Il “circolo giovanneo” e il cammino della chiesa verso la Gerusalemme celeste (tpfs*)
di Ugo Vanni

Il presente articolo è un invito a riprendere il filo conduttore che lega il vangelo di Giovanni, le tre lettere che portano il suo nome e l’Apocalisse, per coglierne la continuità e le specificità rispettive.
L’articolo è tratto da AA.VV. Guida alla lettura della Bibbia. Approccio interdisciplinare all’Antico e al Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995, pagg.415-428. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago


Indice


L’espressione circolo giovanneo, usata da O.Cullmann nel 1975[1] per indicare l’ambiente ecclesiale dove si collocano il IV Vangelo, le Lettere di Giovanni e l’Apocalisse, mantiene a tutt’oggi un suo valore, ma esige di essere precisata.
La ricerca sviluppatasi nel tempo ha cercato di determinare ulteriormente la fisionomia storico-geografica del circolo giovanneo. Emerge, tra gli altri contributi, quello di Pietro Rossano che ravvisa nella chiesa di Efeso un centro propulsore di esperienza e di riflessione teologica dal quale sarebbe nato un complesso letterario tipico – Rossano lo denomina corpo efesino - comprendente, oltre la lettera agli Efesini, proprio il IV Vangelo, le Lettere di Giovanni e l’Apocalisse. Il circolo giovanneo sarebbe tipicamente efesino. Altre ricerche hanno messo in questione la consistenza del circolo giovanneo, specialmente per quanto concerne il suo rapporto con l’Apocalisse che qualcuno ha voluto vedere ruotante piuttosto intorno al mondo paolino o frutto dell’attività di un predicatore itinerante, sganciato da qualunque scuola.
E’ un problema tuttora dibattuto. Ma la continuità tematica evidente che lega il IV Vangelo, le Lettere e l’Apocalisse e la documentazione che ricaviamo dalla prima patristica permettono di affermare, con un fondamento solido, l’esistenza se non proprio di un circolo - farebbe pensare a una scuola teologica tipo le scuole filosofiche riscontrabili nell’area culturale greca – almeno di un movimento giovanneo che, facendo perno su Efeso, si sviluppa per un arco di tempo che abbraccia le ultime decadi del I secolo e le prime due del II.
Cercheremo allora di individuare i tratti più caratteristici del movimento giovanneo seguendone da vicino la linea di sviluppo che attraversa questi scritti.

