazioni per sentirsi
eroica, di queste rinunzie per sentirsi angelica, perché non accetta il proprio essere carne. Se uno vuol
scegliere quella vita, liberissimo! Ma non dica che è una vita cristiana.
Il cristiano, certo, abbraccia la croce, sa fare rinunzie, sacrifici, ma nella gioia, nella gioia vera, non finta!
Una gioia reale, che nasce dal piacere di fare la volontà di Dio, dal piacere di vivere, di accettarsi
come si è, di ricevere la salvezza e condividerla con gli altri. Nonostante il proprio peccato, proprio
perché c’è la sua misericordia. Tutto ciò deve essere chiaro, altrimenti si finisce per
contrabbandare un cristianesimo - ai bambini, ai figli, ai giovani e agli altri - che non è tale, si annuncia
una nostra idea di cristianesimo, magari suffragata da quello che abbiamo sentito, ma che non è quella
né del vangelo, né del Magistero della Chiesa.
Quindi questo discorso non è un cambiare per essere moderni, per aggiornare il vangelo, ma è
piuttosto annunciare ciò che è vero da sempre nella chiesa per essere anche noi autentici,
evangelici. Non vogliamo seguire un'ideologia umana, ma il vangelo di Gesù Cristo, il quale ci vuol vedere
felici: “perché la vostra gioia sia piena”.
Il Plé afferma che “vi è nella nozione divina di makarios e di
chara qualcosa di divino: è un dono di Dio” (p.121) e cita l’epistolario
paolino nel quale si parla in maniera esplicita del “Dio beato” (1Tm1, 11; 6,15).
La paura di star bene è, invece, presente nelle varie religioni fin dall'origine. Un residuo di essa
è rimasto nel nostro modo di dire: “Sto bene, ma non devo dirlo troppo forte”. Quel “non
dirlo troppo forte” significa: “Non facciamoci sentire dagli dèi”, perché potrebbero
essere gelosi del nostro star bene! La storia delle religioni conosce questa paura dello star bene,
dell’essere beati, felici, perché questo potrebbe generar l’invidia di potenze occulte celesti o
di chi sa quale divinità! Quest’atteggiamento, che è pagano (viene dalla carne), è
stato poi trasportato nel cristianesimo, quasi che il nostro Dio - che è amore, paternità - non fosse
felice quando le cose ci vanno bene! O che si preoccupi che le cose non ci vadano troppo bene, perché
altrimenti ci viziamo. Questa non è fede, non è cristianesimo! E’ una struttura psicologica
distorta che ci porta ad affermazioni come queste, oppure è una sorta di esorcismo perché non ci
succeda niente. La fede deve vincere questo atteggiamento; anzi deve fare in modo - proprio perché crediamo
nella resurrezione, nell'amore di Dio - che lo star bene sia l’ordinario nella vita e non lo straordinario.
Il Plé avverte subito, una volta indicata la centralità del tema del piacere, come
esso sia, da un lato, indicatore di vita, ma, dall’altro, possa essere ambiguo e, non ben capito, possa
divenire un percorso di morte.
Molti pensatori hanno colto nel piacere un elemento talmente interno alla vita stessa da additarlo come un indicatore
prezioso e necessario. Così Bergson:
“I filosofi che hanno speculato sul significato della vita e sul destino dell’uomo non hanno
sufficientemente sottolineato che la natura ha avuto cura di istruirci essa stessa a questo proposito. Ci avverte
infatti con un sintomo inequivocabile, quando il nostro scopo è raggiunto. Il sintomo è la gioia... La
gioia annuncia sempre che la vita ha vinto... ogni grande gioia ha un accento trionfale (H.Bergson,
L’énergie spirituelle, p.23)
Già Aristotele aveva riflettuto sul nesso indissolubile fra vita e piacere:
“Vita e piacere formano effettivamente una coppia unica e indissolubile, perché, senza attività
non c’è piacere e il piacere perfeziona l’attività... Il piacere non si sovrappone alla
vita come ornamento posticcio, al contrario è la vita che possiede in se stessa il piacere... Se diamo
importanza alla vita è perché ci procura piacere, oppure diamo importanza al piacere perché
accresce la vita? Vita e piacere sono troppo uniti perché si possa rispondere a tale domanda. Provare piacere
significa vivere, e vivere è provare piacere: sono due cose in una. Voler vivere è volere il
piacere ed è per questo che tutti i viventi cercano il piacere”
Aristotele, Etica a Nicomaco, X, 5, 1175a 20; I, 9, 1099a 12; X, 4, 1175a 10-20
Da un punto di vista più strettamente scientifico, si è espresso nella stessa direzione
H.Laborit:
“Coloro che negano di avere come motivazione fondamentale la ricerca del piacere sono degli incoscienti e
sarebbero già scomparsi dalla biosfera da molto tempo se dicessero la verità” (H.Laborit,
Eloge de la fuite, Laffont, 1974, p.114).
Gli fa eco, da un punto di vista sociologico, H.Schelsky: “L’uomo d’oggi si considera un essere
che cerca il piacere e ne ha il diritto”.
Ma proprio qui balza all’evidenza, per il Plé, la serietà della questione.
Questa universale ricerca del piacere comporta che esso sia il motore delle azioni più disparate, delle
più alte, come delle più disdicevoli, come scrive Pascal (Pensieri, n.425):
“Tutti gli uomini cercano di essere felici: senza eccezioni, sebbene i vari mezzi impiegati siano diversi,
essi tendono tutti a questo scopo. Ciò che spinge gli uni ad andare alla guerra e gli altri a non andarvi,
è il medesimo desiderio di entrambi, unito però a punti di vista diversi. La volontà non
intraprende la minima iniziativa che verso tale oggetto. È il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini,
anche di coloro che vanno ad impiccarsi”.
Non solo. È altrettanto universale la constatazione che questo universale desiderio di piacere immancabilmente
fallisce. Pascal, infatti, prosegue:
“Tutti gli uomini cercano la felicità, ma tutti si lamentano... Così il presente non ci soddisfa
mai, l’esperienza ci inganna e, di infelicità in infelicità, ci conduce sino alla morte, che
è uno scacco eterno” (Pascal, Pensieri, n.425).
Tommaso d’Aquino, prima di lui, aveva espresso con il suo linguaggio, l’impossibilità di
una piena felicità in terra (Summa Theologiae, Ia IIae, q.5, a.3, c):
“Una certa partecipazione alla beatitudine può essere ottenuta in questa vita. Lo si può
stabilire per mezzo di una duplice considerazione. Rifacendosi innanzitutto alla nozione generale di beatitudine.
Infatti la beatitudine essendo un bene perfetto che basta a se stesso, deve escludere ogni male e appagare ogni
desiderio. Ora, da un lato, nella vita presente non è possibile evitare tutti i mali; questa vita
è sottoposta a molti mali inevitabili, come l’ignoranza per ciò che concerne l’intelletto,
gli affetti disordinati dal lato dell’istinto, e, per quanto riguarda il corpo, un gran numero di afflizioni,
come S.Agostino sottolinea con tanta cura nella Città di Dio. D’altro lato il desiderio del
bene non può essere appagato in questa vita, perché è connaturale all’uomo desiderare la
durata del bene che possiede; ora i beni di questa vita sono transitori come la vita stessa, che noi desideriamo
e vorremmo che durasse sempre, odiando naturalmente la morte. È dunque impossibile che la vera beatitudine si
trovi nella vita presente. Questa stessa verità risulta, in secondo luogo, dalla considerazione
dell’oggetto nel quale consiste la beatitudine, e cioè la visione dell’essenza divina, visione che
l’uomo non può avere nella vita presente. È chiaro dopo tutto questo che nessuno può, in
questa vita, possedere la vera e perfetta beatitudine”.
E San Bernardo aveva scritto nel Trattato dell’amore di Dio (VII, nn.19 e 21) che l’uomo
“secondo la legge della propria voracità, desidera incessantemente ciò che gli manca ancora e
ne è disgustato appena lo possiede... Molti rimangono prigionieri di questo labirinto”.
Dello stesso avviso è stato Freud che, dal suo punto di vista, ha scritto in La malattia della
civiltà che, se da un lato, il principio del piacere sembra determinare lo scopo della vita,
dall’altro “l’intero universo – il macrocosmo come il microcosmo – è in
perpetuo contrasto con questo programma. Esso è assolutamente inattuabile; tutto l’ordine
dell’universo gli si oppone; si sarebbe tentati di dire che nel piano della ‘creazione’ non
è stato previsto che l’uomo sia felice”.
In alcuni suoi scritti, come in una lettera a Maria Bonaparte, ha indicato proprio nella domanda sul senso il
segno indicatore di un malessere:
“Quando ci si interroga sul significato e sul valore della vita è segno che si è ammalati,
perché né l’uno né l’altra esistono oggettivamente; si confessa semplicemente di
possedere una riserva di libido insoddisfatta, alla quale deve essere accaduto qualcosa, una
specie di fermentazione che sfocia nella tristezza e nella depressione”[6].
Ma La malattia della civiltà è un testo che esprime l’ambivalenza della questione. Non
solo perché affronta il meccanismo per il quale l’uomo è disposto a cedere una parte del
proprio piacere in cambio della sicurezza che la civiltà gli restituisce (sicurezza che è un piacere
anch’essa), ma ancor più perché la civiltà, imponendo un blocco alla
libido, la indirizza verso altri oggetti; Freud coglie in questo – come si vedrà
più oltre - un incitamento “verso ciò che vi è di più serio nella cultura
umana”. L’insoddisfazione generata dalla società può così indirizzare verso il
fascino di illusioni – qui Freud considera insieme, dal suo punto di vista, la droga, la religione, il nirvana,
senza dimenticare i giudizi di valore – ma anche verso la sublimazione della produzione artistica, che per lui
non è illusione, bensì una prospettiva positiva.
Ma c’è un aspetto indipendente dai meccanismi sociali che è, comunque, attivo nella ricerca del
piacere e che sembra aprire una prospettiva nel pensiero freudiano. Se Freud ha sottolineato, infatti, in La
malattia della civiltà, il carattere “fugace”, “episodico” del piacere, in
un’altra opera, Psicologia collettiva ed analisi dell’io (ora in Saggi psicanalitici), ha
scritto, quasi indicando un contesto più ampio nel quale il piacere può essere vissuto:
“L’amore sensuale è destinato a spegnersi, una volta soddisfatto. Per poter durare deve essere
associato sin dall’inizio ad elementi di pura tenerezza, estranei allo scopo sessuale; oppure dovrà
subire, ad un dato momento, una trasposizione in questo senso”.
Freud non si è limitato a queste indicazioni, ma ha rivolto la sua analisi anche ai processi originanti il
fallimento a cui il piacere è necessariamente destinato. Il piacere sembra fallire, per Freud, non solo
perché si protende verso il futuro, al quale appartiene la fine e la morte, ma anche perché rimanda al
passato ed agli oggetti di piacere conosciuti nelle prime fasi di vita ed ormai irraggiungibili: “Gli oggetti
che un tempo avevano dato una soddisfazione reale sono andati perduti”... l’oggetto originario e
perduto “è frequentemente rappresentato da una serie infinita di oggetti sostitutivi, nessuno dei quali
è pienamente sufficiente” (in Freud, La dénégation e Contributions à
la psychologie de la vie amoureuse).
Così si spiegherebbe la costrizione alla ripetizione tipica di molti fenomeni psichici.
Insomma gli uomini – afferma il Plé con una espressione di Jacques Lacan - si sforzano di
“nascondere il fallimento” del desiderio.
Il Plé continua indicando una seconda difficoltà, oltre a quella relativa
all’universale constatazione che il piacere fallisce il suo scopo. Il piacere pone l’uomo dinanzi ad
una seconda difficoltà, poiché esso è in sé ambiguo. Se è cercato e vissuto per se
stesso è un carnefice (Plé, p.132), conducendo l’uomo su strade nelle quali egli perde
definitivamente il dominio di sé.
Questa caratteristica, anzi, contraddistingue il piacere. Come ne ha scritto F. Nietzsche, in Al di
là del bene e del male, con il piacere “il senso della misura ci sfugge,
confessiamolo”.
