L’omelia della messa a Meryem Ana, celebrata dinanzi alla “Casa della Madonna”, situata sul
monte Solmisso, a 9 chilometri da Efeso, non è stata registrata. Mettiamo a disposizione on-line un testo
di p.Ignace de la Potterie che riguarda questo luogo. Il testo è tratto dall’articolo Maria
è stata a Efeso? tratto da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea,
SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.43-48.
Se Maria è stata a Efeso, vorrebbe dire che ha seguito fin qui l’apostolo al quale suo Figlio
l’aveva affidata dalla croce. L’apostolo che, come ricorda proprio nel suo Vangelo, “da quel
momento la prese nella sua casa”. E’ infatti storicamente accertato che Giovanni ha soggiornato a
Efeso. All’unanimità i grandi vescovi del II secolo, da Papia a Policarpo a Ireneo, attestano che
l’evangelista è morto a Efeso, dove aveva scritto il suo Vangelo...
Papia, vescovo di Gerapoli verso gli anni 130-140, dice che nel suo tempo alcuni cristiani erano ancora alla
ricerca di quegli anziani che avevano sentito parlare il vecchio Giovanni. Perché, dicevano, era
più importante quella voce viva del Vangelo di tutti i libri che potevano leggere. E anche Ireneo, che
è vissuto attorno al 200 a Lione, racconta che quando era ancora ragazzo aveva ascoltato il vecchio
Policarpo, vescovo di Smirne, che raccontava di quando lui stesso era giovane e aveva a sua volta ascoltato gli
apostoli che avevano visto il Signore.
Nel II secolo, insomma, c’è stato un netto spostamento dell’interesse da Paolo a Giovanni. Che
è durato anche nei secoli successivi. Ma, accanto a questo, deve essersi anche affermata una devozione
verso Maria. Lo attesta il fatto che esisteva a Efeso, già prima del 431, data in cui si svolse il terzo
Concilio ecumenico, una chiesa dedicata a Maria. E proprio in questa “grande chiesa chiamata Santa
Maria” si radunarono i vescovi che parteciparono al Concilio. Questa basilica, la prima del mondo a essere
dedicata a Maria, il culto della quale si sviluppò proprio dopo la solenne definizione del Concilio,
testimonia di una speciale e antica devozione degli Efesini verso la Vergine. Ma da dove proveniva questa
devozione? Perché dedicarle una grande chiesa, proprio come a san Giovanni che ci aveva vissuto a lungo,
se Maria non ha mai soggiornato a Efeso? L’enigma può forse essere svelato da un brano del Concilio
di Efeso che per lungo tempo non ha ottenuto una corretta interpretazione filologica. Il Concilio di Efeso era
stato convocato a causa di Nestorio, che rifiutava a Maria... l’appellativo di Theotokos, Madre di Dio.
Nella lettera ufficiale inviata dal Concilio alla città di Costantinopoli, dove Nestorio era vescovo,
manca il verbo riferibile a Giovanni e a Maria. Vi si legge infatti: “Nestorio, il rinnovatore
dell’eresia empia [l’arianesimo], dopo essere giunto nella terra degli Efesini, là dove il
teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza convocazione..., è stato
condannato”. Per molto tempo ci si è arrovellati sul significato di questa proposizione subordinata
senza verbo. Ma in uno studio dal titolo La venue de Marie à Ephèse d’après le
témoignage du Concile de 431, pubblicato in una miscellanea in onore del mariologo francese
Théodore Koehler, Mater fidei et fidelium (University of Dayton, Dayton, 1991, pp. 218-235),
pensiamo di aver mostrato, attraverso una stringente esegesi filologica, che il verbo è sottinteso, ed
è lo stesso che i vescovi del Concilio avevano riferito a Nestorio.La frase va dunque così intesa:
“Nestorio, il rinnovatore dell’eresia empia, dopo essere giunto nella terra degli Efesini,
là dove erano giunti il teologo Giovanni e la Theotokos Vergine, la Santa Maria..., dopo una terza
convocazione..., è stato condannato”.
Tutto è cominciato con una mistica tedesca, suor Kathrin Emmerick, morta nel 1824. Stimmatizzata, è
già iniziata la sua causa di beatificazione[1]. Uno dei massimi scrittori del romanticismo tedesco, Clemens von Brentano, si
convertì al cattolicesimo e divenne il suo fedele segretario. Raccolse le sue “visioni” in un
libro molto noto, la Vita di Maria, pubblicato nel 1865. Questo libro venne tradotto anche in francese, e una
copia arrivò nel convento dei padri lazzaristi di Smirne. Poiché erano vicino a Efeso, si stupirono
molto che una contadina tedesca potesse descrivere con esattezza quei luoghi che non aveva mai visto. Uno di
loro, Eugène Poulin, ironizzò a lungo con i confratelli su questa stramberia. Poi, per
curiosità, organizzò una spedizione per esaminare la montagna e vedere se c’era un posto che
corrispondesse alla descrizione fatta dalla Emmerick. Sorprendentemente, lo trovarono: in una foresta sul monte
Solmisso, tra Efeso e il mare, scoprirono un punto che concordava perfettamente con la descrizione offerta dalla
mistica tedesca. Si vedeva la città vecchia di Efeso e, nel mare, le due isole che la fronteggiano. E
c’era una sorgente d’acqua che scendeva dal fianco della montagna. E proprio lì, sul pendio
del monte, in un punto da cui si vedeva il mare, trovarono le rovine di una casa. E’ facile immaginare il
loro stupore quando più tardi, chiedendo a dei contadini del posto cosa fossero quelle rovine, si
sentirono rispondere: “E’ la casa della Madre Maria”. Seguendo un’antica tradizione,
infatti, quei contadini ortodossi abitanti in un villaggio a 17 chilometri di distanza, vi si recavano tutti gli
anni in pellegrinaggio, e proprio nel giorno dell’Assunzione...
Lo scettico Poulin era diventato ormai un convinto assertore del soggiorno di Maria in quella casa, tanto che scrisse un favorevole libretto con lo pseudonimo di Gabrielovich. Il vescovo di Efeso informò Roma. Una suora francese organizzò una raccolta di fondi per comprare il terreno. Si creò un’associazione per salvaguardarlo. Io, con quattro compagni, passai per Efeso negli anni Cinquanta, e il vescovo, monsignor Giuseppe Descuffi, interessato a questi fatti, ce ne parlò a lungo. Nel ’52 e nel ’53 fece compiere delle campagne di scavi. Il professor Adriano Prandi di Bari, che guidò gli scavi, presentò la relazione in un congresso mariano che si svolse in Portogallo. “Questi ruderi” disse “sono resti di una chiesa bizantina”. Gli archeologi avevano infatti individuato che il vestibolo di quella piccola costruzione risaliva al VII secolo, l’abside al IV, e la parte centrale era stata trasformata in cappella in un’epoca imprecisata. Ma sotto la chiesa è stata trovata una casa molto più antica. Le ricerche archeologiche avevano infatti rivelato una casa risalente al I secolo dopo Cristo. E le ricerche compiute di fronte al piccolo edificio portarono alla scoperta di tre tombe, due delle quali “orientate”: i corpi cioè erano stati sepolti con il capo rivolto verso la cappella. Nelle mani stringevano delle monete risalenti agli imperatori Costante (morto nel 350), Anastasio I (morto nel 518) e Giustiniano (morto nel 565). Indice che la devozione per questo luogo era già viva in quei tempi. Due anni fa, nel 1991, poiché ricorrevano i cento anni dalla scoperta di quella Casa, i vescovi della Turchia hanno proclamato un Anno mariano per tutta la Turchia. La Casa è diventata un luogo di pellegrinaggio dove vengono anche molti musulmani. Certo, la questione dell’autenticità della Casa di Maria è ancora aperta. Ma gli scavi, che furono interrotti per i problemi inerenti al governo turco, andrebbero ripresi e continuati.
Paolo passa ad Efeso alla fine del secondo viaggio apostolico, prima di tornare ad Antiochia, che era
città importantissima a quel tempo – Antiochia, nell’odierna Turchia, ha perso poi molta della
sua importanza, nel corso della storia successiva fino ad oggi. Passa di nuovo vicino ad Efeso nel terzo viaggio:
decide però di passare al largo della città “per non subire ritardi” (tutte le persone
care lo avrebbero sicuramente trattenuto) e, a Mileto, manda a chiamare gli anziani di Efeso per poterli
salutare, come vedremo.
Il racconto di questi due passaggi è proprio ai capitoli 18, 19-21 e poi al cap.19 degli Atti degli
Apostoli. Paolo, quando giunge la prima volta ad Efeso, proviene da Cencre, il porto di Corinto. Sta tornando
indietro, in direzione della città di Antiochia, dalla quale è partito per il suo secondo viaggio
missionario. Arriva in nave dal porto di Cencre e sbarca appunto proprio qui davanti a noi, dove appunto
c’era il porto che, come sapete, nei secoli si è poi insabbiato, portando all’abbandono della
Efeso antica..
La prima volta arriva ad Efeso con Aquila e Priscilla, i due coniugi scacciati da Roma a causa
dell’espulsione dell’imperatore Claudio. Sappiamo di questo evento da una notizia riportata dallo
storico romano Svetonio. Svetonio ci dice appunto che Claudio espulse gli ebrei da Roma,
poiché c’erano tumulti nelle sinagoghe della città per un motivo che viene precisato da
questa espressione latina in ablativo assoluto “impulsore Chresto”, “a causa di un
agitatore di nome Cresto”. Per il fenomeno linguistico dello iotacismo (il passaggio dal suono
“i” al suono “e” e viceversa, tipico, per esempio, del passaggio da greco antico al greco
moderno, dove l’antico “Amen” si pronuncia oggi “Amin”) “Cresto” si
equivale a “Cristo”. Gli studiosi affermano – e noi siamo d’accordo con questa
interpretazione – che Svetonio si riferisca a delle tensioni causate dalla predicazione di Cristo e del suo
vangelo, ad opera dei primi cristiani. Questo provoca tumulti a Roma, nella preesistente comunità ebraica
romana e l’imperatore – che non è bene informato delle questioni religiose relative al
rapporto fra ebrei e cristiani – taglia la testa al toro, con un decreto di espulsione di un gran numero di
persone, dai suoi funzionari identificati indistintamente come “ebrei”. Non dimentichiamo che gran
parte dei primi cristiani appartengono appunto all’ebraismo e che, probabilmente, solo nel 90
avverrà l’espulsione definitiva dei cristiani dalle sinagoghe, decisione che è attribuita al
cosiddetto concilio rabbinico di Jamnia, in Israele. Claudio decreta questa espulsione perché,
evidentemente, meno di 10 anni dopo la morte e la resurrezione di Cristo, nell’anno 41 – datazione
appunto dell’espulsione di Claudio – già il nome di Cristo era così famoso, fuori della
terra di Israele, che era motivo di discussioni e tensioni a Roma, all’interno delle sinagoghe, al punto da
destare la preoccupazione imperiale.
Aquila e Priscilla sono famosi perché la loro casa diventa un luogo dove si raduna la comunità
cristiana e dove viene annunziato il vangelo. Sono una coppia, una famiglia, non sono solo un lui ed una lei, a
differenza di altri evangelizzatori neotestamentari. E proprio come marito e moglie, offrono la loro relazione,
perché diventi un luogo di evangelizzazione. La condizione dei nuclei familiari, come quella del cristiano
che, da solo, incontra nell’ambiente lavorativo tanti non credenti è una delle situazioni più
adatte all’annunzio del vangelo! Anche Charles de Foucauld, questo cristiano francese che è il
fondatore spirituale delle Piccole Sorelle, nate senza che piccola sorella Madeleine lo abbia mai conosciuto
personalmente, diceva che essere soli è la situazione migliore per annunziare il vangelo. Se uno fonda un
grande monastero, poi non riesce facilmente a conoscere le persone di quel luogo. De Foucauld diceva che è
cosa buona – e non situazione da disprezzare – quella di essere soli, come lui, o di essere come
Aquila e Priscilla, marito e moglie. Questo permette di fare la stessa vita degli altri, di abitare in una certa
casa, in un certo quartiere. Pian piano tutti ti conoscono nella condivisione della stessa vita quotidiana, gli
stessi negozi dove si fa la spesa, gli stessi luoghi di lavoro, pian piano ti stimano e, attraverso questo
rapporto personale, nasce la possibilità di annunzio della fede. Fra l’altro, a differenza di alcune
interpretazioni restrittive di Charles de Foucauld, lui teneva tantissimo all’annunzio esplicito della fede
e si rendeva conto che il cristiano viene posto naturalmente in relazione con i non credenti, dalla vita stessa,
oltre a poter scegliere di andare missionario in luoghi dove Cristo non è conosciuto. Queste occasioni
erano da vivere in profondità, proprio come motivi di annuncio del Signore.
Allora Aquila e Priscilla restano ad Efeso, per annunciare il vangelo, Paolo, invece, va via da qui quasi subito.
Tutto è descritto nei pochi versetti di At 18, 19-21, nei quali c’è anche
un’espressione molto bella al versetto 21:
19Giunsero a Efeso, dove lasciò i due coniugi, ed entrato nella sinagoga si mise a discutere
con i Giudei. 20Questi lo pregavano di fermarsi più a lungo, ma non acconsentì.
21Tuttavia prese congedo dicendo: “Ritornerò di nuovo da voi, se Dio lo
vorrà”.
Questa è un’espressione molto bella che i cristiani ripetono sempre. L’Islam l’ha
ripresa dal cristianesimo: “Inshallah”, “Se Dio lo vuole”. Anche la lettera di
Giacomo dice: “Non dire: domani farò questo, domani andrò lì, ma devi dire sempre: se
Dio lo vorrà, domani farò questo, se Dio lo vorrà, domani andrò in quel posto”
(Gc 4,15). Paolo dice: “Se Dio vorrà, ritornerò ad Efeso e spiegherò il
vangelo”. Gli Atti ci raccontano che, successivamente alla partenza di Paolo, arriva ad Efeso un giudeo
chiamato Apollo (At 18,24), nativo di Alessandria, e Priscilla e Aquila che ormai sono rimasti soli,
perché appunto S.Paolo se n’è andato, lo prendono con loro e gli spiegano il vangelo e poi
anche Apollo comincia a predicare con loro. Dopo pochi versetti lo troviamo, addirittura, predicatore del vangelo
a Corinto, secondo gli insegnamenti di Aquila e Priscilla. E’ proprio allora che Paolo, per la seconda
volta, questa volta via terra, giunge ad Efeso. Fra l’altro è proprio da Efeso che Paolo, durante
questa seconda permanenza, scriverà la I lettera ai Corinti, nella quale si parla anche di Apollo,
perché i corinti, al posto di vivere l’unità della Chiesa si dividono in base ai maestri
umani che hanno avuto, dicendo: “Io sono di Paolo” ed “Io invece sono di Apollo”,
”Ed io di Cefa” (ICor1,12). Proprio alla fine della prima lettera ai Corinti, Paolo scriverà:
“Mi fermerò ad Efeso, fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e
propizia, anche se gli avversari sono molti” (ICor16,8-9).
Ma leggiamo il cap. 19 degli Atti:
1Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell'altopiano, giunse a Efeso. Qui
trovò alcuni discepoli 2e disse loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete
venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito
Santo». 3Ed egli disse: «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di
Giovanni», risposero.
E’ interessante l’importanza dell’acqua come simbolo nel pensiero umano. In questo testo degli
Atti vediamo proprio uno dei passaggi che ci mostra l’evoluzione decisiva apportata dal cristianesimo. Il
purificarsi con l’acqua era una cosa che esisteva nell’ebraismo, come esiste nelle altre religioni.
L’acqua è un simbolo per tante religioni, è talmente bella. Anche Giovanni aveva detto:
“Battezzatevi nell’acqua”, ma per lui l’acqua era solo un segno di penitenza. Uno si
lavava con l’acqua, perché doveva attendere la persona più importante, il Messia, e doveva
purificarsi dal peccato per questa attesa. Giovanni diceva: “Verrà uno, lui sì che vi
battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. L’acqua del battesimo cristiano è il segno non
più di un semplice perdono dei peccati, ma, ora, della vita nuova di Dio stesso che viene donata ai
credenti. E’ il segno dello Spirito di Dio e dello Spirito del Figlio di cui l’uomo diviene
partecipe.
Questi cristiani di Efeso erano quindi già credenti, ma non avevano ancora capito bene cos’era il
cristianesimo. Allora usavano solamente delle abluzioni purificatorie, ma non ricevevano ancora lo Spirito di
Gesù. Paolo li battezza con il battesimo cristiano:
4Disse allora Paolo: «Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo
di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». 5Dopo aver
udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù 6e, non appena Paolo ebbe imposto
loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. 7Erano in tutto
circa dodici uomini.
E’ molto interessante la convinzione che lo Spirito Santo ci rende uguali a Cristo, la grande
caratteristica del battesimo cristiano è questa unità con Lui, con la sua vita che riceviamo.
8Entrato poi nella sinagoga, vi poté parlare liberamente per tre mesi, discutendo e cercando
di persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio. 9Ma poiché alcuni si ostinavano e si
rifiutavano di credere dicendo male in pubblico di questa nuova dottrina, si staccò da loro separando i
discepoli e continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno. 10Questo
durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d'Asia, Giudei e Greci, poterono
ascoltare la parola del Signore.
Come ad Efeso c’era la biblioteca di Celso che abbiamo appena visitato, così c’era, da qualche
parte negli scavi che stiamo visitando – il luogo non è stato ancora individuato – questa
scuola di Tiranno, dove probabilmente si insegnava la filosofia, la dialettica, la retorica, ecc.
Questo Tiranno gli diede il permesso di stare lì e di spiegare il vangelo. Quindi Paolo si ferma due anni
qui. Possiamo immaginarlo passeggiare per le stesse strade che stiamo percorrendo. Chissà quante volte
avrà fatto in su ed in giù queste bellissime strade lastricate in marmo.
Succede subito dopo un altro fatto divertente che gli Atti ci raccontano. Paolo comincia a fare dei miracoli.
Allora dei giudei che sono esorcisti dicono: “Se lui è così bravo, usiamo le stesse parole
che usa lui”. E’ la mentalità magica! La magia ha l’idea che ripetendo delle
parole anche senza capirne il senso si possano ottenere dei risultati.
Leggiamo questo episodio in At20,11ss.:
11Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, 12al punto che si mettevano
sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti
cattivi fuggivano.
13Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch'essi il nome del Signore
Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo
predica». 14Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo.
15Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi
siete?». 16E l'uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li
trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite.
Qui c’è il tentativo di usare il cristianesimo senza diventare cristiani, senza accogliere la
verità della fede. Questi esorcisti pensavano che usando le parole cristiane come formule magiche
avrebbero potuto ottenere dei risultati. Lo spirito cattivo capisce benissimo invece che loro non hanno la forza
di Gesù e li aggredisce.
Continuiamo ancora a leggere At20,21:
21Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l'Acaia e di recarsi a
Gerusalemme dicendo: «Dopo essere stato là devo vedere anche Roma»
Questo è un altro aspetto bellissimo, soprattutto per noi romani: Paolo decide proprio qui ad Efeso di
venire a Roma. I nostri antenati romani poi lo uccideranno, ma è Paolo che decide di venire a Roma a
predicare, ad annunziare il vangelo - lo spiegherà poi nella lettera ai Romani. Paolo conosceva tante
persone di Roma, per averne sentito parlare o perché le aveva incontrate. Il suo grande desiderio è
di predicare il vangelo a tutti; per questo vuole arrivare fino a Roma. Per questo dovrà tornare a
Gerusalemme per poi partire per il quarto viaggio, quello verso l’Italia. Non sarà più un
viaggio missionario come gli altri, poiché Paolo sarà portato in catene per essere processato a
Roma. Paolo ha appena maturato il desiderio di visitare anche Roma quando scoppia ad Efeso una sommossa contro di
lui:
23Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina. 24Un
tale, chiamato Demetrio, argentiere, che fabbricava tempietti di Artèmide in argento e procurava in tal
modo non poco guadagno agli artigiani, 25li radunò insieme agli altri che si occupavano di cose
del genere e disse: «Cittadini, voi sapete che da questa industria proviene il nostro benessere;
26ora potete osservare e sentire come questo Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo
di Efeso, ma si può dire di tutta l'Asia, affermando che non sono dei quelli fabbricati da mani
d'uomo.
Quindi questo signore, Demetrio, fabbricava questi tempietti per il culto di Artemide, questa dea dalle
molte mammelle, la dea Terra, che nutre tutti quelli che vanno a lei.
Paolo, con la sua predicazione, toglie fedeli a queste divinità pagane e allontanando le persone,
indebolisce anche l’aspetto commerciale, togliendo clienti ai fabbricanti di idoli di Artemide. Una volta
abbiamo riflettuto insieme su di una bellissima relazione di d. P.Sequeri che usava proprio l’immagine di
divinità simili ad Artemide, per pensare alla Chiesa! Diceva che alcuni considerano la Chiesa proprio
così, vorrebbero una Chiesa dalla quale succhiare continuamente il latte. E commentava: alla Chiesa non si
va solo a chiedere, si deve dare. Dopo anni di cammino deve arrivare un momento in cui le persone dicono:
“Io adesso non voglio ancora avere altro: è giunto il momenti di impegnarsi, di dare, di ricambiare
tutto il bene che mi è stato fatto” - avrete sentito tante volte alcuni dire: “La Chiesa,
questo gruppo o quest’altro gruppo, non mi dà più stimoli, me ne vado”. In
realtà le persone dopo un po’ di tempo dovrebbero imparare a giocarsi. Diceva Sequeri: “Se
tutti vanno a succhiare come si va da queste divinità orientali, poi quando arriva uno che ha veramente
bisogno non trova nessuno che abbia portato qualcosa”.
Comunque Paolo, pian piano “mette in minoranza” - per usare un’espressione attuale – i
fedeli di questa divinità che rappresentava la fertilità, a cui tutti chiedevano, a cui tutti
quanti andavano per attingere nuovo latte, nuova vita, nuovi figli e così via.
27Non soltanto c'è il pericolo che la nostra categoria cada in discredito, ma anche che il
santuario della grande dea Artèmide non venga stimato più nulla e venga distrutta la grandezza di
colei che l'Asia e il mondo intero adorano».
28All'udire ciò s'infiammarono d'ira e si misero a gridare: «Grande è
l'Artèmide degli Efesini!». 29Tutta la città fu in subbuglio e tutti si
precipitarono in massa nel teatro, trascinando con sé Gaio e Aristarco macèdoni, compagni di
viaggio di Paolo. 30Paolo voleva presentarsi alla folla, ma i discepoli non glielo permisero.
31Anche alcuni dei capi della provincia, che gli erano amici, mandarono a pregarlo di non avventurarsi
nel teatro. 32Intanto, chi gridava una cosa, chi un'altra; l'assemblea era confusa e i più non
sapevano il motivo per cui erano accorsi.
Lo scenario è ora proprio quello del teatro in cui siamo. Possiamo proprio precisare il luogo ed averlo
dinanzi agli occhi. Come sempre, ci sono i capipopolo. Io scherzo sempre su questo, quando qualcuno viene da me e
mi dice: “Sa, padre, molti pensano che...”. Ho imparato benissimo che in realtà i
“molti” sono tre persone, lui, sua moglie e il suo più caro amico! In questi casi basta far
presente che ci sono altri tre – e spesso molti di più - che pensano esattamente il contrario e che
sono molto contenti di quello che si sta facendo! Il problema è che alla maggioranza delle persone non
importa nulla di quello che succede. Nel caso di questa disputa di Efeso, la gente sta lì senza sapere
neanche bene di cosa si debba parlare. Ad un certo punto interviene il cancelliere che riesce a calmare la
folla:
33Alcuni della folla fecero intervenire un certo Alessandro, che i Giudei avevano spinto avanti, ed
egli, fatto cenno con la mano, voleva tenere un discorso di difesa davanti al popolo. 34Appena
s'accorsero che era Giudeo, si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: «Grande è
l'Artèmide degli Efesini!». 35Alla fine il cancelliere riuscì a calmare la folla e
disse: «Cittadini di Efeso, chi fra gli uomini non sa che la città di Efeso è custode del
tempio della grande Artèmide e della sua statua caduta dal cielo? 36Poiché questi fatti
sono incontestabili, è necessario che stiate calmi e non compiate gesti inconsulti. 37Voi avete
condotto qui questi uomini che non hanno profanato il tempio, né hanno bestemmiato la nostra dea.
38Perciò se Demetrio e gli artigiani che sono con lui hanno delle ragioni da far valere contro
qualcuno, ci sono per questo i tribunali e vi sono i proconsoli: si citino in giudizio l'un l'altro.
39Se poi desiderate qualche altra cosa, si deciderà nell'assemblea ordinaria.
40C'è il rischio di essere accusati di sedizione per l'accaduto di oggi, non essendoci alcun
motivo per cui possiamo giustificare questo assembramento». 41E con queste parole sciolse
l'assemblea.