IV vangelo: l’amore oblativo di Cristo e del Padre per l’uomo

La ricchezza del contenuto teologico-biblico del IV vangelo è impressionante e dà la sensazione netta di aumentare a ogni lettura. E’ impossibile però individuare un filo conduttore che unifichi in sintesi la sua teologia. Tra quelli proposti, lo schema discesa-ascesa illustrato da G.C.Nicholson[2] è particolarmente aderente. Un’espressione posta in bocca a Gesù lo esprime con tutta chiarezza: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora lascio il mondo e vado al Padre” (Gv16,28). L’affermazione decisa “sono uscito dal Padre” colloca inequivocabilmente Gesù a livello stesso del Padre. Se può partire dal cospetto del Padre ciò vuol dire che vive accanto a lui, faccia a faccia con lui. Questa intuizione teologica è familiare alla Chiesa di Giovanni, al punto da diventare oggetto di una celebrazione liturgica che poi confluisce nel prologo del vangelo (Gv1,1-18).
Il prologo è costituito da un inno prima a sé stante che il redattore riprende e incorpora nel testo del vangelo, con l’aggiunto di alcune indicazioni esplicative. Proprio all’inizio dell’inno primitivo che coincide con l’inizio del IV vangelo leggiamo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo” (Gv1,1). Quando nel IV vangelo troviamo, come accade qui, “Dio” con l’articolo (ho theos), si ha un’implicazione semantica trinitaria: Dio significa il Padre. La Parola che, come viene precisato nel seguito dell’inno (Gv1,14), diventa uomo e che, fatta uomo, sarà chiamata Gesù, si trova allo stesso livello trascendente che compete al Padre e – si afferma esplicitamente – è Dio come il Padre.
Gesù “esce” dal Padre per venire nel mondo, per essere, cioè, un uomo a contatto con gli uomini. Questo passaggio – più tardi la teologia lo denominerà “incarnazione” – comporta un contatto articolato con la situazione degli uomini e ce ne dovremo occupare. Intanto c’è da sottolineare che questo “uscire” di Gesù non solo non abbassa il suo rapporto con il Padre, ma tende addirittura a esplicitarlo. A contatto con gli uomini, Gesù guarda costantemente al Padre. Il Padre con cui Gesù sta in contatto permanente è per lui il paradigma irrinunciabile su cui modella il suo agire. Non saprebbe prendere un’iniziativa, non saprebbe assumere un atteggiamento senza “vederlo” prima nel Padre (Gv5,19).
Inviato dal Padre, Gesù possiede in pieno la vitalità del Padre, vive in forza e in funzione di lui (Gv6,57). Proprio perché possiede questa vita e perché guarda al Padre, Gesù potrà dare la vita come fa il Padre ed esercitare a nome del Padre il giudizio sugli uomini (Gv5,19-30). Il rapporto tra Gesù e il Padre non potrebbe essere più stretto ed è tutto basato sull’amore: “Il Padre”, dichiara Gesù, “ama il figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa” (Gv5,20). All’amore del Padre, Gesù Figlio corrisponde in maniera adeguata. Ricerca la volontà del Padre e il compimento dell’opera sua con avidità: la volontà del Padre è il suo cibo (Gv4,34; cfr.Gv8,29; 11,9-10). Concerterà col Padre il dono della sua vita a favore del suo gregge (Gv10,18), e, pur sentendo tutto il peso della sua “ora” (Gv12,27), non esiterà ad affrontarla per dimostrare agli uomini che lui ama il Padre e si comporta come il Padre gli chiede (Gv14,31).
Riassumendo, potremo dire che Gesù parte dal Padre e viene nel mondo nel senso preciso che diventa uomo e si rende visibile e accessibile agli uomini, ma, in realtà, lui il Padre non lo lascia mai.
