Presentiamo on-line la trascrizione della conferenza tenuta presso il Centro Culturale L’Areopago, in collaborazione con l’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare, il 25 novembre 2005 dal prof.Paolo Di Giovine, ordinario di Glottologia e Linguistica presso l’Università degli Studi-La Sapienza di Roma e dalla prof.ssa Marianna Pozza, docente di Linguistica delle società dell’Università della Tuscia. Le due relazioni conservano il carattere di testi trascritti dalla viva voce degli autori.
L’Areopago
Prof.ssa MARIANNA POZZA
Buona sera a tutti. Innanzitutto vorrei ringraziare Paola, Danilo e Cinzia per
l’opportunità che ci hanno dato di essere qui stasera; per quanto
poi riguarda specificatamente me, posso dire che è davvero un onore essere
qui. Non si tratta della classica frase di circostanza che si dice in genere
in queste occasioni, ma di qualcosa di profondamente sentito. Colgo anche l’occasione
per esprimere veramente tutta la mia ammirazione per quello che Paola, Danilo
e Cinzia stanno facendo per questa Associazione e per tutti coloro che la sostengono.
Credo che i frutti di questo lavoro, di questa passione e di questo entusiasmo
- che nascono da un grande dolore - si incomincino a vedere, e si siano in realtà
già visti nei mesi precedenti attraverso le conferenze, la premiazione,
l’entusiasmo delle persone che ruotano attorno all’Associazione.
Alcuni di noi, alcuni di voi, tutti coloro che hanno avuto modo di ascoltare
le conferenze degli scorsi mesi, chissà, una volta tornati a casa, avranno
rispolverato dalla libreria “Guerra e pace” di Tolstoj, oppure la
“Recherche” di Proust o “I fiori del male” di Baudelaire
con l’intento di rileggerli: per qualcuno sarà rimasto solo un
proposito, per altri sarà,s invece, diventato realtà. Quello che
tuttavia è importante dire è che se soltanto in uno di noi si
è instillata una piccola goccia di curiosità, dopo una conferenza
del genere, vuol dire che a partire da questo lavoro si è ottenuto un
grande frutto. E’ stato inoltre molto bello aver partecipato tutti insieme,
numerosissimi, alla premiazione in Campidoglio dei finalisti di questa prima
edizione del Premio, lo scorso Settembre.
Prima di iniziare vorrei dire soltanto una cosa: non credo che sarei in grado, questa sera, di
ricordare Guido. No, non ne sarei proprio capace. Tuttavia ci tengo a dire una cosa, e
cioè che questa Associazione ricalca perfettamente, aderendovi, a quello che era il suo
spirito di insegnante e di persona che amava il sapere. Per essere un bravo insegnante e per
poter trasmettere agli altri, agli alunni, a delle persone, a dei ragazzi l’amore, la
voglia di imparare, non basta sapere, non basta avere una cultura - che nel caso di Guido era
comunque immensa - ma bisogna anche “saper fare” e “saper essere”.
Guido era tutte queste cose, sapeva trasmettere e affascinare le persone con cui parlava: tutti
coloro che hanno avuto l’opportunità di ascoltarlo, o gli ascoltatori di una
conferenza su “Perché leggere i classici” o i ragazzi che hanno avuto (al
Democrito) il privilegio di averlo per un anno come insegnante, gli studenti
dell’Università o anche gli amici con cui Guido aveva modo di parlare un po’
di tutto, credo fermamente possano essere considerati dei privilegiati, perché hanno in
sé - in eredità - questo piccolo germe, questo seme di conoscenza. A volte basta
poco per instillare la curiosità intellettuale, chiedendosi il perché e il
funzionamento delle cose, e, quindi, per conoscere. Questa è la cosa più bella,
ed è una caratteristica, una dote che Guido aveva e che era totalmente innata: sapeva
proprio incantare le persone, da questo punto di vista.
Detto ciò, cominciamo ad affrontare una tematica che spero risulterà per voi
interessante, e che mi auguro non vi annoierà, se non altro perché, in un certo
senso, si tratta di un ambito che forse per i più può risultare più
distante rispetto agli studi letterari in genere: cercheremo di affrontare un argomento
linguistico nel modo più interessante possibile, e parleremo quindi del rapporto fra la
parola detta, (la parola orale) e la parola scritta, e di come, dunque, la parola si
concretizza nella scrittura. La scienza che si occupa di studiare e di analizzare la lingua
è per l’appunto la linguistica che, un po’ come fanno in un certo senso i
chirurghi sui pazienti sul tavolo operatorio, si occupa di analizzare le parole, le frasi, la
struttura della lingua, sezionandola e poi ricostruendola per trovare una ragione al suo
interno. Il termine “glottologia”, più specifico, deriva dal greco
“glossa” che vuol dire lingua, e studia la lingua nella sua evoluzione nel tempo e
nello spazio, le parole e il loro sviluppo, il cambiamento del loro significato, le modifiche
che le consonanti, le vocali possono subire e paragona, mettendo a confronto, diverse lingue
classiche fra di loro per scovarne differenze e somiglianze, al fine, anche, di risalire alle
forme originarie più antiche delle parole stesse.
“Comunicare” vuol dire “mettere in comune”, quindi avere un patrimonio
da trasmettersi l’un l’altro, e, affinché ci sia comunicazione è
necessario che ci sia ovviamente qualcuno che emetta un messaggio - un emittente - e un
destinatario che ascolti ciò che viene emesso dall’emittente. C’è poi
il messaggio, che viene appunto a rappresentare ciò che viene messo in comune fra i due.
E’ chiaro che il rapporto fra la parola detta e la parola scritta non è un
rapporto biunivoco, cioè non è possibile una totale traduzione della parola detta
nella scrittura e viceversa. Quando noi parliamo, infatti, la parola è per così
dire “evanescente”: ad esempio, io sto pronunciando delle parole che voi
ricorderete grazie alla vostra memoria a breve termine (quella dei prossimi secondi o al
massimo minuti). Magari le ricorderete (spero...) anche una volta tornati a casa, sotto forma,
grosso modo, di “sintesi” di ciò che sarà stato detto. La parola
è, come dice Omero, “alata”. Vola, e quindi scompare nel momento in cui
viene pronunciata, è qualcosa che non si può toccare, qualcosa di intangibile e
come tale, ovviamente, si perde, mentre invece la scrittura permette una cristallizzazione, una
fissazione della parola su un supporto che può essere poi riguardato, riosservato nel
tempo.
La parola, e precisamente la parola detta, la parola parlata (l’oralità) è
prioritaria rispetto allo scritto: innanzitutto perché la scrittura è stata
inventata successivamente rispetto all’oralità e quindi a livello cronologico
l’uomo prima ha prima imparato a parlare e solo successivamente, in séguito alla
grande invenzione che è stata la scrittura, ha imparato a scrivere. Si è trattato
di una grande rivoluzione. La parola parlata, inoltre, risulta prioritaria rispetto allo
scritto perché, in genere, le culture scritte sono state anche precedentemente parlate,
mentre non necessariamente le culture orali sono dotate di una scrittura (pensiamo, che so,
alle culture aborigene, nelle quali i parlanti locali comunicano oralmente senza aver poi a
disposizione una scrittura, non fissando a livello scrittorio ciò che dicono).
E soprattutto, da un punto di vista più intuitivo, si impara prima a parlare e poi si
impara a scrivere; tra l’altro si impara a parlare in genere nei primi tre anni di
età, ascoltando, e quindi imparando attraverso l’ascolto. Si impara a scrivere se
si viene istruiti a farlo, quindi sui banchi di scuola o comunque sulla scrivania di casa, ma
si deve essere comunque istruiti affinché possa essere possibile fare questo. La
scrittura, quindi, prevede un insegnamento, un indottrinamento.