Il cancelliere fa un discorso molto tecnico: in questo caso non c’è alcun problema giuridico, Paolo non ha fatto nulla di illegale. Se la gente se ne va e abbandona il culto di Artemide, è un problema vostro, è un problema di sfiducia verso le antiche divinità, non è un caso legale o politico. Tutti, dopo che il cancelliere ha sciolto l’assemblea, se ne vanno a casa. Paolo, sapendo che il rimanere sarebbe un pericolo ed avendo già compiuto l’annuncio del vangelo, decide di partire per andare prima a Gerusalemme e poi a Roma.
Qui siamo in un luogo della Efeso bizantina. Ho chiesto alla guida turca dove potrebbe essere il luogo
della sinagoga dove Paolo predicava e mi ha risposto che, siccome a volte le sinagoghe sono diventate chiese,
potrebbe anche darsi che questo sia il luogo iniziale della predicazione paolina, prima che Paolo si spostasse in
un posto come la scuola di Tiranno.
Comunque questa era una grande chiesa, ne vedete davanti a voi l’abside. Qui ha celebrato anche Paolo VI.
E’ la grande chiesa dove si è tenuto il Concilio di Efeso del 431 d.C.
Qual era il problema teologico che ha dato origine al concilio che qui si è tenuto? Voi sapete che la fede
della Chiesa è sempre la stessa, ma insieme deve sempre spiegarsi meglio dinanzi a problemi nuovi che
vengono via via posti. E’ evidente, ad esempio, sin dall’origine che Gesù è il Figlio
di Dio. E’ lui stesso ad affermarlo - pensate solo alla parabola in cui Gesù racconta che Dio ha
mandato tante volte tanti servi a chiedere frutti alla sua vigna, fino a che gli è rimasta solo la
possibilità di inviare il Figlio stesso, con quelle parole bellissime che esprimono il pensiero di Dio:
“Che farò ora? Manderò mio figlio, avranno rispetto di lui!”. A Nicea, che visiteremo
fra qualche giorno, è, però, venuto il momento di affermare solennemente quello che la Chiesa ha
sempre creduto, perché c’era chi negava questa verità.
Ecco che una cosa analoga è avvenuta, ponendo i presupposti della convocazione del concilio di Efeso. Il
Patriarca di Costantinopoli, Nestorio, negli anni 429-430, ha cominciato a dire: “Sì,
è vero, Gesù è Figlio di Dio, ma noi non possiamo dire che Maria è la madre di Dio -
come diceva tutto il popolo - perché Dio non ha madre; Dio è lui padre di tutti e viene prima di
tutti, senza essere generato da nessun essere umano”. Dire che Dio ha una madre – cercava di
insinuare - significa tornare al paganesimo antico, dove gli dei si generavano tra di loro. Con queste
argomentazioni Nestorio pensava di aver convinto il popolo che in realtà era sbagliato dire che Maria era
la madre di Dio. La sua proposta è che Maria fosse chiamata semplicemente madre di Gesù. I vescovi,
però, si riunirono proprio qui e decretarono che quello che il popolo aveva sempre detto, cioè che
Maria è la Theotokos (Θεοτόκος), la Madre di
Dio, era invece l’espressione più giusta della fede cristiana e che era eretico chiunque la
rifiutava. Spiegarono che Madre di Dio è una espressione tipicamente cristiana, che esprime splendidamente
la nostra fede. Dire che Maria è la Madre di Dio non vuole dire che Maria ha generato la Trinità ma
che, essendo Gesù al contempo vero Dio e vero uomo, colei che genera in terra il Figlio dell’uomo -
e Maria ha veramente fatto nascere Gesù in terra - è Madre anche del Figlio di Dio in questa terra.
L’affermazione della Theotokos è l’esatto corrispettivo nella vita di Maria
dell’unità, nell’unica persona divina della natura umana e della natura divina in Cristo.
Gesù è uno, vero Dio e vero uomo, e sua Madre in terra è Madre in terra del vero uomo e del
vero Dio. Chiaramente il concilio di Efeso non vuole affermare che Maria è la madre
nell’eternità del Figlio; il Figlio di Dio nasce solo dal Padre nell’eternità.
Questo è proprio l’annunzio anche dell’evangelista Giovanni, che fra poco mediteremo: in
Gesù la carne umana e la divinità sono unite, non si possono più separare. Allora, proprio
per affermare questo il Concilio di Efeso, radunatosi in questa basilica nel 431, ha stabilito che affermare solo
che Maria è Madre di Gesù, rifiutandole il titolo di Madre di Dio, è un impoverimento,
perché vuol dire negare che Gesù è veramente Figlio di Dio. Se Gesù è davvero
Figlio di Dio – e chiaramente lo è - non si può allora non dire anche che Maria è la
Theotokos, la Madre di Dio. Il Concilio afferma così che questo termine - già usato nei
secoli precedenti - non può essere rifiutare, è parte essenziale della fede della Chiesa.
La prima chiesa che nacque a Roma, in omaggio al Concilio di Efeso - molti di voi lo sanno certamente - è
S.Maria Maggiore. La sua costruzione fu iniziata probabilmente un anno dopo il concili, nel 432, proprio
come ringraziamento e come accoglienza profonda del dogma mariano, da Sisto III. Fu, fra l’altro, la prima
grande basilica romana costruita per esplicita decisione del pontefice, essendo le altre state iniziate per
volontà anche dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena. Il Papa fu all’origine anche
dell’iconografia dei mosaici della Basilica di S.Maria Maggiore.
Ma la questione dogmatica non si chiuse con il concilio del 431. Lo stesso problema, con termini solo
apparentemente diversi, si ripropose nel 449.
Eutiche, un monaco di Costantinopoli, affermò, in quegli anni: “E’ vero che Gesù
è vero uomo e che il Figlio di Dio è vero Dio, ma quando avviene l’incarnazione, in
realtà non si può più parlare di due nature. Dio è molto più grande
dell’uomo, la natura umana è quasi come se scomparisse e rimane in Gesù solo la
divinità. E’ talmente forte la presenza di Dio in Gesù che la natura divina si impossessa a
tal punto di lui che non resta più l’umanità”. Eutiche cercò di far valere
questa dottrina proprio qui ad Efeso. Avvenne, infatti, proprio qui quello che è chiamato il
“latrocinio di Efeso”, un concilio indetto nel 449. A rappresentare il papa, Leone
Magno, era stato inviato un diacono di Roma, Ilaro, che diventerà in seguito Papa. Ilaro che
difendeva la dottrina della Chiesa che affermava in Cristo una completa divinità ed una completa
umanità dovette scappare perché rischiava di essere ucciso dai partigiani di Eutiche. Cercò
rifugio presso la tomba dell’apostolo Giovanni che fra poco visiteremo e solo per poco sfuggì alla
morte. Fu questo, fra l’altro, il motivo per il quale, Ilaro, una volta divenuto papa, sciolse il voto di
dedicare una cappella all’evangelista Giovanni, in ringraziamento della salvezza ottenuta per sua
intercessione, all’interno del Battistero Lateranense. E’ il motivo per cui la Basilica del
Laterano si chiamerà poi anche Basilica di S.Giovanni Evangelista (oltre che di S.Giovanni Battista; vedi
su questo l’articolo che ho scritto questo stesso sito dal titolo La dedicazione della Basilica del Laterano ai Santi Giovanni Battista ed
Evangelista, nella sezione Roma e le sue Basiliche)
Il “latrocinio di Efeso” fu subito condannato a Calcedonia due anni dopo, nel 451, nel famoso
Concilio di Calcedonia. I vescovi lì riuniti affermarono la grande professione di fede: Gesù
è una sola persona, ma in due vere nature, umana e divina, non confuse.
Gesù è completamente uomo, è libero come ogni uomo, pensa come un uomo, ama come un uomo,
dorme, ha bisogno di mangiare, ma attraverso questa umanità tutta la pienezza di Dio, tutto Dio, è
presente in quell’uomo ed ogni gesto di Gesù è anche espressione della sua divinità.
Giovanni – continuiamo a contemplarlo - è proprio l’evangelista che sempre ci conduce a
passare dalla reale umanità di Gesù, alla sua reale divinità. Giovanni chiama i
“miracoli” di Gesù “segni”. Ogni gesto di Gesù non è mai solo un
gesto umano, ma in esso si cela e si manifesta la sua divinità. Se Gesù parla dell’acqua con
la samaritana, è per parlare della sete - non solo di un acqua che disseta e della quale si torna poi ad
avere sete – di un’acqua che zampilla per la vita eterna e che solo il Signore può dare e che,
in fondo, è lui stesso.
Gesù fa risorgere Lazzaro, ma questo è segno che Lui è “la Resurrezione e la
Vita”. Gesù compie un gesto umano, terreno, ma è il Figlio di Dio che lo compie in mezzo a
noi. E d’altro canto, il Figlio di Dio, compie quel gesto – e tutta intera la sua presenza –
proprio nella umanità realmente presente e viva di Gesù.
Questi che abbiamo visto sono, allora, i due eventi più importanti avvenuti proprio in questa chiesa:
quello decisivo del Concilio del 431 e quello che sarà a ragione rifiutato dal successivo concilio di
Calcedonia. Ed entrambi si riferiscono alla reale umanità ed alla reale divinità di Cristo.
Uno dei motivi, come abbiamo già visto, per cui si parla della presenza di Maria ad Efeso, di una sua
permanenza in questi luoghi, è proprio perché il Concilio di Efeso così afferma: “In
questo luogo, dove è giunto Nestorio... dove anche Giovanni e Maria”, senza il verbo. Da questo gli
studiosi moderni hanno dedotto che la frase voglia dire: “In questo luogo, Efeso, dove giunse Nestorio,
dove già giunsero nel passato anche Giovanni e Maria”. E quindi questa chiesa dedicata a Maria, la
ricorda.
I brevi testi che seguono erano stati preparati in vista di una introduzione alla lettera agli Efesini da presentare nel corso della visita degli scavi, che poi, per ragioni di tempo, non è stato possibile fare. Il primo è tratto da R.Penna, Lo scopo della lettera agli Efesini, in L.Padovese (a cura di), Atti del II Simposio su S.Giovanni Evangelista, Istituto Francescano di Spiritualità, Pontificio Ateneo Antonianum, Roma 1992, pagg. 29-39. Il secondo è tratto da R,Penna, Il “mysterion” paolino, Paideia, Brescia, 1978, pagg.87-89. Nel primo, a partire, dal rapporto fra quelli che l’articolo chiama etnico-cristiani e quelli che chiama giudeo-cristiani (cioè i cristiani provenienti dal paganesimo ed i cristiani di origine ebraica), si analizza la realtà della novità di vita dell’uomo nuovo generato da Cristo. Nel secondo si sintetizzano i dati della ricerca sul concetto di “mistero” in S.Paolo e, specificamente, nella lettera agli Efesini, sottolineando che, nell’epistolario dell’Apostolo, il termine “mistero” non vuol dire tanto ciò che è incomprensibile, ciò che non si può capire, ma piuttosto ciò che l’uomo da solo non può conoscere se Dio non lo rivela, ma che appunto, in Gesù, finalmente è stato donato agli uomini di conoscere.
C’è un concetto che a mio parere costituisce l’elemento di coagulo dell’insieme della
tematica epistolare e che tradisce il motivo di fondo per cui Efesini è stata scritta. Esso viene espresso
nella formula kainòs ànthròpos, «uomo nuovo», che, pur essendo, di
risonanza paolina, letteralmente nel NT si trova solo nella nostra lettera. Per di più la formula ricorre
due volte, in due punti per così dire strategici, a formare il punto focale di entrambe le parti della
lettera: in 2,15, dove essa condensa il tema dell’unione ecumenica tra etnico-cristiani e giudeo-cristiani,
e in 4,24, dove esprime la nuova identità individuale del battezzato a livello ontologico ed etico.
E’ come se la doppia ricorrenza di questa espressione rappresentasse i due occhi della lettera agli
Efesini, con i quali essa vede non soltanto teoricamente il mistero cristiano in se stesso, ma anche
concretamente la situazione storica dei suoi destinatari etnico-cristiani. Lo stesso concetto ricorre pure, in
una formulazione analoga, in 3,16 (eis ton iso ànthropon) circa la vita di fede e di carità, e
nella sezione 4,1-16 che fa da ponte fra le due grandi parti epistolari, per dire che anche i ministeri
ecclesiali hanno il compito di condurre tutti i cristiani alla statura dell’«uomo perfetto»
(4,13: eis àndra téleion).
In primo luogo, i lettori etnico-cristiani hanno bisogno che venga loro ricordato insistentemente il nuovo status
sociale di cui sono entrati a far parte: la chiesa, comunità di battezzati e credenti in Cristo, non
è una setta basata sull’apartheid nei confronti dei cristiani di provenienza giudaica; questi anzi
hanno obiettivamente un posto d’onore, poiché «per primi hanno sperato nel Messia» (cf.
1,12), hanno goduto di una cittadinanza che ora viene condivisa per grazia dai nuovi venuti (cf. 2,12.19) e
sono stati portatori di una promessa di cui i pagani diventano solo ora immeritatamente partecipi (cf. 3,6). La
chiesa perciò è la realizzazione di un insieme ecumenico, interreligioso e interculturale. Proprio
questo significa diventare «uomo nuovo» (cf. l’esegesi di 2,15) in senso collettivo: i
cristiani, non importa di quale provenienza siano, sono chiamati a formare in Cristo un solo corpo e un solo
spirito. La lettera intende richiamare i suoi destinatari etnico-cristiani, non tanto al fatto che essi non
devono allontanare da sé i giudeo-cristiani, ma piuttosto al fatto che non devono separarsi e
isolarsi da essi, poiché senza Israele non esisterebbe nemmeno la chiesa. Efesini suppone una forma di
anti-semitismo più teorico che pratico, basato più sulla dimenticanza che sull’intolleranza,
comunque non meno grave, perché consistente in un tentativo (non sappiamo quanto consapevole) di
rimozione d’Israele dall’orizzonte della propria identità. Uomo nuovo, dunque, è la
comunità cristiana in quanto sa e deve assolutamente integrare in se stessa anche l’antico: non per
un mero ripescaggio storico, ma per una semplice necessità strutturale[2]. Al fine di rimarcare inequivocabilmente questo stato di
cose, l’autore di Efesini fa ricorso al concetto di «mistero», desunto dalla teologia
apocalittica: in quanto tale, da una parte esso dice che l’unione di giudei e pagani in Cristo e
nella chiesa è fondata nella volontà di Dio, quindi non è riducibile ad una pura contingenza
storica, e, dall’altra, esso dice pure che la sua realizzazione reca il segno della novità
escatologica, quindi è un dato tanto inedito quanto definitivo (cf. soprattutto 3,5-6).
In secondo luogo, gli originari lettori di Efesini vengono esortati a vivere coerentemente ogni giorno la loro
novità personale. Col battesimo, infatti, ciascuno è diventato individualmente «uomo
nuovo» (e “luce nel Signore”: 5,8); e il nostro autore si dilunga in una parenesi anche
dettagliata, che traccia un cammino etico molto concreto e sfaccettato. L’annuncio, che caratterizza
la prima parte della lettera, nella seconda diventa esigenza: l’evangelo fonda e stimola un adeguato
comportamento morale. Ma queste non sono soltanto dichiarazioni di principio. E’ importante invece cogliere
il nesso tra i due elementi proprio a livello della nostra lettera e dei suoi destinatari. Infatti, lo
sganciamento di costoro da Israele implicava inevitabilmente una ricaduta nel paganesimo, non solo ideale ma
morale (cf. soprattutto 4,17-19). Ritorna qui il tipico concetto dell’apologetica giudeo-ellenistica (cf.
Sap. 13s; Rm 1,18-32), secondo cui la falsa conoscenza di Dio ingenera una aberrante moralità. Al
contrario, “apprendere il Cristo” (cf. 4,20) conduce a vivere “nella giustizia e nella
santità della verità” (4,24). L’autore di Efesini vede i suoi lettori correre il
rischio di essere riassorbiti dall’uomo vecchio e dalla tenebra dell’immoralità, e la sua
insistenza sugli avverbi di contrapposizione tra il passato e il presente (“una volta, adesso”;
“non più”), non solo nella prima parte della lettera (cf. 2,2.11.13.19; cf. 3,5) ma anche
nella seconda (cf. 4,14.17.28; 5,8), rivela quanto fosse presente il richiamo a vivere in pienezza la loro
acquisizione battesimale, facendo soprattutto dell’amore reciproco il proprio contrassegno (cf. il
frequente, tipico complemento “en agapéi” in 1,4; 3,17; 4,2.15.16; 5,2). La parenesi scende
fino a interessarsi, e ampiamente, dei rapporti interni alla vita domestica (cf. 5,21-6,9), mentre
l’allegoria finale dell’armatura sottolinea tutta la serietà della posta in gioco (cf.
6,l0ss). Per Efesini, dunque, non basta che l’uomo nuovo sia stato creato al momento del battesimo,
poiché occorre l’impegno a diventarlo ulteriormente giorno per giorno. Evidentemente i suoi lettori
avevano bisogno di sentirselo raccomandare.
Infine, il tema della novità antropologica è presente anche nella sezione 4,1-16, dove il
concetto dell’unità ecclesiale si combina dialetticamente con quello della diversità
ministeriale. Lo scopo dei vari ministeri è di condurre tutti «all’uomo perfetto, alla statura
della pienezza di Cristo, affinché non siamo più bambini...» (4,13s), ed era già
preparato dalla preghiera del mittente per il rafforzamento dei suoi lettori “nell’uomo
interiore” (3,16). La posizione di questo brano nella struttura della lettera gli conferisce la
funzione di trait-d’union fra la sezione teologica (1,3-3,21) e quella più propriamente parenetica
(4,17-6,20). Ciò equivale a riconoscere agli stessi ministeri ecclesiali un compito di mediazione,
quasi maieutico, tale da favorire la crescita dell’ “uomo nuovo” verso l’età
adulta, sia nel senso di promuovere e mantenere l’unione ecumenica tra i giudeo-cristiani ed
etnico-cristiani (cf. la funzione paradigmatica di Paolo in 3,1-9), sia nel senso di istruire i battezzati nella
traduzione della loro fede in vita etica (cf. la funzione dei «pastori e maestri» in 4,11 con
4,20-1). Soprattutto, appare sufficientemente chiaro che questo compito ministeriale si innesta e prosegue
quello degli «apostoli e profeti» (2,20; 3.5: 4,11), di cui i primi appartengono ormai ad un passato
relativamente lontano, mentre i secondi garantiscono il nesso tra di essi e le più recenti forme di
ministero ben conosciute nelle comunità dei destinatari di Efesini...
I lettori di Efesini sono in una particolare condizione di rischio, anche se non risulta provocata
dall’esterno e non è descritta in termini espliciti, visto che l’autore non fa riferimento ad
alcun oppositore specifico, come avviene invece nelle altre lettere paoline (cf. Rm 3,8; 16,17s; 2Cor
11,5.13; Gal 1,7; Fil 3,2.18s; lTs 2,14)23. Solo in 5,6s si legge un generico accenno a dei vuoti
disturbatori della vita morale, che si possono intendere al meglio come semplici tentazioni provenienti
dall’ambiente pagano in cui i cristiani vivono. Ciò che caratterizza la chiesa efesina in
sostanza non è una positiva dottrina eretica, ma la mancanza di un approfondimento della
novità ecclesiologica e morale e di un autentico radicamento della parola annunciata nella vita (cf.
Mc 4,16-17!). Per questo l’autore insiste, come abbiamo detto, sulle caratteristiche dell’
“uomo nuovo” (2,15; 4,24), «interiore» (3,16) e «perfetto» (4,13): i lettori
devono prendere fortemente coscienza di ciò che col battesimo sono diventati, sia collettivamente che
individualmente, e tradurlo in vita vissuta, in una costante crescita verso «l’intero
pléroma di Dio» (3,19)24. La lezione che egli intende dare è che per vivere in pienezza
l’identità cristiana non è necessario attendere l’occasione di un’esplicita
minaccia, ben configurabile nei lineamenti di specifici avversari; normalmente infatti il cristiano non deve
confrontarsi con «la carne e il sangue» ma con «i padroni di questo mondo tenebroso»
(6,12), insieme generici e reali. Tuttavia, Efesini non è comandata da un pessimistico e ansioso
atteggiamento di difesa; al contrario, la sua atmosfera di serena contemplazione e la esuberante
proclamazione di una vittoria già conseguita in Cristo, tale da porre fin d’ora «nei
cieli» l’esistenza del cristiano (cf. 2,4-7), conferisce ai lettori la costante certezza di «un
libero accesso in piena fiducia» a Dio padre (cf. 3,12;2,18). E l’agiografo, appunto, intende
ricordare alla sua chiesa che cristiani autentici si può e si deve essere, non per una polemica
opposizione a ben individuate persone avverse, ma neanche in un inerte e comodo adagiarsi conformistico
all’originario stile pagano di vita, poiché invece il semplice battesimo (cf. 1,13;4,30) e
l’appartenenza ad una originale comunità di credenti (cf. 2,19-22) recano in sé tutta la
forza necessaria e la ragione sufficiente per impostare e condurre una vita nuova, pacifica e non polemica, ma
anche ben distinguibile e non conformistica, la quale comunque sta tutta intera sotto il segno della ricca,
traboccante e multiforme grazia di Dio (cf. 1,7.18.19; 2,7; 3,10.19.20). Dalle pagine della nostra lettera
si sprigiona la gioia tranquilla dell’essere cristiani e di esserlo intensamente, in un atteggiamento
profondamente positivo, sia nei confronti del mondo (poiché tutto il cosmo ha ormai Cristo come capo; cf.
1,10.20-23; 4,6.10), sia nei confronti della storia (poiché da una parte, Israele appartiene
strutturalmente al piano salvifico di Dio, e, dall’altra, tutte le genti sono ordinate a condividere la
stessa grazia del Vangelo: cf. 2,11-3,12). Di qui nasce anche l’inderogabile impegno della testimonianza,
se non proprio della missione, che deve investire tutta la chiesa ed essere a raggio universale (cf. 3,10), con
una partenza molto concreta tra le pareti domestiche (cf. 5,21-6,9).
Questo, a grandi linee, è l’insegnamento che l’autore vuole impartire, e di cui la
comunità necessita. Che esso poi venga espresso in uno stile particolarmente solenne e parzialmente
condizionato da un’atmosfera culturale pregnostica, ciò dipende rispettivamente dal genio personale
del mittente e dal clima ambientale che egli respira...
L’intento pastorale dell’autore di Ef si potrebbe anche vedete compendiato in tre verbi che
qualificano i tre livelli della vita cristiana: 1) eìdénai, “conoscere,
intendere” (1,18;cf.1,8; 3,18.19; 5,17), esprime l’aspetto intellettivo della fede e comunque la
componente sapienziale dell’identità cristiana; 2) krataiothénai, “essere
rinvigoriti” (3,16; cf. 1,13; 4,23.30; 5,18; 6,10; e l’allegoria della panoplia in 6,11-17),
esprime l’aspetto di gratuità divina e insieme di dinamismo della vita cristiana mediante la
pienezza dello Spirito; 3) peripatésai, “camminare” (2,10; 4,1.17; 5,2.8.19; cf.
2,10; 5,9.11), esprime l’aspetto pratico e vissuto dell’essere cristiani, punto d’arrivo e
di verifica dei due gradi precedenti. Nessuno dei tre momenti può sussistere da solo, né in coppia
con uno solo degli altri due.
Nel N.T., il tema del μυστήριον riceve un trattamento unitario
soltanto da Paolo. In tredici passi del suo epistolario (1Cor2,1-7; Rom. 16,25; Col. 1,26.27; 2,2; 4,3; Ef.1,9;
3,3.4.9; 5,32; 6,19; ad essi si può attrarre Apoc10,7) è dato individuare la presenza di un Mistero
dalla profonda valenza teologica (di norma qualificato semplicemente come ‘il’ Mistero), il quale,
mediante lo schema nascondimento-rivelazione, ci introduce fino all’intimo segreto della sapienza di
Dio e alle sue più profonde intenzioni sulla storia. Già quest’ultima osservazione è
distintiva, poiché delimita il campo semantico del Mistero, distanziandolo dalle speculazioni
cosmologiche proprie di alcune sezioni della letteratura sapienziale, o comunque dando ad esse un valore
secondario.
L’esposizione precedente ha inteso mettere in luce i due livelli diversi e complementari, che ci permettono
di accostarci adeguatamente al tema.
Il primo livello, forse il più evidente, è quello del suo divenire, cioè del suo passaggio
dal nascondimento alla manifestazione e realizzazione progressiva fino alla consumazione finale;
l’individuazione di queste varie fasi ci dice che il Mystêrion ha un percorso, un tragitto da
compiere e che quindi esso ha a che fare con la storia. Non si tratta dunque di una pura nozione astratta,
conoscibile solo per rapimento mistico o ispirazione diretta disgiunta da ogni precomprensione. E’ invece
dalla concreta e oggettiva esperienza storica, oltre che dai documenti letterari che ce l’attestano, che si
può accedere alla sua identificazione. In qualche modo perciò la stessa traiettoria del Mistero
condiziona la sua definizione.