L’antico inno liturgico dice: “E il Verbo si fece carne e dimorò tra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv1,14). Gesù, venuto a contatto con gli uomini – nel “mondo” qui nel senso di “umanità” - agisce per gli uomini e vive per loro. Mette la sua dimora in mezzo a noi con l’intento di condividere tutto. Divenuto “carne”, accetta la condizione umana, con tutti i risvolti che comporta: gioirà con gli uomini, soffrirà con loro, si turberà e scoppierà in lacrime vedendoli piangere (Gv11,33-35). Si stancherà, avvertirà lo stimolo della sete e della fame (Gv4,6-7).
La manifestazione del Padre, la «verità», passa tutta at­traverso Gesù, al punto che potrà dichiarare, con un massi­mo di personalizzazione, di essere proprio lui la «verità» (Gv14,6). Rivelando il Padre, Gesù rivela se stesso, quello che lui è, la sua realtà, in una parola, per usare la terminologia del IV vangelo, la sua «gloria».
La manifestazione della gloria di Gesù è collegata già fin dall'inizio del vangelo con l'esecuzione dei «segni»: si tratta di prodigi attuati da Gesù, i quali contengono nel loro svol­gimento un messaggio da decifrare e che lo riguarda. Così, per citare i più rilevanti, Gesù si manifesta, nel segno di Ca­na (Gv2,1-11), come colui che dona in abbondanza e in qua­lità nel contesto della gioia nuziale messianica. Nel segno della moltiplicazione dei pani, che viene poi interpretata in tutta la sua portata da Gesù stesso nel discorso fatto nella sinago­ga di Cafarnao (Gv6,1-15 e 6,22-59), Gesù appare come il «pane» disceso dal cielo (Gv 6,33) con una funzione multi­pla di nutrimento, che va dalla sua parola all'eucaristia. La guarigione del cieco nato (Gv9,1-41) ci fa comprendere la funzione illuminante che Gesù, luce degli uomini, esercita nei loro riguardi donando la sua verità. Finalmente, il grande se­gno della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44) fa compren­dere e sentire anche emotivamente la realtà-valore, la «glo­ria» di Gesù: egli possiede e comunica la vita divina con una pienezza tale da superare anche la morte fisica.
L'interpretazione dei segni fa percepire e gustare quello che Gesù, nel mondo, in dialogo con gli uomini è in grado di of­frire loro. Perché questa offerta esaltante possa essere accolta si richiede da parte degli uomini l'apertura della fede. Quando la verità di Gesù trova un'accoglienza adegua­ta, si verifica una condivisione, potremmo addirittura dire un'osmosi, tra Gesù e l'uomo credente. I valori di Gesù pas­sano in lui, lo trasformano, lo arricchiscono, determinan­do una nuova situazione che assume i connotati di una vita nuova.
Non sempre la verità di Gesù trova l'accoglienza della fe­de. Fin dall'inizio del IV vangelo si profila una chiusura: Giovanni la denomina «mondo» con una connotazione ne­gativa (Gv12,31; 15,18-19; 16,11; 17,14-16 ecc.). La cosid­detta vita pubblica di Gesù si conclude, sulla linea che stia­mo vedendo di un'accoglienza e di un rifiuto della sua ve­rità, con un bilancio drammatico. Accanto al gruppo dei discepoli che, pur tra titubanze e incertezze, credono sin­ceramente, c'è un certo numero di persone che accolgono in superficie la verità di Gesù (Gv12,34-36). È un epilo­go amaro. L'evangelista lo mette in risalto con cura, citando il profeta Isaia (Gv12,38-40). È l'amarezza di un'occasione perduta.
Alla conclusione in negativo della vita pubblica fa seguito il libro dell'ora (Gv12-20) che ci presenta il ritorno di Gesù al Padre. Durante la fase ormai compiuta della sua vita, Ge­sù si è impegnato in un amore senza tregua verso i suoi. Ades­so, nell'ultima fase, si realizza un salto qualitativo proprio in questo amore: «Prima della festa di Pasqua, sapendo Ge­sù che era venuta la sua ora per passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv13,1).