Inoltre la parola detta è più spontanea, tant’è che il parlare
è, in un certo senso, un qualcosa che prosegue quella che è la nostra naturale
respirazione; l’energia che noi impieghiamo per parlare non è, come dire,
un’energia “potente”, ma è abbastanza semplice, è abbastanza
naturale e, tra l’altro, l’apparato fonatorio e l’apparato respiratorio hanno
degli elementi in comune molto importanti. Secondo alcuni studiosi addirittura l’homo
“habilis” e l’homo “erectus” (stiamo parlando di periodi molto
molto antichi, risalenti a circa tre milioni di anni fa), sarebbero stati dotati di una forma
embrionale di linguaggio; è chiaro non si trattava di un vero e proprio linguaggio, ma a
livello embrionale probabilmente una comunicazione di un certo tipo esisteva. Questo si sarebbe
sviluppato più avanti con l’homo “sapiens”, da cui discendiamo noi
stessi, e, con il passare del tempo, la comunicazione orale si è sviluppata anche per
quello che riguardava la poesia, che, in una prima fase della sua esistenza fu trasmessa
oralmente.
Pensiamo per esempio all’antica India, ai territori del sub-continente indiano, dove
circa tremila anni fa, quindi nel secondo millennio avanti Cristo, cominciò a
svilupparsi una cultura che avrebbe poi dato origine a tutta una serie di scritti in una lingua
molto antica e ben organizzata che è il “sanscrito” che, dal punto di vista
linguistico è fondamentale, insieme al latino e al greco, nella comparazione di queste
lingue originarie. Per l’appunto in India, grande importanza aveva ovviamente
l’aspetto religioso, per cui ci sono stati tramandati dei testi, chiamati
“Veda”, (termine che significa “conoscenza”, quindi
“sapienza”).Queste raccolte di testi religiosi - che altro non erano che raccolte
di inni sacri - dovevano essere ripetute in modo rituale e continuo nelle occasioni, per
l’appunto, religiose.
Per secoli, per millenni, sono stati tramandati oralmente fino alla fissazione che sarebbe
avvenuta agli albori dell’era cristiana. Questo è molto importante perché
fa capire come non solo la tecnica mnemonica fosse chiaramente molto sviluppata: era necessario
imparare a memoria, ricordare anche dei passi molto lunghi, un po’ come si tendono a
ricordare le preghiere in modo rituale. La cosa importante è che questi testi erano
trasmessi oralmente anche perché avevano un valore, per così dire eterno,
increato. Era come se fossero - per chi appunto li pronunciava - un qualcosa di rivelato, una
sorta di autorivelazione, e per questo dovevano rimanere orali per essere, in un certo senso,
anche astratti, un qualcosa che non poteva avere una fissazione stabile, cosa che sarebbe
avvenuta in un secondo momento.
Era importante che fossero ricordati a memoria perché si riteneva che il rito avesse
effettivamente efficacia solo se tutti questi passaggi rituali venivano pronunciati nel modo
corretto. Immaginate quindi un sacerdote che in un determinato momento, tenendo una coppa
riempita con una determinata sostanza, doveva pronunciare in quel preciso istante, in quel
modo, con quel ritmo e quella tonalità quella determinata formula affinché il
sacrificio avesse effettivamente efficacia. Se si fosse dimenticato qualche cosa o avesse preso
una “papera”, se così possiamo dire, il rito probabilmente non avrebbe avuto
la stessa efficacia e la divinità non sarebbe stata soddisfatta da questo punto di
vista. Quindi pensate che per secoli, nell’ambito religioso, questi inni sacri
dell’antica India venivano continuamente ripetuti a memoria e poi soltanto in un secondo
momento sarebbero stati fissati.
Se ci riflettete è la stessa cosa che avvenne con la Grecia antica. Sapete che
l’Iliade e l’Odissea sono i due grandi pilastri della letteratura occidentale e che
la critica ha a lungo disquisito sull’esistenza o meno di Omero: ci si è chiesti
se Omero fosse in realtà esistito, se Omero sia l’autore dell’Iliade e
dell’Odissea o soltanto di parti di esse, se effettivamente fosse esistita una sola
persona capace di comporre dei poemi di così grande mole, e così via, tanto che
gli studiosi si sono fatti molte domande al proposito. La cosa anche in questo caso
interessante, però, è che appunto a partire dall’ottavo secolo avanti
Cristo, quando i poemi omerici cominciarono ad essere trasmessi oralmente, questi venivano
trasmessi in contesti per così dire “collettivi”. Nel senso: quando
l’aedo, appunto il cantore, cantava di fronte ad un pubblico questi poemi, cantava in un
contesto “globale”, in cui l’ascolto rivestiva un ruolo fondamentale: si
può parlare infatti di una società di tipo, oltre che orale, anche
“aurale” perché appunto l’orecchio, l’udito avevano
un’importanza enorme. Ascoltare la ripetizione delle vicissitudini di Achille o di
Odisseo nel suo ritorno in patria, era un qualcosa che non era solo interessante dal punto di
vista, per così dire, della vicenda, non era tanto “importante” cosa
accadeva ad Odisseo o cosa accadeva ad Achille, quanto il fatto che questi poemi trasmettevano
una cultura generale, trasmettevano tutta una serie di sedimentazioni che nel corso dei secoli
si erano sviluppate, per insegnare a vivere, all’interno della comunità, secondo
tutta una serie di regole comuni.
Il fatto che nei poemi omerici, per esempio, ci fossero le descrizioni di come doveva avvenire
un matrimonio, quali dovevano essere i procedimenti per la vestizione di un guerriero o come
dovesse svolgersi un funerale, i giochi funebri in onore di un morto, ecc. testimonia che
questi erano tutti elementi di un patrimonio collettivo che venivano imparati proprio
attraverso l’ascolto. Gli aedi erano dei cantori e componevano, per poi cantare,
ciò che dovevano trasmettere: in un certo senso, anche se ovviamente il paragone
è totalmente azzardato e anacronistico, possiamo dire, potrebbero essere paragonati ai
nostri attuali cantautori, a coloro, cioè, che scrivono una canzone e poi la cantano.
E’ chiaro che non possiamo paragonare, ovviamente, Claudio Baglioni ad Omero...Cerchiamo
però di immaginare che colui che scriveva un’opera e che poteva poi
automaticamente cantarla oralmente, raccontarla attraverso la semplice parola agli altri, aveva
un grandissimo dono: quello di entrare in sintonia con tutto il pubblico che l’ascoltava.
Potrebbe sembrarci forse abbastanza banale; mentre in realtà si veniva a creare una
sorta di empatia, una sorta di emozionalità collettiva fra colui che parlava, che era
l’aedo, il cantore, e gli ascoltatori. Spesso infatti accadeva che quando la parola detta
veniva pronunciata, questo avvenisse in occasioni particolari e magari quando la
collettività era riunita per un’occasione specifica e quindi ci si sentiva parte
integrante di un sistema, ci si sentiva un nucleo, un gruppo, in grado di condividere stati
d’animo e conoscenza. L’udito aveva perciò un’importanza fondamentale
nell’ascolto della parola.