Il secondo livello è quello delle varie componenti intrinseche, che ci permettono di definirne
l’essenza. L’analisi fatta ce lo ha squadernato nei suoi quattro aspetti costituivi: teologico,
cristologico, ecclesiologico, antropologico, per terminare con l’ammettere un largo margine di
eccedenza quanto alla sua comprensibilità. Ne risulta una natura complessa e ricca.
Comunque, sullo sfondo dell’apocalittica giudaica (qumraniana), abbiamo riconosciuto che il
Mystèrion affonda le sue radici in un piano d’intervento e quindi in una decisione operativa di Dio;
esso anzi, propriamente parlando, non solo si fonda ma consiste e si identifica appunto con
l’eudokía (ebr. rāzôn) dell’insindacabile volontà divina,
la quale si esercita nel vivo della storia. e della convivenza umana, e della quale le varie componenti
individuate non sono che prolungamenti e concrezioni. Rimane quindi essenziale, al fine di rendere conto
preciso del linguaggio paolino, mantenere alla base della sua polivalenza semantica il concetto
apocalittico-sapienziale di un ‘disegno’ (lat. consilium) di vasto respiro storico e
costitutivo. Fondamentalmente il Mistero riguarda ciò che si può variamente denominare
θέλημα (= ‘volontà’: Ef. 1,9),
σοφία (= ‘sapienza’: ib.3,10: ‘multiforme’!),
βουλή (= ‘decisione’: Is. 46,10),
πρόθεσις (= ‘proposito’: 2 Tim. 1,9),
mahǎšèbèt (= ‘progetto’: 1 QS 11,19) di Dio. Non solo la Chiesa
e l’uomo nuovo, ma anche Cristo stesso, oltre che il divenire storico, fanno parte, ciascuno al suo
livello, di questo unico Mistero germinale: «tutto ciò che sarà fu nel tuo beneplacito»
(1 QS 11,18: kô1 hannihjâ birsône kâ hājâ).
Adottando il paragone di una clessidra, possiamo dire che il passaggio dallo stadio di
nascondimento-progettazione a quello di rivelazione-realizzazione avviene in tutte le sue parti attraverso una
strozzatura obbligata che, fuor di metafora, è rappresentata da Gesù Cristo. Egli perciò sta
al centro del Mystêrion divino, a partire dal suo concepimento pretemporale fino alla sua esecuzione
storica (cfr. Ef. 1,9-10). Soltanto attraverso di lui acquistano poi rilevanza sia la componente ecclesiologica
sia quella antropologica: non solo la loro conoscenza, ma anche la loro esperienza vissuta (cfr. anche
1Cor. 2,16: «chi mai conobbe il pensiero del Signore-Dio così da istruirlo? ma noi abbiamo il
pensiero di Cristo», che ci media appunto quello di Dio). Il Mistero di Dio ha poi un destinatario
ultimo ben preciso, anzi inevitabile: l’uomo, sia egli ebreo o pagano; ambedue le parti (come esponenti
delle divisioni più stratificate esistenti nell’umanità) sono chiamate proprio a dar vita, a
livello di Chiesa, ad un nuovo modo di rapportarsi comunionalmente, sulla base di un autentico
rinnovamento personale-interiore e in una prospettiva di speranza.
Tutto questo è compreso nel concetto paolino di Mystérion, il quale pertanto viene ad assumere un
valore di cifra per indicare il contenuto sostanziale del messaggio cristiano, connotato particolarmente
nell’aspetto fontale del ‘santo disegno’ (1 QS 11,19) di Dio. Può essere interessante
notare che tale formulazione tematica, iniziata a partire da 1Cor. 2,1.7 in una cornice di riflessione
sapienziale sulla divina stoltezza del messaggio della Croce, viene poi ripresa e sviluppata più
tardi nelle due lettere gemelle di Col-Ef. (unitamente alla chiusa di Rom.) ed estesa ad orizzonti
semantici più vasti. Se ne può dedurre onestamente che l’Apostolo, nella maturità
della sua vita e della sua teologia, ha finalmente scoperto ed elaborato un concetto unico e sintetico per la sua
riflessione sul messaggio cristiano. Volendone tentare, in conclusione, una definizione compendiosa,
potremmo dire così: il Mystêrion è l’imperscrutabile beneplacito salvifico di Dio
che, facendo perno sulla ineguagliabile statura personale di Gesù Cristo crocifisso-risorto, si
realizza linearmente nella storia e nell’éschaton secondo una duplice dimensione comunitaria (=
ekklesía) e individuale (= uomo nuovo)[3]. Il Mistero paolino ci conferma che il Dio biblico, in momenti e forme diverse,
πολυμερως χαί
πολυτρόπως!: Ebr 1,1) è pur sempre un Dio
«per noi» (Rom. 8,31) e «con noi» (Mt. 28,20).
La meditazione su S.Giovanni Evangelista, nella basilica di S.Giovanni ad Efeso, non è stata
registrata. Mettiamo a disposizione on-line una selezione di brani di p.I.de la Potterie – oltre ad un
breve testo di notizie patristiche su S.Giovanni di D.Mollat, in Appendice - che erano stati raccolti in vista di
quella meditazione. P.Ignace de la Potterie, gesuita belga, professore del Pontificio Istituto Biblico di Roma,
è stato chiamato a sé dal Signore all’età di 89 anni, l’11 settembre 2003.
Questa antologia di suoi brani vuole essere anche un omaggio al valore della sua ricerca nel campo della
Scrittura ed, in particolare, negli studi sul IV vangelo.
Nel presentare alcune delle ricchissime riflessioni di p.de la Potterie sul vangelo di Giovanni, vogliamo
innanzitutto partire da quello che, a ragione, il gesuita belga considera il versetto centrale
dell’Evangelo giovanneo. Dinanzi alla realtà dei segni compiuti da Gesù e dal segno supremo
che è Gesù stesso, Giovanni non perde mai di vista la realtà storica, sensibile, terrena,
umana, dell’evento che gli è dinanzi agli occhi, ma sa vedere in essa la realtà
divina, eterna, che è presente. La compresenza del divino e dell’umano nella vicenda
dell’evangelo è così al cuore di tutta la sua testimonianza. Così risponde p. de la
Potterie alle domande di Antonio Socci[4]:
Nell’ultima cena Gesù dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9). E’ il
versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente: anche i suoi nemici
lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire
fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a
contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto
carne. E’ Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al
Mistero e conduce dal “vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il
“vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero. Questa pedagogia
del vedere diventa esplicita – è Gesù stesso che la spiega – nel capitolo 20. E pochi
finora sembrano averlo capito.
Dunque cosa è possibile scoprire?
Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne: si comincia dai segni,
come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s’imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce
in lui Gesù... E’ una progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco
βλέπω, che vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi
θεωρειν che troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente,
osservare. Poi il verbo οραν, al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo
vedere e che io tradurrei qui “ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò che
vedo”. Dunque dall’accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di Dio nella realtà
visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana, secondo i Vangeli. E’ una storia
raccontata attraverso gli occhi degli apostoli. Certo. L’evangelista però cerca di descrivere, nei
primi testimoni della risurrezione, l’approfondimento progressivo del loro sguardo su Gesù. Il
semplice βλέπειν (accorgersi) dell’inizio, diventa uno sguardo attento,
scrutatore (θεωρειν), ma la pienezza della fede pasquale è
espressa solo dal verbo al perfetto. “Ho visto il Signore” come annuncia la Maddalena ai discepoli.
L’evangelista ha curato tutti i particolari di questo capitolo? Il capitolo è costruito in maniera
concentrica. Primo episodio: i due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo:
l’apparizione alla Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l’apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv.
19-25). Infine, quarto: l’apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio è
parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in Cristo risorto si basa
sulla testimonianza “di quelli che hanno visto il sepolcro vuoto e il Signore vivo”. Sono parole di
padre Donatien Mollat. Non si parla più, spesso, in questo modo oggi...
Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni?
Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le
bende e Giovanni che “cominciò a credere” (non “credette” come recita la
traduzione normale, perché subito dopo aggiunge: “Infatti non avevano ancora compreso la
Scrittura”). E’ la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è
molto chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell’uomo dice “Maestro,
sei tu!”. No, non è più il maestro di prima. Maria è legata alla vecchia immagine che
aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede: è il Signore risorto. E’ lui stesso che
glielo dice. Allora capisce: Gesù non è più come prima pur essendo sempre la stessa
persona.
Poi l’apparizione ai discepoli senza Tommaso.
I discepoli sono pieni di gioia “alla vista del Signore”. Diranno a Tommaso: “Abbiamo visto
il Signore”. Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la
testimonianza della Maddalena. E’ molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò
che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo
così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere
e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la
profondità della realtà[5].
Lo sguardo di Giovanni coglie in profondità così ciò che si realizza nell’evento della
croce. Non solo la resurrezione è glorificazione di Gesù, ma già la sua crocifissione
partecipa dello splendore della gloria. Così spiega p. de la Potterie[6]:
Nei Sinottici, Gesù predice che dovrà soffrire molto; annuncia che “sarà schernito,
flagellato e crocifisso” (Mt 20,19) e che il terzo giorno risorgerà. Giovanni, invece, annunciando
la passione di Gesù la presenta come una “esaltazione”. Lo fa nei capitoli 3 (versetti 14-15),
8 (versetto 28) e 12 (versetto 32). L’ultimo è il brano più esplicito: “Quando io
sarò innalzato [exaltatus] da terra attirerò tutti a me”. Nel versetto precedente Gesù
aveva detto: “Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo [satana]
sarà cacciato fuori”. Gesù, innalzato da terra, prenderà il suo posto, divenendo re e
attirando tutti a sé. Ma, come si vedrà più avanti, l’esaltazione di Gesù non
avviene in paradiso, ma sulla croce...
Giovanni non nega la realtà. La materialità degli avvenimenti che racconta rimane intatta.
Giovanni però mette in rilievo, a differenza dei Sinottici, l’aspetto di regalità, di
trionfo, di vittoria sul male, di valore salvifico, che è insito nella passione e nella morte subita da
Gesù Cristo; indica il senso degli eventi. Questi aspetti emergono anche durante la sua crocifissione.
Alla fine del processo fatto dai Romani, Pilato conduce Gesù di fronte alla folla e dice: “Ecce
homo”, ecco l’uomo (Gv 19,5). Gesù indossa i simboli della regalità: oltre alla corona
(di spine) ha ancora il mantello (i Sinottici, invece, dicono che la porpora gli è stata tolta). Leggendo
Giovanni si ha addirittura l’impressione (erronea) che Gesù vada alla croce indossando la porpora e
la corona (di spine). E c’è un impressionante parallelismo, anche letterario, tra la scena avvenuta
nel pretorio nel luogo chiamato Gabbatà (Gv 19, 13-16), e quanto accade ai piedi della croce, sul Golgota
(Gv 19, 17-22). In entrambi i casi Giovanni pone l’accento sul tema della regalità, e in entrambi i
casi è Pilato, cioè il detentore del più alto potere civile, che rende gli onori a
Gesù. “Ecco il vostro re” dice alla folla radunata davanti al pretorio (Gv 19,14); poi sopra
la croce egli scrive: “Il re dei Giudei” (Gv 19,19). E’, di fronte al mondo, una proclamazione
della regalità di Cristo fatta in tre lingue: in ebraico (la lingua di Israele), in greco (la lingua della
cultura) e in latino (la lingua del potere civile). Questo episodio viene raccontato solo da Giovanni. E non
è un caso se nella tradizione cristiana la Via crucis, ispirata principalmente al racconto di
Giovani, diventa una via trionfale. Giovanni scrive che Gesù esce dalla città “baiulans sibi
crucem”. Abitualmente viene tradotto: “Portando la croce da sé”. In realtà
la traduzione corretta è: “Portando la croce per sé”, cioè portandola
come strumento della sua vittoria. San Tommaso d’Aquino conferma questa traduzione. Dice: “Cristo
portò per sé la croce, e per gli empi era un grande ludibrio ma per i fedeli un grande mistero.
Cristo porta la croce come un re porta il suo scettro, come segno della sua gloria, della sua sovranità
universale su tutti. La porta come un guerriero vittorioso porta il trofeo della sua vittoria”. E nei primi
secoli san Giovanni Crisostomo aveva già usato un’espressione analoga: “Egli portò
sulle proprie spalle il segno del trionfo”.
La croce in Giovanni non è più solo un patibolo, diventa “la croce di Gesù”:
è una formula che altrove nel Nuovo Testamento viene usata solo da Paolo per parlare del mistero salvifico
della croce di Cristo (cfr 1Cor 1,17).
Insomma, in tutto il racconto di Giovanni ogni piccolo dettaglio attira l’attenzione su questo diverso
livello di lettura. Per esempio, solo i Sinottici parlano di due ladroni, Giovanni si limita a parlare di altri
due in mezzo ai quali viene crocifisso Gesù (“medium autem Jesum”): la centralità di
Cristo è un altro segno della sua dignità.
Un altro esempio: Giovanni sta vicino a Maria, ma ella sola sta vicino alla croce di Gesù. E’
Maria la più coinvolta con la croce di Gesù, Giovanni è in secondo piano. E Maria per la
seconda volta viene chiamata da Gesù, come era già accaduto a Cana, “donna”. E’
questo il termine usato nell’Antico Testamento per designare la Figlia di Sion. Nei profeti Isaia e Baruch
“la figlia di Sion” è la donna che dopo l’esilio richiama a casa tutti i dispersi. Sotto
la croce Maria, la madre di Gesù, una donna concreta, realizza quella prefigurazione scritturistica:
Maria, ricevendo il discepolo come figlio, attua nella realtà l’immagine della Figlia di Sion,
cioè la Chiesa, che vede tornare i suoi figli dall’esilio. Per Giovanni, è il momento in cui
nasce la Chiesa, nelle due persone presenti sotto la croce: la madre di Gesù rappresenta già la
Chiesa-Madre; e il discepolo che Gesù amava rappresenta tutti i discepoli: diventando figli di Maria
(“Ecco tua madre”) diventano tutti figli della Chiesa. La croce, in Giovanni, è vista in
prospettiva ecclesiale.
Un altro elemento proprio soltanto a Giovanni nel racconto della crocifissione è rappresentato dal
sangue e dall’acqua che escono dal costato di Gesù Cristo morto, quando viene perforato dalla lancia
del soldato (Gv 19,34): l’acqua simboleggia lo Spirito Santo dato da Gesù Cristo alla Chiesa (Gv
19,30) e il sangue attesta la realtà del sacrificio, il dono della vita di Cristo, col quale “tutto
è compiuto” (Gv 19,28).
Anche nella sepoltura di Cristo emerge un dettaglio “regale”. I circa trenta chili di balsamo
(cento libbre di mirra e aloe) che, secondo Giovanni, sono stati utilizzati, eccedevano una misura media.
E’ una quantità che poteva essere utilizzata per un re. Si apre già qui la prospettiva sulla
Pasqua (Gv 19,31-42).
E’ indubbio, alla luce di quanto abbiamo detto, che Giovanni dà una visione della croce
differente da quella degli autori dei tre Vangeli sinottici. Per Giovanni, certo, la croce non viene annullata,
non ci presenta una visione gnostica; ma quell’avvenimento è letto nella sua valenza gloriosa.
E’ ciò che ha ben presente la Chiesa nella sua liturgia.
Al centro del pensiero di p. de la Potterie, stanno le sue considerazioni sul concetto di
“verità” in S.Giovanni. A questo tema il gesuita aveva dedicato la sua ponderosa testi di
laurea (per una presentazione di questo tema vedi la sintesi elaborata dallo stesso p. de la Potterie e
pubblicata on-line sul nostro sito nella sezione Approfondimenti con il titolo: “Che cos’è la
verità? Verità biblica e verità cristiana”). E’ dalla
“verità” che è Gesù che discendono gli unici due precetti che S.Giovanni sembra
avere in mente: la fede e l’amore. Così ancora p. de la Potterie[7]:
Partiamo... dalla dichiarazione di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno va
la Padre se non attraverso di me”. Nessun uomo della storia ha mai parlato così di se stesso. Per
comprendere bene queste parole bisogna metterle in relazione con il mistero dell’incarnazione ossia
del fatto che, in Gesù, si realizza il mistero di “Dio con noi” (Mt 1, 23).
L’unicità dell’incarnazione del Figlio di Dio, che è Gesù Cristo è
la ragione fondamentale dell’unicità della verità cristiana. Un altro testo fondamentale
è quello del Prologo: «La grazia della verità accadde in Gesù Cristo» (Gv 1,
17). L’incarnazione è evento unico nella storia delle religioni: quell’uomo della storia,
Gesù, era il Figlio di Dio venuto da presso il Padre. Perciò dobbiamo sempre dire con un apoftegma
dei Padri del deserto: «Colui che persevera nella memoria di Gesù, costui è nella
verità». Così viveva anche san Paolo: «Per me, vivere è Cristo e il morire un
guadagno» (Fil 1, 21); tutta la sua opera missionaria consisteva in questo: «Far conoscere tra i
Gentili la splendida ricchezza di questo mistero: Cristo in voi, la speranza della gloria» (Col1,
27).
Ma se la verità cristiana è un avvenimento che è mistero, si comprende che abbia una
relazione intima con lo Spirito Santo. La verità è un evento, sì, ma un evento rivelatore,
un mistero che deve essere sempre approfondito dal di dentro. E proprio qui che è necessaria la funzione
dello Spirito. Se Gesù Cristo è la verità, è anche vero che «lo Spirito
è la verità» (1 Gv 5, 6); Giovanni è l’unico autore del Nuovo Testamento che usa
l’espressione «lo Spirito della verità». Contrariamente a ciò che pensava
Gioacchino da Fiore nel XIII secolo, lo Spirito non porta una verità nuova, diversa da quella di
Gesù: al contrario, lo Spirito della verità ci a ricordare tutto ciò che ha detto
Gesù, per insegnarcelo dal di dentro, così ci fa entrare “in tutta intera la
verità”) (Gv 16, 13).
Scrive monsignor Luigi Giussani nel libro Il cammino al vero è un’esperienza: «Ha veramente
incontrato Cristo solo chi possiede il suo Spirito: “Se uno non ha lo Spirito di Cristo non è dei
suoi”, cioè è un estraneo, un incapace di sorprenderne l’intima fattura, la natura
segreta, di diventare familiare del suo mistero».
Questo doppio rapporto della verità con Cristo e con lo Spirito ci apre una prospettiva veramente nuova
per la nostra vita cristiana, per la morale cristiana. Per comprenderlo ancora meglio, partiamo adesso da un
altro celebre testo giovanneo: «Dio è amore» (1 Gv 4, 8. 16). Qui di nuovo dobbiamo insistere
sull’assoluta novità di una tale affermazione. Nelle altre religioni si parla per esempio della
profondità del mistero di Dio, della sua grandezza, della sua eternità, della sua giustizia, ecc.
Ma solo il cristianesimo ci insegna: “Dio ha tanto amato il mondo che ha mandato il suo Figlio
unigenito affinché chiunque crede in lui [...] abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
Una tale rivelazione trasforma la morale cristiana. Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, che
è un comandamento nuovo, quello di amarci gli uni gli altri, come lui ha amato noi (Gv 13, 34). Solo
così si spiega il fatto, a prima vista paradossale, che tutta la morale giovannea è praticamente
“una morale della verità”. Si compendia in due precetti fondamentali: la fede (che ci
apre al Mistero) e l’amore (che ci fa vivere nel mistero della rivelazione).
Per converso Giovanni sembra conoscere, nella sua essenzialità e semplicità ricchissime, solo
due peccati: il rifiuto della fede in Gesù e l’odio del fratello. Ecco come il gesuita belga
presenta, dopo l’Incarnazione, il peccato del mondo (è significativo che il Battista, in
Giovanni, chiami così Gesù: l’Agnello di Dio che toglie “il” peccato del
mondo)[8]:
Prima di imbattersi personalmente nella novità del cristianesimo è soggettivamente ancora
possibile una religiosità umana o persino una posizione di indifferenza non menzognere e inique. Ma
l’incontro col fatto cristiano rivela l’apertura o la chiusura del cuore di ognuno di fronte alla
scelta di Dio, di fronte al modo storico in cui il Mistero ha scelto gratuitamente di rivelarsi. Per questo, per
Giovanni l’unico peccato mortale è l’incredulità, che si trasforma in odio.
Un’incredulità che non è più indifferenza di fronte a ciò che non si conosce,
ma rifiuto e negazione di ciò che si è visto. Può odiare il cristianesimo solo chi in
qualche modo lo ha incontrato, chi ha visto e odia ciò che ha visto. Lo dice Gesù stesso, sempre
nel capitolo 15, dopo la frase da lei citata: “Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto in
mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno
odiato me e il Padre mio” (Gv 15,23-24).
Qual è la radice di questo odio?
Ci sono molti passi che illuminano. Quando Gesù identifica se stesso con il pane disceso dal cielo, i
Giudei mormorano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre
e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6, 42). Quando Gesù va ad
insegnare al tempio, alcuni dicono, rivolti ai capi farisei: “Non è costui quello che cercate di
uccidere? Ecco, egli parla liberamente e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che
egli è il Cristo? Ma costui sappiamo da dov’è, il Cristo invece quando verrà nessuno
saprà da dove sia” (Gv 7,25-27). Lascia spiazzati il fatto che Gesù era un uomo come tutti,
un uomo di cui si conosce il nome, la data di nascita e il paese dove aveva vissuto. Eppure pretende di
identificarsi col Mistero, di “farsi Dio” (Gv 10,33). Lo scandalo davanti a questa pretesa, che
coincide col mistero stesso dell’incarnazione, diventa obiezione rabbiosa nei Giudei che non accettano la
libertà assoluta del Mistero nello scegliere come gratuitamente comunicarsi. Per questo ci sono i
tentativi di lapidarlo (Gv 8,59; Gv 10,31). Dalla parte opposta c’è la posizione della folla dei
semplici, che crede ai segni e che Giovanni descrive poco più avanti: “Molti della folla invece
credettero in lui, e dicevano: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi
di quelli che ha fatto costui?” (Gv 7,31). Eppure anche il “successo” della missione pubblica
di Gesù, i frutti della sua predicazione, diventano insopportabili e scatenano la reazione ostile.
Soprattutto dei capi religiosi...
Davanti alle folle che seguono Gesù, i capi del sinedrio s’inquietano: “Che facciamo?
Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani
e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione” (Gv 11, 47-48). Ma più avanti
c’è una frase ancora più rivelatrice: “I farisei allora dissero tra loro: “Vedete
che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!” (Gv 12,19). Questo è
importante. Se il cristianesimo fosse una cosa totalmente estranea alle attese ultime del mondo, cioè di
ogni uomo, non susciterebbe alcuna reazione. Se Gesù fosse stato un predicatore di idee religiose e
morali, anche elevatissime, lo avrebbero lasciato fare. E invece la sorpresa è che il mondo subisce il
fascino della sua presenza, che non è del mondo ma che risponde alle attese del mondo. L’odio e
l’ostilità sono così cattivi solo perché carichi del rinnegamento di questo fascino
verso qualcosa che il potere del mondo non riesce a tenere sotto controllo...
Ma all’inizio, la ragione era più profonda, anche perché il cristianesimo non veniva
ridotto a una mera morale. Gesù dice che non è lui a giudicare il mondo, ma che il mondo stesso,
rifiutandolo, si autocondanna. Gesù lo spiega a Nicodemo: “Dio non ha mandato il Figlio nel
mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è
condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome
dell’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18). Gesù è venuto per salvare il mondo, ma
questa salvezza non è un automatismo meccanico. Davanti al fatto cristiano che entra nel mondo, il mondo
si divide. Gesù lo ripete dopo l’episodio del cieco nato: “Io sono venuto in questo mondo per
dividere” (Gv 9,39). Una frase che molte edizioni dei Vangeli, sbagliando, traducono: “Io sono venuto
nel mondo per giudicare”. Non giudicare, ma dividere. Una divisione che non è voluta da Gesù:
egli viene e propone se stesso. Davanti a questa proposta c’è chi lo segue, e chi lo rifiuta e si
autocondanna. L’immagine di questa divisione è proprio l’epilogo dell’episodio del cieco
nato. Il cieco è il discepolo che accetta di seguire Gesù, il punto più drammatico del
rifiuto dei farisei è l’espulsione del cieco dal tempio. Da questa divisione nasce visibilmente la
Chiesa. Da una parte la folla, che, alla fine, sobillata dai capi, chiederà la condanna di Gesù; e
dall’altra i suoi, pochi, che escono dal tempio e lo seguono. Per questo Gesù usa subito dopo
l’immagine del Buon Pastore: “Egli chiama le sue pecore ad una ad una e le conduce
fuori” (Gv 10,3).