Ma se lasciarsi andare, atteggiamento che è richiesto dal piacere, è rischioso, lo è
altrettanto il rifuggirne. Plé afferma in verità che “è sintomo di nevrosi
l’incapacità di provare piacere là dove normalmente lo trovano gli esseri umani”
(Plé, p.132). Cita ancora Freud che descrive la propria difficoltà a lasciarsi andare alle emozioni:
“Un atteggiamento razionalista, o forse analitico, lotta in me contro l’emozione quando non posso sapere
perché sono commosso o angosciato” (in Freud, Il Mosè di Michelangelo).
Per evitare il rischio che il piacere comporta, da sempre alcune visioni morali hanno proposto di rifiutarlo.
Così, ad esempio, disse già Antistene: “Preferirei essere pazzo che provare piacere. Il piacere
non merita nemmeno che si muova un dito per realizzarlo”. Questa posizione nasce dal fatto che il piacere
fa paura. Le morali dell’atarassia e dell’apatia, rafforzate da influssi gnostici, mazdaici o manichei,
hanno voluto eliminare il rischio alla radice, ma si sono private così della vita stessa!
Plé, a pag.135, conclude il capitolo scrivendo:
“Io penso al contrario che il piacere, di fatto e di diritto, sia oggetto d’intenzionalità.
Esso ha una funzione finalizzante. È un dato di osservazione empirica e scientifica. A buon diritto
ciò è vero nella misura in cui il fine che ci si propone mira ad altro che al piacere: e cioè
alla realtà con la quale mette in relazione – ed è questo appunto, secondo me, l’oggetto
della morale.
Altro è non desiderare la felicità ‘egoista’, altro è cercarla nella
totalità della sua realtà...: nella sua possibilità di orientamento verso la realtà
dell’Altro e degli altri”.
I capitoli successivi approfondiranno questa linea: non un rifiuto del piacere, ma il suo inserimento nel contesto
di cui fa parte, per verificare se non sia proprio in questa direzione la possibile soluzione
dell’ambiguità che altrimenti sembrerebbe contraddistinguere invincibilmente il piacere stesso.
Il III capitolo è lungo e difficile. Possiamo, per cercare una chiave di lettura che ci
permetta di orientarci in questa difficoltà, sintetizzare almeno due punti che il Plé chiama
‘errori’, due categorie nelle quali possono essere messi tutti gli errori riguardo alla
felicità.
Dice così, a pag.146:
“Il primo sarebbe quello di godere per godere, di cercare nel piacere una ‘ragione per vivere’,
un ‘fine in sé’ che soddisfi pienamente. Stordirsi attraverso la molteplicità
indefinita dei piaceri è una alienazione e un accecamento. È un’illusione. È un
comportarsi come il toro che carica la muleta senza vedere il toreador. Significa chiudersi
nell’immediatezza e nell’apparenza, invece di andare verso quell’al di là del piacere al
quale esso stesso invita... Il secondo errore è quello di coloro che per evitare le trappole del
piacere e fuggire l’angoscia che è alla fine del desiderio si negano ogni vita affettiva, considerandola
come un’ ‘affezione’ nociva e mortifera. Si tratta di una mutilazione in un certo senso
impossibile”.
Possiamo definire il primo errore il ‘godere per godere’. È il più
diffuso: è il confondere il piacere con il fine stesso, mentre il piacere, nella sua concretezza, nel suo
essere un piacere concreto, per essere vissuto in pienezza deve rimandare oltre.
Se uno, infatti, fissa il piacere, quasi a volerlo congelare (come nel meccanismo della ripetitività
maniacale), si accorge che un piacere senza fine e continuo è una illusione.
Ma non perché intervenga qualcosa dall’esterno, bensì, molto più semplicemente,
perché il piacere nasce e muore e, morendo, rimanda ad un’altra realtà. Se è fine a se
stesso diventa una scelta di morte.
L’atteggiamento di amore-odio verso il nostro piacere deriva proprio dal non capire che esso rimanda ad
altro. Scopriamo che è una illusione e lo guardiamo con rabbia, perché lo desideriamo, ma esso
scappa via.
Invece, deve rimandare ad altro. Il bambino viziato, ma anche l’uomo viziato – utilizziamo sempre
quest’espressione in senso psicologico - lo concepisce solo come fine a se stesso. Ed il piacere muore.
Conosciamo persone piene di stravizi, ma incapaci di godere, persone eternamente insoddisfatte, eternamente tese,
pur possedendo tutto. Alla fine incapaci di provare il piacere.
L’altro errore è quello opposto, quello di negarsi il piacere. Esistono anche queste
persone! Per evitare la possibilità di soffrire (poi lo rivestono di un contesto di nobiltà, di
purezza), per evitare la delusione di un piacere limitato, mortificante il proprio senso di onnipotenza, si negano il
piacere.
Queste due forme sono due errori che la morale cristiana non accetta. Bisogna invece avere l’umiltà di
accettare ciò che Dio ci dona, il piacere così come è stato fatto da Dio. Non dobbiamo noi
stabilire cos’è la realtà, perché è, invece, Dio che l’ha creata così.
Noi dobbiamo accoglierla nel modo giusto, dobbiamo accoglierla tutta.
Il peccato non è il piacere in sé, perché tutto è buono, ma dipende, invece,
dall’uso che facciamo di esso, che può essere buono o cattivo.
Il Plé si richiama ad una antichissima distinzione di tre tipi di piacere che risale ad
Aristotele (potete vedere a pag.156). Egli distingue l’utile (che soddisfa il mio
bisogno), il piacevole (ad esempio, il mangiare una caramella) ed il bello. In
questo incontro vogliamo parlare di questo terzo tipo di piacere che è il più
importante[7].
Il termine greco per ‘bello’ – kalòs - è più profondo
di ciò che percepiamo immediatamente nella nostra lingua. Per noi ‘bello’ è legato,
forse, molto alla vanità. Dobbiamo, invece, pensare al bello e buono insieme, al bello
morale, che i greci chiamavano semplicemente ‘bello’, o indicavano come
kalòkagatòs, come bello e buono, appunto. E Plé sottolinea come il termine
kalòs appaia ben 150 volte nel NT, tanto è importante!
Aristotele fa l’esempio dell’amicizia. Un rapporto fra due persone può essere cercato non
perché è utile, non perché è piacevole, ma perché è bello (nel mondo
greco l’amicizia è la massima espressione del rapporto umano). Aristotele analizza l’amicizia.
Essa nasce fine a se stessa.
Ci sono, per Aristotele, due tipi di amicizia interessati, quella cercata per la sua utilità e quella
cercata per il piacere che deriva da essa. Ma queste coincidenze accidentali si dissolvono facilmente.
La philìa è, invece, il rapporto di coloro che si somigliano in virtù,
che vogliono bene l’uno all’altro per la virtù dell’uno e dell’altro. L’uomo
virtuoso preferisce, fra tutte, la bellezza morale. Anche noi oggi diciamo: è un rapporto bello,
è una storia bella: perché è bello, perché dà piacere!
Il piacere nasce, qui, da questa virtù. Non è perché ci dà piacere che diventiamo
amici. No! È perché scegliamo la bellezza, perché è una scelta fatta sui valori,
è una scelta di virtù. Poiché facciamo questo, ne proviamo piacere.
Quel rapporto d’amicizia dà piacere perché è fatto su di una base solida, su di una base
di virtù. In questo è diverso dal piacevole. Le altre amicizie cessano dove l’altro non ti
è più utile, non ti è più piacevole. Ma lo stesso, vale anche per il matrimonio!
L’amore cessa se è basato solo sull’utile e sul piacevole. Anch’esso avrà poca
vita, se non è basato sull’ ‘amicizia’ (in questo senso che stiamo analizzando).
Il matrimonio spesso viene visto, invece, basato sull’utile – se lei mi stira le camicie! –
oppure sul corrispondersi dell’innamoramento, che è un bisogno.
Esiste un rapporto ‘disinteressato’, come lo deve essere l’amicizia che può anche partire da
un rapporto interessato, ma deve maturare fino ad essere ‘disinteressato’. Se così non è
– dice Plé – non solo non dura, ma le due persone ‘non se la godono’. È la
grande fregatura di chi crede di essere furbo, di chi non sa andare oltre il piacere: alla fine non sa più
godere della vita. E sia ringraziato Dio che ha fatto così la vita!
Ecco perché poi il capitolo insiste su di un punto fondamentale che Agostino chiama ‘la
stupidità peggiore di tutti i vizi’ che è l’apatheia, l’essere
insensibili a tutto, la mancanza di desiderio. Dice così Agostino, nel brano citato dal Plé:
“Se altri, nella loro vanità, mostruosa quanto rara, s’innamorano della propria
impassibilità a tal punto da non lasciarsi commuovere, né eccitare, né piegare, né
inclinare dal minimo affetto, perdono ogni umanità, piuttosto che raggiungere la vera tranquillità:
infatti ciò che è rigido non per ciò è retto e l’insensibilità non
è salute” (De civitate Dei, XIV, 9).
Mentre il vero equilibrio giusto è quello del desiderio che ti fa andare oltre il piacere immediato, il
desiderio che rimane vivo anche se c’è il soddisfacimento del piacere.
Il Plé continua la sua riflessione su Agostino mostrando come egli evidenzi la dinamica del desiderio
nell’uomo. Nel commento alla prima lettera di Giovanni (In 1am epist. Johannis, IV, 6) Agostino scrive:
“Indubbiamente ciò che tu desideri non lo vedi ancora; ma il desiderio ti rende capace, quando
verrà ciò che devi vedere, di essere appagato... Dio, facendo attendere, allarga il desiderio;
facendo desiderare ingrandisce l’anima; ed ingrandendo l’anima la rende capace di ricevere: Desideriamo,
dunque, fratelli miei, perché dobbiamo essere appagati”.
E continua affermando che dobbiamo guardare all’apostolo Paolo dove dice: “dimentico del passato e
proteso verso ciò che mi sta davanti”: Paolo comprendeva di non essere ancora capace di accogliere.
Per Agostino allora, in questo consiste la nostra vita, nell’esercitarci con il desiderio. Il recipiente che
deve essere riempito, prima deve essere svuotato. Bisogna gettar via il contenuto del vaso perché Dio lo
possa riempire. Se questo vale per un recipiente che deve essere ricolmo di vino o di oro, ancor più vale per
il nostro desiderio che deve essere riempito di Dio - perché qualsiasi paragone noi facciamo sarà
sempre al di sotto della realtà divina.
Per Agostino, insomma, il desiderio potrà essere soddisfatto solo da Dio. Agostino non vuole scambiare Dio
con i piaceri che incontriamo, perché Dio è il nostro desiderio più grande.
Per questo il piacere non è fine a se stesso, ma ci apre al desiderio di essere riempiti di Dio. Ma questo
ci fa rifuggire anche dall’altro errore, dall’errore di risparmiarci per vigliaccheria, perché
l’amore dell’altro chissà dove ci porta, dall’errore di evitare di soffrire, e fuggire
così dal desiderio[8]. Tanto, se uno fugge
dal desiderio, il male, poi, gli resta nella testa! Ricordatevi di Gesù che diceva: “Voi ripulite
l’esterno dei vasi, ma non l’interno!”.
Allora cosa fare? Riconoscere che la nostra vita è mossa dal desiderio, da un grande desiderio di bene,
da un grande desiderio di piacere, da un grande desiderio del bello.
Le persone furbe sono quelle che sanno che il piacere lo godranno realmente quando lo supereranno in un discorso
più alto, magari di donazione, ma comunque di superamento, come nell’amicizia[9].
È con il desiderio che sapremo dilatare il nostro cuore. È un discorso che non incontra la
simpatia di chi vuole restare bambino, consumando piacere dopo piacere o evitando di provare piacere.
Il Plé propone un piacere pulito, perché vissuto nel desiderio di Dio. E così è la
vita, molto concreta, al di là di poesie o di pessimismi, perché la vita è molto concreta e
‘banale’!
E guardate che un desiderio che sia oltre il piacere stesso lo si cerca comunque, perché è dentro
all’uomo il desiderio di ciò che è bello moralmente. Poi ci rassegniamo e diciamo che è
un’utopia, ma, comunque, ci resta dentro.
Guardate gli adulti che guardano i bambini e dicono: Che bello vedere la loro innocenza, magari avessimo ancora
quelle speranze lì da grandi! Questo è un atteggiamento che nasconde una grande frustrazione,
perché in realtà l’uomo la vita se la gode solo dopo i 30 anni, anche quando c’è
meno salute e divertimento, appunto perché c’è più capacità di donazione, di quella
donazione che il bambino non può vivere. Ma, comunque, frasi come queste fanno capire che dentro di noi
c’è la coscienza che non basta vivere di piaceri. Più c’è questa capacità
del bello e più ti godi la vita. E noi dobbiamo andare contro questo mito di perpetuare una giovinezza,
peraltro fisica, che è così diffusa negli atteggiamenti delle persone.