La parola detta, per l’appunto, è una parola che, come ricordato in apertura,
è evanescente, e vola, scompare nel momento in cui viene pronunciata in modo tale che, a
meno che non ci sia un registratore, come in questo caso, o una videocamera o qualcuno che
prenda appunti, scompare totalmente. Per fare un esempio potrei ricordare Cratilo - un seguace
di Eraclito - che sosteneva che era impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: questa
metafora è molto interessante perché possiamo associarla bene al discorso della
parola. Cratilo sosteneva che se una persona si immerge in un fiume, l’acqua che
scorrerà sulla sua pelle sarà diversa da quella che scorrerà un secondo
dopo, ci saranno, tanto per fare un esempio, altri organismi che scorreranno tra i flutti,
oppure in quel momento, che so, potrà passare un pesce, ci sarà magari un ramo,
in acqua, la persona sarà diversa, “invecchiata”, anche di un secondo, si
sarà abituata meglio alla temperatura dell’acqua. Tutto, sostanzialmente,
sarà diverso. Quindi lo scorrere di quel fiume, in quel determinato istante, sarà
diverso rispetto al suo scorrere di qualche minuto prima. E lo stesso ragionamento può
esser fatto nel caso della parola detta. Se io adesso, per esempio, imparassi a memoria il
discorso che sto facendo a voi questa sera, e lo ripetessi domani o tra un’ora a qualcun
altro, le mie espressioni facciali sarebbero diverse, il mio modo di gesticolare, pur rimanendo
nel complesso lo stesso, risulterà associato a diversi momenti del mio eloquio, il mio
uditorio sarebbe diverso, magari prenderei una “papera” di un tipo adesso, e una
“papera” di un altro tipo tra poco. Anche l’intonazione delle parole sarebbe
differente, mentre invece, quando abbiamo a che fare con un testo scritto, abbiamo di fronte,
tutto sommato, qualcosa di esterno a noi, che noi osserviamo, dall’esterno, su un
supporto ed è come dire un po’ più elaborato, decodificato dal nostro
cervello, mentre fondamentalmente la parola ascoltata e la parola detta cambiano in
continuazione.
A ciò che noi diciamo e che abbiamo fin qui definito parola detta, vengono associati
tutta una serie di elementi importanti come la gestualità, l’intonazione, le
espressioni facciali, tutta una serie di ripetizioni, di richiami,propri, per l’appunto,
del canale “orale”, piuttosto che di quello scritto; esistono infatti diverse
scienze che si occupano, tra le altre cose, di analizzare il rapporto fra colui che parla e
l’uditorio. Possiamo citare la paralinguistica, la cinetica, la prossemica, che studiano
i movimenti e i gesti che facciamo attraverso il nostro corpo, nel momento in cui parliamo, o
che prestano attenzione alla velocità dell’eloquio e all’intonazione. La
prossemica, ad esempio, è la scienza che studia come l’individuo si pone nello
spazio nel momento in cui parla, nel momento in cui comunica. Questa scienza distingue diversi
tipi di distanze comunicative: esiste una distanza che in genere si chiama
“intima”, e che si verifica quando fra i due interlocutori che comunicano oralmente
c’è una distanza che va dagli 0 ai 45 cm. E’ chiaro che, dato che una
distanza di 45 cm. può considerarsi piuttosto esigua, si può associare a una
situazione linguistica che abbia come protagonisti, ad esempio, due innamorati o una mamma e un
bambino che si sussurrano delle parole sottovoce, o comunque due interlocutori in confidenza
reciproca. In questa situazione il tono di voce sarà più sommesso, più
sussurrato, e ci sarà un’intesa maggiore attraverso i gesti, attraverso tutta una
serie di altri aspetti che vanno al di là della semplice lingua.
Esiste poi una distanza definita “personale”, che va dai 45 cm. - più o
meno - ad un metro e 20, che in genere si instaura fra persone che comunicano
“normalmente”, in una situazione “standard”, di conoscenza anche di
tipo “sommario”. La distanza chiamata “sociale” è quella che
prevede una vicinanza, tra gli interlocutori, fissata fra un metro e 20 e 3 metri e 60 circa,
che è quella, riscontrabile qui tra noi questa sera, che si realizza, ad esempio, nel
caso in cui ci si trovi in un’aula di scuola, o all’università o a una
conferenza: in questo caso il tono della voce risulterà un po’ più alto,
l’oratore dovrebbe cercare di parlare un po’ più lentamente, si
cercherà di avvalersi di frequenti ripetizioni affinché il messaggio venga
recepito più chiaramente dagli ascoltatori, e così via. Infine esiste una
distanza “pubblica”, che supera i tre metri e 60 ed è tipica dei comizi,
delle conferenze ad alto livello, a livello pubblico, in cui chiaramente è necessaria la
presenza del microfono, o di eventuali supporti audiovisivi, utili alla ricezione chiara del
messaggio.
Potete quindi notare che, anche a seconda della “distanza comunicativa” e dei
rapporti interpersonali che si stabiliscono fra chi parla e chi ascolta, subentrano tutta una
serie di aspetti di natura “psicologica” e “sociale” molto
interessanti.
Nel caso della tradizione orale, come dicevamo prima, e quindi nel caso di Omero, dobbiamo
pensare che l’Iliade e l’Odissea erano fondamentalmente imparate a memoria: si
tratta di poemi che furono creati oralmente e furono trasmessi oralmente per secoli, fino poi
ad essere fissati, abbiamo detto, su un supporto che “restava”, un supporto di tipo
“materiale”, in grado di archiviare le parole poetiche. Tutti immaginiamo che
imparare a memoria queste migliaia di versi era molto molto complicato: pur essendo vero che
non tutti sapevano sicuramente a memoria i poemi omerici, è altrettanto vero che chi li
cantava doveva possedere delle tecniche mnemoniche per poterli ricordare. Sono stati condotti
diversi studi, intorno ai primi decenni del 1900, ad opera, fra gli altri, di studiosi come
Milman Parry, che si occupò di studiare quelle che furono considerate delle cosiddette
“mnemo-tecniche”, ovverosia le tecniche per imparare a memoria i poemi di corposa
lunghezza. Milman Parry si recò anche nelle zone della ex Jugoslavia e andò a
studiare la vita e le tradizioni dei “guslari”, cantori nomadi abituati ad imparare
a memoria una quantità notevole di versi. Fu notato un fatto piuttosto importante, nella
“recitazione” dei poemi ad opera dei guslari: ad esempio, furono messi in luce
delle sequenze narrative che fungevano da “appiglio”, e che risultavano ricorrenti
nello sviluppo della trama. Il nucleo centrale del racconto doveva essere fisso; quindi, in
genere, non risultava tanto importante la scansione cronologica dei fatti, quanto piuttosto che
si partisse da un nucleo centrale, per esempio l’ira di Achille nell’Iliade, il
ritorno di Odisseo ad Itaca nell’Odissea, e che, attorno a questo nucleo, si costruisse
tutto il resto del racconto. Era poi importante che ci fossero degli elementi che potessero
fungere, per così dire, da “riempitivi”.
Voi sapete forse che l’Iliade e l’Odissea sono state composte appunto in un metro
chiamato “esametro”, caratterizzato da una certa musicalità, quindi da un
ritmo musicale ripetitivo che faceva sì che le parole potessero essere anche ricordate
piuttosto bene: pensate a quando dobbiamo ricordarci le parole di una canzone che non
ascoltiamo da tanto tempo: a volte basta che ci torni in mente la melodia, grazie alla quale ci
è più facile ricordare la rima o le parole che ci mancano. La stessa cosa poteva
avvenire nel caso dell’Iliade e dell’Odissea, o comunque nei poemi epici in
generale; grazie appunto al fatto che i versi avevano un determinato ritmo, e sapendo che in
alcuni punti ci si aspettava la presenza di determinate parole, determinati
“epiteti” (gli epiteti sono degli aggettivi che si aggregavano, si univano al nome
del personaggio che doveva essere qualificato, pensate alle classiche espressioni
“Achille dal piè veloce”, “Odisseo dal multiforme ingegno”,
“Aurora dalle dita di rosa”, ecc.), era possibile, al cantore, avere dei
“punti di riferimento” mnemonici per “risvegliare” la propria memoria.