L'amore fino al culmine[3] fa emergere aspetti nuovi della teologia di Giovanni e maggiora quelli già noti. L'aspetto più saliente è il «comandamento nuovo», la nuova direttrice di marcia per il cammino dell'uomo che sintetizza in termini ap­plicativi il messaggio precedente di Gesù. La si trova espres­sa in termini simbolici e suggestivi nella lavanda dei piedi (Gv13,1-20), esplicitata da Gesù: «Come io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv13,34).
L'amore, praticato fino in fondo, dà gioia. Proprio nel con­testo dell'ora, mentre realizza, con tutto l'impegno oneroso che ciò gli comporta, il massimo di amore, Gesù sperimenta quella che chiama «la mia gioia» (Gv15,11). La sua gioia - e questo conferma il legame con l'amore - sarà piena quando sarà partecipata anche ai discepoli (Gv15,11). Col­legata con la gioia, ma con un valore semantico più oggetti­vo, c'è la pace. Gesù la chiama la «mia pace» (Gv14,27). Si tratta di quel livello di positività, di bene messianico - il termine «pace» nel linguaggio del Nuovo Testamento ha questo valore - che Gesù realizza in misura ottimale nel con­testo dell'ora.
Possiamo specificare ulteriormente, sempre alla luce del­l'ora, questo dono messianico della pace chiarendone i pre­supposti e l'oggetto.
Il presupposto che permette a Gesù di realizzare il dono della pace è l'evento della sua regalità. Riconosciuto fin dal­l'inizio del IV vangelo come «re d'Israele» (Gv1,49), Gesù spiega a Pilato il tipo nuovo di regalità che intende attuare (Gv18,36-38) e viene presentato da Pilato ai Giudei come re (Gv19,13-15). Ma l'evento della sua regalità si attuerà pie­namente sulla croce. L'iscrizione - il IV vangelo dà a que­sto dettaglio un risalto tutto particolare - lo qualifica come re del nuovo popolo di Dio, con una valenza di universalità e con una stabilità che supera qualunque tendenza antagoni­sta (Gv19,19-22). Gesù crocifisso, innalzato da terra, attrae «tutto a sé» (Gv12,32)[4] e lo fa suo. E da Gesù crocifisso deriva la vitalità della Chiesa alimentata dal dono dello Spi­rito: è il simbolismo del sangue e dell'acqua che escono dal suo fianco aperto dalla lancia del soldato (Gv19,31-36).
Ma - viene da chiedersi - cosa comporta da parte dei cristiani questo immenso movimento oblativo da parte di Dio e di Gesù che culmina nel dono dello Spirito? Una prima ri­sposta è relativamente semplice, ma significativa. I discepoli che già credono in Dio sono invitati pressantemente da Gesù a credere anche in lui (Gv14,1).
Alla comunità, che probabilmente comincia a sperimen­tare la difficoltà e la fatica del cammino in salita proprio del­l'adesione incondizionata della fede, viene proclamato solen­nemente - come un messaggio conclusivo - il valore di una fede praticata senza vedere (Gv20,29).
Si determina allora la situazione tipica e costante dei cri­stiani: essi stanno in contatto continuo con Gesù, con un'a­desione totale a lui in senso assertivo ed esclusivo. Gesù è la vite; i cristiani, come singoli e come comunità ecclesiale, sono i tralci, sempre vivificati dalla linfa che proviene dal tron­co della vite e «potati» dal Padre perché fruttifichino di più (Gv15,1-17). Oltre a «essere» in Gesù, dovranno «rimane­re» in lui (Gv15,4-7).
Si realizza di conseguenza un'intimità senza precedenti tra il cristiano da una parte e Gesù e il Padre dall'altra. Gesù arriva ad affermare: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo di­mora presso di lui» (Gv 14,23). È il punto di arrivo dell'itinerario del IV vangelo.