Per dare un ulteriore stimolo di riflessione possiamo ancora fare riferimento ad un testo che il
Plé cita nella I parte del suo volume, quella storica e poi, soprattutto, rivolgerci all’esperienza
agostiniana[10]. Epicuro è un filosofo
a volte così incompreso da coloro che ne parlano a sproposito, senza averlo mai letto e senza sapere che
difende anch’egli una felicità ed un piacere che non possono non consistere in una vita virtuosa e piena
di verità e bontà. Così egli dice nella Lettera a Meneceo, 131-132:
“Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei
goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma
quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i
banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola
che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di
respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio
e bene supremo è l’intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche
più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a
comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita
intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla
felicità e da questa inseparabili.
Ma, soprattutto, per chiarificare ancora di più questo discorso del legame tra piacere e desiderio è
bene rifarci alla riflessione agostiniana. Agostino indaga la differenza che c’è tra i due
atteggiamenti che possono essere condensati nei due verbi uti e frui.
Uti significa in latino utilizzare, prendere uno strumento per arrivare ad un
determinato scopo; frui è un verbo quasi intraducibile, ha il sapore
dell’otium, della contemplazione. Questi due verbi -distinti da Agostino- dicono la
diversa nostra possibilità di accogliere i beni che ci vengono donati: da una parte i beni che ci è
chiesto di utilizzare (denaro, ricchezza, salute); dall’altra i beni di cui possiamo godere, nel senso pieno
della parola: la bellezza che va contemplata, il creato, l’esistenza, la poesia, la contemplazione di Dio, la
preghiera, ecc. che costituiscono la possibilità della nostra felicità e che debbono solo essere
goduti.
L’errore che ci porta fuori strada è, appunto, quello di considerare i beni strumentali come fini,
come scopi della nostra vita. Allora si lavora per lavorare, si vive per il denaro, si vive per avere le cose, si
vive per il potere, si vive per tutte quelle cose che sono strumentali; ma esse non sono i fini dell’uomo.
L’uomo è stato creato per un altro godimento, per un godimento spirituale, intellettuale, da
raggiungere con i beni strumentali donati. L’errore –dice Agostino- non consiste nell’utilizzare
questi beni, ma nel cercare in essi la felicità. Non devi fermarti alle cose: esse sono segni che
rimandano ad un’altra realtà.
Agostino ribadisce così il concetto dell’Incarnazione, che sta alla base della sua teologia: egli non
rinnegherà mai niente di tutto ciò che riguarda il corpo, nonostante abbia vissuto in un contesto
filosofico manicheo e neoplatonico, contesto che considerava il corpo come la gabbia dell’anima.
Agostino ribadisce, invece, l’importanza del corpo e ribadisce una felicità che passa attraverso il
corpo umano. Il corpo ci viene dato nella sua realtà strumentale ed è luogo della nostra
conversione: è il luogo della nostra esperienza di Dio. Agostino non parla mai di anima staccata dal
corpo; egli ha colto in pieno il discorso evangelico dell’Incarnazione. La Bibbia non distingue mai
l’anima dal corpo; questa separazione è frutto della nostra mentalità occidentale.
Nel De doctrina christiana Agostino afferma: “Ascoltando le parole ‘Vengono a me coloro che sono
attirati dal Padre mio’, non immaginatevi di poter essere attirati contro la vostra volontà,
perché l'anima è attirata dall’amore. Non temiamo il rimprovero che ci potrebbe essere fatto
da coloro che sono attenti soltanto al significato letterale delle parole e sono lontanissimi dalle cose divine e ci
accusano di usare una parola resa sacra dal Vangelo; essi dicono: ‘Come posso credere volontariamente, se sono
attirato?’. Rispondo: ‘È poco dire che siete attirati dalla vostra volontà, voi siete
attirati dal piacere’. Riponete le vostre delizie nel Signore ed Egli appagherà i desideri del
vostro cuore; colui che gusta la dolcezza di questo pane celeste prova vere delizie interiori. Se il poeta ha
potuto dire: ‘Ognuno è attratto dal proprio piacere’ (trahit sua quemque
voluptas, Virgilio, Egloghe) si noti, dal piacere e non dalle necessità, dal
diletto e non dalla costrizione, a maggior ragione, dobbiamo dire che siamo attirati da Gesù Cristo stesso;
ebbene i sensi del corpo avrebbero la loro voluttà e l’anima non avrebbe le sue? Datemi un cuore che
ama ed esso capirà ciò che io dico; datemi un cuore pieno di desiderio, un cuore affamato, un cuore che
si consideri esiliato nel deserto di questa vita, che abbia sete di cielo, che aneli alle sorgenti dell’eterna
patria, un cuore animato da questi sentimenti e comprenderà ciò che io dico”.
La questione dell’epoca era la libertà che ciascuno aveva nell’andare incontro al Padre. Si
diceva: “Se a Gesù va solo chi è attirato dal Padre, se io non ci vado, che colpa ne ho?
Significa che il Padre non mi ha attirato”. Agostino ribalta completamente la questione, sostenendo che tutti
siamo attirati dal Padre, perché tutti siamo attirati dalla felicità, dai piaceri fisici e da quelli
dell’anima: i piaceri dell’uomo attirano la nostra volontà. Il cuore che ama è attirato
dalla persona che ama ed è un piacere, una grandezza, una felicità.
L’errore nostro sta nel fatto che ci fermiamo alle cose che non ci possono dare un reale piacere, ma
diventano un surrogato del piacere.
Agostino prende così sul serio queste due premesse: 1) tutti sono attirati dalla felicità; 2) la
felicità passa attraverso l’incarnazione, quindi coinvolge tutto l’essere umano.
Molta gente, perciò, non arriva alla felicità perché prende degli abbagli, convinta che la
felicità sia da un’altra parte. Non è che ci sono persone fatte troppo di materia o troppo di
spirito: non esistono queste distinzioni. Il fatto è che uno ha conosciuto bene se stesso, ha conosciuto
realmente i propri desideri e ha capito che per essere felice non ha bisogno solo di mangiare, bere e dormire, ma
anche di quella realtà che è l’amore e che è ultimamente Dio stesso. Questa è la
differenza! Certo tutto questo avviene solo per la grazia di Dio e non per le forze dell’uomo, ma la grazia
di Dio è questo che provoca. Poi ci sarà il peso della fatica, della sofferenza, la pesantezza di
un cammino, ma l’importante è l’aver capito che non siamo fatti per perderci nelle cose e non
pretendere così da esse quella pace, quella serenità, quella armonia, che possono venire solo dalla
verità, dalla bellezza, cioè da Dio, il solo che può dare la quiete al nostro cuore.
Un’ulteriore distinzione agostiniana ci aiuta a chiarire la questione della felicità: Agostino
chiarisce la differenza che esiste tra bisogno e desiderio.
Il bisogno è la categoria dell’uti, è una realtà che
s’impone. Ad esempio, nel momento in cui viene meno la tua capacità energetica, ti viene fame, quindi
hai bisogno di mangiare. Hai una necessità, un bisogno; questa è la categoria dei bisogni che si
differenzia da quella dei desideri che vivono di gratuità. Per il desiderio, tu ami qualcosa non
perché sia strettamente necessaria, ma perché s’impone per la sua bellezza, perché ne
resti affascinato e conquistato gratuitamente, proprio perché l’amore è amabile di per
sé, anche se non te ne viene in tasca niente!
Ecco, allora, due categorie fondamentali per capire la felicità: la gratuità e la libertà. Di
fronte ai tuoi bisogni e alle tue necessità non sei libero: tutte le volte che hai fame, non stai a
valutare se mangiare o no, perché è necessario fare così. Nella categoria del desiderio tu
sei pienamente uomo, puoi esercitare la tua pienezza di umanità perché qui fai delle cose completamente
gratuite, come il contemplare, l’inseguire la bellezza, il cercare la perfezione, l’amare! Cosa viene
in tasca ad un uomo quando ascolta poesie? Quando ha dipinto un bel quadro? Quando è stato con degli amici e
si è goduto una serata? Infatti c’è gente che considera quel tempo come una perdita di tempo!
Quel tempo lì –dicono- meglio impiegarlo a lavorare!
E invece è lì che sei veramente uomo, perché lì nessuno te lo fa fare, sei libero e
decidi di fare delle cose cui nessuno ti costringe: si può vivere tranquillamente senza l’arte, la
musica, senza nessuna altra forma artistica, senza la cultura, senza il filosofare, senza l’amicizia,
l’amore e la fede! Ma -dice Agostino- è proprio questo il nostro godimento; ed arriverà a
parlare del Paradiso come del “grande sabato”, dove finalmente ciò che è solamente
necessario sparirà e noi saremo lì a contemplare, a goderci Dio, che è l’Essere, la
Bellezza, l’Amore. Questo è il nostro destino!
Ma, dice Agostino, intanto che siamo sulla terra, possiamo già fare questo; è già
felicità questa, non piena -perché deve fare sempre i conti con il limite- ma certo possibile. Se vuoi
essere figlio di Dio, è questa la parte che devi sviluppare.
In questo incontro cercheremo di capire il discorso del piacere inserito nel discorso della morale
cristiana.
Il Plé comincia questo capitolo facendo riferimento a san Tommaso d’Aquino (p.168). Scrive così
il Plé: “La ricerca della felicità è all’origine – S.Tommaso parla di causa
– di tutta la vita affettiva; ne è inoltre la conclusione e la manifestazione più
evidente” (cfr.De veritate, q.26, a.5, c.).
Cosa vuol dire il Plé con questa citazione? Cerchiamo di capirlo bene. La ricerca della felicità
è il fine della vita affettiva. La vita affettiva non è fine a se stessa. Cerchiamo l’amore
perché sappiamo che è l’unico bene che ci da la felicità. La felicità ne è
inoltre la ‘conclusione’. Non dobbiamo, cioè, scandalizzarci se cercando l’amore lo
cerchiamo per essere felici. L’errore avviene, piuttosto, se ci facciamo bastare l’amore per le cose
e non per le persone – o per Dio. Guai a chi satura il suo bisogno di amore troppo presto; è già
invecchiato prima del tempo. Il Plé dice anche che “ne è la manifestazione”, cioè
l’amore è la manifestazione che sto percorrendo la strada della felicità.
È importante capire qui bene il quadro della finalità, per non equivocare. La nostra vita
deve essere orientata. Non basta mettere un giorno accanto all’altro, giorni belli e giorni meno belli
insieme, semplicemente. Bisogna metterli sì uno dopo l’altro, ma secondo un disegno.
Il motore di questo mettere i giorni uno dopo l’altro in un disegno è il piacere. Il piacere è
l’energia, l’energheia, che mi fa muovere su questa strada. Qual è il
cuore di questo motore? È il desiderio. Il Plé richiama qui anche l’antico termine, to
orektikòn, il desiderio che è la tensione verso il fine[11]. Addirittura è questo che rende morale il mio comportamento! In che senso?
Perché conoscere non basta per vivere bene, ma occorre desiderare. Spesso definiamo la morale come la
questione del sapere ciò che è bene e ciò che è male. Invece già Aristotele, ma
poi anche san Tommaso, affermano che non basta conoscere; bisogna desiderare il bene, desiderarlo perché ti ha
conquistato, perché te ne sei innamorato.
L’etica non è così una serie di conoscenze. L’importante non è così
semplicemente la testa – che certo serve – ma il cuore. Deve essere un desiderio con il
logos, intelligente, che conosce il fine, ma, lo stesso, non dobbiamo poi dimenticare che il luogo
del desiderio è il cuore. Bisogna appassionarsi ad un determinato bene.
Bisogna desiderare insieme, contemporaneamente il bene morale e la felicità che ne consegue. Ecco che cosa
voleva dire il riferimento iniziale a San Tommaso! Non sarà allora necessaria la gratificazione, se sei
convinto che il tuo piacere è il bene.
Dio mostra all’uomo il suo amore in questo: l’uomo è posto nel mondo per essere felice. Dio non
lo vizierà con tanti piccoli piaceri, tanto per andare avanti alla giornata. Per questo non dobbiamo
prendere per fini tante cose che sono lì sul nostro cammino e che incontriamo. L’errore è
prendere queste cose come il fine.