Questi epiteti, questi aggettivi che andavano a qualificare il personaggio erano importanti
perché spesso riempivano il verso laddove mancava quel qualcosa perché il verso
potesse risultare completo, e quindi essere ricordato nella sua interezza. Erano poi presenti
delle espressioni cosiddette “formulari”: per esempio, se si doveva raccontare che,
ad un certo punto dello svolgimento dei fatti, un personaggio si trovava a fare un certo
discorso, o iniziava a parlare, il cantore aveva a disposizione diverse strutture, che potevano
essere di diverso tipo, come, che so: “egli disse questa cosa”, “sostenne
questo”, “a un certo punto disse”, “proruppe dicendo”, e
così via, ossia avvalersi di un costrutto formato da un preciso numero di sillabe che
rientrava perfettamente nella “economia strutturale” del verso stesso, e che veniva
selezionato a seconda del numero di sillabe che era necessario coprire per completare il verso.
Abbiamo già avuto modo di ricordare quale grande importanza rivestisse l’udito in
questo tipo di fruizione orale del testo. Contestualmente un ruolo fondamentale era quello
svolto dalla “concretezza” dei riferimenti testuali, cioè il fatto che
nell’oralità, nella trasmissione culturale orale, si tramandavano elementi
concreti, elementi della vita reale, elementi non astratti, metafisici, estranei, ma elementi
concreti che la collettività sentiva come propri.
Rispetto allo scritto, quindi, le differenze che stiamo cominciando a notare sono: la parola
orale, quindi la parola detta fa ricorso e si appiglia prevalentemente all’udito, quindi
all’ascolto, all’orecchio, mentre la parola scritta, in genere, si avvale invece
della vista e la vista risulta essere un po’ “distanziatrice” rispetto
all’udito, perché per vedere qualcosa, specialmente poi se si tratta di qualcosa
di scritto, ci troviamo di fronte a un supporto materiale a noi esterno, che possiamo scegliere
di decodificare nel momento che preferiamo, mentre l’udito è più
globalizzante, riempie di più l’uditorio ed è più complesso rispetto
alla semplice vista. Nel linguaggio parlato, nel linguaggio orale, quale era per
l’appunto quello dell’epica omerica, in genere le frasi erano strutturate in modo
“paratattico”, quindi c’erano delle frasi coordinate tra loro in modo
più o meno semplice, allo scopo di evitare una complessa subordinazione, di più
difficile interpretazione, cosa che invece la scrittura può più liberamente
permettersi: in quest’ultimo caso, in effetti, abbiamo la possibilità di tornare
indietro, di rileggere quello che non abbiamo capito, reinterpretare nuovamente un passaggio
non del tutto chiaro alla luce del contesto subito successivo, ecc.
Nell’ambito della parola detta, invece, rientrano tutta quella serie di aspetti citati
poco fa, come la gestualità, l’espressione, i riempitivi, l’intonazione, gli
intercalari, e così via, tutti elementi che servono a colui che parla per cercare di
accattivarsi la benevolenza del pubblico o far capire meglio quello che intende dire.
Chiaramente quando poi fu inventata la scrittura e soprattutto quando la scrittura
cominciò ad essere utilizzata in letteratura, in poesia, in filosofia, questo
rappresentò all’inizio un po’ una “rivoluzione” vera e propria,
specialmente per i filosofi, che erano abituati a ragionare, pensare, trasmettere il patrimonio
culturale in un modo orale, non in un modo scritto: In effetti, per esempio, Platone, vissuto
nel V secolo a. C., allievo di Socrate, in un dialogo che è citato nel vostro opuscolo
cui tra poco daremo un’occhiata, critica la scrittura, ponendosi nei suoi confronti con
un atteggiamento piuttosto deciso, perché la considera come qualcosa che non ci
può rispondere, qualcosa che è inerte, che si trova lì, che noi possiamo
leggere, possiamo vedere, ma alla quale, in sostanza, non possiamo chiedere nulla, che non
può rispondere alle nostre domande, dalla quale non possiamo aspettarci qualcosa di
più. Queste riflessioni Platone le fa in uno dei suoi dialoghi più famosi, il
“Fedro” che, proprio in quanto scritto in forma dialogica, rappresenta un genere
letterario un po’ diverso rispetto all’epica o rispetto, che so, a un trattato
storico o a un romanzo: il dialogo, infatti, già di per sé è una forma
letteraria molto particolare perché presuppone dei personaggi che si parlano secondo un
ritmo, una tempistica piuttosto simile a quella del “tempo reale”, l’assenza
di formule ed espressioni verbali che introducano i vari discorsi, come “disse”,
“rispose” e via dicendo, etc. Un po’ come nel caso del teatro, abbiamo a che
fare con dei “botta e risposta” che fanno avvicinare tale genere letterario,
più degli altri, al linguaggio parlato.
Inviterei ora Giulia Bottaro a leggere il passo che c’è nell’opuscolo a
pagina 6, in cui Platone critica questo nuovo sistema di scrittura, facendo parlare Socrate, il
protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi.
Dal Fedro di Platone
“Socrate: Ho udito, dunque, che nei pressi di Naucrati d'Egitto c’era uno degli
antichi dèi locali, di nome Theuth, al quale apparteneva anche l’uccello sacro
chiamato Ibis. Fu appunto questo dio a inventare il numero e il calcolo, la geometria e
l’astronomia e, ancora , il gioco del tavoliere e quello dei dadi , e soprattutto la
scrittura. Regnava a quel tempo su tutto l' Egitto Thamus, che risiedeva nella grande
città dell’ Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe e il cui dio chiamano Ammone.
Recatosi al cospetto del faraone, Theuth gli mostrò le sue arti e disse che occorreva
diffonderle tra gli altri Egizi. Quello allora lo interrogò su quali fossero le
utilità di ciascun'arte, e mentre Theuth gliele spiegava, il faraone criticava una cosa,
ne lodava un' altra, a seconda che gli paresse detta bene o male. Si dice che Thamus abbia
espresso a Theuth molte osservazioni sia pro sia contro ciascuna arte, ma riferirle sarebbe
troppo lungo. Quando Theuth venne alla scrittura disse: “Questa conoscenza, o faraone,
renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare: è stata
infatti inventata come medicina per la memoria e per la sapienza". Ma quello rispose:
"Ingegnosissimo Theuth, c' è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di
giudicare quale danno e quale vantaggio comportano per chi se ne avvarrà. E ora tu,
padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò che essa è
in grado di fare. Questa infatti produrrà dimenticanza nelle anime di chi l'avrà
appresa, perché non fa esercitare la memoria. Infatti, facendo affidamento sulla
scrittura, essi trarranno i ricordi dall’esterno, da segni estranei, e non
dall’interno, da se stessi. Dunque non hai inventato una medicina per la memoria, ma per
richiamare alla memoria. Ai discepoli tu procuri una parvenza di sapienza, non la vera
sapienza: divenuti, infatti, grazie a te, ascoltatori di molte cose senza bisogno di
insegnamento, crederanno di essere molto dotti, mentre saranno per lo più ignoranti e
difficili da trattare, in quanto divenuti saccenti invece che sapienti (...)
