Mettiamo a disposizione on-line una collazione di appunti di vari studenti relativa alle lezioni introduttive tenute da p.Ugo Vanni S.J. per il corso di Nuovo Testamento, Corpus Paulinum, nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana, negli anni 1984/85 e 1995/96. La straordinaria sintesi che ci viene presentata del pensiero paolino è frutto della maestria del grande maestro gesuita, specialista anche dell’Apocalisse ed, in generale, degli scritti giovannei. Il testo non è stato rivisto dall’autore. Lo presentiamo ugualmente perché lo riteniamo sufficientemente fedele e ricco per chi volesse accostarsi al pensiero dell’Apostolo. L’idea di mettere per iscritto in maniera coerente questi appunti risale al campo degli adulti della parrocchia di S.Melania, tenutosi nella Casa di Pian Paradiso, vicino Civita Castellana, nei giorni 3-4 luglio 2004, che ebbe per tema, appunto, la figura ed il pensiero di S.Paolo.
L’Areopago (marzo 2006)
Nel Nuovo Testamento sono presenti 137.490 parole, mentre in Paolo se ne
trovano 32.349, pari al 23.5% delle parole del Nuovo Testamento. Il computo è di
R.Morgenthaler, Statistik des neutestamentlichen Wortschatzes, Zürich-Frankfurt, fatta
sulla 21esima edizione dell’edizione del Nuovo Testamento del Nestle. Se, dunque,
troviamo un termine usato da Paolo in una proporzione superiore al 23.5% rispetto
all’intero N.T. ciò vuol dire che tale termine è tipico di Paolo e
merita particolare attenzione per la comprensione del suo pensiero.
Divideremo la nostra presentazione della teologia paolina in sei grandi blocchi. I sei temi
che presenteremo sono caratteristici di Paolo e permettono di avere una prima sintesi del
suo pensiero teologico.
Il primo grande tema biblico della teologia paolina che affronteremo
è il “progetto di Dio”. Paolo utilizza il termine greco προθεσις
(prothesis, progetto) 6 volte su di un totale di 12 volte nel NT. Dunque la
proporzione è del 50%. Troviamo in Paolo anche il verbo corrispondente προτιθεµαι
(protithemai, progettare) per 3 volte. Sono le uniche ricorrenze in tutto il
NT, quindi il 100% delle presenze neotestamentarie del verbo.
Il sostantivo ed il verbo significano letteralmente “posto prima”
e “porre prima”. Ricorrono in Paolo, come abbiamo visto, con percentuali
interessanti (50% e 100 %!), ma da non sopravvalutare, dato lo scarso numero
di unità.
Il termine "prothesis" compare in:
Nei primi cinque casi, dunque, il termine si riferisce a Dio
mentre nell'ultimo caso si riferisce esplicitamente a Paolo. Il termine "prothesis"
è, dunque, un termine normalmente attribuito a Dio.
Il verbo "protithemai" compare in:
Il verbo nel primo caso si riferisce a Paolo, mentre negli
altri due casi si riferisce a Dio.
E' importante sottolineare che i due termini si trovano in tutto il materiale
paolino, secondo la classificazione abituale delle lettere paoline (le 7
lettere proto-paoline di sicura paternità dell’Apostolo[1], le lettere dette deutero-paoline di più
incerta attribuzione[2],
le lettere dette trito-paoline[3]
per le quali la maggior parte degli autori propende per una paternità
di scuola paolina, cioè di un discepolo di Paolo).
Da questa prima analisi statistica scopriamo che per Paolo l’autore
del “progetto” è Dio stesso. Così questa realtà
del disegno divino ha una prima dimensione, che potremmo chiamare verticale,
divina.
Paolo ha un senso vivissimo di Dio. Nelle lettere lo chiama il “mio”
Dio e, con questa espressione, ci testimonia la coscienza di un rapporto
vivo con Lui (come noi, chiamando una persona “la mia ragazza” o
“l’amore mio”, indichiamo un coinvolgimento strettissimo).
Quando Paolo parla di Dio si entusiasma. Questo probabilmente era già
vero dai tempi della sua presenza giovanile a Gerusalemme, prima del suo diventare
cristiano. Lì deve essere maturato il suo attaccamento a Dio, nello studio
e nella liturgia al Tempio, probabilmente attraverso la frequentazione della
scuola farisaica di Gamaliele (siamo a conoscenza del suo voto di “nazireato”).
Ci torna in mente l’espressione del Salmo: “Sono entrato nel Tempio
per gustare la tua presenza e la tua gloria”, manifestazione del desiderio
di entrare in contatto personale con Dio.
Ma Paolo ha anche un senso vivissimo dell’uomo. E’ impressionatissimo
dalla morte. Paolo non si fa illusioni sull’uomo. E’ sensibile
alle sue luci, ma soprattutto alle sue ombre (come possiamo vedere in Rom1-3).
Paolo sa bene che la trascendenza di Dio non è in accordo con la situazione
degli uomini. Questo senso acuto dell’uomo Paolo l’ha imparato probabilmente
già a Tarso, l’“Atene” dell’Asia Minore, nel
respiro della cultura greco-ellenistica. Notiamo che Paolo ha visitato, nella
sua vita, un’infinità di posti bellissimi, ma mai ci lascia un
riferimento paesaggistico o naturalistico: è l’uomo che a lui interessa
e dell’uomo gli interessa tutto.
Il problema, allora, che sorge è: come riuscire a conciliare tutta la
vita umana con Dio? Paolo trova la risposta a questo quesito nella "prothesis"
di Dio.
Ecco il “progetto” di Dio, che nasce dalla trascendenza di Dio,
ma che coinvolge l’uomo, anzi tutti gli uomini ed il cosmo intero.
In Ef1,3-14 (sia esso un testo della mano di Paolo o della sua scuola) si afferma
chiaramente che questo disegno è un progetto scaturito all’interno
di Dio stesso, ma che riguarda tutti noi: “Dio ci ha pre-destinati”,
ci ha pro-gettati.
Oltre al termine “prothesis” si utilizza così un verbo costruito
anch’esso con la preposizione προ (“pro”),
il verbo προοριζω che abitualmente
si traduce con “predestinare”. Potremmo, invece, tradurre meglio
con “pro-destinare”, intendendo la preposizione “pro”
non tanto nel senso cronologico di un “prima” temporale, ma nel
senso di un “sopra”, di un disegno nato nella “trascendenza
stessa di Dio. Egli non è cronologicamente prima, ma piuttosto, nella
sua eternità, colui che abbraccia tutto il tempo. Non ha senso attribuire
alla sapienza di Dio un prima e un dopo. Il progetto di Dio è elaborato
nella Sua trascendenza. Così, quando in Paolo troviamo parole come pro-getto,
pro-gettare, pro-destinazione, bisogna tenere presente il senso che Paolo dà
alla parola composta con "pro". Non dobbiamo fermarci al significato etimologico
di “prima” , ma dobbiamo leggere, invece, il valore teologico di
ciò che appartiene e viene deciso nell’ “alto” della
trascendenza divina. In questo senso va così letta l’indicazione
paolina sulla nostra pre-destinazione.
Dinanzi al modo in cui Paolo ci presenta la realizzazione da parte di Dio stesso
del suo progetto, possiamo instaurare un parallelo con l’artista che
ama la sua opera, anche se, proprio per questo, ne può diventare
critico, per migliorarla, come si racconta di Lorenzo Perosi, che tirò
uno sgabello ad una violinista che aveva sbagliato una nota. Dio è questo
artista che si è entusiasmato al suo progetto, al suo disegno per gli
uomini.
