Mettiamo a disposizione la trascrizione dell’VIII incontro, dedicato a san Paolo apostolo ed alle
lettere pastorali, del corso di formazione per catechisti sulla storia della chiesa di Roma proposto
dall’Ufficio catechistico della diocesi di Roma, tenutosi il sabato 17/5/2008, presso la Villa dei Quintili
e l’Appia antica. Appena possibile saranno on-line anche le trascrizioni delle successive lezioni
dell’anno 2008/2009. Il calendario degli incontri con l’indicazione dei luoghi nei quali si svolgono
è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva
voce dell’autore e conserva uno stile informale.
Le trascrizioni dei primi sette incontri, dedicati alle basiliche di Santa
Prisca, di Santa Maria in Aracoeli, di San Marco, di San Pietro in Vincoli,
di San Clemente, di San Lorenzo de’ Speziali in Miranda e di Santa Prassede
e, rispettivamente, agli Atti degli Apostoli, alla Lettera di san Paolo ai Romani,
al vangelo di Marco, alle lettere di Pietro, ai padri apostolici Clemente ed
Ignazio, alla Lettera agli Ebrei ed all’Apocalisse, sono già disponibile
on-line nella sezione Roma e le
sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo
testo sono on-line nelle Gallery Villa
dei Quintili e Appia
antica.
Il Centro culturale Gli scritti 29/8/2008
Questo itinerario sui passi di S.Paolo che stiamo per compiere e che si snoderà per circa quattro
chilometri attraversando la villa dei Quintili per arrivare, attraverso la via Appia antica, fino alla tomba di
Cecilia Metella, è l’ultima tappa prevista per questo anno del percorso di formazione sulla
storia della Chiesa di Roma.
Ho deciso di inserire questo itinerario sia perché, come abbiamo già visto nei precedenti incontri,
S.Paolo è passato sicuramente per la via Appia antica e noi potremo così camminare sui suoi
passi, anche se la villa dei Quintili a quell’epoca non c’era ancora, sia perché questa
visita ci permetterà di conoscere aspetti della vita e della cultura dell’epoca di Paolo e di
indagare su alcuni problemi sollevati dall’incontro del nascente cristianesimo con le altre religioni
esistenti a Roma. Potremo così toccare con mano alcune delle situazioni di vita concreta che si
presentavano nella comunità cristiana che si andava espandendo.
La Villa dei Quintili prende il suo nome da due fratelli,
Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo[1],
esponenti di una insigne famiglia romana, ricchi proprietari terrieri, colti,
che ricoprirono diversi incarichi importanti durante il regno di Antonino Pio
e Marco Aurelio e furono consoli nell’anno 151 d.C. Quando Commodo, alla
morte del padre Marco Aurelio, salì al potere, li accusò di cospirare
contro di lui e li fece uccidere nel 182 d.C. La condanna a morte dei due
fratelli comportò la confisca dei loro beni, tra i quali questa villa.
La villa divenne da quel momento una delle residenze di Commodo il quale vi
fece apportare una serie di modifiche.
Attualmente la visita della villa si effettua seguendo un percorso a ritroso
rispetto a quello che gli abitanti e gli ospiti seguivano per accedervi. L’ingresso
principale era originariamente sull’Appia antica; le persone entravano
ammirando il ninfeo dal quale noi usciremo invece per percorrere la via
Appia antica e, attraverso locali di rappresentanza e giardini, giungevano alla
villa vera e propria. Oggi noi invece siamo entrati dall’ingresso museale
sull’Appia nuova, visitiamo per prima cosa l’Antiquarium e da qui
saliremo verso la villa e verso l’Appia antica.
Nell’odierno Antiquarium sono esposti oggetti provenienti dagli scavi
condotti nelle varie zone della villa ed altri ritrovati negli scavi al VII
miglio, tra via Appia Nuova e via Appia Pignatelli, dove c’era una calcara
medievale, un luogo cioè nel quale le antiche statue venivano portate
per essere trasformate in calce, procedura adottata quando c’era penuria
di materiali. Qui sono state trovate moltissime statue di divinità orientali
che sono esposte in questo Antiquarium, anche se non sappiamo con sicurezza
se provengono tutte da un unico tempio o da più luoghi di culto, proprio
per il carattere particolare del ritrovamento dovuto alla calcara che aveva
già spostato gli oggetti dal loro luogo originario, ma che ci aiutano
a capire il mondo religioso dei tempi di S.Paolo e degli anni a lui successivi.
Presentazione della religiosità pagana nell'Antiquarium della Villa dei Quintili |
Osservando queste sculture vogliamo cominciare ad interrogarci
sul rapporto tra i molteplici significati che la parola ‘mistero’
aveva nel mondo pagano e la valenza che invece questo termine assume nel
cristianesimo. Quando ci si rivolge al mondo antico è importante avere
un corretto approccio filologico, che ricostruisca con esattezza tutte le coordinate
storiche. È importante, però, cercare poi di penetrare anche nella
mentalità di quel periodo, in quella cultura classica così affascinante
ed insieme così imperfetta, per confrontarsi con essa e comprenderla
non solo come una curiosità, ma come una tappa della cultura umana.
Al centro della sala è posta una statua del II secolo d.C. proveniente
dalla villa stessa, che raffigura Zeus, il padre degli dèi. Nel
pantheon greco è colui che presiede e governa il mondo dei diversi dèi,
oltre che quello degli uomini. La nostra parola ‘Dio’ viene proprio
dalla parola ‘Zeus’; la dentale Z diviene D e si passa, come insegna
la linguistica, da Zeus a Deus (da cui l’italiano ‘Dio’).
Nella vetrina laterale c’è una seconda statua del padre degli dèi,
più piccola, trovata anch’essa nella villa, che raffigura Zeus
bronton (Zeus che lancia i fulmini), risultato della fusione tra lo Zeus
greco e una divinità locale frigia.
Subito dopo la statua di Zeus Bronton abbiamo due piccole are che sono degli
ex-voto, in una delle due si vede un bue che doveva essere immolato alla
divinità, elemento molto interessante, perché ci rivela che a
questa divinità dovevano essere offerti sacrifici. Immaginate cosa potesse
significare per Paolo al suo arrivo a Roma, trovarsi di fronte ad una realtà
nella quale era normale che animali fossero offerti a Zeus perché fosse
propizio agli uomini. La più piccola delle due è in realtà
un ex-voto offerto da una persona dopo un viaggio come ringraziamento per essere
tornata incolume, perché i viaggi allora erano pericolosi. È interessante
per capire la mentalità religiosa dell’epoca, si tornava da un
viaggio e si dedicava un altare sul quale si offrivano poi delle primizie, come
segno di venerazione del dio.
Dinanzi a questi primi oggetti conservati nell’Antiquarium, ci rendiamo
conto che l’uomo romano aveva una sua religiosità. L’anelito
a Dio appartiene intrinsecamente alla vita umana. Gli uomini che hanno abitato
questa villa veneravano Zeus bronton ed in lui vedevano ciò che trascende
l’esistenza umana.
Insieme a questo anelito, le are e gli ex-voto ci fanno percepire che essi
cercavano di “gestire” questo ‘mistero’ divino, cercavano
di accattivarselo. Il sacrificio pagano – come abbiamo meditato a
S.Lorenzo de’Speziali in Miranda – era un atto di culto che dall’uomo
saliva a Dio, perché Dio scendesse all’uomo e lo beneficasse. Più
il sacrificio era grande, più si poteva ritenere che Dio avrebbe risposto
concedendo i suoi favori. Dio doveva essere, in qualche modo, ‘comprato’,
perché non esisteva ancora la rivelazione della misericordia di Dio e
della sua grazia che Paolo annunzierà.
Su di un secondo aspetto del ‘mistero’ divino, così come
lo concepiva la religione greco-romana, possiamo riflettere a partire dalle
tre erme del II secolo d.C. che provengono da diverse aree della villa.
Le erme erano costituite da un alto sostegno in pietra sul quale era scolpita
la testa di una divinità. Nell’erma che è al centro vediamo
raffigurato il dio Hermes (il latino Mercurio), il dio dell’interpretazione.
Il nome proprio Hermes ha la stessa radice del verbo greco
‘ermeneuo’ che significa ‘interpretare’ da cui viene
la parola moderna ermeneutica, la scienza dell’interpretazione.
Hermes è il messaggero degli dèi, colui che si fa interprete delle
loro parole, delle loro volontà. Il problema che viene posto implicitamente
dalla figura di Hermes è importantissimo: come è possibile sapere
qual è il pensiero degli dèi? Siccome non è possibile conoscere
il ‘mistero’ degli dèi, c’è bisogno di un dio
che venga a spiegarlo.
È il modo greco-romano di domandare sul ‘mistero’ del mondo
divino. Anch’essi si interrogavano non solo sull’esistenza di Dio,
ma anche su chi fosse realmente. Per usare la terminologia biblica, che, però,
il mondo greco-romano non poteva avere, nasceva la domanda implicita che
Dio ‘mostrasse il suo volto”!
Leggeremo più avanti il testo nel quale S.Paolo, ad Atene, vede un altare
dedicato al dio ignoto; quell’altare testimonia l’incapacità
greco-romana (ed, in fondo, di ogni uomo) di giungere a vedere il volto di Dio
con le proprie forze. Poiché i greci così come i romani non sapevano
esattamente cosa le divinità pensassero, non sapevano quante divinità
esistevano, cercavano di ingraziarsele tutte, comprese quelle a loro ignote,
ma che avrebbero potuto esistere. Inimicarsele poteva essere pericoloso. Allora
si erigevano altari a tutte le divinità (vedi il pantheon) oppure
al dio ignoto, perché tutti gli dèi fossero in qualche modo
ricordati e non ce ne fosse alcuno che, sentendosi ignorato dagli uomini, si
potesse vendicare in qualche modo.
Il mondo degli dèi è pericoloso e va tenuto buono, afferma la
mitologia. A questo proposito è interessante raccontare la storia di
Niobe, figura mitologica che vediamo rappresentata nella grande statua posta
sulla sinistra della sala dell’Antiquarium. Niobe, figlia di Tantalo,
aveva avuto dal matrimonio con il re di Tebe Anfione 14 figli, sette maschi
e sette femmine e, orgogliosa di questo, aveva insultato Latona, madre di Apollo
e Diana, che di figli ne aveva avuti solo due. Apollo e Artemide per vendicare
la madre, racconta la leggenda, uccisero tutti i figli di Niobe, per l’offesa
rivolta alla divinità loro madre.
Gli storici dell’arte dicono che in questa scultura Niobe è
raffigurata nell’atto di difendere l’ultima figlia (di cui si
vede ormai solo parte del corpo tanto la statua è rovinata) dalle frecce
degli dei, ma senza esito, perché non c’è alcuna possibilità
di fermare la vendetta delle divinità offese. Secondo altre versioni
del mito si salvano, invece, solo due figli che ottengono il perdono degli dèi.
Veramente Feuerbach aveva ragione, se pensiamo alla mitologia. L’umano
veniva proiettato sul divino per cui tutto ciò che noi siamo di bello
e di brutto era attribuito agli dèi.
Ma proprio qui, invece, nasce la domanda sulla verità. l’uomo vuole
che sul ‘mistero’ si faccia chiarezza. Nel discorso che il papa
avrebbe dovuto tenere all’Università La Sapienza, c’era un
passaggio nel quale egli citava una straordinaria domanda di Socrate
che mostra come il mondo greco desiderasse giungere alla verità:
Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili
inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire
che tutto ciò è vero? (Eutifrone 6 b - c).