San Tommaso afferma ancora che gli atti virtuosi sono lodevoli perché tendono alla felicità
– ripeto: alla felicità ‘di sostanza’! Allora il desiderio anima le mie scelte morali.
Vediamo ora un secondo punto. Guardiamo più da vicino il desiderio. Il desiderio
è endogeno, nasce dal di dentro, non può essere imposto dal di fuori. Pensateci bene, il desiderio
e l’agire bene non possono essere imposti. Per questo è opera di libertà il cercare la
felicità. Ognuno è stato creato con un cuore inquieto. La libertà è la
possibilità di cercare la felicità ed il bene, di non perdersi per strada dietro ai capricci ed ai
condizionamenti.
Il Plé scrive che “niente è più intimo all’uomo che il suo desiderio”
(p.171). È vero certamente che – lo diceva già Aristotele - “la regola morale è al
tempo stesso endogena (la decisione) ed esogena (ciò che stabilirebbe il sapiente)” (p.172). La morale
deve valorizzare il primato dell’endogeno e non può essere concepita come un’obbedienza senza
motivo ad un’autorità esteriore all’uomo. Il Plé afferma chiaramente: “Penso che
sia giunto il momento di restituire il primo posto al primato dell’interiorità della vita morale”,
anche se questo non significa “trascurare l’importanza dell’apporto esterno, senza il quale
l’interiorità non potrebbe svilupparsi” (p.173).
Guardate quanto pesano i condizionamenti, quando l’esterno può diventare il motivo di tutto, a scapito
della nostra maturazione. C’è sempre la paura del giudizio di quelli di casa, di quelli di fuori, di
quelli di qui e di quelli di lì. Invece bisogna essere liberi da questi condizionamenti. Il mondo crede
piaceri cose che sono infantili. Invece il piacere come lo sta analizzando il Plé chiede di diventare
adulti, di crescere e di maturare una vera libertà. Il piacere, capito nella sua dinamica di trascendenza,
non ti può far restare bambino. Piuttosto ti libera, ti fa guadagnare in indipendenza ed in oblatività.
Chi sa godersi la vita, raggiunge l’indipendenza dalle cose e dalle persone.
Anche qui spieghiamo bene per non equivocare. Il primato dell’interiorità, il desiderio che dentro di
noi spinge al bene anche quando esso non è compreso, ci fa così superare anche la dipendenza
dall’altro. Seguendo ancora una volta Aristotele, il Plé afferma che, se vissuto nella sua vera
dinamica, “il piacere umano contribuisce a costituire il soggetto nella sua autonomia. Lo libera da una
dipendenza alienante nei confronti degli altri e dei beni materiali” (p.172). Se io lego il piacere
direttamente alle cose o alle persone fuori di me sono in loro balìa, perché, se non ci sono, sono
frustrato. Patisco se non ci sono. Tutto è fuori di me. Se il mio piacere è legato al desiderio dentro
di me, questo mi rende capace di godere senza esserne schiavo, senza esserne dipendente. Questo mi permette di godere
delle persone nel modo giusto, cioè nel modo distaccato.
Ed è questo il vero godimento, il modo distaccato. Per distaccato intendiamo qui
quella distanza giusta che permette di diventare generosi, disponibili, capaci di dare e di ricevere. Essere
interiormente liberi fa guadagnare in qualità (perché non si è più schiavi) ed in
oblatività. Non toglie la gioia della presenza dell’altro, ma la conserva anche se l’altro non
c’è. Permette anche di agire senza avere sempre bisogno dell’approvazione dell’altro o
addirittura di fare qualcosa che inizialmente può ferire l’altro, ma che è, in realtà, un
gesto compiuto per il suo bene (ad esempio, un rimprovero). Si prova piacere nel rapporto con l’altro, ma in un
rapporto che tende a far crescere me e l’altro nel bene, non in un rapporto che pretende di possedere
l’altro o che ci fa diventare un possesso dell’altro perché l’altro, senza di noi, non
riesce più a vivere.
Questa libertà permette di vivere con un comportamento non esteriore, non forzato; non fai delle cose in cui
non sei te stesso, solo perché la società lo vuole, solo perché la famiglia lo vuole, ecc. ecc.
Puoi anche fare delle cose buone, ma non è ancora un comportamento morale.
Questo non vuol dire che non avremo bisogno anche di precetti esterni, come il decalogo o altri comandamenti.
Questi non sono una griglia in cui dobbiamo forzatamente entrare, ma sono piuttosto una legge educativa, pedagogica,
che ci ricorda quella che è già dentro.
Quella legge è scritta nel nostro cuore. Certo è nascosta, è sfigurata, ma è dentro.
Ed il dono della grazia del Nuovo Testamento – certo per opera di Dio – ci fa tornare al valore di
ciò che è dentro di noi. I precetti nel vangelo, infatti, ci sono perché servono a farmi
scoprire ciò che già abbiamo dentro, una volta che l’amore di Cristo è stato riversato nei
nostri cuori. Non sono cose da portare come un peso, cercando una scorciatoia per non doverle fare. Se pensassimo
solo al fatto che in noi abita la Trinità! Lo stesso Spirito che ha ispirato le Scritture abita in
noi!
Il Plé afferma che la morale dell’occidente dal XIV secolo in poi ha minimizzato il primato
dell’endogeno. Noi abbiamo avuto bisogno, per il peccato originale, per il limite della condizione umana,
che il Cristo ci rivelasse cosa avevamo dentro. Abbiamo avuto bisogno che la grazia ci sanasse e ci elevasse, ma,
ancora una volta, possiamo affermare che, anche con la legge evangelica, un atto esteriore non è un atto
morale. Un atto, se non nasce dal di dentro, se non nasce come ricerca della nostra felicità, se non nasce
da un bisogno di fare il bene, se non c’è questo, non è ancora un atto morale.
Vediamo ora un ultimo punto. Il desiderio rende un atto morale, ma questo comportamento
morale non è semplicemente un sentimento; ha, invece, una connotazione di obbligo. La morale ha una
connotazione di obbligatorietà e questo non è in contrasto con ciò che abbiamo detto fin
qui.
In Occidente siamo abituati a prendercela con l’autorità, ma siamo noi che ci obblighiamo
all’autorità! Morale è un atto che nasce dalla nostra libertà, che non siamo costretti a
porre. Se qualcuno evita il male non perché è male, non perché ha capito che è male, ma
perché semplicemente lo proibisce un precetto, non è ancora libero.
L’uomo morale, perfetto, invece, si obbliga[12]. La norma che ha trovato, l’ha accolta, l’ha maturata in sé,
l’ha fatta sua: questa è la morale. Essa è obbligante, ma lo è
dall’interno[13].
Certo c’è un obbligo che viene dall’esterno, innanzitutto quello che viene dalla
realtà.
È un obbligo “dinanzi agli altri” e “a Dio”, come si vedrà meglio
più oltre, “perché il senso morale si propone all’uomo come verità della propria
vita di relazione. La scoperta degli altri è inseparabile dall’etica, quanto dal desiderio...
Perciò il progresso della vita morale va, come il desiderio e il piacere, verso ciò che alcuni
definiscono l’oblatività, l’altruismo, il riconoscimento dell’altro in quanto non è
me” (pp.177-178).
Ed è proprio questo a chiedere che la scelta morale si sottometta alla realtà[14]. È la realtà a chiedermi
l’accettazione del limite, dei bisogni, che noi facciamo sempre fatica ad accettare. Scopriamo sempre con
sorpresa che le persone non erano come le avevamo pensate, che non erano sempre lì disponibili ad essere come
volevamo noi. Tutta la realtà è fatta da Dio perché ridimensioni il mio io, le mie attese ed i
miei bisogni. Proprio la nevrosi nasce quando non accetto che un limite mi limiti ed io continuo a pensarmi ed a
volermi come non sono.
Può accadere che dinanzi ad un bisogno che ricerco in modo esagerato – affetto, fame, sesso –
senza voler accettare che sia limitato, non definitivo, io ne faccia un assoluto. Lego, allora, la mia vita ad
una persona o ad una cosa e li considero assoluti.
Il trattarli come relativi è il vero modo di amarli bene. Vedete come la gente attaccata in maniera
ossessiva al denaro, alla salute, alla bellezza o ad una persona, fosse pure un figlio, non riesce più ad
amarli bene. Quando tratto da assoluto una situazione che invece è contingente, dovrò poi fare i
conti con la frustrazione che ad un certo punto mi farà scoprire che quella realtà lì non
è l’assoluto.
Per vivere bene un rapporto di coppia dopo 30 o 40 anni, dove ci sia l’amore insieme alla fatica di voler
bene, bisogna capire che quella relazione non è Dio. Ti darà un po’ di paura, un po’ di
apprensione, perché ti fa capire che non è Dio, ma è una persona e, se gli girasse male la
testa, potrebbe andarsene. Ma così è! Siamo noi a sbagliare ed a farne un assoluto.
È bello quel rapporto proprio perché è così, perché di quella persona non
abbiamo fatto un idolo. È il nostro bisogno o la nostra insicurezza che ci fa ingigantire una persona e ce
la fa considerare un Dio, un idolo. Ma, per favore, questo non chiamiamolo amore. Anche se continuiamo a dire:
“Lo amo, lo amo” dovremmo dire, piuttosto: “Come ne ho bisogno, come ne ho bisogno!”.
Io devo desiderare una persona perché la amo, non amarla perché ne ho bisogno. Non ci si deve
mai legare ad una persona come un animale si lega al cibo.
Voglio iniziare con la citazione che c’è all'inizio del capitolo, a p.186; non
è una citazione molto canonica perché l'autore è André Gide! Vi leggo le sue
affermazioni:
“Da molto tempo mi è parso che la gioia fosse più rara, più difficile e più bella
della tristezza. E quando ebbi fatto questa scoperta,” - è una scoperta che bisogna fare nella vita, non
è una cosa ovvia – “la più importante indubbiamente che io potessi fare in questa vita,
la gioia divenne per me non soltanto un bisogno naturale, bensì un obbligo morale”. Parafrasando
Gide: visto che ho scoperto che la gioia è la cosa più rara, più difficile, ma più bella,
ho capito che era un obbligo morale, era un impegno di coscienza. “Mi parve che il migliore e più sicuro
mezzo di diffondere attorno a sé la felicità fosse di darne l'esempio” – anche in questo
consiste l'esempio, la testimonianza di cui tanto si parla – “e decisi di essere
felice”.
È bellissimo questo testo. Questa frase si potrebbe dare come tema: “E decisi di essere felice”.
E’ molto bello perché significa che la decisione di essere felice ha vinto il processo di constatazione
di determinate cose, poiché la felicità dipende anche da una nostra decisione. “E decisi di
essere felice”: sembra una battuta e invece è una cosa molto seria. Questo testo che l’autore
mette all'inizio del cap. V serve a farci comprendere che anche l’amore di noi stessi ha bisogno di maturare
come tutti gli amori, come l’amore per gli altri, l’amore per Dio. Anche l’amore per noi stessi ha
bisogno di maturare!
Qui l’Autore, per spiegare quale sia la relazione fra il piacere e l’amore, introduce una distinzione
fra i “piaceri narcisistici dell'agire bene” ed i “piaceri relazionali dell’agire
bene”.
Cominciamo dai primi. E’ importante spiegare che qui per narcisistico si intende
–secondo la terminologia del linguaggio psicoanalitico- non il narcisismo che tecnicamente è chiamato
“primario”, ma, piuttosto, quello che è definito come “secondario”.
Cos’è il narcisismo primario? E’ quello del bambino; il bambino, la
persona, nasce con un amore di se stesso che lo spinge ad una continua soddisfazione del proprio piacere. Nel bambino
questo avviene in un continuo scegliere o non scegliere le cose guidato unicamente da un criterio di piacere: questo
è il narcisismo primario. Non riguarda, però, solo il bambino, perché si può rimanere in
questo stato per tutta la vita. Questa forma di narcisismo, secondo la psicologia ma anche secondo il vangelo, non
è un amore di sé, non è un autentico amore per se stessi e non è neanche la
condizione sufficiente per sperimentare il piacere umano.