In Ef1,3-14 troviamo, infatti, dei termini progressivi che indicano lo sviluppo
di questo progetto di Dio. C’è all’inizio una ευδοκια
(“eudokia”), una compiacenza di Dio per il suo progetto. C’è
poi il θεληµα (“thelema”),
la volontà di attuarlo.
C’è poi la βουλη (“bulé”),
il decreto, l’attuazione nella storia di questo progetto, con la programmazione
dei momenti che permetteranno di realizzarlo.
Specialmente nelle lettere che potremmo chiamare “gemelle”, cioé
Efesini e Colossesi, ma in tutto il Corpus paulinum – come ha dimostrato
Romano Penna con i suoi studi – il “progetto” di Dio, viene
chiamato µυστηριον, “misterion”,
“mistero”. Questo ulteriore termine non vuole indicare il “segreto”,
ma ancora una volta il “progetto” di Dio che, nella pienezza dei
tempi, è stato realizzato e fatto conoscere agli uomini.
E’ un progetto che “entusiasma” Dio, che lo vive nella gioia
coinvolgendolo nella sua essenza. Dio è un artista interamente preso
dal suo progetto. Il termine stesso mostra la passione con cui Dio segue il
suo progetto.
Questo progetto (o “piano”) si riferisce al tutto, al cosmo, alla
storia, al creato, tutte realtà che si “stanno facendo sotto l’azione
del progetto divino”. E’ il “progetto” di fare di
Cristo il cuore del mondo e di fare della Chiesa il Corpo di Cristo (in
Col ed Ef quasi si esaurisce qui il progetto di Dio).
Ecco la terza sensibilità di Paolo che emerge nell’analisi del
termine “progetto”.
E’ in Cristo che Dio ha manifestato e realizzato la risoluzione della
tensione fra i due poli della trascendenza divina, da un lato, e dell’acuto
senso dell’insufficienza dell’uomo, dall’altro. La grandezza
di Paolo sta nel non banalizzare mai questa tensione, ma nel vederla nella luce
del Cristo che è al centro del “disegno”, del “progetto”
di Dio. Il progetto riguarda non solo l’uomo, ma l’intero cosmo
rapportato a Cristo morto e risorto come inizio e fine del progetto stesso.
E’ il Cristo all’origine ed al termine - nel senso di “finalità”,
di scopo, di pienezza - di tutto il disegno stesso.
Abbiamo visto fin qui come nel progetto di Dio in Cristo avvenga per Paolo
la sintesi fra Dio e l’uomo. Un secondo nucleo tematico del suo pensiero è quello
del “vangelo” che appare come il primo passo di questo “progetto” volto
all’armonia da raggiungere tra Dio e l’uomo.
Il termine utilizzato da Paolo è
ευαγγελιον ("euanghelion"),
che compare 60 volte su un totale di 76 nel Nuovo Testamento. Il corrispondente verbo
ευαγγελιζοµαι
+ ευαγγελιζω ("euanghelizomai"
e "euanghelizo") compare 21 volte su 58. Nel greco del Nuovo testamento vediamo che sono
equivalenti, quanto all’uso ed al significato, le due forme del verbo, quella media e
quella attiva.
E' molto importante osservare l'alta frequenza del termine "euanghelion" (78.94%) e anche
quella del verbo (37.5%). C'è allora una forte presenza significativa del termine
“vangelo” (sia come sostantivo che come verbo) in Paolo.
Alcuni (ad esempio Cerfaux) hanno addirittura ipotizzato che Paolo abbia coniato il termine,
in senso specificamente cristiano. Questa possibilità non sarebbe di per sé
assurda, perché sappiamo che Paolo è anche linguisticamente creativo. Ad
esempio, troviamo espressioni composte con “con” (“con-formi”,
“con-morti con Cristo”, “con-sepolti con Cristo”) che sono
esclusivamente paoline e non si ritrovano nell’uso del greco ellenistico del tempo. Ma la
maggioranza degli esegeti pensa piuttosto che Paolo abbia trovato questo termine ad Antiochia,
dove “per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. E’ da
Antiochia che Paolo e Barnaba partiranno per la missione; proprio lì nasce la missione
cristiana che raggiungerà la Grecia. Il termine, allora, ripreso dall’Antico
Testamento, sarebbe stato portato in voga dall’esigenza missionaria così avvertita
ad Antiochia.
Un secondo rilievo che vogliamo fare è relativo alla prevalenza della presenza del
sostantivo rispetto al verbo. La nostra ipotesi è che, quando in un autore troviamo
una prevalenza del sostantivo rispetto al verbo, l’autore ha attenzione al contenuto
dell’azione più che all’azione stessa. Vedremo subito, nel terzo tema
paolino, come anche nel linguaggio della fede in Paolo troviamo più frequentemente il
sostantivo “fede” del verbo “credere”. L’opposto avviene in
Giovanni. Lì il verbo “credere” è frequentissimo, mentre mai compare
il sostantivo “fede”. Giovanni non si sofferma a dire cos’è la fede,
non ne compie un’analisi sistematica, ma ci mostra piuttosto l’atto di credere.
In San Paolo è l’inverso. La sua attenzione si volge innanzi tutto al contenuto.
Possiamo trovare una manifestazione di questo atteggiamento anche nel famoso versetto di
2Tim4,13 che, sebbene appartenente ad un testo delle lettere “pastorali” o
trito-paoline, ci riporta all’animus di Paolo: “Portami i libri e le
pergamene”. In Paolo noi troviamo la concettualizzazione, sebbene mai lontana dalla vita.
Incontriamo il suo desiderio di guardare il vangelo, “comprendendolo” fino in
fondo.
Vediamo ora quale è il significato di "euanghelion" in Paolo. Il termine non significa
semplicemente un lieto annuncio, come nell’iscrizione di Priene. In questo testo
epigrafico troviamo “vangeli” al plurale, per indicare i “lieti
annunzi” degli eventi conseguenti all’operato di Augusto.
Per Paolo, invece, l’espressione “vangelo” ha un contenuto specifico che
possiamo enucleare in quattro elementi:
(1) annuncio di Cristo morto e risorto "per". Non ci risulta che Paolo abbia mai
parlato della vita di Cristo. La morte e la resurrezione di Cristo sono certo degli eventi per
Paolo (e qui è chiaramente inadeguata la linea interpretativa di Bultmann che nega
questa evidenza), ma ciò che Paolo sottolinea è che la morte di Cristo è
“per te”. E’ una morte che ti offre una forza liberante dalla tua
peccaminosità. Così la resurrezione è sempre vista nel suo “essere
per” te. Quando Paolo ci parla della morte e della resurrezione di Cristo non ci invita
ad avere compassione per la sua morte, né ad applaudire per la sua resurrezione (temi
pur legittimamente sviluppati dalla spiritualità medioevale), ma ci invita a comprendere
che la morte e la resurrezione di Cristo diventano la nostra morte e la nostra
resurrezione.
In sintesi, non c'è solo la presentazione di un evento realizzato, ma si sottolinea
l'importanza dell'evento per la vita stessa dell'uditore. Si annuncia un fatto del passato ma
scatta un aggancio con la simultaneità dell'annuncio nel presente.
(2) l'annuncio interpella l'uomo, raggiungendolo dove è. L'annuncio del
Cristo morto e risorto viene notificato alla persona cui viene rivolto, in modo tale che la
persona non può fuggire e deve dire un sì od un no a questo annuncio.