L’idea di verità, il bisogno di sapere la verità su Dio
non è solamente cristiana, ma è già presente nel paganesimo.
E Benedetto XVI prosegue, mostrando che questa domanda sulla verità di
Dio non è stata rifiutata dal cristianesimo, che non si è mai
chiuso nel fideismo, ma sempre ha coltivato il rapporto fra la fede e la ragione:
In questa domanda apparentemente poco devota - che, però,
in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più
pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli
hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto
la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri
non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della
religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione
creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi
della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero
senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza
di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere
religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare
l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere
come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per
raggiungere la conoscenza della verità intera.
Quando un uomo vuole conoscere la verità su Dio, è sulla via
di Dio, non lo sta offendendo. Dio ha dato la ragione all’uomo perché
la usi, perché indaghi. È la grande domanda che oggi noi poniamo
alle grandi religioni, anche all’islam: che posto ha la ragione, la libera
ricerca, il libero scambio di idee nella vostra comprensione di Dio? Che uso
farà l’islam della ragione? I giovani hanno la libertà di
chiedere, di discutere, di interrogarsi su Dio? Non siamo noi a dover rispondere
per le altre religioni, ma possiamo porre loro la domanda come un aiuto al loro
cammino. Per noi cristiani è evidente che ragione, ricerca di Dio e fede
non sono in contrapposizione tra loro.
La difficoltà a conoscere la divinità ed il suo mistero era manifestata
anche dal politeismo che caratterizzava la religiosità greco-romana.
Lungo la parete destra dell’Antiquarium sono esposte in successione nelle
vetrine alcune straordinarie testimonianze di culti, alcuni ancora classici,
altri di età tardo-antica, che testimoniano l’ingresso dei culti
orientali nella religiosità romana. I reperti esposti su questo lato
non provengono dalla villa, ma dagli scavi effettuati al VII miglio dell’Appia
di cui abbiamo già parlato. Sapete che qui vicino c’è un
quartiere che si chiama lo Statuario, proprio a causa dell’enorme quantità
di statue che qui sono state ritrovate.
Come abbiamo detto, non si sa se queste statue provengono tutte da un unico
tempio o se sono state radunate da diversi luoghi; provengono comunque dalla
zona dell’Appia e si sono salvate perché non sono mai state
ridotte in calce per essere riutilizzate in nuove costruzioni.
Abbiamo qui la statua di Eracle (Ercole), personaggio amatissimo perché
simbolo della forza e dell’intelligenza umana. L’uomo infatti si
confrontava con i protagonisti della mitologia ed essi avevano anche un ruolo
pedagogico, educativo; fungevano come dei modelli a cui riferirsi. Per l’uomo
antico Ercole, ed ancor più Ulisse, solo per fare un altro esempio, erano
dei modelli che esprimevano dei valori, dei punti di riferimento. Nella vetrina
vicino all’uscita verso la villa abbiamo un viso di Afrodite, dea della
bellezza, corrispettivo greco della Venere latina.
Ma in età ellenistica si diffuse un’altra idea di ‘mistero’
che è qui rappresentata da altri reperti, quella portata avanti dai cosiddetti
‘culti misterici’, ben diversi dalla religione pagana tradizionale.
Nei ‘culti misterici’ il termine ‘mistero’ è
utilizzato in un’accezione diversa rispetto a quella propria della mitologia
classica. Lì infatti il mistero è l’inconoscibilità
degli dèi, dei quali non sappiamo se sono uomo o donna, buoni o cattivi,
se ne esiste uno o molti; non c’è reale accesso agli dèi,
solo i sacrifici propiziatori o Hermes possono tenere il relazione occasionale
il divino e l’umano. Evidentemente il discorso è molto più
complesso, ma non posso che semplificarlo qui per sottolinearne la differenza
con i ‘culti misterici’.
Nei culti misterici il ‘mistero’ è tale perché
la conoscenza di esso è solo per gli iniziati. Qui è un diverso
significato che viene messo in rilievo: gli dèi sono nascosti, ma in
realtà è possibile accedere a loro per categorie riservate di
persone attraverso un complesso percorso iniziatico. Pensate al culto di Mitra
– ne abbiamo già parlato nell’incontro a S.Clemente - che,
secondo me inspiegabilmente, esercita anche oggi del fascino su tante persone.
Coloro che ne parlano a sproposito non sanno nemmeno che era vietato alle donne.
Il culto di Mitra è un culto importato dai soldati delle legioni che
tornavano in patria e le donne non potevano accedervi. Non era perseguitato,
non si nascondevano per paura di essere scoperti. Era, invece, riservato
agli iniziati e coloro che ne facevano già parte decretavano l’ammissione
di nuovi adepti; per questo non esistevano testi pubblici di questa religione,
perché solo gli iniziati, gradatamente, potevano esserne messi a conoscenza
Pensate che differenza con i cristiani dei primi secoli che erano, invece,
perseguitati, ma volevano che tutti fossero ben informati su quale era la loro
fede, che scrivevano i vangeli e poi le apologie e gli altri scritti dei
padri perché chiunque li potesse leggere. I testi cristiani venivano
trascritti e chiunque lo voleva avrebbe potuto leggerli, senza cerimonie iniziatiche.
Nelle vetrine potete vedere alcuni personaggi caratteristici del culto mitraico,
Cautes e Cautopates. Il culto mitraico era un culto solare, Mitra è una
divinità solare, un dio del sole; la sua festa veniva fatta cadere il
25 dicembre come quella del dio solare di Homs (antica Emesa, in Siria). Vedete
che c’è una torcia accesa tenuta da un primo portatore (Cautes)
che simboleggia il sorgere del sole e una torcia in basso tenuta dal secondo
portatore (Cautopates), di cui si vede un piccolo frammento, segno del tramonto,
dello spegnersi della vita.
Sul lato sinistro in un’altra vetrina in fondo alla sala si trova la
raffigurazione del dio Mitra che uccide il toro. Non sappiamo esattamente
cosa avvenisse nei riti di questa religione, se veramente avvenisse un’uccisione
rituale di un toro, ma certo questa immagine è ricorrente. Si vede il
dio Mitra con il cappello frigio che uccide il toro sgozzandolo perché
esca da lui la fecondità, mentre uno scorpione e un serpente mordono
i testicoli dell’animale perché il liquido seminale cada sulla
terra. Anche qui vediamo la luna e il sole.
I seguaci del culto mitraico, importato a Roma nel II secolo d.C. dalla Persia,
erano riuniti in gruppi di poche persone. I mitrei erano molto piccoli ed
anche per questo a Roma erano abbastanza numerosi. Come abbiamo già detto
a S.Clemente, il cristianesimo non ha alcun rapporto ‘genetico’
con il culto di Mitra, perché quest’ultimo è successivo
al cristianesimo. Alcuni simboli che possono dare l’apparente sensazione
che ci sia una comunanza sono in realtà utilizzati da entrambe le religioni
per ché sono simboli universali (vedi, ad esempio, la luce).
Se torniamo ora alla vetrina dove sono Cautes e Cautopates, potete vedere alcuni
reperti di altri culti misterici. Abbiamo un frammento di statua di un altro
culto giunto a Roma, quello della dea Cibele che rappresenta la natura,
la fecondità, come si può capire dalle fiere raffigurate intorno
a lei, al suo servizio.
Vediamo poi una statua della dea Artemide, rappresentata così come
era venerata ad Efeso. C’è infatti una differenza tra la rappresentazione
della dea Artemide (Diana), gemella di Apollo, come giovane cacciatrice alla
quale siamo abituati nella mitologia greca e quella tipica di Efeso dove era
venerata come dea della fertilità. Ad Efeso si trovava il tempio di Artemide
che era una delle sette meraviglie del mondo. Proprio a proposito di quel tempio
negli Atti degli Apostoli si narra dello scontro avuto da S.Paolo con gli artigiani
che fabbricavano gli oggetti per il culto della dea (At 19,23-41). Ad Efeso
Artemide era raffigurata come vediamo in questa statua, con simboli che fanno
riferimento alla fecondità della natura. Le interpretazioni di questa
immagine sono diverse, alcuni sostengono che tutte queste protuberanze sul busto
siano seni, a simboleggiare la donna feconda che dà il latte, che nutre.
Potete vedere poi ancora frammenti di una statua di Iside, divinità
egiziana femminile, lunare, sorella e sposa di Osiride. In età ellenistica,
alcune divinità egiziane vennero rilette in una chiave profondamente
differente dal significato che avevano nel loro contesto originario nell’Antico
Egitto e si diffusero nel Mediterraneo e furono anche portate a Roma.
Abbiamo poi un frammento di una piccola scultura di una divinità rara
in Roma; raffigura la dea Astarte, sposa di Baal, entrambi divinità
fenicie che troviamo nell’Antico Testamento. Baal significa “signore”,
è lo Zeus del mondo fenicio. I Cananei con i quali vediamo gli ebrei
lottare nell’Antico testamento sono Fenici che abitavano nell’interno
e non sulla costa, come i loro fratelli più noti di Cartagine e delle
altre colonie, ed anch’essi veneravano come loro Baal ed Astarte che sono
spesso citati nella Bibbia. Astarte è la compagna di Baal, la sua paredra.
È una divinità seduta su una fiera con ali, con un cappello di
foggia egizia. Ritroviamo così il culto fenicio di Astarte a Roma; questo
ci dà un’idea del ‘mistero’ che avvolgeva l’uomo
greco-romano ai tempi di Paolo e delle domande religiose che si poneva e delle
riposte che cercava in diversi modi di darsi in riposta al suo innato sentimento
religioso.
Vale la pena vedere anche le altre vetrine, che illustrano non tanto la dimensione
religiosa in età greco-romana, quanto i ritrovamenti della villa stessa.
Nelle vetrine poste sul lato sinistro troviamo degli oggetti straordinari appartenenti
alla villa, in particolare delle decorazioni in opus sectile, poiché
alcune pareti avevano decorazioni non ottenute con affreschi, ma composte da
pietre di diverse forme e colori. Potete vedere, in particolare, un fregio
composto da piccole figure nude danzanti. Più avanti abbiamo dei resti
di affresco dai quali possiamo avere un’idea di come dovevano essere le
stanze della villa in origine.
È esposto anche un aureo del tempo di Nerone, del 64 d.C., esattamente
l’anno in cui Pietro con i protomartiri romani subì il martirio.
Accanto alla porta di uscita abbiamo un reperto che è chiaramente cristiano,
una lastra riutilizzata che riporta l’acronimo ιχθύς
(pesce) formato dalle iniziali delle parole che compongono l’espressione:
Ιησους Χριστος
Θεου Υιος Σωτηρ
(Iēsoũs Christós Theoũ Yiós Sōtér),
cioè Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore.
Verso la Villa dei Quintili |
Ci troviamo ora all’interno della Villa dei Quintili, dinanzi al Ludus, questa
struttura a forma di ellisse che vedete dinanzi a voi. Da qui si vedono bene anche le terme che risalgono ai
tempi dei fratelli Quintili - sono le costruzioni il cui alzato è meglio conservato. Dall’altro
lato, alla sinistra, si trova invece la zona residenziale, composta al piano inferiore da una serie di camere da
letto (cubicula) e al piano superiore da cortili di rappresentanza.