La parola “anticristo” è fra i termini propri del corpus ioanneum (cioè
l’insieme degli scritti del Nuovo Testamento attribuiti all’evangelista Giovanni). E’
espressione originaria di Giovanni, proprio perché l’evangelista vede concretizzarsi, in opposizione
alla presenza del Cristo, la possibilità di opporsi a Lui, a Gesù. L’opposizione alla fede
cristiana è l’apice del male possibile. Ecco un breve testo di p. de la Potterie al
riguardo[9]:
Il problema affrontato da Giovanni appare molto simile a quello odierno: come discernere gli spiriti per
vedere se provengono effettivamente da Dio? La risposta fondamentale di Giovanni è che il riferimento a
Gesù Cristo è la misura su cui basarsi. “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni
spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non
riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4,2). E’ interessante notare che è
precisamente in questo contesto che Giovanni introduce, primo fra tutti, il termine “anticristo” (1
Gv 2, 18); come altrettanto interessante è considerare qual è la situazione storica che Giovanni ha
di fronte. Il fatto è molto attuale: c’è uno scisma all’interno della comunità
giovannea, alcuni sono andati via. L’evangelista non ne fa una questione sociologica – sul genere dei
discorsi sulla secolarizzazione così in voga nel nostro tempo – bensì colloca questo evento
nella prospettiva teologico-escatologica: “Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto
ora molti anticristi sono apparsi” (1 Gv 2, 18). Questi anticristi sono appunto coloro che, pur
appartenendo esteriormente alla comunità, non possedevano più lo Spirito di Cristo. “Non
erano dei nostri” dice Giovanni; perciò è bene che se ne siano andati, perché
“doveva rendersi manifesto che loro, tutti quanti, non sono dei nostri”. Dunque il pericolo di uno
spirito separato da Cristo, il pericolo dell’anticristo, è un pericolo eminentemente interno alla
comunità dei credenti, cioè alla Chiesa. Anche se Giovanni parla di “spirito del mondo”
(“il mondo giace sotto il potere del maligno”), è quel “mondo” penetrato nel seno
della Chiesa a costituire la vera insidia per la fede.
Possiamo ora considerare altri termini caratteristici del linguaggio giovanneo. Ognuno di essi ci rimanda alla
comprensione di fondo che egli ha del mistero di Gesù, il Verbo. Innanzitutto l’insistenza sul
“diventare” figli di Dio, reso possibile dall’Incarnazione[10]:
Questa concezione (N.d.C. cioé che non sia necessario diventare figli di Dio, ma che lo si sia in
partenza, per il semplice fatto di essere nati come uomini) pretende trovare un avallo nell’affermazione di
san Tommaso d’Aquino secondo cui “considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo
del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi” (Summa theologica III, 8,
3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes gli incisi “secondo gradi diversi” e
“in certo modo” non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso
Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue
chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla
comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica. Se, con
l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero
della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo
costitutivo per la salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in
virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente,
“l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come
persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano
anonimo”...
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la
figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un
dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede (“Non voi avete scelto
me, ma io ho scelto voi”, Gv 15,16). Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della
figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1,12) che
parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3,1-8), che
descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra
nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1 Gv 3, 6-9; 1 Gv 5, 18-19) dove vengono
descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina
figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono
significativi soprattutto i primi due passi sopra citati. Nel Prologo (Gv 1,12-14), Giovanni scrive: “A
quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo
nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato [έγεννήθη].
Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la
gloria dell’unigenito [μονογενους] venuto da
presso il Padre [παρά πατρός] pieno della grazia della
verità”.
E’ importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire
(γίυεσθαι), sul quale i commentari non dicono quasi niente.
Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si
diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina
non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si
diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è
“generati dall’acqua e dallo Spirito”. E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo
e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo
nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e
accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così
la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo
sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. E’ piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie
nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di
san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria. L’altro termine chiave del brano del
Prologo è la parola potere (έξουσίαυ), che indica
anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di
natura, ma per la fede. E’ la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima,
mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi
“crede nel suo nome”. Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede
consiste nel “credere nel nome del Figlio unigenito di Dio” (Gv 3,18). Ne segue che la nostra
figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato
tra noi come “il Figlio unigenito venuto da presso il Padre”. Questo potere di diventare figli di
Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepolI. Proprio ciò che
è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli
di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua ad operare
nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli
dà (cfr. Gv 17,2). Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema
della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza
sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a
Nicodemo: “Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel
regno di Dio” (Gv 3,5). Quindi la via d’accesso al diventare “figli nel Figlio” è
possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo
passo col segno dell’acqua). Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi
fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di
questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a
prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella
sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.
Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e
indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione
di Gesù Cristo Figlio di Dio. Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può
essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: “Come il Padre si
rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito”. E Basilio aggiunge che
ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: “Bisogna adorare nello Spirito e
nella verità” (Gv 4,23) chiaramente definendo se stesso “la verità”. Basta
leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo
Spirito “insegnerà”, facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14,26);
“renderà testimonianza” a Gesù (Gv 15,26); “non parlerà da se stesso, ma
dirà quello che ascolta” (Gv 16,13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità
arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità (“Lo Spirito ispira
dove vuole”; Gv 3,8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento
di Gesù. Siccome lo Spirito è “lo Spirito della verità” (Gv 15,26; Gv 16,13),
quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto:
“Io sono la verità” (Gv 14,6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso
la verità intera (Gv 16,13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a
rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può
riassumere quanto abbiamo detto: “Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé;
risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il
suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera
incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a
sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo
sangue”.
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di
presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris
missio “la fede che abbiamo ricevuto” è un “dono dall’Alto senza nostro
merito”.
Abbiamo già incontrato, all’inizio di questa nostra rapida rassegna, l’importanza del
“vedere”. A più riprese p.de la Potterie è tornato nei suoi scritti a manifestare
l’importanza di una corretta comprensione di questa famiglia semantica, nelle sue diverse
sfumature[11]:
(Dice) una frase suggestiva di Hans Urs von Balthasar: “Vedere non è tanto il contemplare di
Platone, quanto lo stare di fronte all’evidenza dei fatti”. Il cristianesimo non è quindi un
idealismo di tipo platonico, non è un deismo di marchio razionalista come quello in voga due secoli fa, ma
è fondamentalmente il fatto dell’incarnazione che rimane presente: la venuta del Figlio di Dio tra
noi. Il cristianesimo è quindi una storia reale con eventi accaduti. Eventi che noi contempliamo nella
fede cercando, come diceva Gregorio Magno, di alzarci dalla storia al mistero, di scoprire il mistero
all’interno di quella storia così umana.
“Ciò che era fin da principio”... Quell’inizio, l’inizio del cristianesimo,
quando Gesù si è manifestato a Giovanni e agli altri, si può trasmettere e comunicare?
Giovanni, nella sua lettera, dice ai credenti che non hanno conosciuto Gesù (sono la seconda generazione
di cristiani della Chiesa in Asia Minore) che anche loro partecipano a quell’inizio. Un inizio di cui
Giovanni aveva potuto fare esperienza sensibile. Alla domanda che evidentemente anche quei cristiani, come noi
oggi, si ponevano, Giovanni risponde: “Ciò che noi abbiamo visto e udito lo comunichiamo anche a
voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi”. Così si comunica e si trasmette
l’inizio dell’avvenimento cristiano. “Ciò che era fin da principio”. Questa
è la formula perfetta per definire la Tradizione cristiana: all’inizio c’erano dei testimoni
che hanno trasmesso la loro esperienza a quelli della seconda generazione, facendola arrivare, adesso, fino a
noi. Infatti Giovanni usa l’espressione “fin da principio” altre volte, riferendola ai
discepoli della seconda generazione. “Voi avete conosciuto colui che è fin da principio” (1 Gv
2,13); “L’annuncio che voi avete udito fin da principio” (1 Gv 3,11): si vede bene che per
Giovanni quelli a cui egli comunica il messaggio cristiano partecipano all’esperienza dei primi testimoni
pur non essendo stati, come lui, presenti ai fatti.
Anche rileggendo il Vangelo, in cui riecheggia la parola dei testimoni, noi partecipiamo all’esperienza
fondante del cristianesimo. Il Vangelo di Giovanni finisce con le parole rivolte da Gesù a Pietro:
“Se io voglio che lui [cioè Giovanni] rimanga finché io venga a te che cosa importa?”.
Quelle parole avevano fatto credere ai discepoli che Giovanni non sarebbe morto fino al ritorno di Cristo. Ma
Gesù non dice questo. Il senso delle sue parole si comprende dal versetto seguente: “E’ lui
che rende testimonianza”. Giovanni rimarrà sì presente nel mondo fino al ritorno di Cristo,
ma non fisicamente: rimane presente nella Chiesa per mezzo della testimonianza lasciata nel suo Vangelo. E, anche
attraverso la sua testimonianza scritta nel Vangelo, permette a noi, cristiani contemporanei, una cosa
straordinaria: ci permette cioè di rifare l’esperienza che hanno fatto i primi e che è
raccontata nel Vangelo. La stessa, identica esperienza compiuta da Giovanni e dai suoi amici quasi duemila anni
fa.
P.de la Potterie a partire non solo dall’esegesi degli incontri dei discepoli con Gesù risorto, che
già abbiamo visto, ma anche attraverso il ricorrere delle diverse sfumature utilizzate
dall’evangelista, ha studiato come questa attenzione al “vedere” senza escludere la
realtà di ciò che è stato visto, anzi prendendo inizio e fondamento proprio da esso, giunge
ad essere sguardo di fede. In tutto lo sviluppo del vangelo è presente questa dinamica[12]:
C’è... in Giovanni, e questo ci porta nel cuore del nostro discorso, un vero e proprio cammino
del vedere..
Quest’ultimo contributo ci mostra già il passaggio dal “vedere al “rimanere”, al
“dimorare”, un altro caposaldo del discorso giovanneo. Già nella testimonianza del
Battista si affermava che colui sul quale vedrai “scendere e rimanere” lo Spirito, questi è
colui che battezza in Spirito Santo (Gv 1, 33). P de la Potterie così commenta il tema del
“rimanere”[13]:
Il verbo rimanere (μένειν) s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento, di cui
soltanto 12 nei Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. Il termine
appare il più delle volte (43 dei 67 casi) nell’espressione composta rimanere in. Direi che si
possono distinguere tre modalità dell’uso del verbo rimanere e delle espressioni ad esso collegate:
innanzitutto l’uso semplicemente biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli spostamenti di
Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni che ricorrono nei racconti degli
incontri evangelici, come quelli con Giovanni e Andrea (Gv 1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42). E infine le
formule contenute nei discorsi di Gesù o nelle Lettere: si tratta di inviti ai discepoli a rimanere in
Lui, rimanendo nella sua parola e nel suo amore. Vi sono affermazioni in cui è indicato insieme il
rapporto di Gesù con i discepoli e il rapporto di Gesù con il Padre e la comunione con il Padre e
con il Figlio che viene sperimentata dai discepoli.
Che cosa collega questi diversi modi di usare l’espressione rimanere?
C’è un passaggio ab extra ad intra. Da un uso esteriore si passa a un uso interiore. Il rimanere,
come il guardare e il vedere, in Giovanni descrive la dinamica della fede dei discepoli. Ma proprio il fatto che
il medesimo e identico verbo rimanere è usato sia in senso esteriore sia in quelle che vengono chiamata
formule di immanenza, impedisce ogni possibilità di interpretazione dualistica. Anche quando si procede da
un uso esteriore a un uso interiore, il rimanere giovanneo, pur negli aspetti più interiori, ha origine ed
è sempre in rapporto col manifestarsi storico e visibile di Gesù, il Verbo fatto carne. Da un
rimanere preso di Lui a un rimanere in Lui; Egli dice che possiamo venire a Lui perché il Padre che lo ha
mandato ci attira a Lui (Gv 6,44; cfr. 12,32).
Lei ha citato gli incontri evangelici. Che ruolo gioca il rimanere in questi episodi?
Prendiamo l’incontro di Gesù con Andrea e Giovanni (il secondo discepolo, qui non nominato,
è probabilmente il discepolo amato, che verrà designato per la prima volta in 13,23). E’
l’inizio della missione di Gesù e, in un certo senso, in quelle poche parole c’è tutto
il cristianesimo. C’è l’incontro, l’impatto imprevisto con una presenza umana che
percuote i sensi e stupisce: “Maestro, dove rimani?” (tradotto meno bene nella Vulgata “ubi
habitas?”). “Venite e vedete”. E subito c’è di nuovo il rimanere: “Andarono
a vedere dove rimaneva, e quel giorno rimasero presso di lui. Era circa l’ora decima” (Gv 1,39). In
poche battute il verbo μένειν compare tre volte. E’ da quel rimanere stupiti a
guardarlo parlare quel giorno (era circa l’ora decima, ricorda Giovanni) che nasce nei due discepoli
un’immediata certezza. Una certezza ancora iniziale, ma che crescerà man mano che, rimanendo, il
loro stupore dell’inizio si rinnova. “Abbiamo trovato il Messia”, dirà subito Andrea al
fratello Simone. Ma quell’impressione iniziale indimenticabile si prolunga e si conferma rimanendo presso
di Lui...
Ma dove nasce questa necessità del rimanere?
Il rimanere è la condizione che identifica i discepoli di Gesù. Non sono i più bravi, i
più religiosi o i più morali. Sono semplicemente quelli che rimangono presso di Lui e in Lui. Il
cristianesimo è sempre così: innanzitutto un incontro, occasione data, assolutamente gratuita. Lo
stupore e l’attrattiva dell’incontro steso sollecitano la libertà a rimanere, a starci a
quell’incontro. E’ in questa convivenza, nel temo dato a questa convivenza, che lo stupore iniziale e
la scoperta crescono, proprio perché le occasioni per stupirsi ancora di quella presenza si moltiplicano.
Se Giovanni e Andrea, che pur lo riconobbero quel giorno come Messia, non l’avessero più visto, pur
conservando per sempre l’impressione della sua eccezionalità, si sarebbero nella vita come
dimenticati di Lui. Invece, riaccostandolo, si approfondiva l’impressione originale. Per questo dopo i
miracoli ritorna l’espressione “i discepoli credettero in lui”. Non che prima non credessero,
ma la convivenza e il constatare ogni giorno l’eccezionalità della sua presenza accresceva la loro
certezza.
In che cosa consiste questa crescita?
Gesù stesso, per dare un’immagine del rimanere, usa la metafora della vite e dei tralci (Gv
15,4-8): “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza
di me non potete far nulla [...]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e
vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei
discepoli”. Il rimanere non è sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti. Cioè dal
cambiamento che lo stesso rimanere gratuitamente provoca. Come ha detto don Giovanni, accennando al rimanere di
Giovanni e Andrea quel pomeriggio presso di Lui: “Che cos’è avvenuto in loro? Non è
stata in primo piano la soluzione dei problemi, ma uno stupore hanno cambiato anche la vita”. E ancora:
“L’incontro con Cristo fa venire voglia di seguire, non immediatamente di cambiare la vita. Se il
termine fosse cambiare la vita, l’attenzione si sposterebbe inevitabilmente su di sé invece che
sulla Presenza. Neanche uno iota della legge viene eliminato da questa impostazione, anzi, viene reso possibile,
viene compiuto.
Anche il cambiamento morale è frutto del rimanere...
Senza dubbio, perché la morale giovannea è una morale della verità (cfr. la Veritatis
splendor). Nella crescente consapevolezza che “senza di me non potete far nulla”, le conseguenze
dell’essere cristiano, anche a livello morale, vengono collegate in Giovanni al tema del rimanere. Il
rimanere con Gesù implica (come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto come conseguenza a
livello dell’essere) vivere come Gesù: “Chi dice di dimorare in Lui, deve comportarsi come Lui
si è comportato” (1 Gv 2,6). “Chiunque rimane in Lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto
né l’ha conosciuto” (1Gv 3,6). Se il cristiano, come Giovanni e Andrea, rimane stupito a
guardarlo, anzi se veramente rimane in Lui, allora non pecca più. In quanto rimane in quello stupore e in
quella grazia, non può peccare. E’ bellissimo, nella sua sinteticità, il commento di Agostino
a questo versetto: “In quantum in ipso manet, in tantum non peccat”. Una percezione comune
soprattutto tra i padri della Chiesa orientale. Anche Ecumenio (un teologo della tradizione antiochena di
Crisostomo), nel suo commento alla Prima lettera di Giovanni, scrive: “Quando colui che è nato da
Dio si è completamente dato a Cristo che abita in lui mediante la filiazione, egli resta fuori della
portata del peccato”. Diventiamo impeccabili in quanto ci abbandoniamo totalmente a Gesù Cristo, in
quanto rimaniamo in Lui.
Che cosa succede a chi non rimane?
La folla non rimane e semplicemente dimentica l’impatto con Cristo. Ma anche nelle descrizioni
dell’Anticristo ricorre la terminologia del rimanere. “Sono usciti da mezzo a noi ma non erano dei
nostri, altrimenti sarebbero rimasti con noi” (1 Gv 2,19). L’Anticristo è proprio per
definizione colui che non rimane nel luogo dell’incontro, nello stupore dell’incontro, ma “va
oltre” (cfr. 2 Gv 9). Invece il vero discepolo è colui in cui rimane ciò che ha udito dal
principio: “In voi [in contrasto proprio con l’Anticristo] ciò che udiste dal principio, anche
voi rimarrete nel Figlio e nel Padre” (1 Gv 2,24). Il rimanere non è una semplice premessa per poi
poter fare altro. Non è uno spunto per giungere finalmente alla conoscenza. Invece è l’inizio
e la piena maturazione della conoscenza e della vita cristiana. Gesù, dopo aver usato l’immagine del
rimanere in Lui come i tralci nella vite, aggiunge: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in
voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Lei ha detto che il rimanere rende possibile anche un conoscere.
In diverse espressioni c’è una connessione di successione tra il rimanere e il conoscere (vedi Gv
8,31-32; 14,17; 2 Gv 2). Il tema del conoscere compare 141 volte nel Vangelo di Giovanni, ma nella maggioranza
dei casi, ben 85, esso viene indicato col verbo οίδα (so), in cui è la radice del
verbo ιδειν, vedere. Questo verbo è diverso da
γινώσκειν. Significa so perché ho visto, esprime
l’aspetto più esistenziale, meno astratto della conoscenza, il suo aspetto di esperienza vissuta. Se
si aggiunge che in Giovanni non compare mai il termine γνωσις, conoscenza, come
sostantivo astratto, soprattutto per evitare equivoci con l’uso che ne facevano le sètte gnostiche,
si intuisce a che tipo di conoscenza allude Giovanni e perché la condizione stessa di questa conoscenza
sia il rimanere presso Gesù e in Lui. Questa conoscenza è infatti soprattutto un gustare, un fare
esperienza, un accorgersi di crescere, rimanendo nel luogo dove lo stupore si rinnova.
Questo “rimanere” ha una profonda valenza antignostica. Si tratta di “rimanere” in
Gesù, si tratta di rimanere nella comunione ecclesiale, si tratta di rimanere nella comunione
sacramentale: Come dice in maniera splendida la 2Gv 7-9: “Poiché molti sono i seduttori che sono
apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nel mondo. Ecco il seduttore e
l’anticristo... Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene
alla dottrina possiede il Padre e il Figlio”. Ecco ancora p. de la Potterie[14]:
I sacramenti e la morale. Come tratta Giovanni questi argomenti? Ci possono essere confusioni con la
concezione gnostica?
Ovviamente per gli gnostici non esistono i sacramenti, questi atti del corpo ecclesiale con cui Gesù
Cristo tocca e salva la nostra vita. E’ ovvio: come potrebbero per gli gnostici delle cose materiali essere
strumento di salvezza, per loro che considerano la materia come la pienezza del male? In Giovanni abbiamo accenni
al battesimo, nell’episodio di Nicodemo, e all’eucarestia, nel discorso alla sinagoga di Cafarnao. In
quell’episodio il suo realismo (“Chi mangia la mia carne e beve i mio sangue ha la vita eterna e io
lo risusciterò nell’ultimo giorno”) scandalizza i giudei e anche i suoi discepoli. Tanto che
Gesù poi aggiunge: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me se non gli è
concesso dal Padre mio”. Sbarrando la strada a chi interpreta la redenzione come un automatismo fisico
trasmesso attraverso i sacramenti. Riguardo alla morale, la posizione gnostica è tutta determinata dal non
riconoscimento del peccato originale e dalla concezione negativa della materia. Chi è già salvo per
natura non deve riconoscere alcuna morale. Le conseguenze paradossali vanno dal libertinismo sfrenato
all’ascetismo rigoroso: una volta deciso che il mio profondo non ha nulla a che vedere con il corpo, posso
indifferentemente disporre della realtà materiale senza remore etiche o cercare di farmi condizionare il
meno possibile da questa gabbia infetta. Invece in Giovanni la fede non elimina i comandamenti. “Chi
osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed Egli in lui”, scrive nella Prima lettera. La morale cristiana
di Giovanni riconosce due virtù fondamentali, la fede e la carità, e due vizi capitali,
l’incredulità e l’odio che ne deriva. Tutte le formule del comportamento morale vengono sempre
connesse alla parola verità. Bisogna amare, pregare, santificarci nella verità. Ma la verità
non è l’illuminazione gnostica, è lo sguardo sempre rivolto a Gesù. Come dice un testo
anonimo dei Padri del deserto: “Chi persevera nella memoria di Gesù è nella
verità”. Il modello morale è imitare quello che ha fatto Gesù Cristo. Per questo nella
sua Prima lettera Giovanni aggiunge che “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni
cosa”. Malgrado le debolezze e i peccati, Dio vede il cuore dell’uomo, giudica l’apertura e la
domanda che è nel cuore. La morale di Giovanni è una morale della verità della misericordia,
dell’essere abbracciati dal Signore...
In che cosa consiste questo antignosticismo?
Nel fatto che quello di Giovanni è per eccellenza il Vangelo del vedere e l’oggetto del vedere
è Gesù stesso. Tutta la fede nasce e cresce come uno sviluppo del vedere. Nel capitolo 20, quello
delle apparizioni del Risorto, l’evangelista ripete in poche righe 23 volte questo verbo. Si parte sempre
dal vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto e una carne reale, dall’accorgersi
dell’eccezionalità della sua presenza per riconoscere stupiti che è il Figlio di Dio, il
Verbo fatto carne. Il vedere fisico per tutto il Vangelo è la via d’accesso al Mistero presente
nella carne. Per questo Gesù nell’ultima cena può dire: “Chi ha visto me ha visto ha
visto il Padre” (14,9). E si badi bene, questa possibilità di vedere Dio nella carne non era affatto
sentita dai cristiani come una debolezza, ma era anzi motivo di vanto anche nei confronti degli gnostici.
Nel breve saggio dal titolo Il Paraclito[15], p.de la Potterie ha analizzato tutti i testi giovannei nei quali Gesù
designa lo Spirito Santo come il Paraclito, al fine di comprendere il senso pieno di questa
espressione greca. Nell’introdurre al tema il gesuita si sofferma innanzitutto sull’uso del termine
“paraclito” nella letteratura contemporanea o comunque vicina al NT:
Il termine «Paraclito» nel Nuovo Testamento è proprio a Giovanni; esso è di
formazione greca[16], ma
nei testi profani è appena attestato. Viene utilizzato di solito in un contesto giuridico per designare
chiunque venga in aiuto di qualcuno, insomma l’assistente, il difensore, l’avvocato. Il giudaismo
tardo assunse questo termine dal mondo greco, tuttavia conferendogli ormai un significato più
preciso: quello d’intercessore. In effetti i testi rabbinici l’usano esclusivamente per
designare tutti coloro che intercedono in favore degli uomini davanti al tribunale di Dio: ad esempio, la legge
(personificata), gli angeli, le buone opere degli uomini, i loro meriti, e così via. Nella prima
Lettera, Giovanni applica il titolo di «Paraclito» al Cristo Gesù glorificato:
Se qualcuno poi commette peccato,
come avvocato rivolto verso il Padre
noi abbiamo Gesù Cristo, il Giusto (1 Giovanni 2,1)[17].