(3) di fronte all'annuncio l'uomo è chiamato a decidere per il sì o
per il no. L’uomo che dice “sì” si apre al vangelo e questa
apertura è la fede. Il sì della fede è come girare un interruttore per cui
si dà spazio all’energia, si dà spazio al contenuto del vangelo (Cristo
morto e risorto) che diventa contenuto agente nell’uomo.
(4) da questa accettazione dipende la situazione escatologica dell’uomo, la sua
salvezza o la sua perdizione. Più che semplicemente l’“al di
là” nella linea del tempo, Paolo sottolinea la situazione che potremmo chiamare
dell’“al di più”, e perciò dell’ottimale per
l’uomo. La prospettiva escatologica è qui la prospettiva positiva per cui
l’uomo è visto in un coefficiente infinito, al massimo grado. Accettando il
vangelo l’uomo diviene
σωζοµενος, una persona “che si
sta salvando”, in cui la salvezza comincia a realizzarsi. Questo uomo è sulla via
della realizzazione ottimale, che Paolo chiama “salvezza”. Il rifiuto del vangelo
porta, invece, alla perdizione, non come abisso infernale in cui l’uomo va a cadere, ma
come vuoto assoluto che si realizza all’interno dell’uomo. L’uomo che si apre
a Cristo si realizza, chi lo rifiuta si perde. La salvezza è così intesa come
realizzazione piena e totale della persona, la perdizione come il vuoto ed il fallimento. Per
Paolo l’inferno è l’uomo fallito, nel senso del progetto di Dio rimasto
irrealizzato.
Così la morte e la resurrezione di Cristo sono dei fatti, ma che dimostrano una
spinta transitiva in colui che ascolta. Non provocano tanto una compassione, quanto una
“giustificazione”, una vita comunicata attraverso l’evento della
Risurrezione: la morte di Cristo è offerta per togliere le lacunosità (il
peccato) dell’uomo, la risurrezione di Cristo per trasferire il contesto attivo della sua
vitalità all’uomo.
Possiamo, infine, sottolineare due aspetti ulteriori. Per Paolo il vangelo è Vangelo
του Θεου, “di Dio”, sottolineando
così la trascendenza di questo annuncio. Ma Paolo, accogliendo il Vangelo di Dio,
può anche affermare che è
ευαγγελιον
µου, "euanghelion mou", ossia il "mio vangelo". Paolo non si limita ad
accoglierlo, ma lo personalizza, lo fa “suo”.
La risposta positiva del Vangelo è l’accoglienza della
fede.
I termini usati da Paolo sono πιστις, "pistis", che viene usato
142 volte su 243 volte nel Nuovo Testamento (58.43%) ed il verbo
πιστευω, "pisteuo", usato 54 volte su 241 (22.4%).
Paolo usa preferibilmente il sostantivo "pistis". Il sostantivo è al di sopra della
media, il verbo al di sotto, per cui il primo è caratteristico di Paolo, il secondo no.
Ancora una volta Paolo, come abbiamo già visto, preferisce il concetto all’azione,
a differenza di Giovanni. Paolo cerca di approfondire non il fatto di credere, ma la fede in
quanto tale.
La fede è, in Paolo, apertura totale al contenuto del Vangelo: questa è la
costante che troviamo. Da questa costante si diparte uno sviluppo che si delinea in quattro
livelli, poiché la fede è iniziata, protratta, condivisa, annunciata. Per
Bultmann, la fede era “un uscire dal proprio sistema”. Per Paolo, invece, la fede
è più di questo: è un apertura radicale, totale, che ha un inizio preciso
nel tempo, che è protratta e continuata in tutti i dettagli della vita, che va condivisa
da un gruppo, al punto che questo gruppo diventa il soggetto della fede. Vediamo più da
vicino questi quattro livelli:
(1) l’adesione iniziale. E’ la prima adesione all'annuncio, il
sì pieno al vangelo che si realizza nell’accettazione del battesimo. Paolo non ne
parla molto spesso perché egli scrive a comunità già fondate, cfr.
1Cor15,11: “Così noi annunciammo e così voi credete”, la vostra fede
fu in proporzione all’annuncio.
(2) l'assimilazione progressiva in tutta la vita. E’ l’aspetto
più frequente e importante nell’epistolario paolino. Il vangelo va accettato
tutto, senza “se” e senza “ma”. Questa energia accolta lavora
all’interno dell’uomo e tende ad invadere gradualmente tutta la vita
dell’uomo. Un convertito con il battesimo entra nel circuito stesso della morte e della
resurrezione di Cristo applicata a lui. Dopo il battesimo sente l’effetto della
distruzione della peccaminosità di base che è contro Dio, ma rimangono in lui
elementi “microscopici” (“peccati veniali”, potremmo dire) che si
superano gradualmente. Possiamo vedere l’espressione di Gal2,20: "Non sono più io
che vivo, ma Cristo vive in me, la vita che conduco nella carne la vivo nella fede”.
Cristo vive in me, non vivo da solo, c’è in me la vitalità di Cristo. La
vita che vivo nella concretezza di ogni giorno ha una apertura al Figlio di Dio capito e
sentito nel massimo del suo amore. C’è il livello del Figlio che mi amò e
diede se stesso per me e c’è il livello di Paolo: essi sono in comunicazione
attraverso la fede che permette l’ingresso nell’uomo della vita di Cristo. Possiamo
vedere anche Rom14,23: “Tutto ciò che non viene dalla fede è
peccato”. L’affermazione di questo brano è che tutta la vita deve essere
compenetrata dalla fede, sempre aperta alla sua cristificazione. Se isoliamo una parte, questa
va in cancrena, potremmo dire. Perciò è peccato. Qualunque aspetto della propria
vita e della propria persona che fosse isolato dal Cristo morto e risorto risulterebbe
necrotizzato. Tutti i settori dell’esistenza sono bisognosi di una purificazione e di una
vitalizzazione progressiva.
Questa assimilazione della fede non è rapida – e perciò illusoria - ma
è progressiva, come una pianta robusta, una quercia che cresce. La cristificazione
è complessa. Non si può dare un’etichetta cristologica dall’esterno,
ma occorre pian piano, dall’interno, che Cristo si riveli nella fede.
(3) l’espressione comunitaria della fede. L’abbiamo quando il gruppo
ecclesiale, il gruppo dei credenti, diventa soggetto di fede.
Questo aspetto è stato negato dal Conzelmann. Per lui la fede è una
responsabilità inderogabilmente personale. Ma la nostra affermazione
dell’espressione necessariamente comunitaria della fede non nega la responsabilità
personale proclamata da Conzelmann. Il gruppo può essere soggetto di fede solo se le
singole persone hanno accettato la fede.
Questo aspetto comunitario è stato invece affermato da Bultmann. Lo vediamo quando le
persone prendono coscienza di non essere le une accanto alle altre (come quando tutte guardano
contemporaneamente un film al cinema, compiendo una stessa azione, ma restando separate).
Quando c’è comunicazione espressa di fede c’è, infatti, la
volontà di mettere in comune l’apertura a Cristo (almeno al primo livello
dell’adesione iniziale). Allora un insieme di persone diventa protagonista di qualcosa.
Questo avviene nell’assemblea liturgica. Possiamo fare anche l’esempio della
“collatio”, il terzo momento della lectio divina.
Vediamo questo in tanti passi paolini. Possiamo citare Rom12,6: “Chi ha la profezia, la
eserciti secondo l’analogia della fede” (vedi anche 1Cor14) dove Paolo spiega che
chi profetizza in una assemblea liturgica non deve sentirsi autorizzato a dire tutto quello che
gli passa per la mente, fosse anche ispirazione di Dio, ma deve farlo secondo l’
“analogia della fede”, secondo cioè il livello medio che il gruppo ha
raggiunto nel cammino di fede, secondo la giusta “proporzione”, il giusto rapporto
con la comunità ecclesiale. Se il livello medio del gruppo fosse troppo basso, allora la
sua profezia rischierebbe di dire solo parole vuote, se fosse invece la profezia ad essere di
un livello inferiore al livello del gruppo disturberebbe e non sarebbe di aiuto al cammino.