La struttura ellittica è identificata spesso con il nome di ‘Teatro marittimo’, perché
ricorda una costruzione simile presente a Villa Adriana a Tivoli. In realtà sembra si trattasse di
un ludus progettato da Commodo, che amava i giochi dei gladiatori e aveva voluto nella sua
residenza un piccolo teatro per i loro combattimenti. Questo progetto non fu mai portato a termine e
successivamente questo luogo fu adibito a viridarium (giardino di piante ornamentali). Noi ci troviamo nei
giardini che collegavano la parte ludica con il settore residenziale. Un antico acquedotto portava l’acqua
in tutte le parti della villa. Anche il ninfeo riceveva l’acqua dallo stesso acquedotto.
In questo luogo sostiamo anche per una seconda tappa che ci introduce ai testi degli Atti degli Apostoli che ci
fanno capire meglio quello che abbiamo già spiegato nell’Antiquarium, mostrandoci lo sguardo del
primo cristianesimo sul mondo delle divinità pagane. Un testo capitale è quello relativo
all’arrivo di Paolo ad Atene. In quell’occasione egli ebbe modo di esprimere la sua visione
del mondo pagano. Lo troviamo in At 17, 16-34. Leggerò il testo, commentandolo in alcuni passaggi.
Mentre Paolo li attendeva [Sila e Timòteo] ad Atene,
- siamo in questo passaggio fondamentale nell’esistenza di Paolo che, entrato in Europa, si sta dirigendo
verso Corinto -
fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli.
Immaginate Paolo dinanzi a statue come quelle che abbiamo visto (Paolo aveva di fronte il Partenone e
l’Acropoli di Atene); vedendole, egli “freme”, perché ha conosciuto Dio tramite
Gesù Cristo ed è per lui ormai inconcepibile la venerazione degli idoli. Paolo ha compreso il
‘mistero’, il ‘mistero’ di Dio gli è stato rivelato ed egli sa che quelli sono
solo idoli e non la vera rivelazione di Dio.
Già l’Antico Testamento aveva avuto la forza di denunciare come idoli le diverse divinità
e le loro rappresentazioni, affermando che esse sono ‘vanità’, che esse sono
‘niente’, opera delle mani dell’uomo: ‘hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non
odono...”. L’ebraismo e il cristianesimo non hanno mai accettato l’idea che tutte le religioni
siano uguali, che ognuno si possa rappresentare Dio così come gli garba. Questo sarebbe un rifiutarsi di
accogliere la rivelazione di Dio che si manifesta così come egli è in realtà.
Questo, si noti bene, non comporta il disprezzo di chi ha una fede diversa, ma certo genera il confronto anche
serrato. Paolo sente dentro di sé irrefrenabile la vocazione a mostrare che Dio è ben diverso
dalle rappresentazioni di Zeus o delle altre divinità che egli vede nelle diverse statue in Atene. Lo
stesso avrebbe fatto dinanzi al culto di Mitra se fosse già esistito al suo tempo, ma così non
era.
Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i pagani credenti in Dio...
Questo ulteriore versetto di Atti mostra la consapevolezza di Paolo che i pagani non sono atei, sono credenti
in Dio; il termine, forse, si riferisce più specificamente a qualche pagano che era anche
simpatizzante dell’ebraismo. Paolo, comunque, avverte che avevano una loro religiosità, così
come la fede cristiana sempre riconosce che la religiosità è una delle grandi dimensioni
dell’uomo. Questo è importante annunciarlo ancora più oggi: la religiosità non
è una dimensione della quale vergognarsi, ma è una delle più grandi esperienze umane.
Pensate anche alla scuola odierna che si preoccupa dell’educazione di tutte le dimensioni del bambino e del
ragazzo, da quella fisica e motoria, a quella psicologica, a quella relazionale, ecc. Nei programmi ministeriali
è chiaramente affermato che la religiosità è una dimensione costitutiva della vita del
bambino. Anche la moderna psicologia riconosce questa dimensione religiosa della sua vita. Così come nel
bambino deve essere coltivata una dimensione artistica - e questo non può avvenire se non aiutandolo ad
amare le cose belle - così bisogna avere cura di coltivare in lui non una semplice conoscenza razionale,
dottrinale, storica delle varie religioni, ma una vera e propria dimensione religiosa, una educazione
all’assoluto, al bene, alla ricerca della verità e di Dio. Questo è un grande problema
educativo oggi perché alcuni dicono, invece, che la dimensione religiosa non deve avere a che fare con la
scuola.
...e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. Anche certi filosofi epicurei e stoici
discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?». E
altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità
straniere»...
Paolo viene paragonato ad un seguace di culti orientali che voleva importarli in occidente.
...poiché annunziava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero
sull’Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata
da te? Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si
tratta». Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano
passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.
Notate questa bellissima descrizione dello spirito greco: “non avevano passatempo più gradito che
parlare e sentir parlare”. Lo spirito greco dell’Areopago e di Atene, lo spirito di Socrate,
è questo gusto della libera discussione, questo desiderio di capire la verità, di non avere temi
tabù; è il gusto di fare filosofia, di essere filosofi, di pensare e confrontare liberamente con
gli altri ciò che si è pensato. Il cristianesimo ha amato questo modo di accostarsi alla
realtà. Discutere della vita, di Dio, della fede, essere filosofi e teologi, tutto questo viene portato in
palma di mano dal cristianesimo, appartiene alle occupazioni più nobili dell’uomo.
Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse:
«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli
dei.
Paolo, riferendosi alle statue ed ai templi che aveva visitato non insulta gli ateniesi dando loro degli
‘idioti’, ma esprime che quella loro religiosità appartiene degnamente alla loro vita. Ma, a
partire da un altare che aveva visto, mostra anche la contraddizione della loro religiosità:
Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con
l’iscrizione: Al Dio ignoto.
Proprio qui a Roma, nell’Antiquarium del Museo del Palatino è custodito un altare della fine del
II secolo a.C. con un’iscrizione che recita: «Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio
Sestio, figlio di Caio Calvino pretore, per decreto del senato rifece». L’altare che Paolo deve aver
visto era simile a questo. Anche questa ara a Roma era dedicata ad una divinità ignota della quale il
donatore dell’ara non sapeva dire neanche se fosse un dio od una dea. Questo tipo di altari nascondevano
quell’atteggiamento, di cui abbiamo già parlato nell’Antiquarium, di chi, per non inimicarsi
qualcuno degli dèi, erigeva un altare anche agli dèi sconosciuti. Questo era tipico del periodo
ellenistico che dubitava sempre più dell’esistenza degli dèi della mitologia e dei culti
pubblici statali, ma non sapeva bene come raffigurarsi altrimenti la divinità e come poterla pregare.
E Paolo bene interpreta ciò che è implicito nell’esistenza di quell’altare,
perché chi erige un altare al dio ignoto, sta ammettendo di non conoscere il vero volto di Dio.
Il testo degli Atti continua, allora:
Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio.
Questa è la grande affermazione del cristianesimo: che quel Dio finora avvolto nel
‘mistero’ ora si è rivelato in Cristo. Paolo non lo ha ancora detto, ma è presupposto
in ciò che sta cominciando a dire. Paolo lo può ora annunciare, perché egli non è
più ignoto. Paolo continua, prima di arrivare a parlare di Cristo, con una catechesi sulla creazione,
mostrando al contempo come non sia possibile che Dio sia come viene rappresentato nei templi (non va dimenticato
che quei templi non sono templi qualsiasi, ma si sta parlando delle costruzioni dell’Agorà e
dell’Acropoli di Atene, degli edifici templari fra i più belli mai realizzati nel mondo
classico):
Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è
signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani
dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di
qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli
creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra.
Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché
cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché
non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto:
Poiché di lui stirpe noi siamo.
Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile
all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e
dell’immaginazione umana.
Qui chi ha studiato filosofia non può non pensare, come abbiamo già detto, a Feuerbach; Paolo lo
anticipa di 18 secoli! Il cristianesimo afferma che Dio non è come l’uomo se lo immagina, ma
come Cristo ce lo ha rivelato. Va notato che Paolo anche qui usa un doppio registro: da un lato, valorizza
ciò che i suoi ascoltatori già credono – cita i loro poeti che hanno detto “di lui
stirpe noi siamo”, un verso di Arato di Soli, poeta del III secolo a.C., originario della Cilicia,
la terra di origine di Paolo – dall’altro, allo stesso tempo, obietta su altri punti che non
condivide. Ed ecco che, dopo aver parlato del creatore, giunge a parlare di Cristo:
Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti
gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà
giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova
sicura col risuscitarlo dai morti».
Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo
deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra
volta». Così Paolo uscì da quella riunione. Ma alcuni
aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areòpago,
una donna di nome Dàmaris e altri con loro.
Le parole esprimono veramente la novità dell’evento cristiano: i tempi precedenti sono chiamati
‘tempi dell’ignoranza’, poiché nessuno aveva potuto conoscere il mistero di Dio.
Ora, però, Dio ha designato un uomo – non viene nominato, ma è ovviamente Gesù –
e la sua resurrezione è la prova certa che egli viene da Dio e giudicherà in suo nome. Proprio la
resurrezione diviene il motivo del rifiuto di ciò che Paolo sta annunciando, ma è anche il motivo
della fede che Dionigi, Dàmaris ed altri accolgono.
Un secondo testo degli Atti che mette in diretto contatto la rivelazione cristiana e la religione
greco-romana lo troviamo in At 14. Questo brano precede, quindi, quello che abbiamo appena letto. Paolo, arrivato
a Listra, compie un miracolo e la gente allora inneggia a Barnaba come fosse Zeus ed a Paolo come fosse Hermes,
perché parlava bene:
C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato.
Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede
di esser risanato, disse a gran voce: «Alzati diritto in piedi!». Egli fece un balzo
e si mise a camminare. La gente allora, al vedere
ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse: «Gli dei sono
scesi tra di noi in figura umana!». E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il
più eloquente.Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era
all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme
alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si
precipitarono tra la folla, gridando: «Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo
esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio
vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano.
Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha
cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di
frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori». E così dicendo, riuscirono a
fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio (At 14,8-28).
Qui vediamo la visione che la rivelazione cristiana ha dell’uomo, corrispettiva alla piena comprensione del
‘mistero’ di Dio. L’uomo è solo uomo; ognuno è mortale come gli altri e nessun
uomo deve avere il posto di Dio. Sarà il punto di scontro con la visione imperiale che
pretenderà un culto del proprio potere divinizzato.
Ancora negli Atti (At 19,23-41) troviamo la lotta che si scatena contro Paolo a causa di Artemide efesia.
Gli artigiani che ad Efeso costruivano le statuette della dea si ribellano contro di lui, perché egli
allontanava gli efesini dalla venerazione di Artemide; Paolo toglieva così loro il lavoro, poiché
diminuivano gli acquisti dei simulacri della dea. L’accusa è precisa:
Questo Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo di Efeso, ma si può dire di tutta
l’Asia, affermando che non sono dèi quelli fabbricati da mani d’uomo. Non soltanto
c’è il pericolo che la nostra categoria cada in discredito, ma anche che il santuario della grande
dea Artemide non venga stimato più nulla e venga distrutta la grandezza di colei che l’Asia e il
mondo intero adorano (At 19, 26-27).
Vedete la semplicità e la verità dell’affermazione di Paolo: ‘Non sono dèi
quelli fabbricati da mani d’uomo’. Paolo ha molta libertà in questo dialogo
inter-religioso ed i suoi interlocutori ne sono scossi e decidono di eliminarlo.
Torniamo adesso al nostro percorso nella villa e visitiamo le terme. Davanti a voi l’edificio
più alto è il frigidarium, il luogo adibito ai bagni in acqua fredda, del quale si conserva
il pavimento con degli splendidi marmi ed una sala absidata con colonne. I pavimenti sono in parte ricostruiti;
avendo visto le tarsie marmoree nell’Antiquarium, è possibile ora immaginarle nelle varie stanze che
visitiamo. Le basi che si vedono superstiti sostenevano colonne o statue simili a quelle viste nel piccolo
museo.