C’è un aspetto strano che in realtà accomuna scrittura e pittura. Le
immagini dipinte ti stanno davanti come se fossero vive, ma se chiedi loro qualcosa, tacciono
solennemente. Lo stesso vale pure per i discorsi: potresti avere l’impressione che
parlino, quasi abbiano la capacità di pensare, ma se chiedi loro qualcuno dei concetti
che hanno espresso, con l’intenzione di capirlo, essi danno una sola risposta e sempre la
stessa. Una volta che sia stato scritto poi, ogni discorso circola ovunque, allo stesso modo
fra chi capisce, come pure fra chi non ha nulla a che fare e non sa a chi deve parlare e a chi
no. E se è maltrattato e offeso ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto
dell’autore, perché non è capace né di difendersi né di
aiutarsi da solo”.
Dunque, come vedete, nel passo che ci è stato appena letto da Giulia, attraverso le
parole di Socrate, è Platone che sta ovviamente parlando, sta criticando la scrittura
considerandola un qualcosa di inerte, qualcosa che non risponde, qualcosa di simile a un quadro
che noi possiamo solo guardare, a un’opera scultorea noi possiamo ammirare, di cui
possiamo fruire con tutti noi stessi, ma con la quale, tuttavia, non possiamo comunicare, non
potendogli “porre domande”. Ora è vero che potrebbe sembrare anche una
contraddizione il fatto che Platone critichi tanto la scrittura, ma poi di questa si avvalga
per scrivere i propri dialoghi. In realtà si aprirebbe un discorso troppo lungo per
poter essere affrontato questa sera, ma sicuramente questa critica di Platone è una
critica in genere verso un tipo di insegnamento dottrinale che è diverso rispetto a
quello a cui era abituato, quello, cioè, del continuo dialogo, continuo inserimento del
dubbio nell’altro, affinché l’altro potesse giungere alla conoscenza, quindi
un continuo entrare in contatto con l’interlocutore per giungere alla verità. Si
tratta quindi di una forma di polemica che usa la scrittura per polemizzare contro
qualcos’altro, di più grande. Certo è che la scrittura viene considerata
qualcosa che assomiglia a una medicina, utile per richiamare la memoria, e quindi qualcosa che,
tutto sommato, non aiuta la memoria ad attivarsi e ad esercitarsi, quanto ne causa
irrimediabilmente la perdita, proprio perché ci abituerà ad avere qualcosa di
fronte a cui possiamo appigliarci quando dimentichiamo le cose.
Dal punto di vista letterario, oltre ai romanzi o ai saggi, alle guide turistiche, o a un
certo tipo di testi scritti, che sembrerebbero avere un rapporto oggettivo con la lingua o la
scrittura, ci sono dei testi, invece, che sono mimetici del parlato, come i dialoghi, le
poesie, i testi teatrali, cioè tutti quei testi che, pur essendo ovviamente scritti,
cercano di rappresentare il più da vicino possibile la lingua parlata. Questi possono
essere in parte anche i testi dialogici che, per l’appunto, presentano questi
“botta e risposta” tra i personaggi senza che ci siano necessariamente, come detto
poc’anzi, verbi che stanno a spiegare ogni volta chi sia a parlare. Pensiamo poi ai testi
teatrali che sono sì scritti, ma per poi essere rappresentati sulla scena e che sono
caratterizzati, per loro natura, da una tipologia strutturale diversa da quella che potremmo
riscontrare in un romanzo. Allo stesso modo la poesia, da questo punto di vista, risulta molto
evocativa, perché, in quanto micro-testo in cui si devono comunicare tutta una serie di
sensazioni ed emozioni e si deve cercare di lasciare spazio all’autore di rappresentare e
di dare la sua interpretazione del reale, sono i testi che spesso presentano una serie di
elementi che possono far pensare al parlato e soprattutto, più che al parlato, evocare
quelle che sono le situazioni circostanti, il mondo che ci circonda, attraverso un mezzo come
quello della scrittura.
Ci sono delle poesie, che fra poco leggeremo sempre grazie a Giulia (nel caso specifico ne
sono state scelte due, una di Montale, l’altra di Pascoli), che risultano essere molto
evocative dal punto di vista dello stile. Gli autori, cioè, hanno scelto delle parole
che potessero il più possibile far riferimento ad elementi della natura circostante,
quindi potessero essere delle parole in grado di evocare dei rumori della natura: in genere
queste parole si chiamano parole “onomatopeiche”. Pensiamo a quando usiamo delle
parole come “scricchiolare”, “sgranocchiare”, “tintinnio”,
etc. Sono tutte parole che in un certo senso è come se avessero in sé, ci
trasmettessero la sensazione del rumore che in effetti si produce quando sgranocchiamo un pezzo
di pane o ascoltiamo il suono proveniente da un campanello; ancora, pensiamo anche alla
riproduzione di alcuni versi di animali come “chicchirichì”,
“coccodè”, che cercano di riprodurre il più fedelmente possibile i
suoni della natura. Questo tentativo di trasporre in un testo scritto tutta una serie di
elementi “esterni”, funzionali a far comprendere appieno le sensazioni
dell’io lirico, avviene spesso in modo specifico e voluto proprio in alcune poesie,
quando l’autore, pur riuscendo a mantenere l’autenticità delle sensazioni,
facendole apparire spontanee, vere, riesce, sapientemente, attraverso il ricorso e la sequenza
di determinate vocali o di determinate consonanti, a darci l’idea di quello che si trova
intorno a noi, di quella che è la nostra realtà esterna. Chiamerei a questo punto
nuovamente Giulia a leggerci le due poesie che sono state inserite nell’opuscolo a pagina
5.
Meriggiare pallido e assorto, Eugenio Montale
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Notte di vento, G. Pascoli
Allora sentii che non c'era,
che non ci sarebbe mai più...
La tenebra vidi più nera,
più lugubre udii la bufera...
uuh...uuuh...uuuh...
Venìa come un volo di spetri,
gridando ad ogni émpito più:
un fragile squillo di vetri
seguiva quelli ululi tetri...
uuh...uuuh...uuuh...
Oh! solo nell'ombra che porta
quei gridi... (chi passa laggiù?)
Oh! solo nell'ombra già morta
per sempre... (chi batte alla porta?)
uuh...uuuh...uuuh..
Allora, vedete, nella bella interpretazione delle due poesie che ci ha regalato Giulia, e in
particolar modo in quella di Pascoli, in “Notte di vento”, si percepisce come sia
importante il valore della parola e tutti i suoni che sono stati scelti appositamente
dall’autore per evocare, rappresentare, trasmetterci determinate sensazioni. E’
chiaro che le avremmo provate allo stesso modo se avessimo letto mentalmente ciò che ci
trovavamo di fronte, ma sicuramente ascoltarli letti ad alta voce ci provoca un effetto
diverso, perché sentiamo, percepiamo più chiaramente il corpo fonico della
parola. In “Meriggiare pallido e assorto” notiamo come una serie di termini come
“sterpi”, “frusci”, “serpi”, risultino particolarmente
evocativi: il fatto che siano state scelte delle vibranti o delle sibilanti ha lo scopo di
darci l’idea di questo strisciare delle serpi, dei serpenti, che si trovano in questa
natura secca ed essiccata dai raggi del sole. Anche in “Notte di vento”, forse
ancor più che nel testo montaliano, si nota in maniera piuttosto evidente il valore
simbolico delle vocali o delle parole stesse. Pensate al ritornello, in cui si evoca il rumore
della bufera e del vento attraverso una vocale chiusa come la “u”. Se ci pensate
è come una sorta di evocazione di un linguaggio orale: in un testo scritto come una
poesia viene rappresentato un suono della natura, o comunque un suono che potrebbe essere
riprodotto da un essere umano, da Giulia come ha fatto poco prima, aiutato dai puntini di
sospensione che ci danno l’idea di questa lentezza, di questo passaggio graduale di
questa bufera; o il fatto che ci siano le parentesi con tutti questi punti interrogativi, il
fatto che Pascoli immagini di notare un’ombra in questo buio e ricordi alcuni fatti della
sua infanzia chiedendosi “chi passa laggiù, chi batte alla porta?”... Queste
domande fra le parentesi sono tutti espedienti tipici di un linguaggio parlato, o
caratteristici di un linguaggio parlato che compaiono specificamente in un testo scritto.