In qual modo il Cristo Gesù esercita questa funzione di Paraclito presso il Padre? Lo spiega il
contesto. Anche nel suo stato di gloria, Gesù sta alla presenza del Padre come vittima di propiziazione
per i nostri peccati » (v. 2). E’ il tema descritto dalle visioni dell’Apocalisse, dove
contempliamo «l’Agnello sgozzato» mentre sta ritto davanti al Trono di Dio (Apocalisse
5,6.9.12; 13,8). Tutta l’opera d’espiazione che il Cristo Gesù ha realizzato qui in terra, nel
cielo diventa come una grande preghiera d’intercessione che come un «avvocato», un
«intercessore», egli rivolge al Padre. Altrove Giovanni applica il termine «Paraclito»
costantemente allo Spirito Santo, tuttavia non per descriverne la funzione d’intercessione presso Dio,
ma per caratterizzare la funzione d’assistenza ch’egli esercita quaggiù presso i
credenti. Tali testi appartengono tutti ai discorsi dopo la Cena, i quali costituiscono come il testamento di
Gesù prima del suo ritorno al Padre. Dopo una promessa formale della venuta del Paraclito,
Gesù indica chiaramente i tre principali aspetti dell’attività di questo: la sua
funzione d’insegnare, la testimonianza ch’egli rende a Gesù, e correlativamente la sua
parte d’accusatore in faccia al mondo.
Giovanni mostra come ci sia già stato “un primo” Paraclito, Gesù stesso, e come
lo Spirito sia un “altro” Paraclito:
Nell’ultima Cena il cuore dei discepoli si turba all’annuncio imprevisto della partenza di
Gesù (Giovanni 14,1). Finora egli era restato con loro (16,4; 14,25); ma adesso egli annuncia che
resterà con loro soltanto per poco tempo (13, 34): ben presto essi non lo vedranno più (16,11)
perché egli va al Padre (16,10). Tuttavia Gesù tornerà subito presso i suoi (14,18) non solo
al momento delle apparizioni pasquali, ma per una presenza tutta spirituale ed interiore: allora soltanto i
discepoli saranno capaci di vederlo, in una contemplazione di fede (14,19). E questo sarà opera dello
Spirito Santo, il quale viene chiamato «un altro Paraclito» (14,16) perché continuerà
presso i discepoli l’opera che ha iniziato Gesù: nel grande conflitto che oppone Gesù ed il
mondo, lo Spirito avrà il compito di difendere la causa di Gesù presso i discepoli e di confermarli
nella loro fede. E’ interesse dei discepoli che il Cristo Gesù se ne vada, poiché senza
questa dipartita il Paraclito non verrà presso di loro (16,7). Il Padre donerà loro il
Paraclito dietro richiesta di Gesù e nel Nome di Gesù (14,16.26); il Cristo Gesù stesso da
presso il Padre invierà loro il Paraclito (15,26). Questo Spirito che proviene dal Padre resterà
coi discepoli per sempre (14,16), cioè fino alla fine dei tempi: durante tutta la sua permanenza qui in
terra, la vita della Chiesa sarà caratterizzata dall’assistenza dello Spirito di
verità.
Gesù enuncia un principio molto netto: egli non si manifesterà al mondo (14,22); il
Paraclito, il quale dovrà attuare la sua presenza spirituale in mezzo agli uomini,
il mondo non può ricever(lo)
perché esso non lo percepisce e non lo riconosce (14,17).
Questa formula «non può», frequente nel quarto Vangelo, denota
un’incapacità radicale del mondo davanti ai beni della Salvezza: abbandonati a loro stessi, gli
uomini sono incapaci di giungere al Cristo Gesù (6,44.43), di ascoltare la sua parola (8,43), di credere
(12,39).
Il Paraclito, infatti, non è dato al mondo, ma ai discepoli:
Il Padre donerà il Paraclito proprio a loro, ai discepoli, (14,16) e proprio a loro si
manifesterà Gesù (14,21). A differenza del mondo, i discepoli potranno ricevere il Paraclito
perché essi vi sono preparati fin d’adesso:
Voi invece lo riconoscete
perché egli dimora presso di voi (14,17).
Queste espressioni si riferiscono di nuovo alla condizione presente dei discepoli, prima che Gesù se ne
torni via. Lo Spirito era già presente nella persona e nell’opera di Gesù durante il suo
ministero. Nel Cristo Gesù, che restava «presso» i suoi discepoli (v. 25), lo Spirito
già era in azione; e dunque anche egli stava «presso» di loro. E questi, malgrado la loro
ridotta intelligenza, già avevano aderito a Gesù: essi credevano, e sapevano ch’egli era
il Santo di Dio (6,64). Perciò si comprende come il Maestro nell’Ultima Cena possa dir loro che essi
ormai hanno imparato a riconoscere lo Spirito: questa esperienza dello Spirito, questa conoscenza
ancora rudimentale ed implicita che essi ne hanno, è una condizione sufficiente perché possano a
loro volta ricevere il dono dello Spirito. La vera e propria promessa per il tempo avvenire viene espressa in due
membri di frase tra loro diversi. Anzitutto Gesù dice ai discepoli: il Padre vi donerà lo
Spirito
perch’egli resti con voi per sempre (v. 16),
e poi alla fine del v. 17:
ed egli starà in voi.
In questa prima promessa si deve notare con cura il gioco delle preposizioni. Finora lo Spirito non era
presente che presso i discepoli (par’hymin), nella persona stessa di Gesù. Ma più tardi egli
starà con loro (meth’hymôn) e starà anche dentro di loro (en hymin). Queste tre
preposizioni segnano un reale progresso: esse descrivono magnificamente il carattere via via più interiore
dell’azione del Paraclito.
Egli starà «con loro». Questa formula non indica semplicemente una presenza familiare
dello Spirito «presso» i discepoli, simile a quella di Gesù «presso» i suoi
durante la sua vita terrena. Invece vi si deve vedere piuttosto il concetto dell’aiuto,
dell’assistenza. Con ciò il testo contiene un’allusione discreta alle difficoltà che
verranno e che saranno sperimentate dai discepoli, come pure all’opposizione di cui essi sapranno
trionfare. Perciò fin da questo momento lo Spirito riceve anche il titolo di Paraclito, cioè di
«Difensore».
Egli starà anche «in essi». Qui Gesù promette ai discepoli un nuovo modo di
presenza e d’azione dello Spirito: questi ormai agirà nei loro cuori. E secondo questa piena
effusione del Paraclito, da quest’azione in profondità che lo Spirito conduce dal momento della
glorificazione del Cristo Gesù, va compreso il testo di 7,39 a proposito dello Spirito che avrebbero
ricevuto tutti coloro che avevano creduto in Gesù.
P.de la Potterie mostra come due delle promesse ulteriori dello Spirito riguardino la sua missione di
insegnamento:
Delle altre quattro promesse sul Paraclito, due sono dedicate a presentarcelo nel suo compito di Dottore: la
seconda e la quinta (14,26; 16,13ss). Per Giovanni il compito dello Spirito di verità presso i discepoli
consiste anzitutto nell’insegnamento. Il primo testo suona:
Io vi ho detto queste cose quando mi trovavo con voi. Tuttavia il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre
invierà nel mio Nome, vi insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quello che io vi ho
detto (14,25s).
Questo insegnamento ha uno strettissimo rapporto con quello di Gesù che deve essere posto in rilievo:
Il Padre invierà lo Spirito Santo “nel Nome di Gesù”. Gesù stesso stava sulla
terra “nel Nome di suo Padre” (5,43), in stretta comunione col Padre; egli dunque stava tra gli
uomini per far conoscere il Nome del Padre, per rivelare il Padre (cfr 17,6). Di qui si comprende meglio quel che
intende dire Gesù quando annuncia che il Paraclito sarà inviato “nel suo Nome”. Questo
non significa semplicemente che il Padre invierà lo Spirito dietro richiesta del Figlio, oppure in luogo o
come rappresentante del Figlio, o ancora per continuare l’opera del Figlio. il «Nome» esprime
quel che di più profondo esiste nella persona del Cristo Gesù, la sua qualità di Figlio: il
Figlio precisamente in quanto Figlio avrà una parte attiva nell’invio dello Spirito. Per questo
motivo nei discorsi d’addio si trovano le due formule complementari: il Padre invierà lo Spirito nel
Nome di Gesù (14,26); il Figlio stesso invierà lo Spirito da presso il Padre (13,26). La
formula «nel mio Nome» indica dunque chiaramente la comunione perfetta tra il Padre ed il Figlio
quando inviano lo Spirito. Senza dubbio l’origine di questa «missione» è il Padre:
perciò il Figlio invierà lo Spirito «da presso il Padre». Tuttavia anche il Figlio
è principio di questo invio: e perciò il Padre invierà lo Spirito «nel Nome del
Figlio». Il Padre ed il Figlio sono entrambi principio di questa missione del Paraclito. Pertanto, se lo
Spirito è inviato nel Nome del Cristo Gesù, la sua missione sarà di rivelare il Cristo
Gesù, di far conoscere il suo vero Nome, questo Nome di Figlio di Dio che esprime il mistero della sua
persona; il Paraclito dovrà suscitare la fede in Gesù Figlio di Dio.
La seconda metà del versetto descrive il Paraclito «nell’ufficio di maestro di
dottrina» (M.-J. LAGRANGE). Tale azione viene designata da due differenti verbi: «Egli vi
insegnerà (tutto) e vi farà ricordare tutto quel che io vi ho detto» (14,26). Alcuni studiosi
hanno proposto di vedere là due uffici distinti; in altre parole, l’espressione «tutto quel
che io vi ho detto» non indicherebbe che l’oggetto del secondo verbo: in questo caso, quando lo
Spirito ci «insegna», egli ci farebbe apprendere realtà diverse da quando ci «fa
ricordare» semplicemente le parole di Gesù. Tuttavia ad un’interpretazione siffatta ostano la
costruzione ed il movimento della proposizione; inoltre essa potrebbe condurre a una conclusione teologica
pericolosa: quella di postulare un insegnamento del Paraclito indipendente da quello di Gesù; è la
sempre rinnovantesi tentazione d’introdurre nella Chiesa nuove rivelazioni dovute allo Spirito, una
tentazione per nulla illusoria se ci ricordiamo il montanismo agli inizi della Chiesa, e la corrente
spiritualista di Gioacchino da Fiore nel Medio Evo. H. DE LUBAC ha scritto magnificamente: « Esistono due
modi egualmente mortali di separare il Cristo dal suo Spirito: quello di sognare un Regno dello Spirito che
porterebbe al di là del Cristo, e quello d’immaginare un Cristo che riporterebbe costantemente
al di qua dello Spirito». Il Paraclito ai discepoli non porterà un Vangelo nuovo: nella vita e
nell’insegnamento di Gesù infatti è contenuto tutto quel che dobbiamo conoscere in vista
della costituzione del Regno di Dio e per attuare la nostra Salvezza. La funzione dello Spirito resta
essenzialmente subordinata alla Rivelazione già portata dal Cristo Gesù.
«Insegnare» secondo Giovanni è quasi un verbo di rivelazione. Il Padre ha insegnato al
Figlio quel che questi ha rivelato al mondo (8,28). Ma più spesso Gesù medesimo viene
presentato come colui che insegna (Giovanni 6,59; 14.28,35; 8,20; 18,20). Tuttavia questa dottrina del
Cristo Gesù non deve rimanere estrinseca al credente: Giovanni ha insistito fortemente sulla
necessità di renderla interiore con l’accoglierla mediante una fede sempre più viva. Tale
è il significato delle espressioni tipicamente giovannee «restare nella dottrina del Cristo»
(2 Giovanni 9), «restare nella sua parola» (Giovanni 8,31: cfr 15,7s). Precisamente qui si pone
l’azione dello Spirito: anch’egli «insegna». Egli insegna esattamente quello che è
già stato insegnato da Gesù, ma per farlo penetrare nei cuori. Dunque la Rivelazione ha una
perfetta continuità: provenuta dal Padre, essa ci viene comunicata dal Figlio e tuttavia non raggiunge il
suo termine che quando è penetrata nel più intimo di noi stessi, e questo avviene per opera dello
Spirito.
La natura esatta di questo insegnamento del Paraclito viene precisata da un altro verbo ancora: egli
«farà ricordare» tutto quel che Gesù ha detto. Questo tema del
«richiamo» o del «ricordo» viene fortemente sottolineato dal quarto Vangelo.
Giovanni osserva più d’una volta che dopo la partenza di Gesù i discepoli «si
ricordarono» di questa o quell’altra parola o azione di Gesù, cioè essi ne colsero
il vero significato e tutta la portata soltanto dopo la Resurrezione (2,17.22; 12,16). Proprio qui si pone la
funzione dello Spirito Santo: nel «ricordare» tutto quel che Gesù aveva detto, egli non
si limiterà soltanto a riportare alla loro memoria un insegnamento che altrimenti avrebbero rischiato di
dimenticare. Il suo vero compito sarà di far comprendere nella loro interiorità le parole di
Gesù, di farle afferrare alla luce della fede, di farne percepire tutte le virtualità, tutte le
ricchezze, per la vita della Chiesa.
Dunque attraverso l’opera segreta del Paraclito il messaggio di Gesù non rimane più
per noi esteriore ed alieno; lo Spirito Santo l’interiorizza in noi e ci aiuta a penetrarlo spiritualmente
perché noi vi scopriamo una parola di vita. Questa parola di Gesù, assimilata nella fede sotto
l’azione dello Spirito, è quel che nella sua prima Lettera Giovanni chiama «l’olio
d’unzione» che rimane in noi (1 Giovanni 2,27); l’insegnamento di Gesù presente nel
credente, conferisce a questo un senso intimo della verità (vv. 20s) e lo istruisce su tutte le
realtà; il cristiano è ormai «nato dallo Spirito» (Giovanni 3,8). Giunto a questo grado
di maturità spirituale egli non ha più necessità d’essere istruito (1 Giovanni 2,27):
ormai importa unicamente ch’egli resti in Gesù e che si lasci istruire da Dio (cfr Giovanni
6,45).
Cosa significa, allora, la “pienezza della verità” che lo Spirito donerà se il
suo insegnamento e quello di Gesù sono identici?
Nella quinta ed ultima promessa, Gesù riprende e sviluppa la medesima dottrina:
Ho ancora molte cose da dirvi ma adesso voi non potete portarle. Quando verrà Lui, lo Spirito di
verità, egli vi guiderà verso la verità integrale; poiché egli non parlerà da
se stesso; ma tutto quel ch’egli ascolterà lo dirà e vi rivelerà le cose future. Egli
mi glorificherà, poiché egli riceverà del mio e ve lo rivelerà. Tutto quel che
il Padre possiede appartiene a me. Ecco perché ho detto: egli riceverà del mio e ve lo
rivelerà (16.12-15).
Anche qui Gesù ci indica quale sarà la funzione dello Spirito riguardo alle sue parole. A prima
vista anzi Gesù sembra contraddirsi: in 15,15 aveva affermato che tutto quel che aveva appreso dal Padre
ormai l’aveva fatto conoscere ai suoi discepoli; qui invece egli dichiara che restano ancora da dire
molte cose. Ma questa volta si tratta d’un complemento di rivelazione, che è riservato allo Spirito.
Questi non proporrà una nuova dottrina ma darà un’intelligenza più profonda del
mistero di Gesù, della sua vita, dei suoi atti, delle sue parole. Col dare rilievo all’avverbio
adesso alla fine del v. 12 — «ma adesso voi non potete portarle » — viene stabilito un
contrasto tra il momento presente, ch’è quello della vita terrena di Gesù, ed il tempo che
verrà, l’epoca che giungerà dopo la Resurrezione e la venuta dello Spirito (cfr 13,7;
16,30s). Le realtà numerose che ancora mancano ai discepoli non sono altri punti dottrinali che
Gesù dovrebbe ancora aggiungere; è invece la piena comprensione della persona e del messaggio di
Gesù. Lo Spirito di verità, come una guida dall’assoluta sicurezza, deve
«guidare» i discepoli verso la verità integrale. Questo verbo «guidare» è
più ricco del semplice docebit (insegnerà) che usa la Volgata. La metafora sembra sia stata
improntata direttamente dal Salmo 25,5 (24,5 del testo greco): «Guidami verso la tua verità ed
insegnami». Il Salmista domandava a Dio una più perfetta conoscenza della sua verità,
dei suoi precetti, della sua Legge. Secondo il testo di Giovanni, la verità verso cui ci deve guidare lo
Spirito Santo è la verità di Gesù, quella del suo insegnamento, della sua opera, di
tutta la sua persona. Lo Spirito, aggiunge il versetto, deve farci compenetrare di questa verità fin
dentro il nostro cuore e deve farcela scoprire nella sua pienezza: lo Spirito svela progressivamente alla
fede della Chiesa ed al cuore dei credenti tutte le ricchezze di vita, tutte le virtualità nascoste della
parola di Gesù.
Così ulteriormente si precisa la rivelazione propria del Paraclito:
Nella seconda parte dell’ultima promessa (16,13b-14) vengono date ancora nuove precisazioni: Gesù
vi insiste tanto sull’aspetto ministeriale dell’opera dello Spirito in rapporto al Figlio ed al
Padre, quanto sulla novità grandiosa che costituirà questa illuminazione del Paraclito.
La stessa idea ritorna in tre ondate: «Egli non vi parlerà da se stesso ma tutto quel
ch’egli ascolterà lo dirà»; poi per due volte: « Egli riceverà del mio
». Queste formule sono equivalenti, poiché «il mio» ossia ciò che è
proprio al Cristo Gesù è la medesima realtà che lo Spirito «ascolta» su di lui.
Il testo sottolinea vigorosamente questo punto dottrinale: la Rivelazione che apporterà lo
Spirito, egli non l’attinge in se stesso, egli non ne è l’origine. E come Gesù
Cristo non aveva parlato da se stesso (7, 17s; 12,49; 14,10), non aveva parlato altro che di quel che gli aveva
insegnato il Padre (8,28; 12,50), quel che egli aveva udito dal Padre (8,26.38), così lo Spirito non
parlerà da se stesso ma dirà quel che avrà ascoltato. Ma ascoltato da chi? Dal
Figlio certamente, poiché al Figlio questo bene propriamente appartiene (è «il
mio» che ricorre più volte); però anche dal Padre, poiché tutto quel che possiede il
Padre appartiene anche al Figlio (cfr v. 15a). Dunque la Rivelazione ci introduce al centro stesso del Mistero
trinitario: «La Rivelazione è perfettamente una: essa prende la sua origine nel Padre, viene operata
dal Figlio e si perfeziona nello Spirito». Un’altra espressione viene ripetuta tre volte durante
questa promessa: anangelei hymin. Essa ne costituisce l’elemento più importante poiché
precisamente da esso Gesù spiega come lo Spirito ci introduce fino al centro della verità. Per
lo più la formula viene tradotta seguendo la Volgata: «Egli vi annuncerà», come se
l’azione dello Spirito fosse semplicemente una proclamazione kerigmatica. Essa invece appartiene
a tutt’altro ordine di cose. Il verbo anangellein qui ha la sfumatura precisa che vi si scopre normalmente
nella letteratura apocalittica: «rivelare, svelare»; esso si trova frequentemente nel testo greco di
Daniele dove ha il significato di «svelare o far conoscere il significato d’un sogno, d’una
visione, d’una profezia». In tal senso va compreso il verbo in san Giovanni. Così la
Samaritana confida a Gesù quel ch’ella si attende dal Messia: «Quando giungerà,
egli ci rivelerà tutte le cose » (4,25); ugualmente in 16,25 Gesù oppone
l’insegnamento «in parabole» come lui stesso ha praticato, alla spiegazione palese che
darà più tardi per mezzo dello Spirito: «Verrà l’ora in cui... vi darò
sul Padre una rivelazione perfettamente chiara».
Lo stesso verbo anangellein viene usato da Giovanni con insistenza in 16,13 ss per caratterizzare
l’opera futura del Paraclito. Nella tradizione letteraria da cui deriva, questo verbo non significa
«apportare una rivelazione del tutto nuova», ma piuttosto «dare un’interpretazione
d’una rivelazione antecedente restata fin allora oscura e misteriosa». Precisamente questa
è la funzione dello Spirito: egli avrà come compito d’interpretare per la Chiesa la
Rivelazione che ha portato Gesù e che fin allora era rimasta incompresa. Ed insieme, aggiunge il testo
«egli vi svelerà le realtà future»: qui il Cristo Gesù non promette ai
discepoli il dono di profezia; il significato è piuttosto che lo Spirito, alla luce delle parole e
dell’opera di Gesù, darà ai discepoli l’intelligenza dell’ordine
escatologico, della nuova Economia della Salvezza, cioè del «nuovo ordine di cose iniziato con
la Morte e con la Resurrezione del Cristo» (D.Mollat). Insomma, com’è stato detto assai
felicemente: «Dare il senso cristiano della storia, far scoprire in tutte le realtà le tracce del
disegno divino (Atti 20,27), gettare su ogni avvenimento, su ogni epoca, la luce viva della Rivelazione:
questa è la missione dello Spirito presso i discepoli». E questo è « condurre alla
pienezza della verità», in questo consiste la Rivelazione del Paraclito. E’ dunque palese che
nell’economia generale della Rivelazione la funzione dello Spirito rimane essenzialmente subordinata a
quella del Cristo Gesù, l’Unico Rivelatore. Il compito dello Spirito di verità
sarà quello di far penetrare il messaggio di Gesù nel cuore dei credenti affinché questi ne
vivano.
La terza e la quarta promessa del Paraclito fanno, invece, riferimento alla testimonianza di Gesù che
è propria dello Spirito:
Fino a questo punto si trattava unicamente della missione d’insegnamento propria allo Spirito. Le due
promesse del Paraclito che esamineremo adesso evidenziano un altro aspetto della sua attività: la sua
funzione di testimone. In tal modo siamo improvvisamente introdotti nel contesto d’un processo. Viene
largamente riconosciuto — e vi torneremo sopra — che Giovanni presenta la vita di Gesù
assegnando un posto essenziale alla nozione di processo. Inoltre qui occorre richiamare quanto all’inizio
abbiamo anticipato sull’origine giuridica del titolo di Paraclito; allora si comprenderà
perché Giovanni ha dato tale importanza a questo tema dello Spirito-Paraclito, Difensore di
Gesù. Ma leggiamo il testo della terza promessa:
«Ma quando verrà il Paraclito, che vi invierò da presso il Padre, lo Spirito di
verità che proviene dal Padre, egli mi renderà testimonianza. Ma anche voi testimonierete,
poiché voi siete con me fin dall’inizio » (Giovanni 15 ,26s).
P.de la Potterie mostra come qui si inserisca il grande tema dell’ “odio del mondo”:
Un esame attento del contesto aiuta notevolmente l’interpretazione del passo. La sezione precedente
(15,18-25) e la sezione seguente (16,1-4) trattano ambedue dell’odio del mondo e delle persecuzioni. Un
tale contesto di ostilità spiega la funzione di testimone che deve esplicare lo Spirito di
verità.
Allora spontaneamente risaltano nella memoria i versetti dei Vangeli sinottici nei quali Gesù promette
ai suoi discepoli l’assistenza dello Spirito durante le persecuzioni che verranno. Si pensi ai passi
del discorso di missione di Matteo. dove si descrivono i maltrattamenti dei discepoli davanti ai tribunali
(10,17-25); inoltre, si pensi ad un passo molto simile nella sezione del grande viaggio in Luca (12,1ls), e
soprattutto ad un passo del grande discorso escatologico (Matteo 24,9-14 e suoi paralleli). In tali testi si
trovano i paralleli a quasi tutti i temi di Giovanni 15,18; 16,4, e cioè: l’odio del mondo (Giovanni
15,18s.23ss: cfr Matteo 20,22; 24,9 e paralleli); il richiamo alla massima: «Il servitore non è
più grande del suo maestro» (Giovanni 15,20: cfr Matteo 10,24; Luca 6,40); l’annuncio delle
persecuzioni (Giovanni 15,20: cfr Matteo 10,23; Luca 21,12), che saranno scatenate a causa del Nome di
Gesù (Giovanni 15,21: cfr Matteo 10,22; 24,29 e paralleli); l’avvertimento contro lo scandalo
(Giovanni 16,1: cfr Matteo 24,10); i maltrattamenti davanti le sinagoghe (Giovanni16,2: cfr Matteo 10,17; Marco
13,9; Luca 12,11; 21,12); la testimonianza dei discepoli (Giovanni 15,27: cfr Matteo 10,23; Luca 21,13). I
Sinottici in tali testi sottolineano potentemente l’azione dello Spirito Santo presso i discepoli
durante le persecuzioni: quand’essi saranno trascinati davanti ai tribunali dei re, egli
parlerà per loro mezzo o in essi (Marco 13,11; Matteo 10,20). Luca arriva a precisare che lo Spirito Santo
stesso insegnerà loro quel che dovranno dire (Luca 12,12). Tuttavia mai i Sinottici considerano lo Spirito
Santo come un testimone. Invece nel quarto Vangelo, Gesù dice esplicitamente: «Egli mi
renderà testimonianza». Ecco dunque un particolare del Vangelo di Giovanni che sarà
nostro compito spiegare...