Passiamo ora nel calidarium. Sotto il piano di calpestio, ma anche alle pareti, si vedono in alcuni tratti
i resti delle condutture per l’acqua calda e il vapore. Potete vedere anche un bollo laterizio che permette
di datare questa costruzione al tempo dei Quintili. È da notare il fatto che terme private come queste
potevano essere presenti solo in ville estremamente lussuose.
Si giunge poi alla piscina del calidarium, che conteneva l’acqua calda per i bagni. Si è
conservato anche il locale con i praefurnia, le piccole caldaie che producevano l'acqua e l'aria calda
che, attraverso delle intercapedini, passava sotto il pavimento. L’ambiente del calidarium era
completamente riscaldato, le grandi finestre dalle quali entrava la luce e permettevano di vedere il panorama
esterno, erano probabilmente chiuse con dei vetri sorretti da intelaiature in piombo.
In questo momento non è possibile visitare i bellissimi cortili di rappresentanza con i pavimenti marmorei
per i lavori archeologici che sono in corso. Allontanandoci dai resti della villa vera e propria procediamo
ora verso l’Appia Antica. Risalita la collina siamo ora al suo livello; l’ingresso principale
avveniva attraverso il complesso del ninfeo. Da lì, attraversando i giardini, si giungeva alla villa che
poi declinava verso la zona dell’attuale Appia nuova. I giardini sembra avessero la forma di un ippodromo.
Il ninfeo è opera di Commodo che lo fece sistemare
con una grande vasca per le fontane. L’ambiente era completamente rivestito
di marmo con statue e colonne ed era il primo ambiente della villa che gli ospiti
ammiravano appena entrati. Nel raggiungere il ninfeo, avete visto alla vostra
sinistra una lunghissima costruzione che oggi sembra essere un lungo muraglione.
In realtà è l’antico acquedotto che, a partire da alcune
cisterne che raccoglievano l’acqua, permetteva di alimentare il ninfeo
oltre agli altri ambienti della villa.
Come potete vedere in lato, dalle murature successive, la zona del ninfeo
nel Medioevo è stata trasformata in un fortilizio sull’Appia.
Si vedono i resti delle torri. Da qui si dominava l’accesso alla città
di Roma, lungo questa importantissima via che congiunge Roma a Brindisi.
Qui nel ninfeo ci fermiamo, invece, a riflettere sullo specifico significato
che viene attribuito alla parola ‘mistero’ da san Paolo. Attraverso
alcuni suoi testi vogliamo gettare uno sguardo su cosa Paolo intenda per ‘mistero’.
La spiegazione del "mistero" nel linguaggio paolino nel Ninfeo della Villa dei Quintili |
Ci soffermiamo in particolare su 1 Cor 2,1-11. Paolo
svilupperà molto questo tema, così come lo faranno le lettere
agli Efesini ed ai Colossesi che probabilmente non sono state scritte direttamente
da lui, ma in questo testo ai Corinti il significato del ‘mistero’
cristiano risplende in maniera molto chiara. Seguiamo l’argomentare di
questo testo con il quale Paolo introduce il ‘mistero’.
Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato
ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza.
Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non
Gesù Cristo, e questi crocifisso.
L’annunzio nasce qui chiaramente dal dono di aver incontrato e conosciuto
Cristo crocifisso. Paolo non ha nessun altra sapienza propria o altrui,
ma ha conosciuto il Signore crocifisso.
Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e
la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza,
ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la
vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza
che non è di questo mondo...
Paolo afferma che la sapienza di cui parla è diversa da tutte le altre
che l’uomo ha sin qui conosciuto. Essa viene da Dio.
...né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla.
I dominatori di questo mondo, siano essi uomini o divinità create
dagli uomini, sono per Paolo ‘nulla’. I cristiani avranno sempre
questa convinzione ferma; più tardi saranno chiamati ‘atei’
nel periodo delle persecuzioni, perché diranno che le divinità
pagane non esistono e che gli imperatori non sono dèi. La fede cristiana
diviene subito il criterio per distinguere ciò che è vero e ciò
che non lo è, per smascherare i falsi dominatori che si atteggiano a
dèi, ma che sono ‘nulla’. San Giustino, un padre della chiesa
di cui parleremo maggiormente l’anno prossimo, sarà chiamato
‘ateo’ perché affermerà che per lui gli dèi
pagani sono nulla, non esistono, così come non esistono Mitra e gli
altri dèi.
Parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è
rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria.
Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla.
Ecco comparire il termine ‘mistero’, nella sua forma aggettivale
- ‘misteriosa’ - nella lettera ai Corinti. Il ‘mistero
è rimasto nascosto’ fino ad oggi. Perché? Perché
l’uomo non ha la forza di svelare con le proprie forze il ‘mistero’
di Dio. La conoscenza di Dio non avviene perché l’uomo è
in grado di elevarsi al cospetto di Dio. Nessuno dei dominatori di questo mondo
ha mai avuto e mai avrà questa possibilità.
Se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della
gloria. Sta scritto infatti:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
Quel ‘mistero’ che era rimasto nascosto ora Dio lo ha rivelato,
donando al mondo Gesù. Mai l’occhio umano aveva visto nessuno
come il Cristo, mai l’orecchio umano aveva mai sentito le cose che ora
l’annuncio cristiano rivela, mai il cuore umano aveva compreso Dio ed
il suo amore, così come Cristo ce lo ha ora rivelato. Quel ‘mistero’
era tale, perché non poteva essere l’uomo a svelarlo, ma solamente
Dio poteva rivelarlo. Ed, infatti, egli aveva ‘preparato’ queste
cose per coloro che lo amano: tutta la storia della salvezza era stata voluta
da Dio come una progressiva preparazione alla rivelazione del suo ‘mistero’.
Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito;
lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio.
Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo
che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti
conoscere se non lo Spirito di Dio.
È un versetto che io amo molto; in esso si istituisce come un parallelo
tra il mistero del Dio rivelato ed il mistero dell’uomo che si rivela
agli altri. Paolo dice che nessuno conosce veramente un uomo ed i suoi segreti,
se quell’uomo non si racconta, se non fa accedere gli altri al suo
cuore, a ciò che desidera e vuole. Infatti, gli uomini possono ingannare
gli altri, apparendo in un modo, ma avendo nel loro cuore altro.
Come faccio io a conoscere il tuo cuore se tu non mi racconti chi sei? Voi sapete
bene - perché fa parte dell’esperienza comune - che una persona
può nascondere ciò che pensa, può essere buona e sembrare
cattiva o il contrario. Neanche un padre o una madre riescono a forzare la porta
che gli permetterebbe di conoscere il segreto del proprio figlio. Nel cuore
di ogni uomo c’è un segreto che solo lui, e colui al quale lui
decide di rivelarlo, può conoscere. Quando una persona si apre e
racconta di sé, solo allora può nascere la vera comunione con
l’altro.
Allo stesso modo, anzi a maggior ragione, ciò avviene con Dio.
Noi non possiamo conoscere il segreto di Dio, il suo ‘mistero’.
Non riusciamo a capire come è fatto un altro, a volte non capiamo nemmeno
noi stessi, figuriamoci se possiamo comprendere Dio con le nostre forze! Però
noi – dice Paolo - abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio. Dio, dandoci il
suo Figlio e dandoci lo Spirito del suo Figlio, si è fatto conoscere
a noi, ci ha raccontato il suo ‘segreto’, chi egli è veramente.
Perché noi possiamo dire di conoscere Dio? Solo perché Lui si
è fatto conoscere in Cristo. Così come noi possiamo dire di conoscere
un altro, non perché l’abbiamo capito da noi stessi, ma perché
l’altro si è raccontato sinceramente, veramente, a noi. Ecco, questo
‘mistero’ è l’unica cosa che Paolo sa. Questo ‘mistero’
nascosto ed ora rivelato è ciò che egli annuncia.
Qui è evidente che, nella teologia cristiana, ‘mistero’
non vuole dire ‘irrazionale’, ‘assurdo’, ‘ciò
di cui non si capisce niente’, ma vuol dire piuttosto ‘ciò
che può essere compreso solo se viene rivelato’. Nella Lettera
ai Romani ed in quelle agli Efesini ed ai Colossesi voi troverete l’impiego
del termine ‘mistero’ nello stesso significato e nello stesso sviluppo
storico: era un ‘mistero’, ma ora Dio lo ha fatto conoscere. Così
dice la lettera ai Colossesi:
Di essa [della chiesa] sono diventato ministro, secondo la missione affidatami
da Dio presso di voi di realizzare la sua parola, cioè il
mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi,
ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in
mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria
(Col 1,25-27).
Il ‘mistero’ è ‘Cristo in voi’. Insisto su questo,
perché è molto importate: la parola mistero vuol dire non che
di Dio non si possa capire nulla, come pensano alcuni, ma che di Dio si può
capire solo ascoltandolo dal suo stesso cuore, solo a partire dal dono del
suo Figlio, Gesù Cristo.
È perché Paolo ha conosciuto la pienezza della rivelazione di
Dio in Cristo che ha il criterio di discernimento per capire ciò che
è conforme alla verità su Dio e ciò che è contrario
nelle diverse religioni. Il brano degli Atti che racconta del discorso all’Areopago
che abbiamo letto prima ci fa vedere proprio questo. Paolo accoglie i riferimenti
alla creazione contenuti nel pensiero pagano e rifiuta la venerazione degli
idoli, l’uno e l’altro a partire da Cristo.
Voi capite allora l’atteggiamento che il cristianesimo ha verso le
altre religioni, perché le sa apprezzare e perché le sa criticare.
Il cristianesimo, infatti, da un lato ha un grande rispetto per le religioni,
perché riconosce che nell’anelito dell’uomo verso Dio c’è
del bene, e anche che ci sono dei frammenti di verità pienamente conformi
a Cristo nelle religioni.
Ma d’altro canto pone Cristo come criterio. Dove qualcosa è
dissimile da Cristo, dove addirittura qualcosa è ostile a Cristo, lì
si manifesta che quell’aspetto non conduce alla verità di Dio.
È un atteggiamento che potremmo definire anceps, che sa accogliere
le cose belle, ma che sa vedere il male. In una stessa religione il cristianesimo
sa cogliere il positivo, ma insieme non si chiude gli occhi dinanzi al negativo.
L’atteggiamento della fede cristiana dinanzi alle altre religioni non
si lascia, insomma, rinchiudere né in un rifiuto, né in una approvazione,
in una omogeneizzazione, come se tutte le forme religiose fossero uguali e l’una
valesse l’altra.
Siamo appena usciti dal ninfeo della villa dei Quintili e
ci troviamo ora sull’Appia antica. Fra breve la percorreremo per circa
quattro chilometri, fino ad arrivare alla tomba di Cecilia Metella. La percorreremo
nella stessa direzione nella quale l’ha percorsa Paolo per venire a
Roma. Il viaggio della prigionia, per giungere a Roma, è in realtà
anch’esso un viaggio apostolico. Paolo vuole venire a Roma per annunziare
il vangelo.
Sappiamo che ad Efeso si è chiarificato in lui questo desiderio.