Vediamo ancora i frutti dello Spirito in Gal5. Paolo elenca il frutto - “Il frutto dello
Spirito è amore, gioia, pace, ecc. ecc.” – ed aggiunge che questo frutto
è anche πιστις, "pistis". Abitualmente traduciamo qui con
“il fatto del fidarsi reciprocamente” o con “fedeltà”. Ma in
Paolo questo ha, piuttosto, una fortissima carica teologica E’ il potersi fidare, in
senso comunitario, è l’affidabilità per la quale il soggetto è la
comunità e non più il singolo.
Vediamo, infine, Gal6,10 dove Paolo invita a fare del bene “a cominciare da quelli che
sono con voi nella stessa casa della fede”
(οικειους
τηςπιστεως) .Il gruppo dei credenti
è indicato con una immagine che si riferisce alle “persone che abitano una
stessa casa”, condividendo gli uni la fede degli altri.
Questo terzo livello della fede si esprime, oltre che nell’assemblea liturgica e nella
vita, anche nell’ οµολογια
(“omologhia”) nella confessione, nella professione di fede. Queste
confessioni sono manifestazioni di fede di un gruppo, di una chiesa, non di una singola
persona. Abbiamo così, nelle lettere di Paolo, gli “inni”, come in Fil e
Col, inni nati nelle comunità, anche se sotto l’influsso di Paolo (alcuni esegeti
vedono negli inni, ad esempio, uno sviluppo diacronico, con delle aggiunte della mano stessa di
Paolo). Troviamo questo anche in testi non cristiani degli inizi del II secolo. Nella lettera
di Plinio, governatore della Bitinia, all’imperatore Traiano, i cristiani sono, fra
l’altro, descritti come “coloro che cantano inni a Cristo”.
Abbiamo poi, nelle lettere paoline, anche le acclamazioni, come 1Cor16,22 “Maranà
tha, vieni, o Signore”. Queste confessioni, queste professioni di fede e queste
acclamazioni, esprimono il “di più” che scaturisce dalla celebrazione
liturgica.
Si ha, dunque, come un movimento pendolare nel senso che molti elementi delle lettere paoline
partono dalla liturgia, ma anche le stesse lettere tendono alla liturgia, intesa come preghiera
dell'assemblea domenicale, dato che le lettere di Paolo sono destinate ad essere lette in
questo contesto comunitario. Non dobbiamo dimenticare che Paolo scrive sempre per delle
assemblee (liturgiche), mai per i singoli.
(4) la spinta missionaria. Quando una comunità matura la sua esperienza
di fede, avverte una spinta a comunicare anche ai lontani questa ricchezza di fede e di
contenuti. In Paolo questa esigenza traspare continuamente ed egli sempre la ricorda alle
comunità cui scrive.
Sintetizzando, possiamo allora dire che la fede resta sempre, in Paolo, accoglienza
incondizionata, che deve poi essere sempre rinnovata nel corso della vita per influenzarla, che
deve essere vissuta e condivisa insieme, e che spinge infine verso la missione.
Il progetto di Dio, come abbiamo visto, è il piano che unisce Dio e
l’uomo. Il vangelo è la prima espressione di questo progetto. La fede (nei suoi
quattro livelli) è l’accoglienza del vangelo. Veniamo al passo successivo: con il
battesimo scatta nell’uomo un movimento di rinnovamento che Paolo chiama
“giustificazione”. E’ l’energia di Cristo che tende a moltiplicare gli
elementi positivi dell’uomo; è l’energia della morte di Cristo che diviene
la morte di alcuni elementi dell’uomo ed è l’energia della resurrezione di
Cristo che permette la nascita di altri, di modo che l’uomo si “sta
salvando”, si “sta giustificando”. E’ l’uomo battezzato che viene
reso capace di vivere in pieno questa dimensione.
“Giustificazione”, con i vocaboli connessi, è un termine molto diffuso e
importante in Paolo. Egli usa i seguenti termini:
Vediamo ora l’origine veterotestamentaria di questo termine. Se
in ambiente greco “giustizia” significa quello che significa anche oggi, non
così è per l’AT e per Paolo.
Troviamo nell’AT 157 volte il termine "sedaqah", “giustezza”, che
è un concetto relazionale. Sicuramente Paolo, che aveva una formazione ebraica, se ne
è servito. Il significato di fondo ebraico aiuta molto a comprendere quello paolino.
Esso indica il pareggio fra una misura ed una realtà misurata, una realtà
che deve corrispondere alla misura. C'è, ad esempio, una misura fisica che mi mostra la
corrispondenza fra il peso e la quantità. Se io chiedo 3 chili di farina, quando
effettivamente mi saranno dati 3 chili avremo una corrispondenza.
Lo stesso vale per una misura in senso morale, la legge, che mi chiede un certo comportamento:
ci sarà pareggio quando la mia condotta corrisponderà a ciò che la legge
prescrive.
C'è così una misura per il rapporto con Dio, quando, essendomi richiesto di
amare Dio con tutto il cuore, io veramente vivo nel “timore di Dio”.
C’è così una misura in senso antropologico, se l’uomo concretamente
vivente corrisponde all’uomo ideale, così come l’ha “inventato”
Dio.
Così è la giustizia divina: quando diciamo che il Signore è giusto
intendiamo che le sue promesse, il suo progetto, realmente vengono da Lui condotti a termine
con coerenza. Proprio per questo la relazione di Dio verso il male è di ira, di furore
(così nell’Ap), ma la prospettiva è sempre positiva, tesa alla
realizzazione della giustizia propria di Dio, del suo disegno di bene verso l’uomo.
Azzardiamo allora una prima proposta di traduzione del termine “giustificazione” a
partire da questo retroterra veterotestamentario: potremmo renderlo con
“riabilitazione”, “autenticità dell’uomo”,
perché bisogna correre il rischio di tradurre i termini biblici.
Se veniamo direttamente a Paolo, possiamo partire da Rom3,26. La lettera ci presenta Dio
“giusto” perché “giustificante”: Dio è fedele alle
promesse perché rende l’uomo capace di fare pareggio. E’ Dio, ovviamente,
che può fare questo pareggio. Infatti Dio si presenta come “giusto”, ma non
nel senso di esigere qualche cosa. Dio è in pareggio quando il suo disegno - proprio
perché è un Dio che promette, che prende impegni - si manifesta concretamente,
ossia si realizza nel tempo e nello spazio. Dio è giusto perchè è fedele
alle sue promesse.
Per questo Rom3,26 afferma che "Dio è giusto e giustificante"
(δικαιον και
δικαιουντα, "dikaion e dikaiounta"),
“giustificante” nel senso di rendere giusto. Dio è giusto non perchè
esige l'osservanza della legge e siede in tribunale, ma perchè è un Dio che fa
pareggio fra le sue promesse e la realtà della storia. Giustificante nel senso che
causa attivamente il pareggio di colui che si apre al vangelo attraverso l'accoglienza della
fede. L'uomo è reso pari alla misura dell'identikit che Dio stesso ha dell'uomo.