Questa testimonianza del Paraclito non è destinata al mondo, ma direttamente ai discepoli:
«il Paraclito che io vi invierò» (v. 26); egli sarà loro inviato precisamente a
motivo delle persecuzioni che essi subiranno. Inoltre, la testimonianza dello Spirito qui viene formalmente
distinta da quella propria ai discepoli (cfr v. 27): essa dunque non può essere ricondotta alla
testimonianza esteriore che i discepoli perseguitati saranno chiamati a rendere davanti ai tribunali; essa
è anteriore a quest’ultima, e soprattutto è di un’altra natura. Il suo scopo vero
non è come nei Sinottici di ispirare direttamente la difesa o la testimonianza vera e propria dei
discepoli, ma di preservarli dallo scandalo nel momento stesso in cui la loro fede sarà pericolosamente
posta alla prova. Perciò si deve insistere soprattutto sull’aspetto interiore di questa
testimonianza del Paraclito: ufficio dello Spirito di Dio sarà quindi quello di illuminare la coscienza
degli Apostoli in mezzo alle avversità, di confermarli nella loro fede. Nel momento in cui essi
sperimenteranno la tentazione del dubbio, il Paraclito agirà segretamente in loro: egli stesso davanti
alle loro coscienze testimonierà in favore di Gesù.
C’è, infatti, un processo di Gesù che si deve compiere:
Perché, in ragione della sua operazione illuminatrice, lo Spirito viene considerato come un
testimone di Gesù? La risposta è netta: perché il Paraclito svolge una funzione
decisiva in quel che si è chiamato «il grande processo» della vita di Gesù. Ma una
testimonianza non ha un necessario carattere pubblico? Occorre tener presente che in Giovanni la maggior
parte delle grandi nozioni teologiche hanno subito una trasformazione, e quindi l’hanno subita anche
i temi del processo e della testimonianza. I diversi testimoni di cui parla il quarto Vangelo non debbono
deporre su fatti storici davanti a tribunali umani; essi testimoniano quasi sempre sulla persona stessa
di Gesù: lo scopo per cui testimoniano è di far accettare Gesù, di condurre gli uomini
a credere in lui. Qui esiste pertanto una notevole interiorizzazione e spiritualizzazione della nozione di
testimonianza. La nozione di processo porterà a constatazioni analoghe. Secondo i Sinottici Gesù
annuncia che i discepoli saranno coinvolti in reali processi davanti agli uomini: essi saranno consegnati ai
sinedri, saranno trascinati davanti a governatori ed a re (Matteo 10,17s; Marco 13,9). Giovanni non
dà altri dettagli su questi tribunali o sui loro giudici. Il gran processo al quale pensa
l’Evangelista è di tutt’altro ordine: è il grande conflitto teologico che fa da sfondo
alla vita di Gesù; è il processo che pone alle prese Gesù Cristo ed il mondo, e che si
conclude con la condanna del mondo e l’esaltazione di Gesù Cristo sulla croce. A Giovanni importa
meno quali siano, nel corso della storia, le corti di giustizia che condanneranno i discepoli; questi
tribunali scompaiono completamente dietro una potenza unica, misteriosa e senza volto: il mondo. Questo tema
del mon do fa percepire tutta l’estensione della causa che in esso si svolge in favore di Gesù o
contro di lui. Questa opposizione trascende sconfinatamente l’opposizione dei Giudei contro
Gesù durante la sua vita terrena; essa si prolunga ben oltre, nella Chiesa.
In questo immenso processo religioso in cui Gesù ed il mondo vengono posti a confronto, la
testimonianza del Paraclito assume il suo vero significato: davanti all’ostilità del mondo i
discepoli di Gesù saranno esposti allo scandalo momento per momento, saranno portati a defezionare,
conosceranno il dubbio, lo scoraggiamento. Precisamente allora interverrà lo Spirito di
verità, il Difensore di Gesù: egli stesso nell’interna coscienza dei discepoli renderà
testimonianza su Gesù; egli stesso li confermerà nella loro fede e renderà loro tutta
la sicurezza cristiana.
Compresa in tal modo, la terza promessa del Paraclito resta in perfetta continuità con le altre
promesse che abbiamo esaminato finora. Secondo 14,26 e 16,13 l’opera dello Spirito deve consistere in
un insegnamento; egli deve far comprendere le parole di Gesù e deve condurre i discepoli verso la pienezza
della verità. Il testo esaminato adesso precisa ulteriormente quest’attività dello Spirito
quando avverranno le crisi: l’ufficio del Paraclito consiste nel fare da testimone a Gesù; egli
svelerà interiormente ai discepoli la vera portata del messaggio di Gesù e li inviterà
a restare incrollabilmente fedeli ad esso, malgrado le persecuzioni da cui saranno travolti. In ogni caso si
tratta sempre di un’opera interiore del Paraclito presso i discepoli: essa è essenzialmente
ordinata allo sviluppo e all’affermazione della loro fede.
Il Paraclito non solo è testimone di Gesù, ma è anche, in questo processo, accusatore del
mondo:
La terza e la quarta promessa del Paraclito formano un dittico. Anche qui osserveremo che il Paraclito adempie
il suo ufficio di testimone, ma in questo caso in una visuale complementare alla precedente: egli sarà il
teste a carico contro il mondo peccatore.
All’annuncio della partenza di Gesù il cuore dei suoi discepoli si riempie di tristezza
(16,6). Però Gesù li conforta annunciando loro che verrà il Paraclito:
Io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta; poiché se non
parto il Paraclito non giungerà a voi; ma se io parto ve lo invierò
E quando egli verrà, confermerà la colpevolezza del mondo in materia di peccato, in materia
di giustizia e in materia di giudizio; di peccato perché essi non credono in me; di giustizia
perché io vado al Padre e voi non mi vedrete più; di giudizio perché il Principe di questo
mondo ormai è condannato (16,7-11).
Il Paraclito accusa il mondo dimostrando il torto del mondo:
In questa promessa, Gesù precisa l’attività futura del Paraclito in rapporto al mondo. Il
termine elenchein qui usato, in sé può assumere significati vari, e perciò il testo è
abbastanza oscuro.
Le differenti accezioni del verbo sono strettamente imparentate tra loro: 1.«eseguire un esame, una
ricerca»; 2. «interrogare, domandare con insistenza, mettere alla prova»; 3. può
anche indicare il risultato dell’inchiesta: «porre in luce un fatto, esporlo palesemente,
svelarlo»; 4. se si tratta di persone, il verbo significa piuttosto: «convincere qualcuno
d’errore, dare la prova della sua colpevolezza»; 5. vi sono anche alcuni significati derivati:
«biasimare», «ammonire», «punire».
Per Giovanni 16,8 la maggior parte degli interpreti ammettono rettamente il significato: il Paraclito
dimostrerà il torto del mondo. Tuttavia questa formula resta ancora ambigua, poiché si può
pensare sia ad una semplice presentazione oggettiva degli argomenti contro il mondo, sia anche ad una
persuasione soggettiva creata nello spirito dell’accusato; questo significherebbe che sotto l’azione
convincente del Paraclito i peccatori riconosceranno finalmente il loro peccato e si convertiranno. Ma se il
verbo viene preso unicamente neI significato oggettivo come usano i commentatori, si pone un’altra
questione: questa prova della colpevolezza del mondo davanti a chi sarà data? Normalmente
l’elenxis si pratica alla presenza del colpevole; allora si dovrebbe comprendere che il Paraclito
confermerà il torto del mondo davanti a questo stesso e per bocca degli Apostoli: per mezzo della loro
intrepida testimonianza questi confonderanno il mondo in modo che questo nulla più avrà da
obiettare. Però questo tema della confusione dei peccatori non è tipicamente escatologico? Non
trova il suo vero posto nel contesto del giudizio finale? Nella vita quotidiana della Chiesa i discepoli di
Gesù sono in costante contatto col mondo e quindi un’azione cosi drastica del Paraclito non sembra
adatta; e poi essa non corrisponde per nulla ai fatti. Tuttavia il testo non richiede simile spiegazione. In
sé l’elenxis indica soltanto l’esposizione oggettiva delle prove; e soltanto dal contesto si
desume se il colpevole è presente o contumace, se la dimostrazione della sua colpa avviene pubblicamente,
e se infine sia diretta a lui. In ogni modo questo particolare resta alieno dal significato del verbo preso in se
stesso.
Nel caso nostro, nulla nel contesto fa pensare ad una requisitoria pubblica. Il Paraclito
dimostrerà l’iniquità del mondo ma lo farà nella coscienza intima degli Apostoli.
Infatti secondo il versetto d’introduzione, il Paraclito verrà a loro e per loro: «Se io non
parto, il Paraclito non giungerà a voi; ma se io parto, ve lo invierò» (v. 6). Anche nei
versetti che seguono si tratta soltanto dei discepoli di Gesù: «... Egli vi guiderà
verso la verità integrale» (v. 13). E infine, nella nostra stessa pericope anche il v. 10 mostra che
si tratta soltanto di credenti: « Poiché... voi non mi vedrete più ».
Ecco dunque il senso della promessa: quando dimostrerà la colpevolezza del mondo, il Paraclito
agirà in un modo del tutto interiore, nel segreto della coscienza dei discepoli. Nella prova alla quale
sarà sottoposta la loro fede, il Paraclito darà loro la certezza che il mondo è
peccatore e che la verità sta dalla parte di Gesù. E se tale è il preciso si gnificato della
promessa fatta da Gesù, allora per gli Apostoli essa diverrà eminentemente pratica:
Espulsi dalla comunità ebraica a causa del loro attaccamento al Maestro, considerati come talmente
empi che la loro esecuzione capitale sarà guardata come un atto di culto verso Dio, gli Apostoli, da
Giudei devoti quali sono, troveranno in questo la loro più grave tentazione di scandalo. Ma
precisamente su tale punto sarà loro utile in particolare questo Difensore che rimarrà sempre
presso di loro ed in loro.. - poiché proprio lui darà la sicurezza incrollabile ch’essi si
trovano realmente nella verità e che la loro fede è gradita a Dio, proprio cosi porterà
la luce totale sulle ingiuste pretese del mondo persecutore[18].
Anche qui allora l’azione del Paraclito consisterà nel confermare i discepoli nella loro
fede al momento della crisi: positivamente, facendoli aderire sempre di più a Gesù;
negativamente, dando loro la certezza che proprio il mondo sta nell’errore. La loro fede in tal modo
risulterà pugnace ed i discepoli potranno trionfare sullo scandalo che li attende all’agguato,
insomma vinceranno il mondo: «E questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede»
(1 Giovanni 5,4). La dimostrazione che darà a loro lo Spirito di verità consumerà la
vittoria dei credenti sui mondo peccatore; ma sarà una vittoria perfettamente interiore e spirituale:
nell’opera segreta del Paraclito i discepoli potranno trovare la forza necessaria per non lasciarsi
travolgere dalla menzogna del mondo e per restare fedeli al Cristo Gesù.
Come si vede, riappare ancora la nozione giovannea del grande processo, che abbiamo incontrato nella terza
promessa. Mentre sul piano storico i discepoli di Gesù sono condannati dai tribunali degli uomini,
sul piano della fede invece e nei confronti con Dio essi giudicano il mondo e il mondo risulta
condannato:
Il giudizio avviene sulla terra ma avviene nella coscienza di coloro ai quali viene inviato lo Spirito.
Davanti a questi viene introdotta la causa di Gesù e dietro l’indicazione del Paraclito che rivela
loro il significato dei fatti, essi si schierano con colui che il mondo ha condannato e vanno a far parte dei
suoi discepoli. Il mondo perciò perseguita anche loro; essi diventano accusati davanti ai tribunaIi
del mondo, pur continuando ad essere i giudici del mondo nell’interno della loro coscienza. In tal
modo avvengono come due giudizi contemporaneamente: il giudizio dei cristiani davanti ai tribuna1i
umani costituiti dal mondo, il giudizio del mondo nel cuore dei cristiani sotto la luce dello
Spirito[19].
Il giudizio del mondo avviene dinanzi a tre grandi temi, il peccato, la giustizia, il giudizio:
Secondo il v. 8, una tale dimostrazione della colpevolezza del mondo, operata dal Paraclito, deve avvenire per
via di una triplice dimensione: «In materia di peccato, in materia di giustizia ed in materia di
giudizio». Durante la sua vita terrena Gesù era stato respinto dai Giudei ed ora stava per essere
condannato durante i fatti della Passione.
Il Paraclito però condurrà la revisione di questo processo e mostrerà ai discepoli che il
peccato sta dalla parte del mondo, che la giustizia sta dalla parte di Gesù e che il vero condannato in
questo confronto religioso è il Principe di questo mondo. Ognuno dei tre aspetti dell’accusa che aI
mondo rivolgerà il Paraclito viene ripreso e spiegato nei particolari dai versetti che seguono.
In materia di peccato,
perché essi non credono in me.
Nel pensiero di Giovanni ecco dunque l’essenza dei peccato: il mondo ha rifiutato di credere in
Gesù, Messia e Figlio di Dio.
In materia di giustizia,
perché io vado al Padre
e voi non mi vedrete più.
Qui la giustizia non è quella dei cristiani ma del Cristo Gesù stesso. Spesso si comprende come
se «giustizia» fosse la santità personale di Gesù, la sua amicizia con Dio, o anche il
suo buon diritto nella contesa che l’oppone al mondo. Però la spiegazione che ne dà
Gesù nella proposizione che segue, richiede piuttosto un’altra esegesi: «giustizia»
deve prendersi nel significato di «trionfo», di vittoria o di gloria, significato che talvolta essa
ha nei testi biblici. La giustizia di Gesù è la sua giustizia trionfante, che esploderà
al momento della sua Glorificazione celeste, quando sarà tornato dal Padre. Dando ai discepoli la certezza
che Gesù sta nella gloria, il Paraclito contribuirà potentemente a mostrar loro il tragico
errore del mondo.
In materia di giudizio,
perché il Principe di questo mondo
è ormai condannato.
Nel processo che avviene tra il Cristo Gesù ed il mondo, la conclusione storica si trova all’ora
della Passione e della Morte di Gesù: la sua esaltazione sulla croce ed il rifiuto del mondo peccatore a
credere in lui, costituiscono precisamente la condanna di questo mondo e del suo capo, il demonio.
L’azione illuminatrice dello Spirito Santo permetterà agli Apostoli di scoprire dietro agli
avvenimenti della Morte del Cristo Gesù, colui che ne è il vero istigatore, il Principe di questo
mondo; il Paraclito denuncerà l’azione di questo davanti al tribunale della coscienza degli
Apostoli:
Agendo veramente da « Paraclito », cioè da Difensore, da Avvocato, lo Spirito Santo
per cosi dire ha ricelebrato il processo di Gesù; egli, lo Spirito di verità, ha ristabilito la
piena verità in questo terribile dramma[20].
Così conclude p.de la Potterie la sua riflessione sul Paraclito:
Ormai si comprende meglio come il Paraclito possa ricevere qui, a più riprese, il titolo di Spirito di
verità (14,17; 15,26; 16,13). Il determinativo “di verità” serve a caratterizzare il
dominio in cui si esercita l’opera dello Spirito: la sua funzione secondo la teologia di Giovanni è
di comunicarci la verità, cioè la rivelazione di Gesù, d’insegnarcela interiormente,
di introdurla sempre più profondamente nel cuore dei cristiani. In tal modo in virtù
dell’opera segreta del Paraclito, nella Chiesa è assicurata per sempre la permanenza e
l’efficacia della Parola di Gesù.
In un altro studio[21] p.de
la Potterie cerca di penetrare alcuni aspetti dell’identità stessa del “discepolo
amato”. Perché questo modo di autodefinirsi, in cosa consiste la differenza con gli altri
apostoli?
P.de la Potterie presenta innanzitutto i due titoli che Giovanni riceve nella tradizione patristica: “il
teologo” e l’ “episthetios”.
(«Il teologo») è precisamente il titolo che (incontriamo) nella lettera mandata dal
Concilio di Efeso alla chiesa di Costantinopoli, dopo la condanna di Nestorio. Si legge anche, in forma
rozza e popolare, su un graffito molto pio di un pellegrino nella basilica di S. Giovanni, qui ad Efeso:
«Signore, tu, Dio e Salvatore nostro, e tu, santo Giovanni, evangelista suo e teologo, vieni in aiuto a
me, tuo servo peccatore, Nicolao».
Però, il titolo «il teologo» è probabilmente di origine alessandrina: appare
per la prima volta nel commentario di Origene a S.Giovanni. Si comprende tuttavia che sia stato ripreso qui ad
Efeso, nella lettera del Concilio nel 431, perché si trattava lì, contro Nestorio, di legittimare
l’uso del titolo Theotókos dato a Maria, e quindi di difendere la teologia
dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che sta proprio al centro del pensiero teologico di Giovanni
(questo spiega forse anche che, nella lettera che parla di Nestorio, «il rinnovatore dell’eresia
empia», di Ario, venga ricordata la venuta qui di Giovanni e di Maria: è la venuta del
theológos dell’Incarnazione; ora l’Incarnazione si è fatta nella
Theotòkos Maria). Però bisogna tener presente che l’autore di quella lettera era un
alessandrino, S.Cirillo, un grande commentatore di Giovanni; egli, in quel momento presiedeva il Concilio. Altri
alessandrini ancora, prima o dopo, hanno usato questo titolo «il teologo»: S.Atanasio al tempo
di Nicea, più tardi Didimo il Cieco e S.Anastasio Sinaita ma si ritrova poi anche nella tradizione
occidentale, fino al medioevo latino. Secondo l’interpretazione più comune, la ragione per cui
Giovanni veniva chiamato «il teologo» era che egli aveva scritto il prologo, in cui veniva proclamata
la divinità di Cristo. Scriveva per esempio S.Atanasio: «Il Logos era ed è Dio, come dice il
teologo Giovanni»(si osservi qui il bel gioco di parole: θεòς
ην ό Λόγος, detto da Giovanni, per Cristo; ό
θεο-λόγος, detto da Atanasio, per Giovanni).
Aggiungiamo un esempio della tradizione occidentale, il commentario al Prologo di Giovanni Scoto.
grande teologo del tempo carolingio, ma profondamente penetrato dalla tradizione alessandrina. In questa
celebre omelia, che comincia con le parole: «La voce dell’aquila spirituale risuona
all’orecchio della chiesa» (1, 1), egli usa diverse volte il titolo theologus; citiamo il
testo di 5, 13-18: «Il santo teologo, trasmutato in Dio, partecipe della verità, afferma con la sua
parola che il Dio Verbo sussiste nel Dio Principio, cioè il Dio Figlio sussiste nel Dio Padre: In
principio, dice, era il Verbo. Ecco il cielo si è aperto, ecco rivelato al mondo il mistero
della suprema e santa Trinità nella sua unità». Tuttavia la spiegazione del titolo «il
teologo» con un riferimento a Cristo-Dio del prologo, veniva talvolta anche messa in relazione con
l’episodio dell’ultima cena di cui parliamo subito, il fatto cioè che Giovanni era
chinato sul petto di Gesù; così p. es. in un testo liturgico della chiesa bizantina:
«Riposando sul petto di Gesù, tu, come discepolo, hai avuto l’audacia di chiedere: chi
è il traditore, Signore? E perché tu eri molto amato, egli te l’ha mostrato con un pezzo di
pane. Iniziato così alle cose ineffabili, tu hai intravveduto l’Incarnazione del Verbo e tu
l’insegni, o teologo apostolo; intercedi per noi, che celebriamo con amore la tua santa
memoria, intercedi presso Cristo Dio affinché ci conceda il perdono delle nostre
colpe».
Epistethios è l’espressione greca che significa «colui che si era chinato sul petto
del Signore».
A differenza del titolo precedente, questo non ci invita a volare in alto con «l’aquila
spirituale» fino al Logos in Dio; questa nuova espressione, che ebbe una larghissima diffusione in tutta la
tradizione patristica e medievale, ci rimanda ad un dettaglio preciso della vita terrestre di Gesù, nel
racconto dell’ultima cena (Gv 13, 23.25). Ne riparleremo nella seconda parte al livello esegetico; ma
vorremmo prima esaminare quale risonanza ha avuto quell’episodio nella tradizione. Ricordiamo che, sul
discepolo che Gesù amava, il IV vangelo descrive per quella circostanza due particolari: per rivolgere a
Gesù la domanda sul traditore, viene detto prima che il discepolo era «in sinu Iesu»
(13, 23), e un po’ dopo che egli «recubuisset... supra pectus Iesu» (13, 25). Da un
versetto all’altro, c’è quindi un doppio cambiamento, sia per i verbi sia per i sostantivi:
per il discepolo, si passa da «adagiato» a «chinatosi» (in dietro); per Gesù, il
testo parla prima del suo «seno» poi del suo «petto». Questi due fatti sono stati
fortemente allegorizzati e simbolizzati nella tradizione e hanno lasciato delle tracce molteplici anche nelle
raffigurazioni di Giovanni nell’arte cristiana.
Molti anni prima, il P.VACCARI e J.MEHLMANN avevano analizzato il fatto suggestivo che dal nostro
versetto di Gv 13, 25 (dove si parla del «petto» di Gesù) era nato l’uso nella
patristica greca, di dare all’apostolo Giovanni il soprannome di epistêthios:
«(colui che ha riposato) sul petto di Gesù (επί τò
στηθος τον ‘Іησον)». Ma
al punto di partenza di tutte queste ricerche moderne, sta un articolo di H.RAHNER nel 1931 sullo sfondo
patristico dell’antifona liturgica per la festa di san Giovanni: «De Dominici pectoris fonte
potavit». Presentiamo qui, sulla base di questo materiale, una breve sintesi di tutta quella tradizione.
Diversamente da altri autori, pensiamo, in questo caso, che bisogna risalire non solo ad Origene, ma
più in alto, alla tradizione asiatica ed efesina del secondo secolo. Andando a ritroso, citeremo qui
quattro nomi di vescovi dell’Asia: Ireneo, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, per
raggiungere così Giovanni l’Apostolo, all’inizio della tradizione. Nel testo di Ireneo, a cui
abbiamo già accennato, si legge questa testimonianza: «Giovanni, il discepolo del Signore, che si
era pure chinato sul suo petto, ha pubblicato anch’egli il Vangelo, durante la sua permanenza ad
Efeso, in Asia». Si descrivono qui, nella vita di Giovanni, tre tappe, che si susseguono in ordine
cronologico: prima, Giovanni fu discepolo del Signore; poi, all’ultima cena, si chinò sul suo
petto; finalmente scrisse il Vangelo a Efeso. Si direbbe che Ireneo ha voluto suggerire un progresso: che il
discepolo di Gesù abbia scoperto il mistero del Signore, viene suggerito dal suo gesto alla cena, ed
è proprio ciò che ha voluto far conoscere nel suo vangelo. Possiamo qui forse fare un confronto col
modo in cui fu proprio la tradizione efesina, e specialmente Ireneo, a leggere in senso cristologico il passo di
Gv 7,37-38: «Dal suo intimo scaturiranno fiumi d’acqua viva». Fra
«l’intimo» (κοιλία) di Gesù in 7, 38 e il suo
«petto» (στηθος) in 13, 25, non sembra che la tradizione abbia
fatto grande differenza, anche se non abbiamo nessun testo di Ireneo per mostrare che egli abbia sottolineato il
parallelismo tra i due passi.
Risalendo ancora più in alto, incontriamo finalmente la figura del misterioso Papia, vescovo di
Gerapoli in Frigia (verso il 130), mezzo secolo prima di Ireneo, e solo trent’anni dopo la morte di
Giovanni. Ma, come Policarpo, anche lui aveva bene conosciuto l’Apostolo. Dai dati faticosamente
raccolti dall’erudizione moderna, ecco ciò che sappiamo su di lui: era ‘stato «uditore
di Giovanni», dice Ireneo; un’altra tradizione del II secolo lo presenta come «un discepolo
molto caro di Giovanni» e un testimone posteriore, Anastasio Sinaita, che rappresenta la tradizione
alessandrina, si riconnette anche lui a Papia; lo chiama: «il famoso Papia di Gerapolì, che
frequentò come maestro l’Epistêthios» (cioè l’Apostolo che
aveva chinato il capo «sul petto» del Signore). Si sente ancora in Papia, «uditore di
Giovanni», la preoccupazione di riconnettere la vita della sua Chiesa con la testimonianza dei primi
discepoli del Signore; voleva conoscere «i precetti dati dal Signore alla fede e scaturiti dalla
stessa Verità» (cioè da Cristo); infatti aggiungeva: «Non pensavo che le cose
(conosciute) dai libri mi giovassero tanto, quanto le cose che vengono da una voce che vive e che
rimane». Questa ultima espressione di Papia esprime ottimamente il clima teologico e spirituale che
dominava nelle chiese dell’Asia al secondo secolo: rimaneva nell’alveo della teologia del IV vangelo;
perciò è stata un’intuizione felice di L.CERFAUX di scegliere questa espressione di Papia
come titolo del suo prezioso libretto “La voix vivante de l’évangile au début de
l’Eglise”. Possiamo ora compendiare in poche parole l’essenziale di quella tradizione
asiatica su S.Giovanni. I vescovi dell’Asia, Policrate di Efeso, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli, a
cui si deve aggiungere Ireneo di Lione, che veniva dall’Asia, sono l’eco unanime di una tradizione
che risale a Giovanni. E la ragione era che l’apostolo Giovanni era stato un testimone, un discepolo del
Signore, un maestro; attraverso di lui le chiese dell’Asia volevano risalire «alla stessa
Verità», secondo la bella formula di Papia. Come non ricordare qui che, nel IV vangelo, Gesù
stesso aveva detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Ciò che simboleggiava
l’importanza della testimonianza di Giovanni era il fatto che egli «aveva chinato il capo sul petto
di Gesù»: questo fatto, col suo simbolismo, è stato tramandato attraverso tutta la tradizione
cristiana, ed è anche la ragione per cui è stato dato a Giovanni il soprannome «ho
Epistêthios».