Per arrivare ad un autentico amore di se stessi, che è necessario ed alquanto raro, bisogna maturare da
questo narcisismo primario al narcisismo secondario. C’è chi
preferisce parlare di io primario e di io secondario, intendendo lo stesso
processo di crescita.
Quando avviene questo passaggio? Avviene nel momento in cui sostituisco il criterio del piacere
con il criterio del piacere della realtà. Meglio: quando faccio diventare il
criterio del piacere il criterio del piacere della realtà. Il bambino
cerca il piacere soprattutto nella fantasia, nella immaginazione - in termini tecnici si dice che è un
piacere allucinante. Oggi tutto è allucinante! Però, in termini tecnici,
allucinato è colui che inventa una realtà e la costruisce con la fantasia e al di
là dei termini reali. Il bambino si crea queste allucinazioni, si crea un mondo, una realtà -
bisogna vedere, in questo senso, anche il gioco che è un inizio di allucinazione; nel gioco un sasso diventa
una persona, una cosa, un cibo e il bambino agisce come se quel sasso fosse quella cosa che la sua fantasia immagina.
Il bambino ha questa capacità di fondare il suo proprio piacere, la sua gratificazione, in termini che non
sono reali, e questo ha una sua funzione fisiologica, serve per una determinata crescita.
Andando avanti negli anni la realtà impone sempre più nei confronti del bambino delle frustrazioni,
proprio perché è reale; e allora, se quella persona vuole realmente godere della vita, deve imparare a
goderne in termini reali, riducendo la propria onnipotenza, la propria fantasia, le proprie allucinazioni,
riducendoli, ridimensionandoli secondo criteri e termini che sono reali.
Questo processo che è abbastanza lungo e dura tutta la giovinezza serve per passare dall’io
primario all’io secondario, cioè ad un io che è capace di gestire il proprio
piacere, ma senza soccombere, senza subirlo, senza farsi tiranneggiare da questo bisogno. Un bambino che vede un
dolce, un bambino che ha voglia di giocare, un bambino che prova un bisogno e cerca un piacere o un desiderio, non
capisce più niente, perché non lo sa controllare; c’è bisogno di un intervento
limitativo e spesso energico autorevole ed autoritario dei genitori o della realtà stessa.
Il bambino non comprende perché in quel momento quel suo bisogno non possa essere soddisfatto; vuole
qualcosa e questo significa che gli deve essere dato. Il suo modo di percepire la vita è tale che, se
sente bisogno di qualcosa, si aspetta che - "tac" - la risposta sia immediata. Questo avviene proprio
perché il suo è un io primario mentre l’io secondario è capace di godere di
tutta la realtà come si presenta, ma in un modo intelligente. I suoi affetti, le sue emozioni, i suoi piaceri
sono guidati intelligentemente dalla sua natura umana.
Attenzione, qui bisogna specificare una cosa (e il libro lo chiarisce bene): che l'intelligenza e la ragione umana
non devono né sostituire, né eliminare quella che è la dimensione emozionale ed affettiva del
piacere, devono solo governarla, gestirla. Invece noi tante volte sostituiamo quello che è un discorso
emozionale, affettivo, con la freddezza della ragione - questo succede già nell’adolescenza.
Ci inibiamo allora, perché capiamo che quello dei piaceri, dei desideri, è un discorso
pericoloso.
Invece, i nostri sentimenti, le nostre pulsioni (che a torto chiamiamo istinti), le nostre
emozioni, i nostri affetti, devono esistere, perché esistono! Sarebbe sciocco negarli. Devono esprimersi!
Tutto però sotto la signoria dell’intelligenza umana. Un affetto, una emozione, un piacere devono
essere intelligenti, che non significa raziocinanti, né razionalisti, ma piuttosto piaceri che sono
diventati umani, vissuti anche con la testa e non solo col corpo, in maniera che non siano solo emozioni, non siano
solo piaceri epidermici, superficiali.
Solo questo è il piacere dell'uomo nella sua completezza; diviene possibile attraverso il passaggio
all’io secondario. Ripeto, perché qui è facile equivocare. L’io
secondario non ha eliminato l’emotività - anche perché sarebbe impossibile, sarebbe
fallimentare in partenza! - non ha cercato di sostituire alla proprio emotività la ragione. Ci sono
persone che, poiché cercano di eliminare l’emotività, gestiscono il rapporto con gli altri con
una freddezza, con una logica, un distacco che non sono naturali; che nel rapporto con gli altri ci debba essere la
tenerezza è necessario perché essa sia il luogo della maturità umana. Vivi, perciò, la
tua emozione, il tuo sentimento, il tuo piacere, la tua gioia, gestendolo intelligentemente, perché la
tenerezza non è un fatto fisico, ma è un fatto mentale innanzitutto.
Allora il piacere non è tanto un bisogno, non è tanto un’emozione da rimuovere, da spegnere. Lo
ripeto: non si possono spegnere, perché riapparirebbero comunque da altre parti, in un’altra forma,
perché ci sono! Le emozioni, i piaceri, i desideri, vanno riconosciuti, accettati e vissuti da uomini e da
donne, ma con questo livello umano che significa la partecipazione intelligente a queste cose senza l’illusione
di gestirle, di viverle come se fossero dei meccanismi logici e razionali. Devo gestire i miei sentimenti, le mie
emozioni, i miei bisogni, le mie pulsioni con intelligenza, ma non come se fossero pensieri, ragionamenti, come se
fossero cose logiche o comprensibili dalla logica, ma devo invece usare la mia intelligenza, usare quello che mi
rende uomo. Per noi cristiani è questo che ci fa essere ad immagine e somiglianza di Dio.
Ora si tratta di vivere con intelligenza queste emozioni, questi sentimenti, questi bisogni; è inutile che
cerchi la logica in un bisogno, in una emozione: è assolutamente inutile! Un sentimento non va trattato come
un pensiero logico, è una emozione, è un sentimento! Faccio un esempio che vale per tutti.
C’è una persona che è sposata ad un’altra persona. Cammina tranquilla per la strada ed
incontra un’altra persona del sesso opposto e gli piace. Vede quella persona e pensa che è bella, che
gli piace, che lo ha colpito. Non dobbiamo scandalizzarci di questo, questa emozione che prova non significa il
tradimento del suo legame, della sua fedeltà, perché ciò che sente è qualcosa che non
controlla. Vive la sua emozione, vive quel sentimento ed è inutile che lo neghi o lo rimuova, dicendo che non
è logico, perché lui vuol bene alla moglie. La persona, pur essendo matura, prova quelle emozioni,
però, poi quello che comanda le sue azioni, i suoi gesti, i suoi sentimenti non è l’emozione del
momento, ma è la sua intelligenza, la sua scelta, la sua realtà umana.
Quindi il problema non è di negare quello che c’è, ma di viverlo da persone umane, questa
è la cosa fondamentale. Non dobbiamo spaventarci, meravigliarci di quello che proviamo, che sentiamo;
c’è gente che ritiene illecita ogni emozione, ogni sentimento, ogni desiderio. Questo, invece, non
è ancora peccato; diventa peccato nel momento in cui assume la signoria della mia persona ed insulta tutti i
principi che mi sono dato e incide sulle mie scelte. Questo sì che è peccato.
Faccio l’esempio opposto. Arriva da me una persona malconcia, vestita male, che puzza. Se mi viene
vicino, di colpo provo una certa repulsione, provo comunque dei sentimenti non gradevoli. È normale che sia
così, non è che non gli voglio bene. Supero, infatti, questo primo momento e mi fermo a parlare con lui
e poi, se posso, gli do una mano e se posso gli permetto di lavarsi, gli offro dei vestiti nuovi, ecc. Il mio primo
sentimento, la mia prima reazione, è quello che è, questo non mi deve scandalizzare. Anzi il bello
è proprio questo: che nonostante provi antipatia, disagio per quella persona, li supero perché vedo
dietro questo la dignità della sua persona.
I meccanismi della simpatia e della antipatia sono così inconsci che non riusciamo a gestirli; sono legati a
determinati fattori, a determinate cose. Essere cristiani non vuol dire provare simpatia per tutti, ci mancherebbe
altro! Ma dobbiamo volere il bene di tutti, anche di quelli che sono antipatici, che rimangono antipatici. Questa
antipatia non deve bloccare il nostro voler bene. La persona che si ferma a questo livello, cioè quella
persona che non sa gestire le proprie emozioni, le proprie pulsioni - e queste prendono il sopravvento nella sua vita
- è una persona che non sa volersi bene, è una persona egoista, è una persona ferma all'io
primario.
Invece una persona che piano, piano (è un esercizio che dura tutta la vita) riesce a far vincere dentro
di sé il criterio del piacere, quello del piacere reale, è una persona che riesce a passare ad un io
secondario.
Vorrei continuare ad insistere perché vedo tante volte questo meccanismo sbagliato di ritenere che le
emozioni, le pulsioni, gli istinti possano essere rinnegati o congelati. Non bisogna dar loro addosso; non è
giusto ed è il modo migliore per far saltar fuori quelle cose da un’altra parte. Piuttosto vanno
vissute dentro, vanno accettate, ma poi vanno maturate, vissute da uomini, cioè da gente che ha
intelligenza, ha convinzioni morali, ha dei principi, fa delle scelte, come è tipico della nostra condizione
cristiana.
C’è un modo di vivere da cristiani gli istinti, i bisogni, i desideri e tutto quanto! Faccio un
esempio ancora. Capita anche a me, ma lo vedo fare anche da altri in relazione al cibo. Ci sono persone,
nello stadio dell’io primario, che per godere del cibo hanno bisogno di mangiare delle montagne di cibo
di ogni tipo, di trangugiare fino ad arrivare alla bulimia. La persona che invece è passata ad un altro
livello, ad un io secondario, non è la persona che non gode del cibo, anzi, è quella persona che
gode della qualità di ciò che mangia; sarà quella persona che godrà perché riesce
a mangiare un frutto colto dall'albero, o un po' di verdura fresca con nessun condimento. Ne gode, ne sente il
sapore, ne prova un determinato piacere. Indubbiamente non si sentirà particolarmente ascetica per questo.
Prova piacere ed, anzi, ne prova di più di chi deve trangugiare una montagna di cibo per sentirsi
soddisfatto, perché ha maturato un modo più intelligente di vivere determinate cose, un modo
più umano; capite bene che tutto questo deriva da un processo ‘culturale’.
L'ubriacone beve, tanto per bere, e beve di tutto. Volete confrontare invece, per chi ama davvero il vino, 10 litri
di un vino qualsiasi, da poco, con un bicchiere di vino buono! Io benedico Dio quando bevo quel particolare bicchiere
di vino splendido. Ecco cosa intendo dire quando dico che quello che ci viene dato come le emozioni, gli istinti, i
bisogni, tutto questo va reso umano, va vissuto intelligentemente. Ed uno degli aspetti del vivere
intelligentemente è privilegiare la qualità. Il bambino non guarda la qualità: lo vedete che
sta mangiando un dolce, si volta, vede un altro bambino che mangia una cosa differente ed anche lui vuole quella
dell'altro. È questa l’ingordigia.
Questa ingordigia ci rimane, perché ha bisogno di maturare. Bisogna insomma arrivare non a ridurre il piacere,
a mortificarsi. Questa povera gente che fa continuamente diete, che deve ridurre questo e quello: ma non è
questo il discorso! Devi pervenire a un piacere, a gustare le cose, ed a privilegiare la qualità perché
questo è umano. Gli animali non sanno cosa sia la qualità, hanno solo bisogno della
quantità.
Mi ricordo esperienze fatte in certi monasteri dove si mangiavano cose coltivate dai monaci. Non ho mai
mangiato così bene come in quei posti. Svegliarsi al mattino e mangiare la frutta colta direttamente dalla
pianta. Non c’è altra cosa uguale. Il monaco faceva una vita di povertà indubbiamente
perché si accontentava di ciò che la natura dava di stagione in stagione; ma come riuscivano a lodare
il Signore per quei profumi, per quei sapori, per quella reale fame che sentiva a motivo del lavoro che aveva fatto!
Questi sono piaceri sacrosanti, bellissimi, che ci fanno capire meglio il vangelo quando parla di grano, di frumento,
quando parla di lavoro. Come le capisci queste cose, quando hai un bisogno e lo vivi, quando hai sete ed hai
l’acqua buona.