La comprensione di Gesù e il ruolo dello Spirito nelle Lettere

Le tre Lettere di Giovanni, e specialmente la prima, si sal­dano col IV vangelo in un rapporto di continuità. L'esperienza di Gesù si realizza di fatto nella situazione ecclesiale che ci è testimoniata dalle Lettere. È una situazione complessa. Nelle Lettere, soprattutto nella prima alla quale normalmente ci riferiremo, confluiscono aspetti della vita ecclesiale che, oltre a presentare una notevole varietà tra di loro, hanno avuto anche uno sviluppo diverso nel tempo.
Notiamo anzitutto come, nella I lettera, tutto sembra ruo­tare intorno a Gesù e alla sua verità. Egli è il «Verbo della vita» (1Gv 1,1): con questa espressione densa si fa riferimento sia alla verità che Gesù esprime e manifesta in questa «paro­la» del Padre sia a quella vita, qualitativamente eterna, che egli è in grado di comunicare.
Gesù esige di essere compreso adeguatamente: non com­preso o travisato, Gesù rischierebbe di divenire, proprio nei riguardi della Chiesa, insufficiente o controproduttivo. Man mano che la sua azione vitalizzante si estende e si articola, si fa sentire in modo acuto nella comunità l'esigenza di ca­pirlo fino in fondo, di non identificarlo con un qualche det­taglio che deriva da lui. Così alla Chiesa che si sente pervasa dallo Spirito, simboleggiato dall'acqua, e rischia di dimenti­care che la radice di tutto questo è l'offerta che Gesù ha fat­to della vita, viene ricordato: «Questi è colui che è venuto con acqua e con sangue: Gesù Cristo; non soltanto con l'ac­qua, ma con l'acqua e con il sangue» (1Gv5,6). C'è una con­tinuità manifesta con il simbolismo del IV vangelo a propo­sito del sangue e dell'acqua che escono dal fianco di Cristo (Gv19,34) in uno sviluppo teologico in crescendo.
A proposito, poi, di Gesù «Verbo» viene tra l'altro incul­cata la necessità di attuare il comandamento dell'amore nel­la pratica della vita, cogliendo quella freschezza che, anche se di fatto si tratta di un comandamento noto e quasi scon­tato, lo rende sempre nuovo (1Gv1,7-11).
In sintesi: Gesù deve essere riconosciuto, addirittura pro­clamato in pubblico - «confessato» - per quello che vera­mente è: il «Cristo» (1Gv5,1), «il Figlio di Dio» (1Gv4,15), «il salvatore del mondo» (1 Gv4,14). Si parla ripetutamente della necessità di credere in Gesù (1Gv3,23; 5,1; 5,5.10 ecc.), ma si insiste su una fede che, iniziata in passato, fa sentire il suo influsso nel presente della vita ecclesiale, dove si svi­luppa nel contesto dell'amore (1Gv4,16).
La Chiesa nella quale questo atteggiamento di fede, di aper­tura verso Gesù diventa abituale, vede raccorciarsi le distan­ze. Gesù si fa vicino, quasi palpabile e diventa per la Chiesa un'esperienza (1Gv1,1). Non solo. La Chiesa in quanto cre­dente sa di essere forte. Il complesso sociale che si organizza contro di essa e che viene chiamato «mondo» sarà superato proprio in forza della fede (1Gv 5,4). Troveremo nell'Apo­calisse lo sviluppo di questo concetto.
Gesù non potrebbe essere compreso adeguatamente né eser­citerebbe la funzionalità tipica di «parola di vita» a prescin­dere dall'azione dello Spirito che diventa per il cristiano un'un­zione, e, come tale, ne sottolinea l'appartenenza a Dio e lo abilita anche a un confronto con gli pseudo-valori che si op­pongono all'autentica verità di Cristo (1Gv3,24).
La pressione che lo Spirito esercita sulla comunità eccle­siale tende, potremmo dire, a realizzare in essa i tratti di Ge­sù sia sotto il profilo delle sue scelte concrete, sia sotto quel­lo della sua vitalità. Impegnandosi nella pratica del coman­damento nuovo, dell'amore per gli altri, per un'affinità ver­tiginosa che così si realizza, la Chiesa arriverà a comprende­re e a gustare la seconda definizione di Dio che troviamo nella lettera: «Dio è amore» (1Gv4,8; 4,16). Il suo amore per gli altri riuscirà addirittura a rendere visibili e percettibili - per così dire - i tratti di Dio (1Gv4,12).