Sappiamo che egli ha scritto la lettera ai Romani probabilmente da Corinto,
proprio per preparare questo viaggio – non torneremo a parlare della Lettera
ai Romani, perché ne abbiamo già parlato durante l’incontro
nella basilica dell’Ara Coeli. Sappiamo soprattutto che è stato
Gesù risorto a chiedergli di venire a Roma, come affermano esplicitamente
gli Atti. Mentre Paolo, infatti, era recluso nella Fortezza Antonia, a Gerusalemme,
in attesa di giudizio e perché i giudei non lo uccidessero, gli apparve
il Signore che gli disse:
Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è
necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma (At 23, 11).
Secondo questo racconto degli Atti il nome della nostra città di Roma
è stato pronunziato da Cristo stesso, in quella notte, perché
fosse evidente a Paolo che doveva recarsi fin qui. Sappiamo che Paolo fece naufragio
nel Mediterraneo, che tutti si salvarono approdando a Malta, che di lì
veleggiarono fino a Siracusa, poi fino a Reggio Calabria ed, infine, fino a
Pozzuoli, che era il grande porto della flotta romana sul Tirreno.
Sull'Appia antica: la spiegazione dell' "economia divina" in san Paolo |
Da Pozzuoli a Roma Paolo giunse a piedi, seguendo il percorso
dell’Appia. In numerosi luoghi l’Appia è ancora visibile,
per esempio, nello scavo archeologico dell’antica Minturno. Gli Atti ci
raccontano anche che i fratelli di Roma gli vennero incontro fino al Foro di
Appio, che è localizzato nell’odierna Borgo Faiti, ed ancora ad
un luogo detto Tre Taverne che dovrebbe essere l’odierna Cisterna od una
località detta Pizzo Cardinale.
Paolo quindi percorse esattamente la strada che ora percorreremo noi. I nostri
passi calpesteranno il selciato che egli ha calpestato. Paolo non era solo
in questo viaggio, ma c’era con lui anche Luca, poiché i
brani finali degli Atti fanno parte delle famose ‘sezioni-noi’ di
cui abbiamo già parlato più volte. C’erano i fratelli di
Roma che gli erano andati incontro al Foro di Appio ed alle Tre taverne, forse
Aquila e Priscilla. E c’era anche il centurione Giulio che lo teneva in
custodia.
Perché Paolo ha viaggiato tanto? Perché egli ha accolto la rivelazione
del ‘mistero’ di Dio e, a partire da questo, ha compreso che anche
la storia umana ha un senso. Egli ha viaggiato perché si sentiva debitore
con tutti del dono che aveva ricevuto; aveva compreso di averlo ricevuto
per condividerlo con altri.
Per questo Paolo accettò di percorrere le distanze dei suoi quattro viaggi
per raccontare di questo Dio e del suo Cristo e del valore che la vita umana
acquistava, illuminata da tutto questo. Uno studioso, il padre De Lorenzi, ha
calcolato le distanze percorse da Paolo e ha concluso che l’apostolo,
nei suoi quattro viaggi missionari, incluso quello fino a Roma, ha percorso
16.500 chilometri, a piedi o in barca (il testo è on-line con il
titolo Itinerari dell’apostolo
Paolo). E tutto questo solo per annunciare il vangelo.
Vi invito a percorre fino alla prossima strada il percorso in silenzio, in maniera
da meditare sulla sua storia che ci rivela la misericordia di Dio. Per rendere
ancora più viva la memoria della fatica fatta da Paolo nell’annuncio
del vangelo, vi leggo ancora un brano di Paolo, 2Cor 11,21-33, che mediterete
poi in silenzio durante il percorso. In questo testo Paolo, accusato di non
essere un vero apostolo, risponde dicendo che avrebbe ben di che vantarsi, ma
che l’unico vanto che ha è l’opera di Cristo in lui:
In quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io.
Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo?
Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono
più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle
prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di
morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi.
Notate che qui è Paolo stesso che parla; la seconda lettera ai
Corinti è unanimemente riconosciuta come lettera autentica di Paolo.
Paolo ci dice di essere stato flagellato cinque volte. Non solo:
Tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato
lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in
balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi,
pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli
nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte
di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti
digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano,
la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io
non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?Se è necessario
vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e
Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che
non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava
la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra
fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle
sue mani.
Camminiamo ora in silenzio verso Roma, meditando tutto questo.
Sull'Appia antica, camminando sui passi di Paolo verso Roma |
Lungo la via Appia abbiamo incontrato numerose tombe. Ci fermiamo
ora dinanzi alla cosiddetta Tomba del frontespizio, una tomba di quattro
fratelli o di genitori con i loro figli, una tomba familiare insomma, di una
famiglia nobile. La tomba è del I secolo a.C., quindi quando Paolo è
passato l’ha vista. Vicino abbiamo la tomba detta dei Festoni perché
vi sono raffigurati dei putti che sorreggono dei festoni. Qui troviamo tombe
già esistenti al tempo di Paolo e reperti successivi. La Villa dei Quintili
non c’era all’epoca di Paolo, ma questa tomba del Frontespizio era
già stata realizzata.
Presso la Tomba detta del Frontespizio (I sec. a.C.), leggendo le lettere pastorali a Timoteo e Tito |
Paolo è giunto a Roma, camminando per questa via, qui
poco prima del 60. Si discute se sia morto nel 64 insieme a Pietro o
nel 67. Se è stato martirizzato nel 67 potrebbe aver abitato a Roma addirittura
per 7-8 anni, ma la sua permanenza è stata lunga anche nell’ipotesi
che il suo martirio sia avvenuto nel 64. Deve, quindi, aver conosciuto bene
la città; deve aver visto molti degli antichi edifici dinanzi ai quali
passiamo ogni volta che ci rechiamo al centro.
Alcuni studiosi sostengono che Paolo abbia fatto un ulteriore viaggio in Spagna
e quindi sia stato in realtà un numero minore di anni a Roma, ma non
c’è alcuna sicurezza di questo evento. Nella Lettera ai Romani
Paolo dice chiaramente che il suo desiderio di passare a Roma è in vista
di questo viaggio in Spagna, ma non sappiamo se sia poi riuscito a raggiungere
la penisola iberica. Questa intenzione è comunque un ulteriore segno
del desiderio missionario che lo animava; a Paolo non bastava essere arrivato
a Roma, voleva proseguire ancora oltre.
In questa ultima tappa di questo nostro pellegrinaggio vogliamo soffermarci
sulla seconda lettera a Timoteo e, più in generale, sulle lettere
pastorali. Oltre alla Lettera ai Romani che abbiamo già commentato all’Ara
Coeli, anche questa lettera dell’epistolario paolino è chiaramente
legata a Roma. La lettera si presenta, infatti, come inviata da Roma a Timoteo
che invece risiede ad Efeso.
Non siamo certi che ciò sia storicamente avvenuto – poiché
l’autenticità della lettera, come vedremo, è discussa -
ma se fosse vero ciò vorrebbe dire che il latore della lettera ha
effettuato il cammino che noi abbiamo appena percorso in senso inverso.
La prima e la seconda lettera a Timoteo e la lettera a Tito sono chiamate
“lettere pastorali” perché si presentano come degli scritti
indirizzati a questi due personaggi che erano ‘pastori’, cioè
vescovi, ad Efeso ed a Creta. Probabilmente la loro redazione non è direttamente
paolina; sono dei testi ‘di origine apostolica’ – direbbe
la Dei Verbum, come abbiamo visto altre volte - ma non scritti direttamente
da S.Paolo. Contengono però una serie di dati di chiara rilevanza storica.
In particolare, non si riesce a capire come sia possibile l’esistenza
di testi con particolari così dettagliati sulle vicende personali di
Paolo, ma non di sua mano, poiché il linguaggio delle ‘pastorali’
è diverso da quello delle lettere sicuramente autentiche.
Il prof. Giancarlo Biguzzi, massimo studioso italiano dell’Apocalisse,
ha ipotizzato – e l’ipotesi a me sembra convincente - che
queste lettere siano state scritte dallo stesso Timoteo. Timoteo è
il grande discepolo di Paolo, è la persona che Paolo ha avuto di più
vicino a sé nella sua missione. Molte lettere paoline sicuramente autentiche
sono scritte da Paolo insieme a Timoteo, come dice la loro intestazione. Timoteo
allora - questa è la tesi del prof. Biguzzi - avendo un’infinità
di materiale paolino di prima mano, poiché Paolo parlava a Timoteo direttamente,
potrebbe aver composto dei collages di parole che Paolo ha veramente pronunciato
negli anni in sua presenza. Timoteo, ricordando a volte in modo frammentario
le parole di Paolo, avrebbe messo insieme questo materiale ottenendo così
le lettere a Timoteo ed a Tito; questi testi sono, in effetti, un po’
raccogliticci, non hanno sempre un ordine chiarissimo e si passa talvolta da
un argomento all’altro. Questa strana disposizione del materiale dipenderebbe,
in questa ipotesi, dal tentativo di Timoteo di conservare tutto ciò che
ricordava di Paolo e che non era contenuto nelle lettere maggiori dell’apostolo.
Presso la Tomba detta del Frontespizio (I sec. a.C.), leggendo le lettere pastorali a Timoteo e Tito |
Per conoscere queste importanti lettere, partiamo da 2Tm 4,
dove troveremmo, se questa ipotesi è vera, delle parole realmente pronunciate
da Paolo, sebbene poi riscritte e riorganizzate da Timoteo:
Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione
ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona
battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi
consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che
attendono con amore la sua manifestazione (2 Tim 4,6-18).
Questa espressione “sciogliere le vele” (letteralmente si parla
solo di “scioglimento”) è simile ad un passaggio della prima
lettera ai Corinti nel quale Paolo usa l’espressione “il tempo ha
ammainato le vele” (1 Cor 7, 29) per indicare che, con la venuta di Cristo,
il tempo è ormai alla sua fine, ha raggiunto il suo apice e la sua
definitività. L’immagine è quella di una nave che, dopo
aver fatto una traversata, sta entrando in porto. Quando si entra nel porto,
se si mantengono le vele spiegate, il vento spinge la nave con violenza contro
il molo, mentre invece la nave deve diventare più maneggevole, senza
più la forza del vento che la sospinge. Paolo è perciò
arrivato alla fine della vita.
Gli sono rimaste le ultime ore da vivere ed, in questa circostanza, afferma
che la cosa più importante è che ha conservato la fede.
Mi viene qui in mente una battuta di un vescovo che, dinanzi alla farsa del
matrimonio di Milingo, aveva commentato che più grave ancora del fatto
in sé era questo connubio con la chiesa del reverendo Moon: questo significava,
infatti, che un vescovo cattolico aveva perso la fede in Cristo, significava
che quell’uomo si avvicinava a terminare la corsa avendo perso la stessa
fede della quale come vescovo avrebbe dovuto, invece, essere testimone!
Paolo afferma che la fede cristiana è stata il punto fermo della sua
vita; sta per arrivare in porto e la sua fede non è mai cambiata.
E continua:
Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbondonato avendo
preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente
è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è
con me.
Luca è probabilmente l’evangelista; ricordate che
ne abbiamo parlato nel corso dell’incontro sugli Atti degli Apostoli.
Raramente noi romani ci ricordiamo che Paolo ha passato alcuni anni nella nostra
città, ma ancor meno ci soffermiamo a pensare che anche Luca è
passato per questa via ed ha abitato in Roma.
Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile
per il ministero.
Non siamo sicuri che questo Marco sia l’evangelista; se lo fosse,
avremmo la presenza in due versetti successivi dei nomi di due degli autori
dei vangeli.
Ho inviato Tìchico a Efeso. Venendo, portami il mantello
che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene.
Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà
secondo le sue opere; guàrdatene anche tu, perché è stato
un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia prima difesa in
tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato.