Non si tratta di negare allora questi piaceri, ma di viverli pienamente. Non solo il nostro corpo ne ha bisogno, ne
hanno bisogno anche la nostra mente, il nostro spirito. Tutte queste belle cose vanno vissute in questo modo. Ma noi
cosa ne facciamo talvolta? Guardate oggi: è stata una bella giornata di sole. Cosa ne abbiano fatto del sole?
Vedete alcuni tutto il giorno in spiaggia ad abbronzarsi: questa è ingordigia con la scusa che fa bene, questa
è ingordigia di ogni cosa, di ogni piacere. Questo è l’io primario! Crediamo che avere
tante cose ci faccia felici, invidiamo chi ha di più, ma è una stupidaggine! È come un
bambino che invidia un altro che ha una torta intera mentre lui ha un pasticcino, ma di una qualità superiore,
di vera pasticceria dinanzi al quale la torta dovrebbe solo impallidire, magari è di queste
pre-confezionate, ma è più grande!
Il Plé continua ancora spiegando che c’è un piacere dell’agire bene: "L'agire bene
è un agire che conquista l'intelligenza che ama, e i piaceri di un tal modo di agire ‘governano’
quelli delle passioni, non per spegnerli, ma per esaltarli in un'armonia specificatamente umana e personale" (pag.
193). Qui c'è tutto: “non per spegnerli, ma per esaltarli”, per viverli nella pienezza in una
armonia specificatamente umana e personale. È necessario questo amore di sé.
Nel Vangelo c’è scritto: ama il prossimo tuo come te stesso. Ma se non sei capace di amare te stesso
non riesci ad amare gli altri e viceversa. L’amore di sé è possibile a livello
dell’io secondario, cioè dell’io di colui che è capace di vivere ogni
cosa da uomo guidato dall’amore, guidato da determinati principi, dalla volontà, dalle scelte. Il
cristiano è un uomo maturo. Non è uno che si nega le cose, ma uno che le vive pienamente, mentre gli
altri si ingozzano con ingordigia fino a perdere le capacità del gusto. L’uomo maturo, il cristiano,
è colui che gode dei piaceri che il buon Dio ha seminato nella sua vita. È necessario avere questo
amore per se stessi, questa autostima, questo minimo di sicurezza. Tutto questo è necessario, deve diventare
un io secondario, un io ulteriore.
Qui il Plé cerca un confronto illuminante con il rischio del fariseismo: “Il fariseo (nelle parabole
evangeliche) vi è rappresentato come un uomo perduto proprio perché è soddisfatto di se stesso
di fronte allo spettacolo confortante delle proprie opere, il che lo porta a confrontarsi con gli altri uomini per
disprezzarli. E' tuttavia possibile conoscere i piaceri dell’agire bene che per quanto narcisistici, non lo
sono nel senso del fariseo della parabola allo stesso modo che è possibile provare i piaceri sessuali
superando il livello del narcisismo primario della relazione fusionale” (pag. 195).
Il fariseo è colui che camuffa l'egoismo da altruismo. Il cristiano è colui che vive
l’amore di sé, ci tiene a se stesso, cerca di avere attenzione, cura di se stesso, ma cura vera non
frenetica, infantile, ossessiva, una cura vera, semplice, distaccata, da persona matura.
Prima di passare al secondo punto esposto dal Plé in questo capitolo, quello del piacere relazionale
dell’agire bene e del suo legame con il piacere narcisistico, volevo concludere con due citazioni di pag.
196.
Vediamo la prima: “È nella natura delle cose che l’uomo si impegni ‘nell’evoluzione
che va dal narcisismo all’amore dell'oggetto’ (S.Freud, Una introduzione al narcisismo).
Questo amore dell'oggetto progredisce grazie al funzionamento delle istanze superiori che regolano il comportamento
secondo il principio della realtà, quell’al di là del cieco principio del piacere. Questo
passaggio dall’io primario all’io secondario è opera dell’intelligenza della realtà
quale essa è (per sottomettervisi o per modificarla) e dell’investimento della libido in oggetti
esteriori all’io. Soltanto quando le zone superiori sono riuscite ad assolvere il loro compito, il principio
del piacere - o il principio della realtà che ne è una forma modificata - può senza
contestazione affermare il suo predominio". Cioè, solo quando le zone superiori dell’uomo riescono ad
averne la padronanza allora si entra in un criterio reale di piacere.
E la seconda: “Ne concludo che è nella possibilità dell’uomo padroneggiare (sino ad un
certo punto) le sue pulsioni primarie grazie all’azione del principio del piacere (nella sua forma matura che
è il principio di realtà). Al di là dei piaceri dell’io narcisistico e primario
(ideale dell’io) e della sottomissione all’autorità (super-io), l’agire bene permette di
provare dei piaceri a livello dell’io secondario" (p.196).
Questo è lo scopo dell'autore. Ma il Plé non si ferma qui. Se il primo punto
è sottolineare questo amore di se stessi che deve però maturare, il secondo aspetto proposto
dall’Autore è che questo amore non è possibile senza la relazione con l’altro, senza
l’amore per l’altro.
Vediamo adesso questo secondo passaggio che è l’amore per gli altri – il Plé utilizza qui
il termine piacere relazionale dell’agire bene. A pag. 197 il Plé scrive: “Mi pare
fondamentale stabilire con chiarezza a quale punto il desiderio e il piacere sono strutturati dalla e nella loro
relazione all’altro e alla realtà degli altri. Il termine latino affectus ha
come primo significato quello di relazione. Questa struttura relazionale è destinata a svilupparsi per
giungere, nel soggetto maturo, a ciò che si è convenuto di chiamare oblatività; senza
cessare di amare se stesso (narcisismo secondario), l’uomo vive un desiderio e un piacere decentrati da
sé; la sua libido è impegnata, in buona parte, fuori di sé". Dove per oblatività
si intende la capacità di fare di sé un dono sincero. Non esiste allora un piacere, se non rapportato
alla realtà, agli altri.
Indubbiamente il desiderio e il piacere primitivi sono accentrati nell’io del bambino. Man mano che
si cresce ci vuole un processo di decentralizzazione in modo che il mio piacere abbia come centro il rapporto con gli
altri fino ad arrivare a provare piacere nel rapporto, nella relazione, fino ad arrivare a quello che è il
massimo della maturazione umana del piacere che è quello di godere del piacere dell’altro. Questa
è la tappa più alta del piacere, è la meta fondamentale.
Invece vedete l’io infantile cosa ci fa fare? Ci fa invidiare il piacere degli altri. Se l’altro
ha più di noi, soldi, salute... noi proviamo invidia e qualche volta anche sentimenti contrari a quella
persona, tanto che se possiamo gliela facciamo pagare. C’è gente che sembra fatta apposta per
rovinare il piacere degli altri. È quella gente che trova sempre qualcosa che non va, qualcosa da ridire -
prendete un esempio classico, le critiche che si sentono alle feste, ai matrimoni. Ti sembra di stare bene, ma...
guai a riconoscere il piacere dell’altro; magari sei in una situazione di tristezza e vedi l’altro gioire
e questo ti dà fastidio. Il dispetto più grande che puoi fare a certa gente è farti vedere
sorridere; bisogna avere il muso lungo, guai se sei sorridente, guai se ti fai delle belle risate sonore che vengono
dal cuore.
Allora dobbiamo arrivare pian piano ad essere capaci a far costituire il nostro piacere nel fatto che
l’altro abbia piacere, sia felice. Solo a questo livello uno è autorizzato a mettere al mondo dei
figli, quando cioè sarà capace di godere del piacere dell’altro, ma del piacere quello vero,
reale, giusto dei figli, della moglie, del marito. Che differenza con quei genitori invidiosi del piacere, della
felicità dei figli, gelosi del piacere dei figli. A un certo punto – capita a tutti con il passare
dell’età - vedremo il figlio o la figlia più belli, più giovani, con davanti tutta la vita
e noi invece che invecchiamo! Se non abbiamo imparato l’oblatività, questo ci farà rabbia e
non digeriremo il nostro diventare decrepiti.
C’è il rischio nell’adulto di rifarsi alla propria autorità. Chi sta diventando vecchio non
ha più la salute, la bellezza... e se non ha capito la vita e non ha maturato l’oblatività, il
gusto per la vita dei più piccoli e la felicità vera, l’unica cosa che lo mantiene in una
posizione di superiorità nei confronti del giovane sono i soldi. Può allora far pesare, questa
differenza, rinfacciarla: “Sono io che ti mantengo!” Oppure ripetere la cantilena: “Io nella vita
ho fatto questo e quest’altro”, per sentirsi superiore, per sembrare apparentemente felice. Ma questa
felicità è solo una parvenza perché dietro c’è tutta questa rabbia.
Sentiamo ripetere che per un po’ di gioventù, per qualche anno in meno, tanti sarebbe disposti a dare un
sacco di soldi! Se non hai imparato ad essere oblativo il trucco dei soldi non funziona e neppure il dire:
“Guarda a che posizione sono arrivato e tu non hai neanche un lavoro!” Ed oggi è in crisi anche
questa superiorità economica dell’adulto, perché alcune statistiche ci dicono di genitori che
vanno in crisi perché non hanno più quelle due cose che li differenziavano un tempo dai figli: i
soldi (a volte succede che il figlio guadagni più del genitore) e l’istruzione (talvolta il livello di
studi dei figli è oggi molto superiore a quello dei loro genitori).
Recentemente una rivista scientifica parlava delle difficoltà della fascia che va dai 40 ai 60 anni
perché pochi possono permettersi una rivalsa sulla generazione più giovane per tutti questi motivi. Ma
la vera differenza la deve fare, invece, la maturazione dell’oblatività, dell’amore, del gusto
di donarsi, senza fare confronti, senza guardare a chi ha di più di noi. Se questo atteggiamento non
è maturato, sono dolori seri!
Qui tocchiamo l’ultima caratteristica di una capacità di amore maturo, di questo piacere relazionale.
Non solo chi ama deve provare piacere, ma lo deve provare perché l’altro è felice,
perché l’altro prova piacere. Questa è una meta che dobbiamo porci continuamente, non ci si
arriva una volta per tutte. La caratteristica di questa maturità è data dal fatto che è
reciproca; la relazione non è solo unilaterale, ma è reciproca.
L’ultimo capitolo del volume del Plé[15] è dedicato all’educazione: come educare al piacere? Chiaramente
possiamo dare solo le linee portanti del discorso, che poi andranno concretizzate.
Egli parte da questo principio: nessuno può resistere a lungo senza piacere. La sua riflessione –e
constatazione- che discende da ciò che fin qui abbiamo esposto, è che coloro che non possono godere dei
piaceri spirituali si rivolgono a quelli carnali[16]. Il principio di fondo è che nessuno –lo dobbiamo dire con forza,
nessuno, proprio nessuno, se non a prezzi esorbitanti, se non con grossi danni alla propria personalità-
può fare a meno del piacere!
Se accettiamo questo principio, scopo dell’educazione non potrà che essere quello di aiutare i
giovani a scoprire i piaceri spirituali. Possiamo esplicitare questo –anche se è ormai chiaro dal
discorso fin qui svolto- dicendo che si tratta di aiutare i giovani a scoprire un ulteriore livello.
Le due posizioni opposte che fin qui Plé ha rifiutato –o facciamo gli angelici e neghiamo che abbiamo
bisogno del piacere, oppure facciamo del piacere un assoluto- queste due posizioni non ci fanno essere uomini e
non ci fanno godere del piacere.
Plé ha rifiutato le due opposte vie del congelare –potremmo dire- i bisogni, i piaceri, oppure
del viziare la persona (per usare un termine classico), cioè del continuare a gratificare fin da bambini con
il piacere e con tutti i piaceri.
Non dimentichiamoci che partiamo sempre dal bambino, che c’è, che non inventiamo noi. Egli
cerca il piacere, ma va educato al piacere, non alla soppressione di esso. Dobbiamo prendere atto di quello che
abbiamo chiamato con il Plé il narcisismo primario. Il bambino già agisce secondo il piacere e, se
c’è una persona che è legittimata in questo, questo è proprio il bambino. Il problema
educativo consiste nell’ingrandire l’orizzonte del suo piacere, cioè non nell’ampliarlo
quantitativamente, ma nel renderlo adulto.
Consiste nel far scoprire un cammino che non sia una mera rinuncia, che non venga letto come una rinuncia al
piacere, ma piuttosto come la scoperta di un altro livello di piacere, una dimensione ulteriore di piacere, il
passare da un piacere “corporale” –non dimentichiamo che questo è sempre necessario,
vitalmente necessario, anche per l’adulto, sebbene in forma minima rispetto al bambino- ad un piacere che
rimanda a qualche cosa d’altro da sé.