Apocalisse: Gesù Cristo il Signore della storia

L'Apocalisse, vista nella prospettiva del movimento gio­vanneo, presenta uno sviluppo ulteriore anzitutto per quan­to concerne il tema teologico di fondo: la figura di Cristo. Fin dall'inizio del IV vangelo, infatti, Gesù appare rappor­tato al superamento della peccaminosità. Egli é«l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv1,29). Nell'Apoca­lisse la comunità ecclesiale esprime subito la sua gratitudine commossa a Gesù perché si sente liberata da lui mediante il dono della sua vita, anche qui simboleggiato dal sangue: «A lui che ci ama e ci ha prosciolti dai nostri peccati nel suo san­gue... a lui gloria» (Ap1,5-6). Gesù ha così assolto in pieno la sua funzione di «agnello di Dio» indicata nel IV vangelo.
Nella seconda parte del libro (Ap4,1-22,5) riappare espli­citamente proprio la figura simbolica dell'agnello. Espressa con un termine diverso da quello usato nel IV vangelo - arnion invece che amnos - questa costruzione simbolica ripren­de esplicitamente quanto viene attribuito all'«agnello di Dio» come liberazione degli uomini mediante il suo sangue (Ap5,9). In più l'agnello dell'Apocalisse possiede tutta la vitalità del­la risurrezione nonché la pienezza dell'efficienza messianica e dello Spirito (Ap5,6). In questa situazione di forza sarà in grado di eliminare il male non solo delle singole persone ma anche di quelle strutture sociali negative che si sono for­mate sulla terra sotto l'influsso del demoniaco. Soprattutto Cristo-agnello potrà realizzare il progetto del regno di Dio, dando luogo a un rinnovamento in positivo che sfocerà nel­la pienezza escatologica del «cielo nuovo» e della «terra nuo­va» (Ap21,1).
L'Apocalisse, nei primi capitoli, propone un'esperienza a un'assemblea liturgica - la chiameremo Chiesa-assemblea - radunata il giorno di domenica e disposta ad ascoltare un messaggio che le viene presentato da un lettore (Ap1,3). Nella prima parte (Ap1,4-3,22) alla Chiesa-assemblea viene offerta una purificazione penitenziale che presenta una trafila carat­teristica. Il Cristo si mette in contatto con la Chiesa (Ap2,1.8.12; 3,1.7.14), si presenta a essa e si qualifica (Ap2, 1b.8b.12b; 3,3b.7b.14b), entra nel vivo della sua esistenza mettendo in risalto gli aspetti validi e quelli negativi del­la sua condotta (Ap2,2-3.9.13-15; 3,3c.8-10.15-18.19-24) e, a conclusione, la trasforma mediante i suoi imperativi (Ap 2,7b.11b-17b.26-28; 3,5.12.21).
A questo punto la Chiesa-assemblea, rinnovata dal di den­tro, sarà in grado di collaborare all'azione vittoriosa di Cri­sto contro il sistema del male. E perché questa sua collabo­razione sia davvero proporzionata concretamente alla situa­zione storica, la Chiesa-assemblea è resa capace di interpre­tare il messaggio dello Spirito. Sia l'ascolto che la collabora­zione attiva saranno specificati nella seconda parte del libro (Ap4,1-22,5).
La Chiesa-assemblea, infatti, che vuole collaborare alla vit­toria di Cristo, viene invitata a fare una lettura in profondi­tà delle istanze che le pone la storia che vive (Ap4,1). Tale lettura richiede una messa a punto, potremmo dire un livello di partenza valido: non può essere realizzata in modo amatoriale. Ciò comporta per la Chiesa-assemblea un risveglio del suo senso di Dio con la conseguente presa di coscienza che proprio Dio, «seduto sul trono» (Ap4,2), non solo do­mina gli eventi della storia, ma li determina: lo svolgimento degli eventi si trova scritto in un rotolo, collocato nella de­stra di Dio (Ap5,1). La Chiesa-assemblea vorrebbe leggere il rotolo: potrebbe raggiungere così un'interpretazione com­pleta della sua storia. Ma la lettura risulta impossibile: il ro­tolo è sigillato e nessuna creatura, a livello terrestre e cele­ste, è in grado di aprirlo. Solo l'intervento di Cristo-agnello, presentato qui la prima volta come tale (Ap5,6), riesce a sbloccare la situazione. Cristo-agnello infatti, in quanto morto e risorto, dotato della pienezza dell'efficienza messianica e dello Spirito, si appropria del rotolo (Ap5,7).
Questo gesto simbolico indica che Dio gli affida la gestio­ne della storia. Potrà quindi portare la Chiesa-assemblea a farne una lettura adeguata. Di fatto sarà proprio lui, Cristo­-agnello, ad aprire uno per uno i sette sigilli che bloccano il rotolo (Ap 6,1 ss) e sarà lui a realizzare il progetto di Dio scritto nel rotolo (Ap 17,14).
Di fronte alla presenza di Cristo-agnello e a questo suo ruo­lo nella storia, la Chiesa-assemblea non riesce a contenere il suo entusiasmo. Una dossologia solennissima (Ap5,9-13) che, iniziata in cielo, si sposta sulla terra coinvolgendo l'assem­blea ed estendendosi poi a tutto il creato, celebra Cristo­-agnello per quanto ha già realizzato e per quanto riuscirà an­cora a realizzare per gli uomini. Tra queste realizzazioni emer­ge di nuovo il fatto che i cristiani, collaborando strettamen­te con Cristo-agnello, stanno procurando insieme a lui il re­gno di Dio sulla terra (Ap5,9-10). La lettura della storia, ora resa possibile, preciserà i termini concreti di questa collabo­razione.
Proprio per facilitare questa lettura vengono proposti alla Chiesa-assemblea dei paradigmi di intelligibilità con i quali essa potrà illuminare la sua storia e riuscire a coglierne il si­gnificato che si riferisce al suo impegno. Questi paradigmi, disposti in tre serie che si susseguono in crescendo (Ap6,1-16,21), contengono delle indicazioni che vanno da una interpretazione globale della storia a una focalizzazione det­tagliata di situazioni particolari.