Ora — fatto sconcertante — su questo gesto del discepolo amato i commentatori moderni non trovano
quasi niente da dire. A.JAUBERT però osserva giustamente: «L’insistenza dell’evangelista
(su questo gesto) all’ultima cena (13, 23-25) e il ricordo che ne fa al cap. 21 mostrano che questo
particolare è significativo ad un livello più profondo (...). La prossimità fisica tra
Gesù e il discepolo che egli amava mira a manifestare che il discepolo penetra in un modo
particolare il messaggio di Gesù e che può trasmettere il suo senso profondo (...);
così diventa il “testimone” a cui (i cristiani) possono far riferimento». Ma in che cosa
consisteva quel «penetrare» nel messaggio di Gesù? Non viene spiegato.
Infine p.de la Potterie si rivolge ad analizzare le cinque ricorrenze dell’espressione “il discepolo
che Gesù amava” ed, attraverso questa analisi, ci guida, come vedremo, a comprendere ulteriormente
il titolo stesso di “epistethios”.
“Il discepolo che Gesù amava” viene nominato esplicitamente innanzitutto nel racconto
dell’ultima cena, proprio nel luogo dove si dice, insieme, del suo “chinarsi sul petto di
Gesù”. Per il gesuita belga l’espressione è qui da mettere in relazione con il
valore rivelativo dell’essere Gesù stesso rivolto verso il seno del Padre. L’evangelista
dall’intimità del petto di Gesù ha accesso all’intimità del seno del Padre. Ed
in questa rivelazione del mistero si trova dinanzi all’aspetto più intimo e sconvolgente della
rivelazione cristiana: il Figlio è colui che ama con l’amore di Dio dinanzi al male che si
manifesta nella sua forma più totale, nel tradimento di Giuda che si fa servitore del Maligno stesso.
Questo è l’amore di Dio, amante non amato, che si manifesta nella pienezza del suo amore che
non cessa di essere se stesso neanche dinanzi al rifiuto più radicale del non amore.
Nell’introdurci a questo p. de la Potterie analizza innanzitutto il problema della lettura simbolica, e non
solo realistica – siamo nuovamente dinanzi alla continuità giovannea fra la verità storica da
lui “vista” in prima persona e l’approfondimento contemplativo che “vede” dentro
ciò che è già stato visto – del “chinarsi sul petto di Gesù”:
A prima vista, non c’è nessun fondamento per l’interpretazione simbolica che tanti autori
antichi propongono per questi due versetti. S.Tommaso p.es. dice per il primo: “... quel seno di
Gesù (...) indica in secondo luogo la conoscenza dei segreti che Cristo gli rivelava, e specialmente per
mezzo della redazione di questo vangelo; perciò dice che era “adagiato nel seno di
Gesù”: seno infatti significa segreto”; e per il versetto 13,25, ecco un commento di
sant’Agostino: «Attingeva dal petto del Signore i segreti di alti misteri; attingendo dal suo petto,
fu lui a portare in luce la Divinità del Signore: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso
Dio». Ma niente nel nostro brano fa pensare al Verbo oppure a Dio! Quel tipo di interpretazione non
è puro allegorismo? Rileggiamo attentamente il testo. Che si tratti della delucidazione di un segreto, non
si può negare; però viene rivelata qui, non l’identità del Verbo, ma quella del
traditore. Ma è solo al discepolo amato che Gesù ha spiegato il senso del gesto simbolico che stava
per compiere: la consegna di un boccone ad uno dei commensali. Quindi, solo il discepolo amato comprese in quel
momento che il traditore era Giuda. Bisogna partire da lì. Ma attraverso il fatto esteriore della
designazione del traditore, si apre un ampio orizzonte teologico su tutta la missione di Gesù e sul senso
del fatto che uno dei suoi lo tradì.
Al centro del testo giovanneo, nel chinarsi del discepolo su Gesù, sta la questione su chi sia il
traditore:
Giovanni è l’unico evangelista che, più volte durante la vita pubblica, parla di
Giuda, presentandolo sempre come il traditore di Gesù: «colui che lo avrebbe
tradito» (6, 64; cfr. 6, 71; 12, 4); e all’inizio della Passione: «Giuda che lo stava
tradendo» (18, 2.5). All’ultima cena, prima ancora del versetto sull’annuncio (13,21), due
volte già Gesù aveva accennato al tradimento che stava per compiersi (13, 11.18). Ma per
comprendere quale ampia dimensione simbolica e storico-salvifica il tradimento di Gesù aveva preso
agli occhi di Giovanni, bisogna risalire all’introduzione solenne che egli premise al racconto
dell’ultima cena; in questi tre versetti, l’atto di tradire Gesù viene inquadrato in
una visione quasi apocalittica su tutto il mistero dell’incarnazione, sul fatto cioè che
Gesù era uscito da Dio e adesso a Dio tornava; ecco il testo, con al centro proprio il versetto su
Giuda:
A |
«Prima della festa di Pasqua |
|
|
B |
E durante la cena, avendo già il DIAVOLO |
|
|
A’ |
sapendo che IL PADRE |
...Ultimo dettaglio da notare sulla persona di Giuda: l’insistenza dell’evangelista a
presentare il tradimento di Giuda come qualcosa di diabolico. Già dopo il discorso eucaristico,
Gesù diceva: “Non vi ho scelto io, voi Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo»
(6,70). E l’evangelista commenta: «Parlava di Giuda... Infatti, stava per tradirlo,
proprio lui, uno dei Dodici» (6,71). E al centro di 13,1-3: «...Quando il diavolo aveva
già messo in cuore a Giuda di Simone Iscariota di tradirlo...» (13,2). Infine, nel
nostro brano, quando il traditore viene designato e sta per iniziare la sua opera, nuova insistenza: «E
dopo il boccone, allora entrò in lui Satana» (13,27), versetto che corrisponde a quello
finale: «Preso dunque il boccone, costui uscì subito: era notte» (13,30). Non
c’è dubbio, quindi:
Giuda, che tradisce Gesù, personifica per Giovanni il potere delle tenebre; personifica il diavolo, il
principe di questo mondo; rappresenta «il mondo (che) non lo riconobbe» (1,10), dunque tutto il polo
negativo del dualismo escatologico.
P.de la Potterie invita a cogliere qui il collegamento proprio con il Prologo del Vangelo, con l’essere
Gesù sempre rivolto al seno del Padre:
Nella costruzione del IV vangelo, questo brano. col quale comincia il libro della Passione (13, 1-4), ha
diversi punti di contatto col prologo di tutto il vangelo; ivi, nel versetto centrale sull’Incarnazione del
Verbo, l’evangelista lo aveva designato come «l’Unigenito venuto da presso il
Padre» (1,14), ma poi, nel versetto finale, come «il Figlio unigenito tornato nel seno del
Padre» (1,18); similmente, nell’introduzione all’ultima cena vengono presentati quei due
grandi momenti dell’Incarnazione, ma stavolta attraverso la profonda coscienza che ne aveva
Gesù: «sapendo (...) che da Dio era uscito» (13,3); «sapendo che
era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre» (13,1).
Di fronte al tradimento, proprio dinanzi ad esso, sta all’opposto l’amore del discepolo che
comprende fino in fondo cosa sia l’amore di Gesù e cosa significhi accoglierlo:
Ma è tempo ormai di vedere nel nostro brano tutto ciò che di fronte a Giuda c’è di
positivo, particolarmente in relazione al discepolo che Gesù amava. Non potendo entrare nei
dettagli, dobbiamo accontentarci di far osservare brevemente diversi parallelismi tra due brani
distanti che abbiamo chiamato i due prologhi, quello dell’ultima cena (13,1-3) e quello di tutto il
vangelo (1,1-18).
In primo luogo c’è il tema dei discepoli, legato al tema dell’amore di Gesù
per loro. La formula «i suoi» si trovava già nel prologo (1,11). Si legge anche in 13,1:
«...avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (= fino al segno
supremo)»; e in 13,23, il versetto precisamente dove appare per la prima volta la formula che stiamo
analizzando:
«uno dei suoi discepoli (...), quello che Gesù amava». La tecnica
dell’anonimato, cara all’evangelista, serve a far comprendere che il discepolo che Gesù amava
ha anche lui un valore rappresentativo; per Gesù stesso, egli simbolizza tutti «i suoi che erano nel
mondo» e che egli «amò fino alla fine». E’ anche significativo che nel brano
seguente, Gesù riprenda due temi della pericope di apertura: il suo ritorno presso Dio e il suo amore
per i suoi. Poi viene il testo famoso sul comandamento nuovo dato ai discepoli: «Un comandamento
nuovo do a voi: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, che anche voi vi amiate gli uni gli
altri» (13,34).
In secondo luogo si deve sottolineare con diversi commentatori il parallelismo suggestivo ma audace tra 13,23
e 1,18: all’ultima cena il discepolo amato era «adagiato nel seno di Gesù»;
secondo la finale del prologo, Gesù stesso ormai è «tornato nel seno del
Padre». Come si deve comprendere questa analogia? Sentiamo la spiegazione recente di J. KÜGLER
nella sua grande tesi: «Viene data al discepolo rispetto a Gesù la posizione che Gesù
occupa presso il Padre. Gesù come Figlio (...) è amato dal Padre. Pertanto, se la caratteristica
essenziale del discepolo è l’amore di Gesù per lui, ne segue che egli viene messo nella
medesima relazione con Gesù, quanto Gesù con il Padre». Ma questo commento non può
soddisfare: suppone che la vita di Gesù nel seno del Padre sia già a noi conosciuta, e venga
presentata poi come modello della relazione del discepolo con Gesù; ma così, si va
dall’alto in giù. Bisogna invece fare proprio l’inverso: il movimento ci porta dal basso
verso l’alto, dal visibile all’invisibile; vale a dire che la situazione storica del
discepolo «nel seno di Gesù», alla cena, è diventata un modello, un simbolo per
descrivere la vita misteriosa, trascendente di Gesù «nel seno del Padre»...
Che il movimento vada dal basso verso l’alto appare da tre grandi testi giovannei; l’uno, alla
fine del prologo: «Egli ha aperto la via» (1,18); l’altro, nella dichiarazione di Gesù
alla cena: «Nessuna va al Padre se non attraverso di me» (14,6); il terzo è
all’inizio di tutta la nostra sezione: «era venuta la sua ora per passare da questo mondo al
Padre» (13,1).
Così conclude, allora, p.de la Potterie l’analisi di questo primo brano sul discepolo amato:
Si vede da una parte la novità di questa interpretazione, ma dall’altra anche una certa
continuità con la tradizione antica. L’elemento più nuovo è l’insistenza su un
fatto storico: ciò che fu dato di scoprire al discepolo amato era l’identità del traditore.
Ma quello svelamento di Giuda – in cui “entrò Satana” (v.27), e perciò si poteva
dire di lui: “era notte” (v.30) – apre largamente la prospettiva su tutto il misetro di Cristo,
che era venuto da Dio e che tornava nel seno del Padre... Al centro di questa visione allo stesso tempo storica e
teologica sta il mistero, non direttamente quello di Gesù, il Verbo in Dio, ma quello del Verbo incarnato,
“pieno della grazia della verità” (Gv 1, 14), che però non è stato accolto dai
suoi (cfr. 1, 12), come lo ha mostrato drammaticamente Giuda. Quello è il dramma che ha così
fortemente colpito il discepolo che Gesù amava.
In un secondo passaggio il gesuita si sofferma dinanzi al testo della crocifissione, sotto la quale stanno
Giovanni e la Madre. L’esegesi lo porta a concludere che Giovanni comprende il suo essere amato non
solo nell’essere a lui donata la Madre di Gesù, ma - ancora una volta con uno slittamento di piani -
nel ricevere in questo anche “l’essere figlio della Chiesa”. Così p. de la
Potterie argomenta:
Prima cosa da notare: oltre Gesù e il discepolo, che erano già in dialogo alla cena, è
presente qui una terza persona, la madre di Gesù (per abbreviare, chiamiamola Maria). Osserviamo
attentamente le loro posizioni rispettive; formano quasi un triangolo:
|
Gesù in croce
|
|
sua madre
«presso la croce di Gesù» |
il discepolo
«presso di lei» |
Secondo questa disposizione, Maria si trova in una posizione intermedia tra Gesù e il discepolo:
da una parte occupa «presso la croce» un posto subordinato rispetto a Gesù in croce; ma
dall’altra esercita in un certo senso una funzione più alta di quella del discepolo. Lo stesso
risulta dal fatto che Gesù, usando un titolo, si rivolge prima a sua madre che sta presso la sua croce:
«Donna, ecco il tuo figlio»: poi al discepolo, che sta presso sua madre, dandogli semplicemente il
suo programma dì vita: «Ecco la tua madre».
Seconda osservazione: l’evangelista adopera qui il cosiddetto «schema di rivelazione», di
cui si era già servito all’inizio del vangelo per parlare di Giovanni Battista, il testimone di
Gesù. Questo schema consta dì quattro elementi: 1) una persona (A) scorge un’altra
persona (B); 2) la persona A dichiara qualcosa a proposito di B; 3) dicendo questo, A designa
B con «ecco...»; 4) poi segue un titolo, che contiene la rivelazione. Quel caso parallelo
di Giovanni Battista è molto chiaro: «Fissando lo sguardo su Gesù che passava egli dice:
“Ecco l’agnello di Dio”» (1,36). Poco prima, il precursore aveva detto che era venuto
proprio per rivelare il Messia ad Israele (1,31). Infatti, lo rivela, dicendo a proposito di Gesù
che gli viene incontro: «Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (cfr. 1,29).
Nel nostro episodio del Calvario, c’è un altro esempio di questo schema, anzi viene raddoppiato.
Perciò le parole di Gesù: «Ecco il tuo figlio, ... ecco la tua madre» sono veramente
una rivelazione: i due titoli «tuo figlio», «tua madre», indicano che, per
volontà di Gesù in croce, ci saranno ormai nuove relazioni tra quelle due persone, tra Maria e
il discepolo.
Terzo, ritroviamo anche qui il fenomeno dell’anonimato: sia per la madre di Gesù sia per il
discepolo, l’evangelista evita di designarli con il loro nome, per mettere piuttosto in luce il loro valore
rappresentativo e l’importanza della loro funzione. Per il titolo «Donna», usato già a
Cana (2,4), ma ripreso qui alla croce (19,26), sono state proposte diverse spiegazioni. La migliore sembra essere
di vedere in quell’appellativo un riferimento alla Figlia di Sion, quella donna simbolica che nella
tradizione profetica rappresentava Israele nei suoi rapporti di Alleanza con Dio. Siamo qui all’inizio
della nuova Alleanza, al momento in cui nasce il nuovo popolo di Dio, il popolo messianico, che diventerà
la Chiesa. Giovanni, interpretando la profezia di Caifa, aveva detto che Gesù doveva morire «per
radunare nell’unità i figli di Dio dispersi» (11,52). Quel raduno messianico si realizza
nelle due persone presenti alla croce. Maria rappresenta qui il popolo escatologico nella sua funzione materna,
ma diventa nello stesso tempo icona della Chiesa. Come ha detto ottimamente un autore medievale a proposito
di Maria presso la croce: ella è «Consummatio Synagogae et Ecclesiae sanctae nova
inchoatio».
Ma dobbiamo fermarci specialmente al titolo «madre» che è la parola tematica del
brano. Il sostantivo «madre» viene cinque volte in tre versetti (sei volte, se si aggiunge il pronome
personale del v. 27c). Ma proprio l’uso dei pronomi è sorprendente: al v. 25 si tratta due volte
della «madre di Gesù» (o «sua madre»); al v. 26 invece, il greco
(non le versioni!) menziona due volte «la madre» (senza possessivo); al v. 27 invece
troviamo «la madre tua». L’idea dominante, certo, è quella della funzione materna
di Maria, ma c’è una dinamica nel testo: va dalla sua funzione materna rispetto a Gesù, alla
sua maternità verso il discepolo. Qui comincia la maternità spirituale di Maria: da madre di
Gesù, per volontà dello stesso Gesù, diventa madre del discepolo, di tutti i
discepoli.
Ma se l’anonimato suggerisce il valore rappresentativo di una persona, chi è rappresentato dal
discepolo che Gesù amava? Si può rispondere con una parola: tutti i discepoli, tutti i
credenti nella Chiesa. Lo ha detto in termini precisi il protestante M.DIBELIUS: «il discepolo che
Gesù amava» è «il tipo stesso del discepolo (...). (Egli) è l’uomo di fede
che non ha bisogno di prove (20, 8). Egli è testimone del mistero della croce (19,35) e ai piedi della
croce diviene il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, nella loro
relazione con Dio, sono divenuti i fratelli di Gesù (20,17)».
Dobbiamo ancora chiederci che cosa significhi la frase di conclusione dell’episodio; siccome il suo
senso e la sua traduzione sono state oggetto di lunghe controversie, citiamo provvisoriamente il testo della
Vulgata: «Et ex illa hora accepit eam discipulus in sua» (19,27b).
Di solito si traduce: «Da quel momento il discepolo la prese in casa sua». Ma quella versione
è inesatta per diversi motivi: il verbo λαμβάνειν,
applicato a una persona, non significa «prendere» o «ricevere», ma
«accogliere» (cfr. per es. 1,12). L’espressione είς τά
ιδια (in sua), altrove nel IV vangelo, è sempre presa in senso spirituale. Ha
intuito bene il senso il card. Toledo (XVII sec.): «Accepit eam discipulus in sua, id est inter
spiritualia bona». Il testo significa che il discepolo ha perfettamente eseguito la volontà
di Gesù: ha accolto la madre di Gesù nella propria vita di fede, l’ha accolta come
sua madre. «Da quell’ora» è cominciata la maternità spirituale di Maria
nella comunità cristiana. Però Maria non è soltanto la madre dei discepoli, la madre della
Chiesa; in quanto «Donna», «Figlia di Sion», Maria stessa è la Chiesa.
«Tutta la Chiesa è mariana», diceva il card. Journet. E perciò H.URS VON BALTHASAR ci
ha invitato a riscoprire «il volto mariano della Chiesa».
Come si vede, «il discepolo che Gesù amava» non viene presentato qui come apostolo o come
testimone di Gesù, ma come figlio di Maria, quindi anche figlio della Chiesa. Anche sotto
questo aspetto, il discepolo amato è la personificazione di tutti i discepoli e un modello per
tutti.
Nell’articolo che stiamo analizzando p.de la Potterie, dopo aver toccato gli altri due versetti in cui si
parla del “discepolo che Gesù amava”, nei brani degli incontri degli apostoli con il Risorto
– e che già abbiamo visto precedentemente in questa nostra rassegna – si sofferma, infine,
sulla misteriosa espressione del capitolo finale del IV evangelo: il discepolo che Gesù amava è il
discepolo “che rimane”. La sua riflessione tende sottolineare come la presenza e la testimonianza
dell’evangelista Giovanni non si esaurisca nelle parole che ha scritto nel suo Vangelo, ma come egli
“rimanga”, dopo aver scritto, come l’invito ad un approfondimento ulteriore della
divino-umanità del Figlio:
Ed eccoci arrivati all’ultimo brano del vangelo (21, 20-25): all’inizio, paradossalmente,
l’evangelista fa un richiamo a ciò che era accaduto all’ultima cena; è come un elemento
interpretativo; poi viene ancora una parola di Gesù (21,22), l’ultima del vangelo, in cui egli
annuncia un misterioso «rimanere» del discepolo amato.
E’ molto utile leggere almeno i vv. 20-23:
20 «Pietro, voltatosi vide che gli veniva dietro
il discepolo che Gesù amava.
quello che nella cena si era chinato
sul petto di lui e gli aveva domandato:
“Signore, chi è che ti tradisce?
21 Ora, vedutolo, Pietro chiese a Gesù:
“Signore, e di lui che ne sarà?”
22 Gesù gli rispose:
“Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”
23 Si sparse perciò tra i fratelli la voce
che quel discepolo non doveva morire.
Però, Gesù non aveva detto che non doveva morire,
ma:
“Se voglio che lui rimanga, finché io vengo,
che te ne importa?”»
Concentriamoci su una sola domanda: cosa significa quel «rimanere» del discepolo?
L’evangelista ci avverte che un’interpretazione sbagliata si era sparsa tra i fratelli: che quel
discepolo non doveva morire. Però, dopo aver scartato quella interpretazione, l’evangelista si
limita a ripetere con una certa insistenza la frase dì Gesù; non si tratta dunque dì un
rimanere vivo in senso fisico (così sono nate diverse leggende, specialmente ad Efeso). Però, in un
certo qual modo, il discepolo che Gesù amava deve veramente «rimanere», quindi rimanere
«vivo». Ma come bisogna comprendere quelle parole misteriose? La risposta si trova negli ultimi due
versetti, dove si parla del discepolo che ha scritto queste cose; e la conclusione aggiunge che se si dovesse
scriverle ad una ad una, ci vorrebbe quasi un’infinità di libri. In che senso? Nella storia
dell’esegesi troviamo due interpretazioni. Quella di Origene è la più giusta e la più
profonda: l’impossibilità per il mondo di contenere tutti i «libri» che si dovrebbero
scrivere non è dovuta alla quantità dei fatti» che sarebbero da raccontare, ma alla loro
«grandezza» spirituale; ecco la spiegazione di Origene, in un testo della Filocalia (si
osservi l’assonanza tra le due formule messe in contrasto; sono state indicate in corsivo). «Se
“il mondo non può contenere i libri che si dovrebbero scrivere”, non è, come lo pensano
alcuni a ragione dell’abbondanza dei testi, ma della grandezza delle realtà: la
grandezza della realtà non solo non può essere consegnata per iscritto, ma non può nemmeno
essere proclamata dalla lingua di carne, né essere espressa con... parole umane».
Si comprende adesso in che senso il discepolo che amava deve «rimanere»: egli, l’uomo
della fede, rimane, anzi rimane vivo, ma attraverso le cose che ha scritte, nelle quali egli si
presenta come il testimone di ciò che ha fatto Gesù; la sua testimonianza rimane,
come un invito costante a cogliere la profondità di ciò che ha fatto Gesù e di cui egli
rende testimonianza nel vangelo scritto da lui.
È forse lecito fare di nuovo qui un confronto con Papia di Gerapoli, che era stato uditore e caro
discepolo di Giovanni, e che 30 anni più tardi userà una formula sorprendentemente simile a questa
finale del IV vangelo: ciò che al vescovo della chiesa di Gerapoli premeva di fare era di raccogliere le
cose che venivano «dalla voce viva e permanente». Quella voce, anche per noi, è quella
del discepolo che Gesù amava; egli aveva visto e aveva creduto; aveva colto «la grandezza delle
cose» fatte e dette dal Signore; nel suo vangelo, ne rendeva testimonianza, ed egli stesso ci ammonisce di
aver scritto queste cose affinché «crediamo» (cf. 20,31).
In questo senso, «il discepolo che Gesù amava» rimane vivo anche tra noi;
però, dopo aver reso testimonianza e dopo aver scritto, rimane vivo, ma come «il teologo in
silenzio»... Quest’ultima espressione è allusione a una delle rappresentazioni più
espressive e delicate dell’iconografia russa: “Giovanni il teologo in silenzio”; egli veniva
chiamato “il teologo”, perché aveva descritto gli evento della vita di Gesù in una luce
tale da far vedere in lui il Figlio di Dio, ed aveva, più degli altri evangelisti, cercato di far
comprendere il significato profondo delle parole di Gesù. Però viene raffigurato con l’indice
ed il dito medio della mano destra sulla bocca, in segno di meditazione: egli ormai ha reso la sua testimonianza,
ha terminato il suo vangelo; adesso gli resta solo il silenzio, e il suo gesto ci invita a fare come lui:
ci invita a leggere e a contemplare...
In un diverso contributo p.de la Potterie richiama a questo proposito le due figure complementari di Pietro e
Giovanni, come immagini di due modi complementari di essere nella Chiesa[22]:
Il capitolo 21 di Giovanni... indica due atteggiamenti nei confronti di Gesù, entrambi validi per la
vita su questa terra. Perciò altri autori osserveranno che nel brano giovanneo sono contenute in nuce le
due vite della Chiesa: la vita attiva nella sequela di Gesù (Pietro) e quella contemplativa, adorante
(Giovanni), un po’ come per Marta e Maria secondo Lc 10,38-42...