Notate di nuovo come sono personali queste parole. Potrebbero essere
state scritte da Timoteo, perché le aveva ascoltate da Paolo stesso.
Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però
mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si
compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili:
e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà
da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei
secoli dei secoli. Amen.
Si noti in questi versetti appena letti la fiducia di Paolo che sa di essere
prossimo al martirio, ma continua a confidare nella presenza di Dio non
per essere strappato alla morte, ma per giungere dopo la morte al ‘regno
eterno’.
Un secondo elemento che voglio sottolineare dopo questi riferimenti chiari al
martirio di Paolo ed alla sua situazione personale in quel frangente, è
il fatto che Timoteo viene presentato come un cristiano della terza generazione.
La seconda lettera a Timoteo dice così:
Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima
nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono
certo, anche in te (2 Tim 1,5).
Timoteo non è diventato cristiano da adulto, ma è stato battezzato
da bambino e ha ricevuto la fede dalla nonna e dalla madre, esattamente come
avviene per i nostri bambini. Viene subito in mente il riferimento alla
situazione odierna del catecumenato e dell’iniziazione cristiana. Noi
avremo sempre nella chiesa dei cristiani che sono diventati tali senza essere
stati battezzati da piccoli, perché provenienti da altre religioni o
perché i genitori erano atei o, in questi decenni, perché erano
semplicemente sessantottini. Ma avremo sempre anche persone che, come Timoteo,
sono cristiani fin da piccoli, a motivo dei loro genitori.
Infatti, anche uno che diventasse cristiano solo da adulto, non appena si sposa
ed ha dei bambini, si trova dinanzi al problema dell’educazione cristiana
dei figli e, quindi, della catechesi; i figli dei cristiani fin dalle origini,
fin dal NT, sono educati cristianamente fin da piccoli.
Quindi è un grave errore disprezzare il catecumenato degli adulti o,
all’opposto, il battesimo degli infanti e la catechesi dell’iniziazione
cristiana dei bambini. La chiesa ha sempre conosciuto due modi di diventare
cristiani: da adulti se solo allora si incontra un annunciatore del vangelo
o da bambini se si hanno dei genitori cristiani.
Anche i testi dei Padri apostolici chiariranno subito questo. La Didachè
(IV, 9) dice già nel I secolo:
Non alzare la mano su tuo figlio o su tua figlia, ma dalla fanciullezza li
educherai nel timore di Dio.
E la Lettera di Barnaba (XIX, 5):
Non ti disinteresserai di tuo figlio e di tua figlia, ma insegnerai loro
il timore di Dio fin dalla fanciullezza.
Nel capitolo terzo la seconda lettera a Timoteo specifica ulteriormente questa
importanza dell’educazione cristiana dei figli fin dalla tenera età:
Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto,
sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia
conosci le sacre Scritture (2 Tim 3,14-15).
Questo significa che la mamma Eunìce e la nonna Lòide hanno fatto
a Timoteo, sin da bambino, una catechesi familiare, gli hanno insegnato la bellezza
della fede. Chi ha dei bambini non può non donare loro, sin da piccoli,
il tesoro della Scrittura e della fede.
Sull'Appia antica, camminando sui passi di Paolo verso Roma |
Un terzo aspetto che voglio sottolineare di questa lettera
è l’attenzione che essa dedica al fatto che la fede deve essere
trasmessa di generazione in generazione. Proprio le lettere pastorali, per
il fatto stesso che sono probabilmente successive alla morte di Paolo, ci sono
testimoni di cosa succede quando la fede dura nel tempo. L’autore scrive:
Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita
in noi (2 Tim 1,14).
Paolo invita a custodire “il buon deposito”. L’espressione
‘deposito della fede’ viene usata per la prima volta nelle lettere
a Timoteo. Essa sottolinea che è stato fatto un dono che è la
fede e che quella precisa fede non deve essere alterata, bensì custodita
integra. Questo non toglie che essa possa essere trasmessa in maniera sempre
nuova, ma il suo contenuto deve essere custodito. Anche oggi viviamo la stessa
dinamica quando, ad esempio, ci sono dei catechisti che formano nuovi catechisti
che a loro volta ne formeranno altri. In questi passaggi l’annuncio di
Gesù e del Padre, la fede del Simbolo, non devono essere alterati.
È evidente, invece, che l’autore della seconda lettera a Timoteo
è preoccupato perché contro il deposito sorgono dei
falsi profeti che stravolgono il cristianesimo. La prima lettera a Timoteo
fornisce anche un chiaro esempio di una alterazione del messaggio di Gesù
che Timoteo è chiamato a denunciare: alcuni cominciano a dire che
le realtà materiali sono cattive in sé. In particolare alcuni
hanno cominciato a vietare il matrimonio, hanno iniziato a dire che chi si sposa
non è più cristiano e che solo chi è celibe e vergine segue
davvero Gesù. Nella stessa linea hanno iniziato a predicare che esistono
dei cibi permessi e degli altri proibiti. Paolo afferma che queste sono dottrine
diaboliche. L’apostolo, istruito da Cristo, afferma che coloro che vietano
di mangiare tutti i cibi sono delle persone ispirate dal diavolo.
Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno
dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti
dall’ipocrisia di impostori, gia bollati a fuoco nella loro coscienza.
Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da
alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai
fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto ciò che
è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando
lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene
santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera (1 Tim 4,1-5).
Abbiamo già parlato del vangelo di Marco e abbiamo visto come sia un
testo sicuramente romano, di origine latina. Esso contiene quel versetto straordinario
nel quale Gesù dice:
«Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto
ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché
non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava
così mondi tutti gli alimenti (Mc 7,18-19).
La chiosa di Marco alle parole di Gesù – “dichiarava così
mondi tutti gli alimenti” - fa capire come il cristianesimo è
l’unica religione che non ha cibi proibiti. I vegetariani sono liberi
di alimentarsi come vogliono, ma non difendano la loro scelta dicendo che mangiare
la carne fa entrare la violenza nell’uomo! La carne si può mangiare
tranquillamente, anche S.Francesco l’ha mangiata. Non c’è
nessun cibo impuro, perché è Dio che ha fatto tutti i cibi. Così
si può mangiare il maiale e bere il vino. A questo proposito c’è
un altro versetto divertente in cui Paolo così si rivolge a Timoteo:
Smetti di bere soltanto acqua, ma fà uso di un po’ di
vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni
(1 Tim 5,23).
Non solo il vino è permesso, ma Paolo lo consiglia per la salute.
Il peccato non consiste nel mangiare o bere quel determinato cibo o bevanda,
ma piuttosto nel farlo senza ringraziare Dio, senza benedirlo per i suoi doni.
Solo la mancanza di gratitudine per ciò che si riceve è peccato:
l’impurità non deriva dai cibi in sé, come se essi fossero
divisi nelle categorie del puro e dell’impuro, ma dal cuore umano. Il
cuore umano, questo sì può essere puro od impuro.
Le lettere pastorali non solo rivolgono il loro sguardo indietro a mostrare
la storia che Dio ha proseguito nelle generazioni successive a quelle dei primi
credenti che hanno conservato il ‘deposito’ ricevuto, ma altresì
invitano a guardare avanti perché la storia della chiesa possa continuare.
Paolo chiede a Timoteo, che ha già avuto una nonna ed una mamma credente,
di formare dei discepoli che siano a loro volta capaci di formare altri discepoli:
Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in
Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni,
trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro
volta anche altri (2 Tim 2, 1-2).
Se applichiamo questa esortazione alla nostra esperienza nelle parrocchie, possiamo
comprendere come lo stesso valga per i catechisti. L’atteggiamento giusto
non è quello possessivo di chi ritiene il suo servizio un “posto”
da difendere e guarda con diffidenza a coloro che potrebbero sostituirlo, ma
anzi quello aperto e generoso di chi cerca di formare dei catechisti che,
a loro volta, ne possano formare altri.
Ci soffermiamo, infine, su di un ultimo punto. Paolo dà delle regole
per i vescovi, i presbiteri, i diaconi ed anche per le vedove. Non è
così chiaro se il vescovo ed il presbitero fossero già delle figure
distinte in maniera perfettamente chiara e gli studiosi discutono di questo.
Voglio, però, attirare la vostra attenzione piuttosto sulla questione
delle vedove perché anche qui la riflessione paolina mostra la straordinaria
novità della visione cristiana.
È già interessante che il cristianesimo abbia il coraggio di parlarne.
In altre religioni le donne smettono praticamente di vivere quando restano vedove,
non possono più fare niente, non si possono risposare, ma neanche sono
valorizzate nella loro nuova situazione; in una parola, sono come dei pesi morti
della società, vengono separate dal tessuto vivo delle relazioni. Nel
cristianesimo invece la vedova ha un suo ruolo, proprio per la dignità
che ha ogni persona, di ogni sesso ed in ogni età o situazione di
vita.
Paolo prospetta due possibilità, ma chiede di essere chiari nelle
scelte. Una vedova deve chiarire se si vuole risposare, e allora lo può
fare, o se vuole entrare nel collegio delle vergini, cioè in quel gruppo
che, non avendo più l’impegno pressante di una famiglia da curare
perché i figli sono ormai grandi ed il marito è morto, decide
di dedicarsi pienamente alla preghiera ed al servizio della Chiesa:
Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; ma se una vedova ha figli
o nipoti, questi imparino prima a praticare la pietà verso
quelli della propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori,
poiché è gradito a Dio (1 Tim 5,3-15).
Una vedova viene considerata tale, libera perciò di operare una scelta,
solo dopo essersi donata ai figli e solo quando questi sono diventati indipendenti.
Il testo continua:
Quella poi veramente vedova e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza
in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al
contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già
morta. Proprio questo raccomanda, perché siano irreprensibili. Se poi
qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia,
costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. Una
vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni,
sia andata sposa una sola volta, abbia la testimonianza di opere
buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità,
lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato
ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle
perché, non appena vengono prese da desideri indegni di Cristo, vogliono
sposarsi di nuovo.
Il testo è divertente nel suo realismo; esagera, ma per
far capire il problema che c’è dietro. La lettera invita a verificare
se le vedove più giovani abbiano preso una vera decisione definitiva
di consacrarsi al Signore non cercando una nuova relazione oppure se, in cuor
loro, siano piuttosto disponibili a nuovi affetti. In questo secondo caso, possono
crearsi una nuova famiglia, ma è bene che non siano annoverate fra le
vedove! Il testo prosegue descrivendo la situazione che si verrebbe a creare
se restassero in una via di mezzo:
Si attirano così un giudizio di condanna per aver trascurato la loro
prima fede. Inoltre, trovandosi senza far niente, imparano a
girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole
e curiose, parlando di ciò che non conviene. Desidero quindi che le più
giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all’avversario
nessun motivo di biasimo. Gia alcune purtroppo si sono sviate
dietro a satana.
Vedete come la chiesa ha sempre dovuto affrontare non solo le grandi questioni,
ma anche i quotidiani problemi delle persone. Siamo ancora nel I secolo
d.C. ma l’esistenza di famiglie nelle quali uno dei due coniugi è
morto si è già presentata. Cosa si fa della vita di chi è
vedovo? Che consiglio dare loro? Come aiutarli a vivere bene anche quella tappa
della loro vita?