Ad esempio, viene detto all'assemblea che un'adeguata let­tura della storia, questa volta intesa in senso globale, le im­porrà di prendere atto delle forze ostili che ne attraversano il campo. Sono la violenza omicida, l'ingiustizia sociale, il dramma della morte col suo corteggio di mali (Ap6,3-7). Ma accanto a queste forze di segno negativo esiste la spinta di risurrezione che Cristo immette nel campo della storia. Que­sta forza di segno positivo, contrapposta alle altre, ha la ca­pacità di superarle e alla fine le eliminerà (Ap6,2).
Altri paradigmi si riferiscono ancora a una valutazione glo­bale della storia e all'impegno di fondo che ne segue per la Chiesa-assemblea. È il caso della «donna vestita di sole» (Ap12,1) che partorisce in circostanze drammatiche: un simbolo trasparente della stessa Chiesa-assemblea che, amata all'in­finito da Dio e ricolmata dei suoi doni, si dovrà impegnare a esprimere nella storia in cui vive i tratti propri di Cristo.
Ulteriori paradigmi riguardano situazioni o aspetti più par­ticolari che si possono verificare o meno nella concretezza della storia. È il caso di un potere politico che si fa adorare (Ap13,1-10), della propaganda che lo mantiene in vita (Ap13,11-17), della convivenza consumistica simboleggiata da Ba­bilonia (Ap17-18), del tempo di persecuzione espressa da Ge­rusalemme calpestata (Ap11,1-13).
Applicando alla situazione concreta in cui si trova i para­digmi che sono riferibili a essa (Ap13,18), la Chiesa-assemblea riuscirà a interpretare la situazione cogliendone le interpel­lanze e saprà prendere poi le decisioni corrispondenti. Il suo impegno di cooperazione alla vittoria di Cristo avrà così un contenuto preciso. Glielo insegna proprio Cristo-agnello che ha dato la vita a beneficio degli uomini. La Chiesa-assemblea sa che ogni cristiano è, potenzialmente, un martire (Ap12,11).
Questa prospettiva onerosa viene illuminata dallo sbocco finale. Alla Chiesa-assemblea viene detto che il male in cui essa si trova nella situazione presente e che si sforza di supe­rare col bene, sarà, nella fase conclusiva, completamente su­perato. Crolleranno dal di dentro e all'improvviso le strutture vistose che il male avrà realizzato sulla terra (Ap18,9-24). Le radici stesse che hanno alimentato queste realizzazioni sa­ranno disattivate (Ap20,10). E, positivamente, il bene fati­coso ma spesso incompleto e parziale che la Chiesa-assemblea sarà riuscita a esprimere nella storia si ritroverà moltiplicato all'infinito nella Gerusalemme nuova (Ap21,2).
Si tratta di una convivenza - simboleggiata dalla città nella quale ci si trova insieme - davvero da vertigini in cui, supe­rati i confini attuali tra immanenza e trascendenza, gli uo­mini vivranno faccia a faccia con Dio, con Cristo-agnello e con lo Spirito, capaci di amare Cristo con un amore che cor­risponda pienamente al suo (Ap21,9-22,5). La Chiesa-­assemblea, in altri termini, è adesso la fidanzata che, confe­zionando giorno per giorno attraverso i suoi atti di giustizia il suo abito da sposa, sarà chiamata a prendere parte alla fe­sta nuziale dell'agnello (Ap 19,1-8).
È il vertice teologico a cui la seconda parte dell'Apocalis­se conduce la Chiesa-assemblea. Ma non è tutto un sogno? Il dialogo liturgico conclusivo (Ap22,6-21), pur nell'idealiz­zazione letteraria che fa intervenire direttamente oltre i com­ponenti l'assemblea liturgica anche l'angelo interprete, Ge­sù e lo Spirito, rassicura l'assemblea. Essa, ritornando nella sua vita di ogni giorno a conclusione di questa esperienza com­plessa, ritroverà tutti i problemi determinati dalla dialettica tra bene e male che ancora continua (Ap22,11). In particolare la colpiranno, dopo un’esperienza così intensa, i vuoti rispetto ai valori di Cristo che constaterà nella storia. Sarà una scossa, ma, reagendo proprio in base all’esperienza conclusa, la Chiesa, sentendosi la fidanzata che guidata dallo Spirito aspira a essere sposa, invocherà con passione, sicura di ottenerla, la venuta di Cristo nella storia (Ap22,17.20).


Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it

La catechesi e il catechista nell´esperienza ecclesiale del Nuovo Testamento
Per conoscere l´Apostolo Paolo
Perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne (2 Cor 12, 7)
Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi (Ap 12,1-6)


Per altri articoli e studi di p.Ugo Vanni o sul vangelo di Giovanni presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


Note

[1] O.Cullmann, Origine e ambiente dell’Evangelo secondo Giovanni situato nel tardo giudaismo, nel gruppo dei discepoli di Gesù e nel cristianesimo biblico, edizione italiana a cura di A.Moda, Marietti, Torino, 1976.

[2] G.C.Nicholson, Death as Departure, The Johannine Descent-Ascent Schema, Chicago, 1983.

[3] Il tema dell’amore fino al culmine è stato messo egregiamente in risalto da Y.Simoens, La gloire d’aimer, Editrice Università Gregoriana, Roma 1981.

[4] La variante “tutto”, panta in greco, è preferibile a “tutti”, pantas, poiché attestata dal codice più antico, il papiro Bodmer II, datato intorno all’anno 200.


[Approfondimenti]