Potremmo dire allora che il termine “giustificazione” è un concetto
“sintetico” in Paolo. Come nella "sedaqah" abbiamo un pareggio tra la
formula o misura riferita all’uomo e la realtà umana concreta, storica, fattuale
corrispondente, così avviene nella “giustificazione”: la misura pensata
da Dio per l’uomo è quella di Gen1,26, l’essere “immagine di
Dio” focalizzata nella forma di Cristo, così l’uomo giustificato vi
corrisponde pienamente come “liberato”, come “figlio”, come
“animato dallo Spirito”, come “capace di opere buone”. L'immagine di
Dio è così condensata in Cristo morto e risorto e la formula dell'uomo è
l’ "immagine di Dio realizzata nella forma di Cristo".
Nella ricostruzione che Paolo fa di Genesi “immagine di Dio” non è allora
da intendersi come copia sbiadita o non corrispondente, anzi! L’uomo, capito bene, deve
far pensare a Dio, deve farlo vedere in trasparenza.
Già l’AT, soprattutto nei testi propri della LXX, ci orienta in questo senso:
quando l’uomo ama, questo lo mette sulla linea di Dio, quando l’uomo conosce,
pensa, crea, questo lo mette sulla linea di Dio, quando l’uomo decide, ecc. ecc. Sono
tutti elementi che corrispondono ad elementi che si trovano in Dio.
Paolo ci dice ulteriormente: la somiglianza di Dio acquista la µορφη
(“morfè”), la forma di Cristo. Le scelte dell’uomo, il suo
amore, la sua conoscenza, hanno la stessa forma delle scelte, dell’amore, della
conoscenza di Cristo.
Quando nell’uomo concreto si trovano i tratti di Cristo, quando si trovano questi
tratti, l’uomo fa pareggio fra la sua realtà ideale e la sua realtà
concreta. E’ l’uomo liberato dalla sua peccaminosità, è l’uomo
figlio come Cristo è figlio, l’uomo animato dallo Spirito come Cristo lo è,
l’uomo capace di opere buone, capace di fare quelle scelte che Cristo farebbe al suo
posto o, meglio, che Cristo fa insieme a lui: questo è l’uomo giustificato.
E’ da ricordare qui che per Paolo “uomo” e “cristiano” sono
due vocaboli molto vicini: è Cristo l’ultimo Adamo, colui che porta a
compimento l’uomo. Possiamo leggere Rm3,23: “Tutti hanno peccato e sono privi della
Gloria di Dio”, ma è proprio grazie alla vitalità di Cristo che
l’uomo è portato ad essere ed a comportarsi come immagine e somiglianza di Dio,
cioè come “uomo”. Dio giustificante, quindi, dona Cristo sia nella sua
capacità distruttiva del peccato, sia in quella vitalizzante dell’immagine di Dio
nell’uomo che comincia ad essere giustificato. Il movimento di giustificazione è
un moto di liberazione e partecipazione: siamo figli di Dio.
Al di fuori di questo c’è l’
απωλεια (“apoleia”), la perdizione.
Che cosa comporta allora la giustificazione?
In primo luogo la liberazione dalla insufficienza della peccaminosità (la
redenzione). Il peccato non è solo ribellione, rifiuto di Dio. E’ anche questo, ma
è soprattutto un vuoto nella “formula” uomo. E’ non realizzare il
progetto di Dio che è l’uomo.
Anche etimologicamente il termine ebraico “peccato” che sta dietro al greco
αµαρτια (“amartia”) vuol dire “qualcosa
che manca il bersaglio”. Paolo ha sicuramente anche un concetto verticale del peccato. Ma
perché Dio si irrita del peccato dell’uomo? Non perché Dio si irrita per un
suo diritto leso, ma perché Dio ama l’uomo e vede che al posto di realizzare se
stesso, l’uomo fa il vuoto, “scava delle buche”. Quando uno ama una persona e
questa sbaglia, non dice: “Sono fatti suoi”, ma si commuove, si irrita. Il primo
effetto della energia di Cristo morto e risorto è la redenzione da questa
peccaminosità. Paolo vede l'uomo sbilanciato e dunque l'uomo che deve essere liberato
prima dalla sua peccaminosità.
Il secondo aspetto è l’aggancio vitale con Cristo. L’uomo è
come saldato a Cristo con la giustificazione. Ciò che è di Cristo passa
nell’uomo. Ciò che è nell’uomo passa in Cristo. L’uomo
agganciato a Cristo diventa figlio, la filiazione di Cristo passa all’uomo: è
l’uomo nella situazione di nuova creatura, di santificato, comunicatagli dallo
Spirito.
L’aspetto conseguente è il fatto che la giustificazione rende l’uomo
capace di fare esistenzialmente le scelte di Cristo. E’ l’uomo saggio,
sapiente, capace di interpretare situazioni, uomini, persone, con gli stessi occhi di Cristo.
Come dice 1Cor1,30: “Da Cristo voi esistete (come cristiani) il quale divenne per noi
sapienza, anche giustificazione e santificazione e redenzione”.
Cristo ci libera: è la redenzione.
Ci dà la santificazione, cioè ci dà la sua sacralità, la sua
situazione di figlio, la sua omogeneità con il Padre.
Ci dà giustificazione: l’uomo pareggiato potrà allora essere l’uomo
sapiente.
L’uomo fa pareggio se esprime i tratti caratteristici di Cristo: liberazione,
cancellazione dei tratti anticristici, colmare le lacunosità. E poi con l’
“impressione” dei tratti di Cristo nell’uomo.
Ecco che le scelte e le sofferenze dell’uomo acquistano valore cristologico, come se
fossero di Cristo (per la reciprocità).
Questo si può esprimere anche con il termine
κοινωνια (“koinonia”), compartecipazione.
Così in 2Cor13,13, dove leggiamo: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo
(la sua situazione di figlio, con tutto il suo amore), l’amore di Dio e la
“koinonia” dello Spirito (la comunione omogeneizzante che lo Spirito realizza fra
noi e il Padre) siano con voi”.
In sintesi, possiamo dire che la “giustificazione” è, per Paolo, come un
“cestino” teologico: unisce, connette vari aspetti della vita cristiana.
Infine, ultimo aspetto, Paolo ci mostra nella giustificazione
l’interpersonalità o, potremmo dire, l’intersoggettività del
vangelo. Paolo non dice: “Voi avete la redenzione, la santificazione, la
giustificazione”, ma piuttosto: “Cristo, il quale divenne per voi redenzione,
santificazione, giustificazione”.
Ritornando a 1Cor1,30, possiamo analizzare parola per parola il brano, commentandolo:
“Da Dio voi siete in Cristo Gesù, il quale divenne a noi sapienza per voi da
parte di Dio, anche giustificazione e santificazione e redenzione”.
“Da Dio voi siete” (è la situazione attuale dei Corinti),
“in Cristo Gesù” (è la formula ideale dell’uomo, ad immagine
di Dio, nella forma di Gesù Cristo),
“il quale divenne a noi” (è un aoristo che indica il divenire storico,
concreto; non è un verbo al presente, ma afferma il fatto che è divenuto in un
momento concreto della storia; è un aoristo ingressivo che indica un essere iniziato in
un momento, ma che continua ancora oggi),
“sapienza per voi da parte di Dio” (il pareggio a livello di comportamento di
colui che ha rinunciato a voler fare da se stesso e si è affidato alla sapienza di
Dio),
“anche giustificazione” (si è realizzata storicamente la corrispondenza, il
pareggio a livello di essere ontologico),
“e santificazione” (omogeneità con Dio, cioè l’essere figli,
l’essere guidati dallo Spirito),
“e redenzione” (liberazione dalla peccaminosità, dalle lacune).