Come elemento tipico del parlato c’è sicuramente anche quello caratteristico di
una serie di linguaggi, che normalmente vengono detti “gerghi”. Pensate a quanto il
linguaggio giovanile o il linguaggio di alcuni settori specifici, come per esempio il
linguaggio della malavita, o il linguaggio dei carcerati, siano dei linguaggi che restano
soltanto orali, e che cioè difficilmente possono essere scritti; quelli che vengono
definiti “gerghi” sono dei linguaggi utilizzati da un contesto stretto di persone
che hanno condiviso un ambiente con delle caratteristiche simili e che si sentono parte
integrante di tale piccolo ambiente. Il termine “gergo”, infatti, deriva
dall’antico francese “jargon” che vuol dire gorgheggiare. Il gorgheggiare
degli uccelli è per l’appunto un qualcosa di incomprensibile e il fatto che spesso
il linguaggio dei giovani possa essere considerato un gergo è importante perché
si tratta di un linguaggio tipico di un microcosmo di giovani, che adottano delle strategie
comunicative di diverso tipo rispetto a quelle della lingua standard degli adulti, sia per non
essere compresi (esigenza di segretezza) che per fare forza comune (esigenza di aggregazione),
per sentirsi un gruppo compatto e spesso anche per sdrammatizzare sulle cose.
Nel caso dei gerghi, parlate che restano orali, un’importanza fondamentale è
quella rivestita dal rapporto con la lingua standard: pensiamo a quando i ragazzi tendono ad
abbreviare le parole (professore diventa “prof”, ragazzi diventa
“raga”, ecc.), oppure all’uso dei cosiddetti “forestierismi”,
ossia di parole provenienti dalla lingua inglese (o da altre) che vengono utilizzate e per
così dire “italianizzate”, adattate alla nostra lingua (come per esempio il
termine “flesciare”; l’espressione “ho flesciato”, nel senso ho
avuto un flash, ho avuto un abbaglio, quindi un improvviso choc). Oppure spesso i giovani fanno
uso di metafore tipiche della lingua standard (“quella donna è un canotto”,
nel senso che è “rifatta”, risultando “gonfia” come un canotto),
o ricorrono a veri e propri “tecnicismi”: pensiamo al classico termine
“rimorchiare” (che però è un tecnicismo perché deriva
ovviamente dal rimorchiare dei TIR), o alla definizione di una persona come
“amorfa”: anche questo è un tecnicismo perché il termine amorfo
deriva dal greco “morphé” che vuol dire forma, e quindi chi è amorfo
e qualcuno privo di una forma precisa e quindi di conseguenza considerato un po’ diverso,
strano.
I gerghi rappresentano quindi una testimonianza molto importante per quel che riguarda la
lingua orale perché restano tipici del linguaggio parlato: è difficile che
possano essere scritti se non ovviamente attraverso l’invio di SMS o di simili strumenti
di comunicazione “immediata”: si tratta in effetti di un sottocodice linguistico,
non certo di tipo letterario.
Lascerei ora la parola al Prof. Di Giovine, prima però leggerei molto velocemente,
praticamente alla velocità della luce, un passo che troviamo nel nostro opuscolo alle
pagine 12 e 13. Si tratta di una divertente invenzione di Achille Campanile, scrittore di testi
in genere umoristici, che ha immaginato una sorta di discorso fra due antichi egiziani che per
l’appunto comunicavano attraverso i geroglifici, immaginando che un innamorato abbia
voluto scrivere una lettera d’amore ad una ragazza per tentare di conquistarla e che
questa ragazza abbia frainteso tutto leggendo i geroglifici in modo completamente diverso
rispetto a quanto voluto dal giovane. Questo passo è interessante sia perché
credo possa risultare abbastanza divertente, ma anche perché fa capire come
effettivamente una lettura di un’immagine, di un disegno, di un simbolo, possa prestarsi
a diverse interpretazioni, diversamente dalla scrittura alfabetica, quindi dalla scrittura a
cui siamo abituati, e che, in linea di massima, a parte qualche caso di equivoci non è
difficilmente interpretabile.
Allora, senza leggere l’introduzione - altrimenti perderemmo troppo tempo - vediamo
direttamente come il nostro egiziano Ramesse decide di scrivere questa lettera d’amore
nei confronti della fanciulla che ha visto un giorno passare da quelle parti. Le dirò,
fece, soave fanciulla e disegnò …..
Prof. PAOLO DI GIOVINE
Probabilmente molti di voi immagineranno che io, magari abituato a parlare davanti ad un
pubblico, mi senta tutt’altro che emozionato, e invece non è così. Per due
ragioni. Prima di tutto per l’occasione, perché anch’io ho avuto occasione e
modo - per troppo breve tempo! - di conoscere Guido, e un po’ anche perché,
insieme alla collega che ha parlato prima di me, Marianna, mi sento anch’io in qualche
modo responsabile di rendere digeribile una disciplina che potrebbe apparire,
dall’esterno, piuttosto oscura, poco permeabile alla comprensione: mi piacerebbe invece
che dopo questa chiacchierata qualcuno di voi avesse curiosità di approfondire
ulteriormente che cosa sia la “linguistica”.
Vengo all’argomento che in qualche modo mi sono ritagliato, quando abbiamo diviso la
conferenza strutturandola in due parti, e in particolare vorrei parlare della scrittura. Quel
momento della introduzione della scrittura che è molto importante da un punto di vista
anche storico, perché segna il confine tra preistoria e storia: la preistoria per
convenzione è tutto ciò che precede la prima documentazione scritta in ciascuna
delle società evolute nel corso del tempo. Dunque è proprio il criterio della
scrittura, della documentazione scritta, a costituire il discrimine tra i due momenti:
preistoria, prima del primo documento scritto, storia, successivamente. La scrittura, noi
comunemente immaginiamo che incominci con la creazione dell’alfabeto che, nella nozione
vulgata, nella nozione comune giunse in Grecia portato dai Fenici. In realtà nasce molto
prima.
Intanto, che cosa dobbiamo intendere per scrittura in senso stretto? Naturalmente i primi tipi
di scrittura sono dei disegni, e tuttavia quando il disegno deve essere interpretato e non
letto siamo ancora in presenza di un messaggio globale che non può essere definito in
senso stretto “scrittura”. In questo caso convenzionalmente si usa il termine di
“pre-scrittura”, vale a dire una comunicazione nella quale il disegno convoglia
complessivamente l’intero messaggio, non è articolabile in parti successive, non
ci sono disegni singoli per ogni concetto, ma è un’indicazione globale da
interpretare, non da leggere. Un esempio, credo abbastanza divertente, di pre-scrittura
è quello che trovate a pagina 8 del fascicolo, la cosiddetta “Lettera
d’amore Yukaghira”. Naturalmente una lettera d’amore susciterebbe attese di
trovare cuoricini magari infranti da qualche freccia, e invece nulla di questo, anzi si tratta
in realtà di un messaggio abbastanza oscuro, poco chiaro, che non sarebbe stato
interpretabile se non fosse stata fornita l’autentica lettura, l’autentica
interpretazione ancor più che lettura, da parte di coloro che l’avevano creato.