Le lettere pastorali ci fanno incontrare i problemi che la chiesa antica si
è trovata ad affrontare man mano che passava il tempo e le generazioni
si succedevano, con i figli ed i nipoti che nascevano, con i primi lutti e le
prime vedovanze. Anche queste nuove situazioni dovevano essere vissute alla
luce del vangelo di Cristo. Le lettere a Timoteo ed a Tito chiedono anche ai
vescovi di non essere iracondi o schiavi del troppo vino - cose che evidentemente
accadevano a qualcuno. Chiedono che non si faccia vescovo chi non sa parlare
ed esortare efficacemente gli altri, che chi viene scelto come vescovo sia
“bene accetto a quelli di fuori”: chi diventa vescovo, cioè,
non deve essere stimato solo dalla comunità, ma anche al di fuori di
essa.
In un altro passaggio si invita a pregare per gli imperatori e per chi
governa, perché dalle loro scelte dipende la pace ed il benessere di
tutti. È un ulteriore testimonianza della piena accettazione dello stato
da parte del cristianesimo fin dalle sue origini e della consapevolezza dell’importanza
della vita civile: per essa si deve pregare.
- la Villa prende il nome dai due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, che furono
consoli nell’anno 151 d.C.; furono personaggi di rilievo nella Roma di Antonino Pio e Marco Aurelio; nel
182 Commodo li fece uccidere, accusandoli di attentare alla sua vita; da quel momento la Villa passò nella
proprietà imperiale
Il “mistero” di Dio
Per approfondire, vedi nella sezione Percorsi tematici, Sacra Scrittura del sito www.gliscritti.it :
- non solo la filologia, ma l’umanesimo; il mondo classico come ricerca di armonia
-il “mistero” di Dio nel paganesimo
- c’è anche una lastra riutilizzata con l’acrostico cristiano IXTHYS
- la ricerca di Dio antica e moderna, espressione della dimensione religiosa che abita il cuore
dell’uomo
- mistero come “inconoscibilità” di Dio nel paganesimo
- mistero da “gestire” (cfr. i sacrifici e gli ex voto)
- mistero come “esclusività” nel culto di Mitra (solo per i maschi) e nei culti misterici
delle nuove divinità
At 1716Mentre Paolo li attendeva [Sila e Timòteo] ad Atene, fremeva nel suo spirito al
vedere la città piena di idoli. 17Discuteva frattanto nella sinagoga con i Giudei e i
pagani credenti in Dio e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava. 18Anche
certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: «Che cosa vorrà mai
insegnare questo ciarlatano?». E altri: «Sembra essere un annunziatore di divinità
straniere»; poiché annunziava Gesù e la risurrezione. 19Presolo con sé,
lo condussero sull'Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina
predicata da te? 20Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che
cosa si tratta». 21Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non
avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.
22Allora Paolo, alzatosi in mezzo all'Areòpago, disse:
«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. 23Passando infatti
e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello
che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e
tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi
costruiti dalle mani dell'uomo 25né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se
avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa.
26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la
faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio,
27perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni,
benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto:
Poiché di lui stirpe noi siamo.
29Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all'oro,
all'argento e alla pietra, che porti l'impronta dell'arte e dell'immaginazione umana. 30Dopo esser
passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi,
31poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia
per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai
morti».
32Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero:
«Ti sentiremo su questo un'altra volta». 33Così Paolo uscì da quella
riunione. 34Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro
dell'Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.
At 14 8C'era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai
camminato. 9Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che
aveva fede di esser risanato, 10disse a gran voce: «Alzati diritto in piedi!». Egli
fece un balzo e si mise a camminare. 11Lagente allora, al vedere ciò che Paolo
aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse: «Gli dei sono scesi tra di noi in figura
umana!». 12E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il
più eloquente.
13Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all'ingresso della città, recando alle
porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. 14Sentendo ciò, gli
apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando:
15«Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi
predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e
tutte le cose che in essi si trovano. 16Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni
popolo seguisse la sua strada; 17ma non ha cessato di dar prova di sé
beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di
letizia i vostri cuori». 18E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla
dall'offrire loro un sacrificio.
19Ma giunsero da Antiochia e da Icònio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la
folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto.
20Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno
dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe.
21Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli,
ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, 22rianimando i discepoli ed esortandoli a restare
saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel
regno di Dio. 23Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere
pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. 24Attraversata poi la
Pisidia, raggiunsero la Panfilia 25e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad
Attalìa; 26di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del
Signore per l'impresa che avevano compiuto.
27Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva
compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. 28E si fermarono per non
poco tempo insieme ai discepoli.
At 19, 23 Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina.
24Un tale, chiamato Demetrio, argentiere, che fabbricava tempietti di Artèmide in argento e
procurava in tal modo non poco guadagno agli artigiani, 25li radunò insieme agli altri che si
occupavano di cose del genere e disse: «Cittadini, voi sapete che da questa industria proviene il nostro
benessere; 26ora potete osservare e sentire come questo Paolo ha convinto e sviato una
massa di gente, non solo di Efeso, ma si può dire di tutta l'Asia, affermando che non sono dèi
quelli fabbricati da mani d'uomo. 27Non soltanto c'è il pericolo che la nostra categoria
cada in discredito, ma anche che il santuario della grande dea Artèmide non venga stimato più
nulla e venga distrutta la grandezza di colei che l'Asia e il mondo intero adorano».
28All'udire ciò s'infiammarono d'ira e si misero a gridare: «Grande è
l'Artèmide degli Efesini!». 29Tutta la città fu in subbuglio e tutti si
precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco macèdoni, compagni di
viaggio di Paolo. 30Paolo voleva presentarsi alla folla, ma i discepoli non glielo permisero.
31Anche alcuni dei capi della provincia, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non avventurarsi
nel teatro. 32Intanto, chi gridava una cosa, chi un'altra; l'assemblea era confusa e i più
non sapevano il motivo per cui erano accorsi.
33Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i Giudei avevano spinto avanti, ed
egli, fatto cenno con la mano, voleva tenere un discorso di difesa davanti al popolo. 34Appena
s'accorsero che era Giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: «Grande è
l'Artèmide degli Efesini!». 35Alla fine il cancelliere riuscì a calmare la
folla e disse: «Cittadini di Efeso, chi fra gli uomini non sa che la città di Efeso è custode
del tempio della grande Artèmide e della sua statua caduta dal cielo? 36Poiché
questi fatti sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti.
37Voi avete condotto qui questi uomini che non hanno profanato il tempio, né hanno bestemmiato
la nostra dea. 38Perciò se Demetrio e gli artigiani che sono con lui hanno delle ragioni da far
valere contro qualcuno, ci sono per questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l'un
l'altro. 39Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell'assemblea ordinaria.
40C'è il rischio di essere accusati di sedizione per l'accaduto di oggi, non essendoci alcun
motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento». 41E con queste parole sciolse
l'assemblea.
- Marco Aurelio, A se stesso
[Ho imparato] da Apollonio: l'atteggiamento libero e senza incertezze nel non concedere nulla alla sorte e nel
non guardare, neppure per poco, a nient'altro che alla ragione; restare sempre uguali, nei dolori acuti, nella
perdita di un figlio, nelle lunghe malattie; aver visto con chiarezza, in un modello vivo, che la stessa persona
può essere molto energica e pacata (libro I, 8).
Io sono nato per guidarli, come l'ariete guida il gregge o il toro la mandria. Risali però a monte,
partendo da questa constatazione: se non vi sono gli atomi, è la natura che governa l'universo; se
è così, gli esseri inferiori esistono per i superiori, e gli esseri superiori esistono gli uni per
gli altri (libro XI, 18).
Per un verso abbiamo il più stretto legame con gli uomini, in quanto dobbiamo far loro del bene e
sopportarli; per l'altro, invece, in quanto certuni mi ostacolano nello svolgimento del mio specifico operato,
gli uomini divengono per me una delle cose indifferenti, non meno del sole o del vento o di una belva (libro V
20).
- il mistero cristiano
Dalla Lectio che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere all'Università La Sapienza di Roma il 17
gennaio 2008
L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come
l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per
menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione
mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano
realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone,
effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c).
In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una
religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i
cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in
modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il
dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è
Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio
più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una
forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere
religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma
potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa
della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera.
1 Cor 2 1Anch'io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la
testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. 2Io ritenni infatti di non
sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. 3Io venni in mezzo a
voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; 4e la mia parola e il mio messaggio non si
basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza,
5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
6Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo
mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; 7parliamo di una
sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la
nostra gloria. 8Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se
l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. 9Sta scritto infatti:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
10Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa,
anche le profondità di Dio. 11Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo
che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di
Dio. 12Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere
tutto ciò che Dio ci ha donato. 13Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito
dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali.
14L'uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e
non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito.
15L'uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.
Rom 1625A colui che ha il potere di confermarvi secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio
di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni,
26ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche, per ordine dell'eterno
Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, 27a Dio che solo è sapiente,
per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Col 125Di essa [della chiesa] sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di
voi di realizzare la sua parola, 26cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma
ora manifestato ai suoi santi, 27ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo
mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria.
Col 29E' in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità,
10e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni
Principato e di ogni Potestà.
- dinanzi alle religioni il discernimento, a partire da Cristo
- l’economia della salvezza
Dalla catechesi di papa Benedetto XVI, del mercoledì 23 novembre 2005, sul Cantico tratto
dal primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini (Ef1,3-10)
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto
l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di
ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco
oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e
dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé
«tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono
superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la
volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.
- da qui l’esigenza dell’annunzio: 16.500 chilometri nei quattro viaggi!
2 Cor 21In quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch'io.
22Sono Ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io! 23Sono
ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche,
molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.
24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; 25tre
volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso
un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi,
pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli
nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27fatica e travaglio, veglie
senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28E oltre a tutto questo, il mio
assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch'io non lo
sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?
30Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza.
31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco.
32A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per
catturarmi, 33ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così
sfuggii dalle sue mani. 2 Cor 121Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene!
- per approfondire vedi: Itinerari
dell'apostolo Paolo (tutti i luoghi antichi ed odierni) di Lorenzo De
Lorenzi
At 27, 12 Poiché quel porto [che si chiamava Buoni Porti] era poco adatto a trascorrervi
l'inverno, i più furono del parere di salpare di là nella speranza di andare a svernare a Fenice,
un porto di Creta esposto a libeccio e a maestrale.
13Appena cominciò a soffiare un leggero scirocco, convinti di potere ormai realizzare il
progetto, levarono le ancore e costeggiavano da vicino Creta. 14Ma dopo non molto tempo si
scatenò contro l'isola un vento d'uragano, detto allora «Euroaquilone». 15La
nave fu travolta nel turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balìa,
andavamo alla deriva. 16Mentre passavamo sotto un isolotto chiamato Càudas, a fatica riuscimmo
a padroneggiare la scialuppa; 17la tirarono a bordo e adoperarono gli attrezzi per fasciare di
gòmene la nave. Quindi, per timore di finire incagliati nelle Sirti, calarono il galleggiante e si andava
così alla deriva. 18Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a
gettare a mare il carico; 19il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l'attrezzatura della
nave. 20Da vari giorni non comparivano più né sole, né stelle e la violenta
tempesta continuava a infuriare, per cui ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta.
21Da molto tempo non si mangiava, quando Paolo, alzatosi in mezzo a loro, disse: «Sarebbe
stato bene, o uomini, dar retta a me e non salpare da Creta; avreste evitato questo pericolo e questo danno.
22Tuttavia ora vi esorto a non perdervi di coraggio, perché non ci sarà alcuna perdita
di vite in mezzo a voi, ma solo della nave. 23Mi è apparso infatti questa notte un angelo del
Dio al quale appartengo e che servo, 24dicendomi: Non temere, Paolo; tu devi comparire davanti a
Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. 25Perciò
non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunziato.
26Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola».
27Come giunse la quattordicesima notte da quando andavamo alla deriva nell'Adriatico, verso
mezzanotte i marinai ebbero l'impressione che una qualche terra si avvicinava. 28Gettato lo
scandaglio, trovarono venti braccia; dopo un breve intervallo, scandagliando di nuovo, trovarono quindici
braccia. 29Nel timore di finire contro gli scogli, gettarono da poppa quattro ancore, aspettando con
ansia che spuntasse il giorno. 30Ma poiché i marinai cercavano di fuggire dalla nave e gia
stavano calando la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prora, Paolo disse al centurione e ai
soldati: 31«Se costoro non rimangono sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo».
32Allora i soldati recisero le gòmene della scialuppa e la lasciarono cadere in mare.
33Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo: «Oggi
è il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell'attesa, senza prender nulla. 34Per questo
vi esorto a prender cibo; è necessario per la vostra salvezza. Neanche un capello del vostro capo
andrà perduto». 35Ciò detto, prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo
spezzò e cominciò a mangiare. 36Tutti si sentirono rianimati, e anch'essi presero cibo.
37Eravamo complessivamente sulla nave duecentosettantasei persone. 38Quando si furono
rifocillati, alleggerirono la nave, gettando il frumento in mare.
39Fattosi giorno non riuscivano a riconoscere quella terra, ma notarono un'insenatura con spiaggia e
decisero, se possibile, di spingere la nave verso di essa. 40Levarono le ancore e le lasciarono andare
in mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e spiegata al vento la vela maestra, mossero verso la
spiaggia. 41Ma incapparono in una secca e la nave vi si incagliò; mentre la prua arenata
rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde. 42I soldati
pensarono allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto,
43ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo progetto;
diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare e raggiunsero la terra; 44poi
gli altri, chi su tavole, chi su altri rottami della nave. E così tutti poterono mettersi in salvo a
terra.
At 28, 1Una volta in salvo, venimmo a sapere che l'isola si chiamava Malta...
11Dopo tre mesi salpammo su una nave di Alessandria che aveva svernato nell'isola, recante l'insegna
dei Diòscuri. 12Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni 13e di qui,
costeggiando, giungemmo a Reggio. Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l'indomani
arrivammo a Pozzuoli. 14Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro
una settimana. Partimmo quindi alla volta di Roma. 15I fratelli di là, avendo
avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese
grazie a Dio e prese coraggio.
16Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia.
17Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei e venuti che
furono, disse loro: «Fratelli, senza aver fatto nulla contro il mio popolo e contro le usanze dei padri,
sono stato arrestato a Gerusalemme e consegnato in mano dei Romani. 18Questi, dopo avermi interrogato,
volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte. 19Ma continuando i Giudei
ad opporsi, sono stato costretto ad appellarmi a Cesare, senza intendere con questo muovere accuse contro il mio
popolo. 20Ecco perché vi ho chiamati, per vedervi e parlarvi, poiché è a causa
della speranza d'Israele che io sono legato da questa catena». 21Essi gli risposero: «Noi
non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea né alcuno dei fratelli è venuto a
riferire o a parlar male di te. 22Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa
setta infatti sappiamo che trova dovunque opposizione».
23E fissatogli un giorno, vennero in molti da lui nel suo alloggio; egli dal mattino alla sera
espose loro accuratamente, rendendo la sua testimonianza, il regno di Dio, cercando di convincerli riguardo a
Gesù, in base alla Legge di Mosè e ai Profeti. 24Alcuni aderirono alle cose da lui
dette, ma altri non vollero credere 25e se ne andavano discordi tra loro, mentre Paolo diceva questa
sola frase: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia, ai nostri padri:
26Và da questo popolo e dì loro:
Udrete con i vostri orecchi, ma non comprenderete;
guarderete con i vostri occhi, ma non vedrete.
27Perché il cuore di questo popolo si è indurito:
e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi;
hanno chiuso i loro occhi
per non vedere con gli occhi
non ascoltare con gli orecchi,
non comprendere nel loro cuore e non convertirsi,
perché io li risani.
28Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi
l'ascolteranno!». 29.
30Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti
quelli che venivano a lui, 31annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore
Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.
- le lettere “pastorali”
- abbracciano i cristiani ex circumcisione ed ex gentibus (cfr. Santa Sabina): Timoteo, di madre
ebrea e padre greco, fu fatto circoncidere da Paolo per non dare scandalo, Tito non è un circonciso
- una compilazione di Timoteo (è l’ipotesi del prof.Biguzzi; cfr.
Introduzione all’epistolario
paolino, del prof.Giancarlo Biguzzi)
2 Tim 46 Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il
momento di sciogliere le vele. 7Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia
corsa, ho conservato la fede. 8Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto
giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la
sua manifestazione.
9Cerca di venire presto da me, 10perché Dema mi ha abbondonato avendo preferito il
secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia.
11Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per
il ministero. 12Ho inviato Tìchico a Efeso. 13Venendo, portami il mantello
che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene. 14Alessandro,
il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere;
15guàrdatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra
predicazione.
16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne
tenga conto contro di loro. 17Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza,
perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili:
e così fui liberato dalla bocca del leone. 18Il Signore mi libererà da ogni male e mi
salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
2 Tim 1 3Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di
te nelle mie preghiere, notte e giorno; 4mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di
rivederti per essere pieno di gioia. 5Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima
nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te.
2 Tim 314Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi
l'hai appreso 15e che fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti
per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. 16Tutta la Scrittura
infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia,
perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
2 Tim 21Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù
2e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le
quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.
- continua la trasmissione del vangelo nella tradizione
2 Timoteo 114Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito santo che abita in noi.
1 Tim 41Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede,
dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, 2sedotti dall'ipocrisia di impostori, gia
bollati a fuoco nella loro coscienza. 3Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da
alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la
verità. 4Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono
e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, 5perché esso
viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.
1 Tim 523Smetti di bere soltanto acqua, ma fà uso di un pò di vino a causa dello
stomaco e delle tue frequenti indisposizioni.
- episcopi, presbiteri, diaconi, vedove
1 Tim 53Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; 4ma se una vedova ha figli o
nipoti, questi imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria famiglia e a rendere il
contraccambio ai loro genitori, poiché è gradito a Dio. 5Quella poi veramente vedova
e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra all'orazione e alla preghiera giorno e notte;
6al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già morta.
7Proprio questo raccomanda, perché siano irreprensibili. 8Se poi qualcuno non si
prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è
peggiore di un infedele.
9Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant'anni, sia
andata sposa una sola volta, 10abbia la testimonianza di opere buone: abbia cioè allevato
figli, praticato l'ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia
esercitato ogni opera di bene. 11Le vedove più giovani non accettarle perché, non
appena vengono prese da desideri indegni di Cristo, vogliono sposarsi di nuovo 12e si attirano
così un giudizio di condanna per aver trascurato la loro prima fede. 13Inoltre, trovandosi
senza far niente, imparano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e
curiose, parlando di ciò che non conviene. 14Desidero quindi che le più
giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all'avversario nessun motivo di
biasimo. 15Gia alcune purtroppo si sono sviate dietro a satana.
16Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro e non ricada il peso
sulla Chiesa, perché questa possa così venire incontro a quelle che sono veramente vedove.
[1] Delle vicende dei fratelli Quintili
abbiamo testimonianza negli scritti di Dione Cassio e di Elio Lampridio. Così scrive Dione Cassio, unendo
storia e leggenda:
53 Allo stesso modo egli [Commodo] uccise Condiano e Massimo Quintilio; perché essi avevano
grande reputazione in quanto a educazione, capacità militare, armonia fraterna e ricchezza. Il loro
notevole talento provocò il sospetto che, anche se essi non stessero programmando nessuna ribellione,
comunque essi non erano soddisfatti della situazione. 4 Dunque, come essi avevano vissuto insieme,
così morirono insieme, con il figlio di uno di loro. Essi avevano dimostrato l'esempio più
impressionante mai visto di attaccamento reciproco, e in nessun momento si erano divisi, persino nei loro
incarichi politici. Erano cresciuti in prosperità e in eccezionale ricchezza, e si erano impegnati a
governare insieme, e ad assistersi l'un l'altro nell'affrontare cause legali.
61 Sesto Condiano, figlio di Massimo, che superava chiunque in quanto a carattere ed educazione,
quando venne a sapere che la sentenza di morte era stata estesa anche a lui, bevve il sangue di una lepre (in
quel momento si trovava in Siria); e dopo montò a cavallo e ne cadde di proposito. Allora, quando ebbe
vomitato il sangue, che fu creduto essere il suo, fu ritenuto prossimo alla morte e trasportato in una
abitazione; 2 l'uomo allora sparì alla vista, mentre una carcassa di ariete fu collocata in una
bara al posto suo e bruciata. Dopodiché, cambiando continuamente aspetto e abbigliamento, vagò qua
e là. E quando questo episodio venne alla luce (perché è impossibile che una faccenda di
tale importanza resti nascosta per tanto tempo), ci fu 3 una accurato inseguimento in ogni luogo senza
eccezioni. Molti furono puniti al suo posto per la somiglianza con lui, e molti, per di più, furono
accusati di essere stati in contatto con lui, o di averlo ospitato da qualche parte; e ancora più persone
che magari non lo avevano mai neanche visto furono spogliati delle loro proprietà. Eppure nessuno sa se fu
veramente ucciso 4(benché un gran numero di teste che si pretendeva fossero la sua venissero
trasportate a Roma) o se riuscì nella fuga. Qualcun altro, dopo la morte di Commodo, osò affermare
di essere Sesto per ottenere il reintegro nel patrimonio e nella dignità personale. E costui
interpretò bene la parte, mentre molti gli rivolgevano un gran numero di domande. 5Tuttavia
quando Pertinace gli chiese qualcosa su certe questioni greche, sulle quali il vero Sesto avrebbe dovuto essere
bene informato, questo mostrò un grandissimo imbarazzo, non riuscendo neanche a capire le parole che gli
venivano dette. Quindi, benché la natura lo avesse reso simile a quello per quanto riguarda l'aspetto, e
l'esercizio lo avesse reso simile per altri aspetti, tuttavia essi non avevano condiviso la stessa
educazione.
71 Ho ascoltato questa storia con le mie orecchie, insieme a quest'altra che vidi e che ora
racconto. Nella città di Mallo, in Cilicia, esiste un oracolo di Anfiloco che fa profezie per mezzo di
sogni. Ora questo fece una profezia anche a Sesto, e la descrisse per mezzo di un disegno. L'immagine che scrisse
sulla lavagna rappresentava un bambino che strangola due serpenti, e un leone che insegue un cerbiatto.
2Io ero insieme a mio padre, allora governatore della Cilicia, e non potei comprendere cosa
significassero finché non appresi che i fratelli di Sesto erano stati, come risultò vero,
strangolati da Commodo, che più tardi avrebbe emulato Ercole, proprio come Ercole, quando era fanciullo,
si racconta che avesse strangolato i serpenti mandati contro di lui da Giunone (e infatti i Quintili furono
impiccati), e appresi anche che Sesto era latitante e che era inseguito da un avversario molto più
potente (Storia di Roma, LXXII-LXXIII 5, 3 - 7, 2).
Così racconta, invece, Elio Lampridio:
IV9 Tra l'altro fu estinta l'intera famiglia dei Quintili, dato che Sesto, figlio di Condiano,
facendosi credere morto, era scappato, così dicono, per organizzare una rivolta (Commodus Antoninus).