Accogliendo Cristo, noi accogliamo un “Cristo che...”, un Cristo che agisce in
noi. Noi siamo persone e Cristo si dona a noi come persona. C’è una saldatura,
una omogeneizzazione tra l’uomo e Cristo. E più c’è un
rapporto vivo con Cristo, più c’è fede al secondo livello (come abbiamo
già visto), più c’è giustificazione.
L'idea della giustificazione è, dunque, un'idea fondamentale in Paolo. L'azione
pareggiante di Dio raggiunge l'uomo quando questi si apre con la fede al Vangelo. Tutto
ciò si condensa nel Battesimo, con il quale il cristiano accetta la presenza di Cristo
morto e risorto. Proprio nel Battesimo ha inizio il cammino della giustificazione. Non esiste
una fine del cammino, se non nella fase escatologica, ossia quando si sarà realizzata
perfettamente quell'immagine.
Il termine usato da Paolo è
εκκλεσια ("ekklesia"); compare 62 volte su
un totale di 114 volte nel NT, pari al 54,4%, quindi una presenza piuttosto forte. La Chiesa
è, infatti, uno dei temi teologici che più ha interessato Paolo.
Il contenuto di questo termine è “l'insieme dei giustificati”. Riprendiamo
l’espressione “giustificato” da Rom6,7 dove compare il perfetto del verbo
δικαιοω ("dikaioo"), “giustificare” che
già abbiamo visto. La Chiesa è l’insieme dei “giustificati”, di
coloro che sono in divenire nel processo di giustificazione, che si stanno giustificando, non
semplicemente i già giustificati. E’ il contesto in cui si viene a trovare,
insieme a tutti gli altri, colui che è battezzato.
Questo insieme ci appare sempre strutturato e ciò già nella prima lettera di
Paolo in ordine cronologico, nella I lettera ai Tessalonicesi; questa strutturazione non si
aggiunge “poi”, ma è presente fin dall’inizio. Si tratta di un
contesto strutturato, non di una “massa”, anche se utilizzare già la parola
“gerarchia” sarebbe azzardato.
In una prima analisi del termine notiamo, soprattutto, che l’insieme dei giustificati
è partecipe della vitalità di Cristo morto e risorto (o
Κυριος, “il Kurios”, “il
Signore”, nel senso di colui che sta comunicando la sua vitalità di risorto).
L’espressione greca κυριος di per sé
significa “signore”, nel senso di “padrone” (“dominus”).
Per la religiosità greca e soprattutto per quella giudaica, però,
c’è un aspetto molto importante da considerare: nella LXX, con questo termine, si
traduce per più di 6000 volte “YHWH”! Non è quindi solo
“signore”, e nemmeno “Dio”, inteso in senso generale, ma il termine
esprime il nome proprio di Dio. Si comprende così meglio l’importanza di
Fil1,2, quando Paolo chiama Cristo Κυριος, colui che
comunica la sua vitalità alla Chiesa. Quando tale vitalità è ricevuta
dalla comunità, c'è una cristificazione della comunità e dunque la
vitalità della comunità diviene quella di Cristo.
Inoltre questa Chiesa tende ad irradiare sugli altri uomini e sul cosmo questa vitalità
di Cristo: è la missionarietà. E’, quindi, una Chiesa unita (ha
“amore” all’interno) ed è una Chiesa missionaria (ha
“amore” all’esterno). Troviamo in essa un amore intraecclesiale e verso
tutti, un amore, potremmo dire, “vertiginoso” che manifesta il culmine della
vitalità di Cristo (cfr.1Cor13). Come dice 1Tes3,12: “Il Signore vi faccia
crescere nell’amore verso di voi e verso tutti”, poiché l’amore
è la lingua ufficiale della Chiesa, è il linguaggio della Chiesa.
Tutti gli esegeti sono d’accordo che Paolo, anche per la Chiesa, parta
dall’esperienza dell’AT. Non dobbiamo mai dimenticare la giovinezza di Paolo a
Gerusalemme, dove avrà compreso la realtà del popolo dinanzi al Dio presente nel
Tempio, popolo che esce da questo incontro convertito, rinnovato. Incontriamo più volte
nelle lettere l’entusiasmo con cui Paolo parla dell’Israele di Dio e della
“ekklesia” di Dio. Sicuramente avrà avuto presenti nel suo cuore i Salmi
graduali (Sal121-131) che esprimono il cammino del popolo per arrivare a “vedere”
la gloria e la potenza di Dio. Questo popolo che si incontra con Dio presente che influisce
sulla vita, con Dio che spinge il popolo verso il “meglio”, in una prospettiva
messianica che Paolo ha sicuramente conosciuto, anche se non possiamo dire che fosse
necessariamente una aspettativa cosciente di un messia personale, a motivo delle varie forme di
messianismo presenti all’epoca. Di sicuro c’è, però, in questa attesa
messianica la prospettiva di un “di più” promesso da Dio. Dio, entrando in
contatto con il suo popolo, cambiandolo e vitalizzandolo, fa essere il suo popolo, lo rinnova e
lo spinge verso un meglio. Vedremo subito come Paolo applica questo quadro alla realtà
cristiana: Cristo morto e risorto fa essere il gruppo, con un dinamismo di crescita
continua.
Questa esperienza ebraica di Paolo è stata rinnovata dal suo incontro con il Cristo
morto e risorto, che ci è testimoniata dal NT. In Atti troviamo la famosa espressione
detta da Cristo a Paolo: “Perché mi perseguiti?” dove appare una chiara
identificazione fra Cristo e la Chiesa. Paolo comprende che nella massa, forse umanamente
disprezzabile della prima comunità cristiana, è presente Cristo risorto.
C’è un dinamismo per cui Cristo morto e risorto è presente e attivo nel
gruppo dei giustificati.
A questa espressione segue anche qui la riflessione paolina, poiché Paolo è
sempre caratterizzato da un’esperienza riflessiva, come già abbiamo visto.
Vogliamo evidenziarne tre aspetti costitutivi.
(1) La Chiesa è il corpo ecclesiale intorno al corpo eucaristico.
E’ il gruppo che si costituisce intorno al corpo eucaristico di Cristo, come vediamo in
1Cor10,16-17: “Parlo a voi come a persone intelligenti... valutate voi stessi” -
Paolo sempre invita alla riflessione – “il calice che noi benediciamo non è
forse partecipazione al sangue di Cristo, il pane non è koinonia, partecipazione del
corpo di Cristo? Poiché il pane è uno, noi, in molti, siamo un solo corpo, tutti
quanti partecipiamo (metechomen) al pane che è uno”.
Noi, molti, noi pluralità (πολλοι), siamo
uno.
(2) Nella Chiesa c’è un rapporto fra la molteplicità dei carismi
e l’unità risultante, “come in un corpo” (1Cor12-14).
L’immagine di un unico corpo era già presente nell’ambiente ellenistico e
romano (cfr. Menenio Agrippa); era un’idea applicata da diversi autori alla
società per indicare che se qualcosa andava male a livello sociale ne avrebbe risentito
tutto il gruppo ed, alla fine, anche la parte stessa che si era ribellata o che non aveva
voluto compiere il proprio lavoro.
In Paolo la prospettiva è, però, diversa: è Cristo, il Kurios, il
Signore che influisce dando vita all'assemblea, che è la causa e la fonte
dell’unità. Si accentua così il dono di vitalità che è lo
Spirito di Cristo, che viene capito come partecipazione alla vitalità di Cristo risorto.
Lo Spirito donato suscita nell'assemblea delle attitudini, delle capacità proprie dei
singoli membri dell'assemblea (apostolato, profezia, governo, consolazione, insegnamento).