Gli intemperanti sono, in questa prospettiva, coloro che non si sono liberati del modo infantile di vivere il
piacere, coloro che vivono il piacere per il piacere, fissati nel momento presente. Il bambino parte con il
piacere vissuto per il piacere, ma pian piano deve scoprire che il piacere è tale quando ti rimanda ad un al
di là da te. Proprio perché il piacere è momentaneo –lo abbiamo già visto- ti
rimanda necessariamente ad un al di là da sé!
Il criterio del piacere infantile è: “subito”, “maledettamente subito”!
Ecco allora una indicazione importantissima: l’educazione al piacere ha bisogno di una norma, quella della
proibizione e della rinuncia. Per essere vissuto veramente bene, non deve avere sempre subito la soddisfazione.
Perché dia la felicità, servono dei “no”.
I “no”, “non subito”, vanno detti, ma bisogna mostrare che in essi c’è un
aiuto alla felicità. Quindi non la soddisfazione immediata del piacere; e questo grazie ad un educatore
esterno che dica dei “no”, ma rimandando a dei criteri interiori morali nei quali questi “no”
sono scritti e non semplicemente imposti.
A livello educativo è una disgrazia sia un bambino a cui si sia sempre detto di “sì”,
sia un bambino a cui si sia sempre detto di “no”. Li vedete quando sono abituati a vivere senza
legge: se tocchi, allora, anche una piccola loro cosa, se non rispondi immediatamente ai loro capricci, ecco il
disastro, ecco la rottura. Se gli dai un limite, sembra che tocchi la loro felicità.
Invece no: l’adulto è colui che è felice dentro i limiti. Ad un bambino, se lo contieni con un
orario, con un criterio, gli sembra che gli togli, che gli porti via la sua felicità, e si ribella. Il
bambino è convinto che la felicità consista nel non avere limiti.
Invece, anche gratificandolo, bisogna insegnargli che è nel limite che si dà la
felicità.
La felicità sta nella rinuncia al sogno di onnipotenza. Vedete quante persone insoddisfatte si incontrano,
estremamente insoddisfatte: non gli va mai bene niente. Questo avviene proprio perché non hanno mai accettato
un limite. C’è, allora, sempre qualcuno da invidiare, da detestare, da aggredire. Imprecano contro gli
dèi e contro gli uomini, perché hanno messo loro dei limiti! Questa è la risultante di una
maniera infantile di vivere il piacere.
Il Plé afferma che “la proibizione e la rinuncia sono educatori del desiderio a condizione che non
siano imperativi pronunciati da una autorità assoluta e spietata”. Questo farebbe insorgere un senso
di colpa nevrotico. Lì si rifugerebbe, per sonnecchiarvi, la ricerca della sicurezza infantile attraverso la
sottomissione.
Sarebbe una sclerosi affettiva. Sclerosi vuol dire l’indurimento di un tessuto. Sclerosi significa
appunto indurimento. A livello fisico, dai 20 anni in poi, comincia la sclerosi, l’indurimento,
dell’apparato circolatorio. È un processo che inizia e che è irreversibile. Quando parliamo di
sclerosi affettiva, intendiamo allora un indurimento del cuore, un atteggiamento affettivo dimissionario, che si
rinchiude in rapporti stereotipati. Si cerca così di buttare fuori il mondo dalla propria vita, o almeno si
crede di farlo. Si dicono solo quelle frasi fatte: “Buon giorno, buona sera, com’è il
tempo”, ecc.
Le persone che inseguono solo il proprio piacere hanno un destino, quello di essere eternamente infelici,
perché non accettano la condizione umana. La via della felicità è, invece, quella di
privilegiare la qualità del piacere. È la via che il Plé ha indicato nel passaggio dal
narcisismo primario a quello secondario.
Voglio concludere con l’ultima pagina del libro, che dice che l’educazione morale è una
educazione del gusto, del piacere vissuto in tutta la sua verità. Lo ripeto, perché è
importante: “vissuto nella sua verità”, oggettivamente, realmente, secondo un criterio di
realtà, secondo dei criteri che oggettivamente e soggettivamente sono veri.
San Tommaso ha utilizzato questa espressione: “educazione del buon gusto”, cioè godere di
ciò che merita essere goduto e ripudiare ciò che è da ripudiare e che ci assedia in permanenza.
In questo senso ha profondamente ragione Agostino quando dice che è bene che uno vada dove lo porta il
desiderio, questo pondus che Agostino ha lungamente indagato. Dire di
sì al piacere, mai di no, ma mostrando cosa sia il vero piacere.
È la libertà dei figli di Dio, quella di accogliere tutto ciò che il Signore ci offre secondo
verità interna ed esterna. Dobbiamo essere persone che decidono di gustare la vita, di essere felici. Certo
dentro il limite, dentro le prove, ma che decidono di essere felici.
Il Signore ha preparato cose belle che ci sono per tutti; il nostro dramma è che noi ne vogliamo sempre
altre di cose belle, perché, come per i bambini, “il dono del nostro compagno è sempre
più bello”! In realtà la dose di piacere diventa eccessiva e fa male solo quando noi facciamo
violenza alla realtà e cominciamo a fantasticare fuori della realtà della vita.
Ma, in termini reali, la ricerca del piacere non è mai esorbitante. Quanto dovrebbe crescere, allora, la
nostra capacità di ringraziare, di avere atteggiamenti di lode! L’assenza di questi atteggiamenti viene
dal fatto che non abbiamo il gusto della vita, altrimenti ringrazieremmo sempre Dio, anche nella croce. Ed,
invece, stiamo sempre a chiedere, a reclamare (sempre il nostro narcisismo primario!).
La vera preghiera di Gesù è: “Ti ringrazio, Padre, ti lodo”! Ci vuole una conversione
per accettare questo discorso. Il Plé ci ha mostrato questo passaggio da una pseudo-morale della carne,
delle cose, ad una morale dello Spirito (anche se di questo la nostra carne non ne vuole sapere).
È questa la difficoltà più grossa, perché sembrerebbe più difficile accettare
la morale delle leggine, dei tanti piccoli precetti, mentre invece è più difficile accettare questa
morale che è quella dell’amore, della maturità, della felicità. È un discorso
che il vangelo ci ripresenta continuamente.
Plé alla fine, ve ne sarete accorti, cita continuamente il vangelo, parla di Gesù con gli amici, di
Gesù che passeggia, di Gesù che sa stare solo e gustare le notti in solitudine, di Gesù che va a
Gerusalemme a prendere la croce, ecc.: non siamo autorizzati da nessuna croce a perdere il gusto della vita. È
questo il vero motivo per il quale il suicidio è sempre stato considerato un peccato molto grave (dove non
c’è consapevolezza non è neanche peccato, ma non è di questo che stiamo parlando). Il
suicidio che è un disprezzo della vita è qualcosa di grave proprio perché va contro tutto questo
che stiamo dicendo. E ricordatevi che ci può essere anche un suicidio lento, una autodistruzione. Invece,
il compito delle comunità cristiane è quello di tenere alto il gusto per la vita!
Seguono alcune domande che non sono state registrate, alle quali, fra l’altro viene risposto:
Mi avete chiesto come vedere questo discorso, dinanzi alle sofferenze reali della vita. Non è
chiaramente questo il momento per affrontare compiutamente il discorso sul male e la sofferenza ed i loro
perché. Posso solo offrire su questo tema alcune indicazioni che ci aiutino ad illuminare il tema specifico
che stiamo affrontando.
Sono convinto che a tutti capitano momenti di prova, momenti che mettono alla prova la nostra maturità, la
nostra forza. Ed è chiaro che la sentiremo sempre forte la sofferenza in questi momenti che non vanno mai
edulcorati.
Anzi uno dei problemi della nostra educazione odierna è proprio che corriamo il rischio di ingannare le
giovani generazioni quando gli facilitiamo tutto, quando non li aiutiamo a sopportare le minime sofferenze o
frustrazioni che li preparerebbero per quelle più grandi della vita.
Ho in mente certe mamme che perdono la testa perché il figlio è stato lasciato dal ragazzino o dalla
ragazzina e che dicono: “Non mi mangia!” E stanno male loro, più del ragazzino e,
piuttosto, gliene comprerebbero uno! Questo peggiora realmente la situazione.
Quando una persona si ammala o gli capita qualcosa di grave, non può improvvisarsi una maturità che non
ha. Per questo è importante impiegare la giovinezza a crescere. Invece, la nostra educazione tende a
dire che tanto non succederà mai niente ed, alla fine, educhiamo persone che si disperano per pochissimo,
gente di una fragilità immensa. Mi verrebbe da dire talvolta (e non lo si può fare), quando parlo con
alcuni cinquantenni in crisi dinanzi al primo problema serio o anche meno serio: “Ma in questi 50 anni di vita
cosa hai fatto per diventare capace di affrontare queste cose?”
C’è una forza che dobbiamo tornare ad insegnare, che non è quella dell’essere dello
Scorpione o del Toro per disquisire qual è il segno più forte! Ah, se ci credono a queste cose! Non si
può prendere così poco seriamente la vita. Serve un impegno per diventare forti, liberi, capaci di
godersi la vita, un impegno serio con se stessi.
Certo questo è impossibile se si parte con l’idea che l’unico scopo dell’educazione e
della giovinezza è divertirsi, o “realizzarsi”, come si dice.
Il saper godere della vita non è un frutto degli astri, è frutto di un lavoro. La prima cosa di
cui si deve preoccupare l’educazione non è che uno abbia il ragazzino o la ragazzina, che abbia i
vestiti firmati, o che abbia il primo posto al torneo di calcio, o che non faccia troppi disastri; la prima cosa da
cercare è che cresca capace di curare la propria felicità e quella degli altri. Certo questo
è difficile se si è genitori o educatori con una depressione che porta il tuo umore sotto zero. La vita
è una cosa seria e questo è il bello: tu costruisci, cambi e migliori. Ma questo non lo fai con i
soldi!
Vedete che ci sono persone che hanno gli stessi problemi seri di salute e li affrontano in maniera
diversissima; gli uni riescono ad essere sereni, gli altri no: come mai? Vedete anziani in piena salute ed
infelici: come mai?
C’è una grande domanda dietro questo che deve esser posta: chi sei? Ma non in questo momento preciso,
bensì nella globalità della vita. Sono convinto per fede e per altre ragioni dell’importanza di
questo “chi sei?” Noi non teniamo conto che c’è tutta la vita. Ed invece, puntiamo poi tutto
sul singolo momento. Va anche bene che c’è un momento nel quale resti mortificato, nel quale hai
delle prove, se la globalità della tua vita ha senso!
C’è così una gioia che viene dall’essere e non dalle circostanze, altrimenti saremmo
sempre in balia delle circostanze. E poi, soprattutto, c’è la fede, ma una fede che permette proprio di
credere la presenza di Dio in questa vita e non solo nel Paradiso. Altrimenti Dio sarebbe ingiusto. Io sono
convinto che, per insondabile e misterioso che possa sembrare, a tutti Dio ha dato la possibilità di essere
nella gioia. Se Dio mi ama, devo credere anche che mi voglia felice. Se l’analogia vale –e vale- io
voglio la felicità di una persona, quando la amo. La chiesa è la comunità di persone che vive,
crede e testimonia questo. Che sa testimoniare questo nelle difficoltà. Il bene che tante persone hanno fatto
in situazioni difficili lo sa solo Dio quanto è grande! Conosco alcune persone splendide che sanno ringraziare
Dio mentre si sta consumando una ingiustizia nei loro confronti: anche questa è la resurrezione! Il credere e
celebrare la resurrezione di Cristo in quel momento difficile.
Da lì nasce la vera consolazione. Se tu hai l’atteggiamento della lode, della riconferma
dell’amore di Dio. Ho in mente in particolare una donna anziana, provatissima, alla quale erano morti i
figli. E le prove, le difficoltà, le avevano creato un cuore ancora più grande. Diceva sempre, proprio
come Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Come mancano
nelle nostre comunità queste persone! Abbiamo bisogno nelle nostre comunità di persone come queste, di
persone che sanno affrontare anche la morte con questa serenità.