Yukaghira fa riferimento ad una popolazione della Siberia orientale, e questo documento risale
ad un periodo piuttosto recente: sembra strano parlare di pre-scrittura non in rifierimento a
una lontana preistoria, molti millenni prima dell’era cristiana. In realtà questo
documento risale alla metà dell’’800 ed è stato pubblicato nel 1895
da uno studioso russo di nome Shargorodskij, pubblicato ed interpretato. E’ talmente
singolare, che molti ne hanno messo in dubbio l’autenticità, anche se in
realtà sembrerebbe ormai acclarata la effettiva autenticità di questo testo.
Nella figura notate immediatamente degli alberi: gli alberi in una zona siberiana
rappresentano un elemento fondamentale, e, per una metafora che è facilmente intuibile,
rappresentano anche forme di vita e nel caso nostro individui. Naturalmente ci possiamo
domandare quali siano gli uomini e quali le donne, nel caso specifico, perché si tratta
di alberi piuttosto amorfi, non hanno particolarità molto evidenti. Non badate
naturalmente né alle lettere maiuscole ai piedi degli alberi, né ai segni che
convenzionalmente indicano il genere maschile o femminile: sono naturalmente segni esplicativi
apposti nell’edizione. Le donne sono caratterizzate da dei puntini che sono qui indicati
per comodità con la lettera “r” minuscola, sul lato destro dei due alberi
qui etichettati con A e C. I puntini indicano convenzionalmente che si tratta di individui
femminili, di donne, gli altri due, B e D, sono uomini,. Il messaggio è opera
dell’albero, cioè della donna A, e qui appare l’aspetto più
interessante della rappresentazione grafica, perché è un modo originale di cercar
di veicolare, di comunicare un qualcosa. Naturalmente ci si può chiedere perché
nasca questo messaggio. Perché si tratta di una società - in questi casi si parla
di società etniche - nella quale alle donne è proibito parlare direttamente agli
uomini che non siano naturalmente il proprio consorte. E A è una donna che è
rimasta sola, come vedete dal fatto che la cornice la inquadra, una cornice doppia che la
inquadra isolatamente: manda un messaggio che è indicato con “a” minuscolo,
il ghirigoro che torna indietro, un messaggio che non ha ascolto. Infatti, la linea torna
indietro verso colui che precedentemente viveva con lei, che è B, e che era legato a lei
da questo anello, “b” minuscolo, che vedete spezzato ed è spezzato dalla
linea, indicata con “c” minuscolo, che collega C e B. C è, come dire, la
nuova “fiamma” di B., la persona con la quale adesso l’ex-marito di A vive.
La donna indicata con A chiede al marito di ritornare da lei e pone una condizione, anche
questa molto singolare nella rappresentazione: vedete le due figure più piccole, i due
alberelli E, che sono i bambini, ma bambini potenziali, perché sono fuori della cornice
triplice che unisce C e B. Il messaggio si dovrebbe interpretare in questo modo: io sono
disposta a riaccoglierti purché tu non abbia bambini dalla tua seconda donna. Ovviamente
ci sono altri elementi in questa cosiddetta “lettera d’amore” yukaghira, per
esempio, le linee oblique indicate con “k” nella parte superiore della figura A
indicano il dolore, la sofferenza di A per essere stata abbandonata. Un ultimo elemento da
sottolineare è indicato con “p” nella figura C, la seconda donna, e sono i
puntini di lato, al di sotto dei puntini che indicano che si tratta di una donna: essi fanno
riferimento al fatto che è una donna straniera, e quindi il messaggio potrebbe esser di
diffidare degli stranieri perché portano guai... neanche a dirlo, è una battuta.
Notate, da questo esempio di prescrittura, come un messaggio estremamente complesso -
sembrerebbe quasi la trama di una telenovela - venga convogliato da un disegno complessivo, che
va interpretato globalmente e non può esser letto; certo ci si potrebbe scrivere su un
racconto, ma è comunque un messaggio complessivo.
In realtà questi esempi di prescrittura non hanno un seguito vero in forme di
scrittura, mentre un altro tipo, ben più antico, di prescrittura è molto
importante storicamente perché ha invece delle conseguenze fondamentali nella nascita
della scrittura. Sono i cosiddetti “tokens”, termine inglese che potremmo tradurre
con “gettoni”, i quali compaiono già a partire dal V millennio a.C., quindi
tra il 5000 e il 4000 a.C., in Asia Minore, nel vicino Oriente, soprattutto in area
mesopotamica ma non solo, e sono dei gettoni d’argilla che, come vedete nella figura a
pag. 9 - sono le forme a sinistra di ciascuna delle due metà della figura -,
rappresentano degli oggetti. Per esempio, il terzo a sinistra e dall’alto rappresenta un
capo di bestiame, forse una pecora, un montone, non saprei dire esattamente, o ancora il
secondo nella colonna di destra indica un’unità di misura di grano o granaglie,
probabilmente, e del resto vedete la spiga (questa sì che è una spiga, non come
quella di Achille Campanile!). Questi gettoni avevano una funzione sostanzialmente di tipo
amministrativo, per registrare beni inventariati che venivano conservati, quindi ogni gettone
corrispondeva a una data quantità di questi beni; questi gettoni venivano poi legati in
una specie di collana, oppure custoditi dentro dei recipienti di terracotta e poi, quando si
trattava di archiviare queste registrazioni, venivano chiusi e sigillati. Allora, una volta
chiusi e sigillati i recipienti con dentro le figurine di terracotta, i “tokens”,
chiaramente non si sarebbe più stati in grado di ricostruire il contenuto di questi
recipienti di terracotta, quindi sull’esterno del recipiente venivano incise delle figure
corrispondenti al contenuto dei recipienti stessi - le vedete, per ciascuna metà la
colonna di destra, indica le figure incise, non più figure a tutto tondo, non più
gettoni, ma figure graffiate sulla terracotta che ricordano esattamente quelli che sono i
gettoni all’interno di questi vasi di terracotta, detti “bulle”. A questo
punto si compie il passo fondamentale verso la scrittura, perché nel momento in cui
sull’esterno del recipiente è rappresentato il contenuto che è
all’interno, abbiamo la rappresentazione simbolica di ciò che non è
più visibile: quindi non servirà più avere dei recipienti di terracotta
con dentro i gettoni, ma i recipienti di raccolta si trasformeranno in tavolette di argilla,
con delle indicazioni incise che avranno la funzione di richiamare simbolicamente dei concetti.
Ecco il passo necessario perché nasca la scrittura.
I gettoni, i “tokens”, non sono scrittura ma sono il punto di partenza per la
scrittura, che nasce, e questo è un fatto sicuro, come “pittografia”,
cioè come rappresentazione di figure che hanno un valore simbolico, indicano dei
concetti, indicano, potremmo approssimativamente dire, delle cose reali (anche se in
linguistica questo non sarebbe del tutto corretto, ma per capirci si può dire
così). La pittografia si avvale di figure, poste opportunamente in sequenza, per fornire
delle indicazioni di frasi complesse. Ciascuna figura, come dicevo, indica un concetto, e uno
dei primi sistemi pittografici, e tra i più importanti, è proprio il geroglifico
egiziano, quello su cui Achille Campanile si sbizzarrisce con tanta felice vena umoristica.