Queste capacità, attivate dallo Spirito, sono dette “carismi” (risultato di
un'azione di grazia e di benevolenza, dal termine "charis", “grazia”). Guardando i
vari carismi nell’“ekklesia” si nota una reciprocità come in un
corpo.
(3) La Chiesa “è” il corpo di Cristo. Questo è il
massimo di sviluppo di Paolo, nella sua esperienza di chiesa. La Chiesa è il corpo di
Cristo, è la concretezza relazionale di Cristo in sviluppo. Possiamo vedere subito
Ef1,23, che poi torneremo a considerare: “La Chiesa è il suo corpo, la pienezza di
colui che realizza se stesso in tutte le cose”. Cristo, nello Spirito, vivifica la Chiesa
non solo “come un corpo”, ma come “il corpo”, come “il suo
corpo”.
Paolo non usa l’espressione che diverrà poi tradizionale di “corpo
mistico”. Per approfondire cosa egli voglia dire affermando che la Chiesa è corpo
di Cristo, dobbiamo analizzare di più il concetto paolino di corporeità. Paolo,
se da un lato, supera il “dualismo” greco di corpo ed anima, d’altro canto
sviluppa e precisa pure in una nuova direzione il concetto di “personalità
corporativa” ebraico.
Nell’ambiente greco, che Paolo ha conosciuto, era presente un dualismo (anche se
dobbiamo stare attenti, perché questa è una eccessiva semplificazione della
ricchezza del pensiero greco) che suddivideva nell’uomo la parte materiale, il corpo
dalla parte spirituale. Le due parti sembravano talvolta quasi opporsi:
σαρξ/πνευµα, parte inferiore/parte
superiore, parte deteriore/parte migliore. Non è certo questo il senso che Paolo vuole
dare all’affermazione che la Chiesa è “il corpo” di Cristo.
Nell’ambiente ebraico, nel quale Paolo si è formato, la parola
“corpo”, invece, è quasi assente; le si preferiva la parola
“basar”, “carne”. Nell’AT, il corpo non appare come un qualcosa
di distinto, ma l’attenzione è tutta sulla globalità della persona.
Paolo si sarà certamente formato, invece, all’idea di “personalità
corporativa”, concetto utilizzato per la comprensione di alcuni brani dell’AT nei
quali vediamo un continuo interscambio fra la singola persona, da un lato, e, dall’altro,
una realtà comunitaria, come il popolo stesso. Troviamo questo, ad esempio, nei canti
del servo di YHWH in Isaia: il profeta parla di una persona singola, ma questa persona si
identifica talvolta con tutto il popolo. D’altro canto è il popolo stesso che
può essere letto, a sua volta, come un’unica persona, è tutto il popolo che
può essere capito in termini personali. Il “servo di YHWH” è sia una
singola persona, sia il popolo tutto personificato in un unico soggetto. Alcuni esegeti hanno
proposto di vedere in questo retroterra lo sfondo a partire dal quale Paolo ha compreso la
realtà della Chiesa.
Ma, in realtà, quale di queste due linee Paolo adotta? Paolo sceglie una sintesi che va
oltre le due, superando sia il dualismo greco, sia l’astrattezza del concetto di
personalità corporativa. Esaminando, infatti, l’uso di
σωµα nelle lettere paoline, si intuisce che per Paolo l’uomo non
è diviso in anima e corpo. Ma Paolo sembra intendere anche qualcosa di nuovo rispetto
alla concezione giudaica di “personalità corporativa”.
Per l’antropologia paolina, il “corpo” è la concretezza
relazionale della persona: il corpo è la persona stessa, vista nel tempo e nello
spazio, nella sua concretezza. E’ anche la persona vista nel suo ambiente circostante: il
corpo è la persona stessa, vista nel suo divenire.
Scendendo più vicino ad osservare cosa significhi questa concretezza relazionale
potremmo dire due cose: con l’espressione “concretezza” intendiamo
sottolineare come, in Paolo, la persona sia sempre “situata” nel tempo e nello
spazio (abbia una fisionomia, una storia, un contesto, una cultura...), con l’espressione
“relazionale” vogliamo, invece, evidenziare che, nel pensiero paolino, la persona
nel tempo-spazio entri sempre in relazione con altre persone situate anch’esse nel
tempo-spazio (il cristiano ama una persona, aiuta, offende, ecc. ecc.). E’ interessante
rileggere 1Cor6,20 alla luce di queste riflessioni, laddove Paolo dice: “Glorificate Dio
nel vostro corpo (cioè nella vostra concretezza relazionale)”. Questa visione ci
permette di unificare due approcci esegetici che avevano sottolineato separatamente questi due
aspetti della concezione paolina del “corpo”: l’interpretazione di Bultmann
che si era incentrata sul concetto di “persona” e quella di Käsemann che
aveva, invece, sottolineato i rapporti che caratterizzavano la persona stessa.
Se questa è la visione antropologica di Paolo, se questa è la sua concezione del
“corpo” dell’uomo, tutto questo getta una luce, per comprendere cosa voglia
egli affermare chiamando la Chiesa il “corpo” di Cristo.
Vediamo subito come già il “corpo eucaristico” di Cristo in Paolo sia una
presenza “per”, sia un corpo che spinge per entrare in relazione. E’ la
dinamica del corpo risorto di Cristo che tende a comunicarsi.
Così, in Paolo, l’insieme della Chiesa è talmente legato a Cristo da
costituire la sua concretezza relazionale. Il Cristo risorto, preso da sé solo,
sarebbe in qualche modo isolato, mentre egli è “per la nostra
giustificazione”. E’ Lui stesso, allora, che si distribuisce nel suo corpo
ecclesiale al punto che ci ritroviamo ad avere una coincidenza fra Cristo ed il corpo, tale
è l’omogeneità fra Cristo ed il cristiano!
Quando quindi diciamo che la Chiesa è il corpo di Cristo, intendiamo dire che la Chiesa
è la concretezza relazionale di Cristo. Cristo ha voluto essere unito agli uomini, ha
voluto essere una somma di “Lui più noi”, al punto che il risorto non si
può più dividere dagli uomini. Cristo è individuo, è persona,
ma possiamo pensarlo come un “corpo” che ha concretezza relazionale (è il
Cristo totale di Agostino, il Cristo che “sarà tutto in tutti”).
Ne consegue altresì che Cristo “si realizza” man mano che una persona
accoglie il Vangelo, diventando un Cristo “totale” perché la sua
realtà di vitalità entra in rapporto con le persone nella loro concretezza
relazionale.
La Chiesa è Cristo che cresce fino alla sua statura completa (Ef4,14), è Cristo
che cresce nella sua Chiesa e con la sua Chiesa. C’è così una crescita per
raggiungere la piena statura di Cristo. Cristo “cresce” nella sua Chiesa fino a
raggiungere attraverso di noi la sua (e nostra) “piena statura”.
Comprendiamo così meglio il senso del testo di Ef1,23 che abbiamo citato
all’inizio: “La Chiesa è il suo corpo, è la pienezza di colui che
realizza (se stesso) in tutte le cose”. Per Paolo, insomma, il “segreto”
della Chiesa è la presenza viva del Cristo; è per questa realtà presente
che la Chiesa è il corpo di Cristo.
Allora la Chiesa è Cristo stesso che realizza insieme a noi la pienezza della
resurrezione nella storia. La resurrezione di Cristo e dei cristiani non sono così due
diverse resurrezioni, ma la stessa resurrezione che avviene in due momenti diversi.