Mi avete chiesto anche della nostra differente capacità di accogliere i doni di Dio. Certo esistono vasi
grandi e vasi piccoli, ma l’importante è che siano pieni. E perché avvenga questo, debbono essere
svuotati dal nostro io. Agostino ha usato, in proposito, l’espressione capax Dei. Non è
minore la felicità dell’uno o dell’altro, purché sia permesso a Dio di riempire i nostri
cuori, così come sono, ma liberati e svuotati dal nostro io.
Lo stesso vale per le nostre croci. La tradizione popolare dice che nessuna croce è impossibile da
sopportare e che nessuna è troppo leggera. Si dice che se tutti portassero le croci in un cortile e fosse
data la possibilità di sceglierne una, ognuno alla fine riprenderebbe la propria e non quella degli altri. Lo
si raccontava nel mio paese ed io già da bambino ci credevo e tuttora mi sembra giusto. E qui si parla non
della croce che si vede, ma di quella reale, che c’è, anche se qualche volta la mia mi sembra pesare
apparentemente molto di più di quella degli altri.
Per non delirare
Sul diavolo
Egli, chinandosi così, sul petto
di Gesù (Chi è Giovanni, l´evangelista?)
Le beatitudini: un Padre che vuole
i suoi figli felici
Pasqua 2005: Morte e Vita si sono
affrontate in un prodigioso duello
Dio è un Padre di figli vivi
Meditazioni su Abramo e Isacco, Giacobbe
e la lotta con l´angelo, la morte di Mosè
Sul matrimonio
La vera e propria scelta cristiana
non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo,
ma davanti alla Chiesa
Gesù Cristo modello per
la donna, Esercizi spirituali alle ragazze predicati da d.Achille Tronconi
[1] Secondo il Plé, l’imbarazzo che si manifesta su questo tema nella riflessione morale appare già nel fatto che alcuni autori, quando vogliono affermare che la morale non è pensabile a partire dalla legge, per giustificare una impostazione che faccia entrare altri criteri parlano di una transmorale (così P.Tillich) o di una sopramorale (così J.Maritain).
[2] Il Plé mostra come la riflessione
sul fine sia caratteristica anche del pensiero di Aristotele, secondo il quale la finalizzazione della vita è
decisiva per viverla bene, cioè per viverla in maniera pienamente umana: “Non organizzare la propria
vita in vista di un qualche scopo è segno di grande stoltezza”, scrive Aristotele (Etica ad
Eudemo, I.1,1214b 10) ed ancora aggiunge in un altro luogo: “Se dunque taluno non prova piacere a nulla e
non fa differenza tra questo e quello, egli è ben lungi dall’essere uomo” (Etica ad Eudemo,
III, 14, 1119a 10). Il Plé cita ripetutamente gli studi di Jean Vanier sull’etica aristotelica ed, in
particolare, J.Vanier, Le bonheur, principe et fin de la morale aristoléticienne, Desclée de
Brouwer, 1965.
Il Plé sottolinea altresì come, inaspettatamente, in un contesto nel quale parlare di finalità
sembrava contrario ad una logica scientifica, Sigmund Freud, invece, scelse consapevolmente di servirsi della nozione
di scopo: “Lo scopo principale dell’attività psichica, dal punto di vista qualitativo, può
essere descritto come una tendenza ad acquistare piacere ed evitare dolore”, (dall’Introduzione
alla psicoanalisi).
[3] Plé cita anche R.Guardini che afferma, in La morale al di là degli interdetti, che le sue ricerche vogliono rendere giustizia “alla nobiltà vivente, alla grandezza e alla bellezza del bene”. Per mostrare, invece, la possibilità di una interpretazione della morale che prescinda dal piacere fa riferimento, di contro, a Malebranche che dice: “La felicità è la ricompensa del merito e non può quindi esserne il fondamento” (Trattato di morale, II parte, cap.2).
[4] Il Plé cita un testo di H.Bergson che, in Le due fonti della morale e della religione, per mostrare che la morale è parte integrante dell’essere dell’uomo, conferisce al termine ‘biologico’ un significato diverso e più profondo di quello che abitualmente gli viene attribuito: “Diamo alla parola biologico il senso molto ampio che dovrebbe avere, e che forse un giorno finirà coll’avere, e diciamo per concludere che ogni morale, ogni impulso o aspirazione è di natura biologica”.
[5] N.B. Di questo incontro non è stato possibile reperire alcun tipo di appunti. Il testo che segue è così un resumé redazionale a partire dal libro stesso.
[6] Il tema dell’incompiutezza ritorna in un foglietto datato il 3 agosto (1939?) – Freud morì il 23 settembre del 1939 – pubblicato nella Standard Edition dell’Opera omnia freudiana: “Vi è sempre qualcosa che manca alla distensione e alla soddisfazione, nella perenne attesa di qualcosa che non accade”.
[7] Il Plé sottolinea come la
riflessione sull’esistenza di una diversa qualità del piacere sia presente anche in Freud, sebbene
questo “carattere qualitativo non sia stato molto studiato da Freud e dai suoi discepoli” (ad esempio, il
Plé nota come nel Dizionario della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis la voce
“qualità” non figuri neppure, sebbene se ne faccia un cenno alla voce “principio del
piacere”). Freud ha affermato, ad esempio, che esiste un fattore che non possiamo non chiamare qualitativo,
proprio perché pur essendo in relazione all’accrescimento od alla diminuzione di una quantità che
definiamo tensione dì eccitazione, non può essere identificato con essa (in Il problema del
masochismo). Ma lo afferma ancora più chiaramente in La malattia della civiltà, dove
così dice: “Si ottiene il risultato più completo quando si scopre che si ricava dal lavoro
intellettuale e dall’attività dello spirito una quantità sufficientemente elevata di piacere. In
tal caso non si ha nulla più da temere dal destino. Soddisfazioni di questo tipo, quella per esempio che
l’artista prova nella creazione, o nel dar corpo alle immagini della sua fantasia, o quella che il pensatore
trova nella soluzione di un problema o nello scoprire la verità, posseggono una qualità particolare che
in futuro verrà certamente caratterizzata metapsicologicamente. Per ora, limitiamoci a dire in modo immaginoso
ch’esse ci appaiono più sottili e più elevate”.
Freud arriva a parlare di un’evoluzione che va verso un io purificato dal principio del piacere, che pone il
carattere del piacere al di sopra di ogni altro (in Analyse terminée et interminable).
Questo non toglie che i piaceri intellettuali trovino, per Freud, il loro alimento nelle pulsioni sessuali
sublimate, ma quello che interessa sottolineare al Plé è proprio che non esiste un puro spirito
o un puro corpo: “Non vi sono nell’uomo piaceri del puro spirito, perché
l’uomo non è uno spirito, ma un corpo animato. Per questo intendo per piacere tutte le
soddisfazioni possibili dei bisogni, desideri ed esigenze, senza nulla escludere della loro complessità
specificamente umana. L’uomo non è né angelo né bestia. Altrettanto è dei suoi
piaceri” (p.141). Il Plé si domanda come mai sia sfuggito a Freud che se è legittimo considerare
piaceri elevati la conoscenza e l’arte, lo stesso dovrebbe essere detto della morale e della religione (p.159).
Come si vedrà più oltre il discorso di Freud si radica sulla differenza fra principio del
piacere e principio di realtà. Il Plé cita ancora, a questo proposito, il padre della
psicoanalisi: “In realtà, la sostituzione del principio di realtà al principio del
piacere non significa un declassamento del principio del piacere, ma piuttosto la sua conservazione. Un
piacere momentaneo, dal risultato incerto, è abbandonato, ma soltanto in vista di ottenere, per un’altra
strada, un piacere sicuro nel futuro” (da Formulazione sui due principi del funzionamento psichico). E
ancora “Sovente accade che il principio del piacere quando si manifesta in modo esclusivo, sia nella vita
sessuale, sia nell’io stesso, finisce con l’averla vinta sul principio di realtà; e ciò con
il più gran danno per tutto l’organismo” (Al di là del principio del piacere).
[8] Il Plé cita a questo proposito san Tommaso che sottolinea l’importanza del provare piacere: “Gli uomini che non provano piacere nella virtù non possono perseverarvi” (In Eth. Nic., X, lect. 6).
[9] Qui il Plé fa riferimento nuovamente alla psicoanalisi per mostrare che essa, dal proprio punto di vista, giunge a conclusioni simili. “Scoprendo nello svezzamento che il latte non è la madre, il bimbo si distacca da lei e può vivere senza di lei. Nello stesso movimento di distacco, il bisogno del latte rivela al bambino il desiderio della madre... La vera relazione col prossimo distacca da coloro che si amano fino a lasciarli esistere per se stessi nella maggior lontananza dell’esistenza” (D.Vasse, Le temps du désir), di modo che il bambino può lentamente procedere dalla consumazione dell’altro alla comunione (pp.150-151). È in particolare la scuola di Lacan che ha indicato questa “ricerca intelligente che relativizza il piacere, nei due significati del termine relativizzare: il piacere non è più un assoluto (illusorio), ed è posto in relazione con l’altro, con un al di là, quello della realtà... che sorge nel bambino dalla frattura che gli s’impone nell’oggetto del proprio desiderio” (p.150). Il Plé cita ancora a pag.165 il Vasse: “All’uomo è dato di trasmutare il rapporto di consumazione – nel quale si origina e senza il quale muore – in rapporto di comunione nel quale le differenze non si accaniscono più a farsi scomparire in nutrimento, ma possono realizzarsi in libertà inalienabili. Quando la consumazione può diventare segno di comunione, allora appare l’uomo”. Il Plé gli fa eco con le proprie parole: “Si gode della bellezza contemplandola, non consumandola” (p.153).
[10] N.d.R. Abbiamo inserito a questo punto del testo la trascrizione di parte di un precedente incontro che era stato dedicato al commento del cap. I della I parte del libro del Plé, perché particolarmente utile a chiarificare ciò che si sta qui dicendo.
[11] Aristotele sottolinea che questo scopo del desiderio deve essere conosciuto, affermando così che l’intelligenza è necessaria all’agire morale. Per Aristotele è in gioco qui una intelligenza pratica, una sapienza (phronesis), ma, al contempo afferma che conoscere non basta, occorre desiderare e che solo il desiderio è il vero motore. Nei suoi scritti troviamo che il desiderio possiede il logos, è intelligente (Etica a Nicomaco 1102a 28). Il Plé sottolinea anche come sia notevole che Freud abbia dimostrato che la vita psichica è dinamica e finalizzata (p.183).
[12] Qui il Plé cita Freud: “Il mio amore è ai miei occhi cosa infinitamente preziosa che non ho il diritto di sprecare senza doverne rendere conto. Mi impone dei doveri che devo poter assolvere anche a costo di sacrifici” (da La malattia della civiltà, citata a pag.184).
[13] Qui è bene ricordare Tommaso d’Aquino. Egli, parlando del Decalogo, ne parla come di qualcosa promulgato da Dio e, quindi, esogeno. Per questo egli lo ritiene “non la sorgente dell’obbligo morale, ma come un insegnamento (secondo il significato della parola ebraica Torah). Essa riveste un carattere particolare per il fatto di essere istituita in vista di un fine, e particolarmente in vista del fine “ultimo” dell’uomo che è Dio. La legge del Decalogo è una regola che aiuta gli uomini a ben valutare i loro rapporti tra sé e Dio. Tale intervento di Dio è indubbiamente esterno all’uomo, ma ha lo scopo di aiutarlo a una migliore comprensione della propria legge interiore e ad un orientamento endogeno più corretto del suo desiderio del bene” (p.176). La legge neotestamentaria, con tutta la sua diversità da quella antica, nondimeno afferma parimenti, a partire dal dono di grazia, l’enorme valore dell’endogeno che ne consegue. “È un dono di Dio... ma tale dono mette radici e vive nella più profonda interiorità dell’uomo: ed in ciò essa è endogena. La legge del Vangelo, detta nuova Legge, è indita più di ogni altra legge di vita, perché l’uomo è allora abitato dallo Spirito Santo. È ispirato” (p.176).
[14] Il Plé afferma che, in questo senso, la legge è mediatrice di reciprocità (p.181).
[15] Per ragioni di tempo, il VI capitolo del libro del Plé non fu commentato.
[16] Da intendere qui nel senso del narcisismo primario come è stato definito negli incontri precedenti o ancora, in senso teologico e spirituale, nel senso paolino del termine che si riferisce al peccato e non al piacere come felicità incarnata.