Leggiamo la traduzione autorizzata dalla Cei: “Quando ebbero finito di mangiare, Gesù disse a
Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?”. Gli rispose: “Signore, tu
lo sai che io ti amo”. Notiamo: “Tu più di costoro”, ecco, la versione classica; ma
c’è un rilievo critico da fare. Chi sono infatti “costoro”? E’ il gruppo degli
altri discepoli? Per giustificare questo contrasto (tu-costoro) sarebbe necessaria, la presenza formale, nel
testo greco, del pronome σύ (tu), che invece non c’è. Mantenendo questa traduzione poi,
in un capitolo in cui si cita esplicitamente Giovanni, “il discepolo amato da Gesù” (che
“ha scritto queste cose”!), suonerebbe strana. Il testo greco ci viene in aiuto: la domanda richiede
un paragone, sì, ma non tra due soggetti: tu (che non compare) e costoro, bensì tra due oggetti, me
e queste cose. Propongo quindi di tradurre così: “Simone di Giovanni, ami me più di queste
cose?”. Queste cose, vale a dire ciò che Pietro, con tanto impegno, ha fatto fino a quel momento.
Pietro ha preso l’iniziativa di pescare, ha condotto la barca in acqua, ha riempito le reti. Che cosa
implica questa domanda? Gesù chiede a Pietro di passare ad un altro livello di interesse: amare
innanzitutto Gesù. Subito dopo infatti gli affiderà l’incarico di pascere il suo gregge e
questo compito nasce come il frutto della sequela e dell’amore di Gesù Cristo. La missione di Pietro
è dunque la sequela di Gesù Cristo; la missione pastorale di Gesù, il Buon Pastore, continua
nella Chiesa attraverso il suo vicario, il suo rappresentante.
Vogliamo concludere questa nostra rapida rassegna con un ultimo tratto dell’esegesi giovannea di p.de la
Potterie, relativa al Prologo del vangelo. Decisa è l’affermazione che il
“principio” di cui si parla, non è l’inizio storico, sebbene esso sia illuminato
a sua volta, ma il principio eterno della relazione del Padre e del Figlio. E’ per questo che il Figlio
è, dall’eternità, rivolto nell’amore verso il Padre[23]:
(E’) il tema dei vv. 1-2, dove si dice due volte che il Verbo di Dio era εν
αρχη: queste parole non rinviano all’inizio del racconto della creazione (Gn 1,1), ma
alla tradizione sapienziale (Pro 8,22-23; Sir 24,9; 4 Esd 6,1-6), dove “il principio” è preso
in senso assoluto, e designa il livello della preesistenza, dell’eternità. Non si tratta
evidentemente di questo per Giovanni Battista. Nondimeno un’analogia esiste, a motivo
dell’εγενετο enfatico del v. 6; deve essere inteso in senso
forte, da cui la traduzione: “Apparve un uomo...”. L’ “apparizione” del Battista,
nel vangelo di Giovanni, non è preparata da niente; essa ha qualcosa di inaspettato, di improvviso, essa
è come un “principio”, un punto di partenza assoluto. Più chiaramente ancora che i
sinottici, il IV vangelo si apre immediatamente sulla testimonianza di Giovanni Battista: questi versetti del
prologo annunciano e preparano la sezione 1,19-34. Con questa testimonianza, si può dire,
“comincia” l’economia cristiana: a quello che era il principio assoluto della vita del Verbo in
Dio corrisponde un principio storico, la testimonianza di colui che è venuto per “rivelare il Messia
a Israele”, per rivelare colui che era “prima di lui”, nella trascendenza (1,30-31): è
l’inizio della rivelazione di Cristo nella storia, che prepara la rivelazione di Cana,
“l’inizio dei segni” (2,11). Si possono ancora osservare altri contatti tra le tre colonne a
questo primo livello. Del Verbo l’evangelista scrive due volte che “era rivolto verso Dio” (vv.
1-2); di Giovanni Battista, per una curiosa inversione, dice che “era inviato da Dio”, o più
esattamente: “...da presso Dio”. E’ il solo passaggio in tutto S. Giovanni in cui queste parole
sono applicate a un uomo ordinario; sono invece usate frequentemente per il Cristo. L’evangelista sembra
dunque aver voluto mettere questo versetto in parallelo con i vv. 1-2: se il Verbo, che era “rivolto verso
Dio”, è diventato “la luce degli uomini” (cfr. i vv. 3-5), la missione storica di
Giovanni Battista, il primo “testimone della luce” (cfr. il v. 7), viene ugualmente “da presso
Dio”, perché essa ha “la sua origine in una decisione di Dio”, come spiega molto bene
J.Radermakers. Così si delinea, come hanno giustamente percepito certi commentatori medievali, una specie
di tipologia tra Giovanni Battista e Gesù...
Ai vv. 1-2 Giovanni ci introduce alla fonte stessa della Vita divina del Verbo che sarà rivelata e
comunicata agli uomini. Il “principio” si ricorderà, è quello
dell’eternità, come nella tradizione sapienziale; ma è descritto qui dal punto di vista del
Logos: dall’eternità “il Verbo era rivolto verso Dio”), espressione che si può
precisare con il passo parallelo della prima lettera: “la Vita eterna (...) era rivolta verso il
Padre” (1Gv 1,2). Fin da questo momento possiamo dire che questo orientamento del Verbo “verso
Dio” è la sua relazione vivente al Padre. D’altra parte Giovanni afferma anche che il Verbo
“era Dio”. “Doppia affermazione, commenta il P.Lacan, che ci introduce in seno alla vita
trinitaria”.
Più di un autore cristiano del II secolo afferma che Giovanni si stabilì a Efeso, da dove governò le chiese della provincia romana d’Asia. Alle testimonianze già citate riguardanti questo soggiorno, bisogna aggiungere quella – più antica (155-161) – di Giustino, nel suo Dialogo con Trifone. Si può situare la data della venuta di Giovanni, con qualche verosimiglianza, tra il 67 e il 70, dopo l’apostolato di Paolo e Timoteo a Efeso e – se si vuol dar credito ad Eusebio – prima della guerra giudaica. Tornato a Efeso dopo la morte di Domiziano, avrebbe diretto le chiese d’Asia fino alla sua morte. Gerolamo lo descrive, alla fine della sua vita, così decrepito per la vecchiaia, che bisognava portarlo di peso nelle assemblee. Troppo debole per tenere lunghi discorsi, si limitava a ripetere: “Figlioli miei, amatevi gli uni gli altri!”. Poiché i fedeli talvolta si stancavano di questa ripetizione, egli rispondeva: “E’ il comandamento del Signore e, se viene osservato, ciò è sufficiente”. Elemento forse leggendario, ma espressione fedele del pensiero giovanneo. Giovanni morì a Efeso in età avanzata, sotto il regno di Traiano (98-117). L’episodio del martirio che avrebbe subito a Roma in una caldaia di olio bollente, prima del suo esilio a Patmos, riposa sulla sola testimonianza di Tertulliano, ripresa due volte da Gerolamo. Non si può non sottoscrivere le riserve degli storici: nessuno scritto patristico, né alcun calendario antico garantiscono il valore storico di questo episodio.
(N.d.R. Un altro testo che abbiamo utilizzato per presentare l’evangelista Giovanni – come
già detto tale incontro non è stato registrato - è la meditazione tenuta da d.Achille
Tronconi ad un campo della parrocchia di Noli ad Andalo, il 21/04/1992. Il testo è stato trascritto dalla
viva voce dell'autore e non è stato da lui rivisto. Sono stati omessi i riferimenti personali alla
parrocchia ed ai giovani per i quali la meditazione era stata preparata).
Il parlarvi di Giovanni questa mattina lo ritengo uno dei regali più belli che possa farvi.
E' una riflessione che nella mia vita dura da 20 anni, è un tormento che non ha preso soltanto la testa,
ma mi ha attraversato la vita, tante volte, togliendomi il sonno, qualche volta togliendomi anche la ragione;
aprendo ferite, consolando attese, sostenendo fatiche; sempre c'è stato con Giovanni un rapporto di
conflitto, di desiderio, il volerlo capire.
Tutto ciò che ho letto su Giovanni mi ha sempre lasciato molto insoddisfatto, perché suggeriva,
dava qualche nozione in più, qualche criterio esegetico, qualche parola spiegata meglio, qualche
struttura, ma non riuscivo a trovare Giovanni. E allora mi sono accorto che quello che cercavo era la sua
esperienza di Dio, forse la più alta, volevo arrivarci vicino, attingere ad essa. E' questo che mi
interessava; e mi interessava come chi resta affascinato fin da ragazzo da questa amicizia di Giovanni con
Gesù - penso che sia la più bella che abbia mai visto la terra e i dati sono molto profondi. Pochi,
ma abissali. Quante volte certe espressioni, certi incontri, certe parole del Vangelo che fanno riferimento a
questa amicizia ci sbalestrano proprio completamente perché sei tu che devi fare lo sforzo di aderire, di
riuscire a trovare il sentiero che ti porta a capire. Non è facile, è sconquassante, ma così
- sono convinto - deve essere l'accostamento alla parola di Dio. Deve essere un tormento, un tormento d'amore.
Non ci si arriva facilmente. A me fa impressione come certi esegeti o certe persone avvicinano la parola di Dio
senza mai essere bruciati, senza mai essere sconvolti.
Ecco io questo l'ho provato soprattutto con il Vangelo di Giovanni. Non posso dire di amarlo pienamente,
perché non si può amare il ferro rovente che ti segna il cuore: questo è il Vangelo di
Giovanni, è il roveto ardente, è un'esperienza di Dio che continua a bruciare, un'amicizia che non
ha mai avuto fine, ma è anche l'impresa grande, splendida che sento dentro alla mia vita, questa
esperienza di Giovanni. Quindi è sicuramente uno dei doni più grandi che posso farvi: voi vedrete
cosa farne.
Questo dice anche qual è l'approccio, quale sarà la spiegazione. Non sarà certo una lezione,
ma un'esperienza.
Partiamo da quello che è stato il tormento nel tormento e per il quale solo un mese fa sono riuscito a
trovare una risposta per ora soddisfacente. So già che non basterà, però, per ora, è
soddisfacente e ve la voglio comunicare.
Mi sono chiesto più volte, con la libertà di chi ha fatto esperienza di materie profane come la
psicologia, la filosofia e altre, mi sono chiesto con questa spigliatezza, che cosa significava questo discepolo
che Gesù "amava di più" e non ho scartato nessuna ipotesi: ho voluto proprio essere molto libero,
molto critico, molto insoddisfatto, di chiedermi perché c'è questa insistenza, questa definizione
che sostituisce addirittura il nome. Lo hanno motivato come umiltà, nascondimento, oppure hanno ipotizzato
che questa immagine del discepolo sia il cristiano, la figura collettiva, la figura individuale… Mi
sembrano tutte delle grandi arrampicate sui vetri, tutto per non entrare nel cuore del discorso, per mancanza di
libertà, di spigliatezza, forse per mancanza di tanto desiderio: per entrare in Giovanni ci vuole un
desiderio incredibile.
Io ho trovato soddisfacente questa risposta: l'errore di fondo, che non mi faceva vedere per tutti questi anni,
è che per capire questo amore maggiore per Giovanni da parte di Gesù bisognava non guardare a
Gesù ma a Giovanni.
Questo Giovanni che si nasconde continuamente, questo Giovanni che lo trovi soltanto quando guardi l'amicizia di
Cristo - cioè in un rapporto - questo Giovanni che esiste solo in rapporto al Padre. Guardando Giovanni ho
capito cos'è questo amore maggiore; è una risposta facilissima - lo si dice spesso che la risposta
è facilissima quando ci si arriva! Giovanni è colui che corrisposto all'amore di Cristo: questa
è la risposta.
E' l'unico che fin dall'inizio ha deciso di amarlo anche quando non lo capiva. Solo a cent'anni forse ha capito,
ma quando ne aveva pochi e ha incontrato Gesù il suo cuore ha deciso di amare quel maestro, di amarlo
comunque - questa persona così strana, incomprensibile, pericolosa - lui ha deciso di amarlo. Ed è
per questo, ed è in questo la differenza: che un amore corrisposto è molto di più di una
amore semplicemente donato. Giovanni è colui con cui Gesù ha avuto un'amicizia, perché
l'amicizia, lo sappiamo, vuole necessariamente corrispondenza, come la figura di Maria di Magdala, l'altra grande
amica che ha deciso di amarlo. Giovanni ha potuto vivere l'amicizia con Cristo e Cristo ha trovato in lui
l'amicizia umana, un'esperienza profonda, vera, di amicizia.
Nel capitolo 13, a quello splendido e tremendo versetto 25, una di quelle cose che più mi ha segnato la
vita, troviamo questo Giovanni che si stende sul cuore di Gesù. Esegeticamente non è certo il cuore
del Vangelo - sappiamo che il punto massimo è la gloria di Cristo in croce, "Colui che hanno trafitto" -
ma lo è nell'esperienza dell'apostolo Giovanni. Ed è rimasto nel Vangelo per questo, molto
nascosto, messo lì in qualche modo, quasi forzatamente messo lì, nonostante lui. Ma per fortuna
è rimasto, come piccolo segnale, nel senso di visibilità, di questo grande sentiero, di questa
grande esperienza dell'amicizia di Gesù con Giovanni. Giovanni ha potuto aderire con tutta la sua vita al
cuore di Cristo, un dono riservato a lui, ma certo non solo in quel momento. Penso che lo facesse d'abitudine,
quando non capiva questo maestro, quando non capiva il suo comportamento, quando soprattutto lo sentiva distante,
perché Gesù continuava ad essere colui che è altro. Quando lo sentiva impossibile da
possedere, da trattenere - lo stesso gesto che fa Maria di Magdala - quando lo sentiva amore, ma un amore che
ribaltava, che rimandava ad altro, un amore che faceva esplodere fuori, che non teneva lì, che non diceva
questo è il Paradiso e facciamo tre tende, fermiamoci qui. Ma quando capiva che colui che gli era accanto
era il Cielo e che quindi la sua amicizia, il suo tentativo di comunione, era continuamente messo a rischio,
messo in forse proprio da questo, dalla stessa persona di Cristo, cosa faceva Giovanni? Quando viveva tutto
questo e non capiva e soffriva e gemeva e non sapeva più che cosa inventare per il Suo Maestro,
sicuramente, cosa faceva? Si sdraiava sul cuore, raggiungeva Gesù in questo suo amore. E' questo che
faceva. Aveva, come ogni amico, scoperto che c'è una via unica dove risolvere tutto e arrivare a
Gesù che è questo cuore aperto, diventare la vittima di questo amore, il cuore che non avrebbe mai
respinto nessuno
Ed è per questo che Giovanni non ha lasciato Gesù a differenza degli altri apostoli e
discepoli.
Se Giovanni è presente nei momenti più importanti è perché c'era sempre. Non è
come Pietro o Giacomo o Andrea, che erano chiamati a vivere i momenti solenni e ufficiali. Lui c'era sempre, era
sempre col suo Signore e non pensava di scappare, perché sceglieva sempre questo sentiero d'amore, sempre
percorribile, sempre, anche sotto la croce. Gli altri per rimanere avevano bisogno di capire, a lui bastava amare
e lo sceglieva continuamente. Ed è per questo, io credo, che Gesù ha affidato sua madre a lui:
perché parlavano lo stesso linguaggio. Anche Maria non capiva Gesù, ma sceglieva di amarlo. Anche
Maria non possedeva Gesù, pur vivendo tutta questa dimensione di madre-figlio, questo dramma come l'amico.
Questo dramma dove c'è una comunione di vita, ma la carne vuole riunirsi alla carne, vuole tornare ad
essere una, non vuole che vi sia diaframma, separazione, in una comunione di vita. Quindi tutta la fatica, il
dramma di percorrere questa comunione anche dentro alla carne con i suoi desideri di possesso, con le sue pazzie
di gelosia, di rifiuto e di ricerca, capricci, con le debolezze, con la sua sessualità.
E' un altro grande capitolo che Balthasar aveva bene intuito, qual era il rapporto di Giovanni con Maria, ma che
è ancora tutto da vedere. Giovanni con Maria, quindi tutta la realtà della Chiesa, che loro
giustamente rappresentano, perché hanno fatto la scelta di amare il Cristo e il Cristo sulla croce, il
Cristo del Sabato Santo, il più difficile da amare, dove si è proprio vagliati, come dice la
Scrittura: "passare al vaglio". E' lì che sei vagliato perché devi amare senza la presenza
dell'altro, amare nell'assenza, amare colui che muore, colui che è morto, amare colui che non è
rimasto per amor tuo. Pensatelo lo sforzo di Giovanni nel vedere il maestro andar via, lui che ha sempre creduto
di essere amato - e quante volte Gesù glielo ha dimostrato!
Ma come? Muori e mi dici di amare, mi dici di amarmi e muori? Te ne vai e mi dici di amarti, te ne vai e sai che
ti amo?! Sabato Santo!
Giovanni è diventato grande proprio in questo suo cammino travagliato di amicizia con il Cristo, in uno
sforzo costante di amarlo comunque, continuamente. Ha tentato di essere fedele come è fedele Dio, fedele
ad un amore deciso, scelto.
Egli ha capito bene il Padre, perché ha capito questa fedeltà d'amore.
Il momento del vaglio quando ti viene chiesto di amare ciò che ti sembra assente e che solo l'amore ti
dà la certezza che c'è, che non è il nulla ciò che ami. E' veramente quell'esperienza
che ti fa restare solo con l'amore e nient'altro; tutto ti viene tolto.
Lì sul Calvario ci sono tre persone che si amano e nient'altro. Ma è tutto: si stanno perdendo
vicendevolmente, ma, ostinatamente, per un dono di grazia infinita, si stanno amando. Gesù compie ancora
un gesto d'amore per loro due, e loro due altrettanto tra di loro nei confronti del Maestro e del Figlio.
Certo il Calvario è il culmine, ma proprio per questo, perché ci sono tre persone che si amano, le
quali non hanno quasi più nessun motivo umano per farlo, anzi, tutto è contro, tutto è buio.
Allora fanno l'esperienza della forza dell'amore, quando questo amore è Dio stesso, è amore divino
e un amore che sarà il meccanismo stesso della Risurrezione, un amore che non può essere fermato da
niente. Ma per arrivare a vivere tutto questo, nella propria carne umana, sia per Maria che per Giovanni ci vuole
tutta una vita di allenamento, di fatica, di ascesi perché altrimenti non ce l'avrebbero fatta,
perché a loro è chiesto di vivere questo amore divino, questo amore vagliato, questo amore da
risorto. E' chiesto di viverlo non nonostante la loro carne, ma dentro alla loro carne, la carne che non è
capace di questo amore, ma che esplode dentro a questo amore, la carne che non si sa contenere, la carne che va
verso la trasfigurazione, una carne che geme, stride. Tutto viene tirato, tutto è inadeguato ad
un'esperienza così d'amore. E allora il massimo livello della Grazia è proprio questo renderti
capace di questo amore, senza polverizzare la tua umanità, la tua storia, la tua persona.
E' veramente il velo di Mosè, per non morire nell'esperienza di Dio. E' lo stesso Dio che ti preserva
dall'esplosione, facendo questa esperienza che di per sé non sarebbe sostenibile. Un Dio quindi da amare,
ma che ti dà la capacità di farlo, andando contro ad ogni misura, ad ogni regola, perfino
contraddicendo se stesso - se questa è una contraddizione.
Maria e Giovanni sono riusciti a fare della proprio vita una preparazione continua di questa esperienza d'amore
che sarà per tutti noi in Paradiso. Ecco, Giovanni è riuscito a fare della propria identità,
la stessa identità dell'amico di Cristo, di colui che ha continuamente aderito. Lui non è altro che
questo continuo tentativo di aderire al suo cuore - questo cuore impossibile - a questo cuore infinito. Non ha
mai mollato Giovanni! Questa è fede! Credere continuamente che è possibile essere amici di Cristo,
di quel Gesù lì, di quel Maestro.
Possiamo dire anche noi che ci chiamiamo amici, perché ci raccontiamo le cose udite dal Padre.
Dov'è allora che si è veramente amici, soprattutto per noi, se non proprio quando ostinatamente
stiamo col Padre nella preghiera, nell'ascolto, nella vita crocefissa, nell'obbedienza piena di gioia. E'
lì che noi siamo amici, è lì che risuona il comandamento: Amatevi gli un gli altri. La
nostra amicizia parte dall'esperienza del Padre e di questo sapore di Padre sempre deve averne l'evidenza.
Chiediamo che questo sia vero, nonostante la nostra voglia di essere servi, non amici - servi indubbiamente meno
bello di cristiani, preti - ma Gesù continua a dirci: "Ma io vi ho chiamati amici"
Dov'è la nostra risposta, dov'è il nostro cuore, lì impareremo la compassione, la preghiera
di intercessione, la preghiera di benedizione per tutti gli uomini, per tutte le creature. Lì impareremo
dallo sguardo di Maria.
Per altri articoli e studi sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] (N.d.C.) Anna Katharina Emmerick è stata beatificata da S.S.Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004.
[2] Suggestiva è la rilettura della parabola del figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32) alla luce di Ef, proposta da M.Barth, Israel and the Church, Richmond VI 1969, pp. 83-85, 99,104: diversamente da Lc, Ef prende in considerazione non la reazione del fratello più anziano ma quella del più giovane, il quale deve abituarsi a vivere con quello, senza pretendere statuti speciali, poiché è insieme che formano la varietà della casa paterna. Tuttavia, scrivendo che in Ef non viene detto nulla né contro l’antica alleanza né in favore di un impegno missionario nei confronti di Israele (cf. pp. 108-109), Barth non sembra tenere conto della grave affermazione di 2,14d-15a (Cristo “ha annullato nella sua carne l’inimicizia, la Legge fatta di precetti e decreti”), secondo cui la Torah è stata ormai tolta di mezzo, almeno come motivo di divisione.
[3] L’avv. ‘linearmente’ non allude necessariamente ad una linea retta; come si sa, la linea può essere anche curva e spezzata. L’importante è di non dire “puntualmente” (come se tra la storia e l’éschaton ci fosse totale discontinuità) e neppure ‘ciclicamente’ (come se tutto fosse destinato ad un eterno ritorno).
[4] Guardare per credere, Intervista a padre Ignace de la Potterie di Antonio Socci, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.31-39.
[5] Cfr. su questo brano nel nostro sito, alla sezione Approfondimenti, il testo dal titolo: Brani di difficile interpretazione della Bibbia VII, Gv 20,29 “Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto” di Ignace de la Potterie.
[6] I.de la Potterie, Il trofeo della sua vittoria, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.33-37.
[7] I.de la Potterie, La verità del cristianesimo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.159-161.
[8] I.de la Potterie, Perché l’odio del mondo? da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.103-107.
[9] I.de la Potterie, Lo spirito dell’Anticristo da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, p.6.
[10] I.de la Potterie, Figli di Dio non si nasce, si diventa da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.169-175.
[11] I.de la Potterie, La stessa esperienza dei primi testimoni, da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.80-84.
[12] I.de la Potterie, Lo sguardo e la memoria da I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.93-94.
[13] Gianni Valente, Rimanere per crescere. Intervista a padre Ignace de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.49-54.
[14] Gianni Valente, Il Vangelo antignosi. Intervista a de la Potterie, da Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie, I libri di 30giorni, Ed. SEI, Torino 1997, pp.44-46.
[15] Il Paraclito di I.de la Potterie (da I.de la Potterie-S.Lyonnet, La vita secondo lo Spirito. Condizione del cristiano, Editrice AVE, Roma, 1992, pp.99-123).
[16] Dal greco parakaleô, chiamare accanto a qualcuno.
[17] La Bible de Jérusalem traduce: «come avvocato presso il Padre». Poiché qui la proposizione greca pros conserva la sua sfumatura di direzione, d’orientamento, abbiamo tentato di conservare quest’aspetto suggestivo del testo traducendo a preferenza: «come avvocato rivolto verso il Padre».
[18] M.-F.Berrouard, Le Paraclet, Défenseur du Christ devant la conscience du croiyant (Jo. XVI, 8-11), in RSPT 33 (1949) 361-389.
[19] Ibidem, p.373.
[20] G.-M.Behler, Les paroles d’adieux du Seigneur, Coll.Lectio divina, n.27, Paris, 1960, p.187.
[21] I.de la Potterie, Il discepolo che Gesù amava, in Atti del I simposio di Efeso, L.Padovese (a cura di), Roma, 1991, 33-55.
[22] I.de la Potterie, Seguire ed essere prediletti, in I.de la Potterie, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino (I libri di 30giorni), 1997, pp.67-73.
[23] I.de la Potterie, Struttura letteraria del Prologo di S.Giovanni, in I.de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova, 1986, pp.31-57.