In 1Cor15 abbiamo come un “trattato” sulla resurrezione. Leggiamo in 1Cor15,28 che
la meta è giungere al regno di Dio, alla
βασιλεια του
Θεου, al “Dio che è tutto in tutti”
(1Cor15,28).
Questo regno di Dio, in Paolo, è strettamente escatologico – la Chiesa non
è ancora il regno (qui il linguaggio è diverso dai sinottici dove Chiesa e Regno
tendono a sovrapporsi, nell’affermazione che il regno è già presente). La
“basileia” è Dio “tutto in tutti”: questo è il fine, la
meta, il “telos”. Quando questo sarà avvenuto, la Chiesa sarà
divenuta la basileia, il regno di Dio.
Vediamo, infine, la dimensione escatologica. Paolo ha un vivissimo senso
della storia, possiede un uso molto attento della terminologia relativa alla nozione di
“tempo”. Questa importanza riconosciuta al tempo è in linea con la storia in
chiave biblica che è la sede degli avvenimenti operati da Dio che, pure, si svolgono nel
tempo.
Paolo distingue innanzitutto utilizzando con precisione due differenti termini della lingua
greca: Χρονος, “chronos” e
καιρος, “kairòs”.
"Chronos" è il tempo senza specificazioni, è il tempo generale, il tempo che
scorre continuamente, mentre "kairos" è un segmento del “chronos”, un tempo
speciale particolarmente importante: potremmo tradurre quest’ultimo con
“occasione”, “occasione propizia”.
Se ne sottolinea, così, la dimensione presente: è il tempo opportuno,
l’occasione di cui ora, adesso, approfittare, senza lasciarla sfuggire. Paolo insiste
molto sul presente e sottolinea tale dimensione usando gli avverbi greci νυν
("nun") e νυνι ("nunì"), il primo 52 volte su 148 nell’intero
NT (35,1%), il secondo 15 volte su 18 (83,3%). La somma di entrambi ci porta a 67 volte su 166
presenze nel NT, per un totale percentuale del 40,3%. Già a livello statistico vediamo
che questo termine è significativo nel corpus paulinum.
Paolo afferma con forza che ora, adesso, è il "kairos". E’ oggi il momento nel
quale accogliere la vitalità di Cristo morto e risorto. Nelle lettere di Paolo il Cristo
si autogiustifica; non c’è bisogno della giustificazione dell’AT. Cristo si
presenta da sé. Paolo insiste così molto sull’impegno nel presente, ma esso
è comunque illuminato da passato e futuro.
Il passato, il “prima”, è sempre presente allo sguardo ed è
l’AT. Il NT illumina l’AT e viceversa. Paolo riesce a vedere in Cristo la sintesi
di tutto il tempo che è stato (l’AT) in ogni sua piccola parte.
Ma il presente si situa anche in relazione al futuro. Paolo vuole che il cristiano viva
nel presente ma, insieme, gli presenta il futuro che fa comprendere la posta in gioco nel
presente.
Nel presentarci il futuro Paolo indica due dimensioni, legate l’una all’altra. La
prima è quella del futuro individuale, della situazione intermedia del singolo subito
dopo la morte, la seconda è quella del futuro collettivo, la resurrezione finale.
(1) Potremmo parlare del futuro individuale subito dopo la morte come di uno
“stadio intermedio” tra la situazione attuale e la resurrezione dei morti. E’
uno dei punti più spinosi nell’interpretazione paolina. Paolo indica un “di
più” rispetto alla situazione della vita in terra, ma anche un “di
meno” rispetto alla situazione finale. Fil ci dice del “desiderio di essere con
Cristo”, 1Cor del desiderio “di essere in esilio da questo corpo”, ma
c’è sempre il gusto della vita ed il rifiuto di qualsiasi disprezzo della vita.
Tutto questo in piena conformità con l’intero messaggio biblico, nel quale
troviamo solo pochissimi suicidi ed il totale rifiuto dell’idea del suicidio romantico!
Paolo non ama la morte, ma afferma chiaramente che, tramite la morte, avrà luogo per lui
un maggiore contatto in Cristo (questo è il “guadagno”, il valore della
morte).
Nel considerare il futuro dell’individuo Paolo non pone il problema
dell’immortalità dell’anima, non divide l’uomo in anima e corpo, ma
parla chiaramente di continuità dell’io, affermandone implicitamente
l’esistenza. Ma su questo gli autori si dividono. Ad esempio Cullmann ed altri hanno
sostenuto che dopo la morte avviene la resurrezione individuale; il massimo, però, per
Paolo lo si avrà quando avverrà la resurrezione universale.
(2) Il futuro collettivo, universale, è espresso particolarmente in
1Cor15,20-28 dove Paolo parla di τελος ("telos", “il
fine”), di conclusione come fine di perfezione, quando "Dio sarà tutto in tutti",
ma parla anche di παρουσια ("parusia",
“venuta” e “presenza” di Cristo) e di
βασιλεια ("basileia", “regno").
Questo “telos”, questo “fine” (“il” fine, non
“la” fine) è la vetta raggiunta, è il progetto di Dio attuato in
pieno, è la resurrezione di Cristo realizzata pienamente nel portare a compimento tutto
la storia.
Comprende insieme la “parusia”. Il tema della "parusia" è
importantissimo in Paolo. Il termine etimologicamente indica sia la “presenza”, sia
la “venuta” di Cristo: potremmo dire “la venuta come manifestazione di una
presenza”. Il sostantivo parusia ha due sfumature di significato, a seconda che la
particella παρα di cui è composto si leghi al verbo
“eimì” (in questo caso è composta con il verbo “essere”,
“essere presente”, e parusia significa dunque “presenza”) od al
verbo “eìmi” (in questo caso è composta con il verbo che significa
“venire” e parusia vuol dire allora “venuta”,
“adventus”). Paolo adopera il termine con ambedue le accezioni.
La parusia non è così la venuta di un estraneo, di “qualcuno che
arriva”, ma di qualcuno che, presente, si manifesta; è il passaggio (una
realtà dinamica, quindi!) dall’implicito all’esplicito, al manifestato, al
conosciuto: è la visibilità di Cristo che si imporrà anche a chi non la
vuole vedere. Paolo usa per esprimere questo concetto anche il vocabolo
αποκαλυψις,
“apocalissi”, “svelamento”.
Per Paolo esiste così una presenza ("parusia") permanente di Cristo nella Chiesa, ma,
insieme una venuta (sempre lo stesso termine, “parusia”) di Cristo che si deve
ancora realizzare.
La parusia porterà alla piena instaurazione del Regno di Dio, della "basileia" che,
come abbiamo già visto, non è il Regno di Dio presente, come lo intendono i
sinottici, ma il Regno escatologico, la situazione del progetto di Dio pienamente realizzato.
E’ il Regno “che viene” alla fine.
Il “circolo giovanneo” e il cammino
della chiesa verso la Gerusalemme celeste
Perché non montassi in superbia
mi è stata messa una spina nella carne (2 Cor 12, 7)
La catechesi e il catechista nell’esperienza
ecclesiale del Nuovo Testamento
Una donna vestita di sole, con la
luna sotto i suoi piedi (Ap 12,1-6)
Per altri articoli e studi di p.Ugo Vanni S.J. o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Le 7 lettere riconosciute da tutti gli esegeti come sicuramente paoline sono: 1Ts, 1Cor, 2Cor, Fil, Gal, Rom, Fm.
[2] Sono Ef, Col, 2Ts.
[3] Sono le lettere dette anche “pastorali”, 1Tm, 2Tm e Tt. Un discorso a parte merita la lettera agli Ebrei.