Geroglifico egiziano che in realtà, ad onor del vero, non era solo pittografico, ma
utilizzava anche dei sistemi misti, perché alcuni geroglifici venivano utilizzati anche
per il loro valore fonetico, la sillaba iniziale della parola rappresentata, della parola
corrispondente al concetto rappresentato.
Comunque questo è un discorso un po’ complesso, che tutto sommato poi non
aggiunge molto alla sostanza del problema. In realtà, è interessante invece
osservare che il geroglifico ha anche delle varianti semplificate: il geroglifico si usava solo
per i grandi monumenti e quindi lo troviamo nei templi e sulle pareti di roccia a livello di
epigrafi. Per i testi meno solenni si usava lo “ieratico”, che è una forma
stilizzata di geroglifico, e per i testi correnti il “demotico” che è una
forma ulteriormente semplificata. Tra l’altro, la “Stele di Rosetta” che
è stata qui rappresentata in fotografia e commentata a pagina 7, è un testo che
presenta geroglifico e demotico oltre alla traduzione greca. E’ interessante, la Stele di
Rosetta, perché fu rinvenuta e fu portata in Francia da Napoleone, durante la sua
spedizione in Egitto, piuttosto infausta peraltro, e uno degli ufficiali di Napoleone,
Champollion, ci si mise su di buzzo buono e riuscì per la prima volta a interpretare il
geroglifico egiziano. La vicenda ha avuto tanta fortuna che il paese natale di Champollion,
Figeac nella Francia meridionale, ha dedicato un’intera piazza alla stele di Rosetta. A
Place de l’écriture, una riproduzione della Stele di Rosetta pavimenta la piazza,
di dimensioni non molto grandi. E’ molto singolare e anche interessante, se qualcuno di
voi avesse occasione di passare da quelle parti.
Altri geroglifici importanti di derivazione probabilmente non direttamente egiziana, sono
quelli dell’Anatolia: in particolare, il cosiddetto ittito geroglifico in realtà
è scritto con un tipo di geroglifico che ha dei punti in comune ma è anche in
parte diverso da quello egiziano. Trovate a pagina 10-11, in basso, alcuni di questi
geroglifici propri dei sigilli anatolici, e l’aspetto singolare, per cui ho riportato
questa figura, è dato dal fatto che il geroglifico permette di rappresentare un concetto
o con la figura intera o con una sua parte significativa. Per convenzione si usa il nome latino
in maiuscolo per indicare il concetto reso dal geroglifico, e dunque ad es. LEO, il leone,
può essere rappresentato o con il leone intero oppure con la testa del leone; CERVUS, il
cervo, può essere rappresentato con il cervo intero, con il suo scalpo oppure con un
solo corno del cervo. E così via per altri animali, come la capra ecc.: nei due sigilli
di fianco si osservano due diverse rappresentazioni in cui abbiamo, nel sigillo in alto, due
teste di cervi, e nel sigilli in basso due cervi interi, senza che cambi il senso di questi
geroglifici.
Pittografia, quindi concetti direttamente evocati da disegni, da figure. In teoria la
pittografia potremmo comprenderla anche senza conoscere la lingua cui fa riferimento,
perché leggiamo la sequenza dei segni e quei disegni evocano dei concetti a prescindere
dalle parole corrispondenti nella lingua cui fanno riferimento questi messaggi scritti.
Un altro sistema pittografico che ha molta importanza, anche se non nella tradizione
occidentale, è quello cinese. Come sapete, il sistema ideografico cinese è un
sistema nel quale i segni, che sono alcune migliaia - nella fase più importante del
segnario cinese arrivano ad alcune decine di migliaia -, corrispondono ciascuno ad un concetto.
Il segnario cinese, tra l’altro, presenta la caratteristica di essere stilizzato,
perché ormai non sono più individuabili i pittogrammi nel loro valore originario.
In una rubrica che viene trasmessa la mattina presto sul terzo canale della RAI
c’è un simpatico docente cinese che cerca di spiegare le varie origini dei segni
cinesi complessi, però non è che mi persuada del tutto, devo dire la
verità: in certi casi c’è più immaginazione, forse, che
realtà. In ogni caso gli ideogrammi cinesi non sono più trasparenti, non si
intravede più l’immagine dietro la stilizzazione, anche se comunque hanno sempre
un valore pittografico: vanno di solito dall’alto verso il basso, quindi hanno un
andamento verticale e si caratterizzano per un tratto un po’ arrotondato, perché
venivano disegnati con l’inchiostro, inchiostro di china, naturalmente, su legno
inizialmente, e poi su seta (dunque il materiale scrittorio influiva sulla modalità di
scrittura).
Il passo successivo è costituito dal passaggio dalla pittografia a quella che noi
chiamiamo “fonografia”, cioè alla resa della forma fonica, della sequenza di
suoni che costituiscono le parole di una lingua. Quindi, non più il concetto nel suo
insieme, ma la sequenza di suoni che costituiscono una determinata parola. Per vedere questo
passaggio si può inizialmente dare un’occhiata alla figura in alto, sempre a pag.
10-11, in cui viene rappresentata la pittografia di un uomo coricato, lo vedete in alto a
sinistra, un uomo disteso, un po’ panciuto, ma questa è una stilizzazione - ho
evitato di riprodurre la stilizzazione della donna perché è meno presentabile.
L’uomo coricato viene poi stilizzato nel cuneiforme, che è la forma fonografica
costituita da una sequenza di cunei, i quali riproducono più o meno la sequenza nel suo
complesso, ma alterandola in parte e rendendola meno riconoscibile. Ora, qui si manifesta un
passaggio molto importante: il cuneiforme è un tipo di scrittura che nasce
nell’area mesopotamica e viene utilizzata in modo sistematico per la prima volta da
Sumeri, popolazione che parlava una lingua né semitica, né indoeuropea, una
lingua caratterizzata dalla presenza di parole monosillabiche, quasi tutte monosillabiche (come
a dire che ogni parola era costituita da una sola sillaba). Allora, ogni segno che
corrispondeva ad una parola, in realtà corrispondeva anche ad una sillaba, perché
le parole erano costituite da una sola sillaba. Pertanto, il segno per uomo corrisponde alla
forma fonica, quella che chiamiamo “significante” in linguistica, questa sillaba
(LÚ) significava in sumerico “uomo”.
La fase successiva dell’evoluzione è l’utilizzazione di questo segno non
più per indicare uomo, ma per indicare la sillaba “lu” e quando lingue come
l’assiro e il babilonese, che noi definiamo “accadico”, utilizzano questo
sistema grafico numerico, lo utilizzano facendo valere ogni segno per il suo valore sillabico,
cioè per il suo valore fonico, sequenza di suoni. E quindi quando in assiro-babilonese,
in accadico, vengono utilizzati segni cuneiformi non vengono più utilizzati nel loro
valore pittografico, ma vengono utilizzati nel loro valore sillabico, come segni che indicano
una sillaba, rappresentano una sillaba. E’ il passo ulteriore: non più disegni che
evocano una azione, ma elementi che vanno letti in base alla forma fonica delle varie lingue
che le utilizzano e che sono utilizzabili teoricamente per qualunque lingua, quindi dei segni
sillabici cuneiformi potrebbero in teoria essere utilizzati per qualunque lingua occidentale.
Ultimo passaggio è quello dai sillabogrammi, cioè da segni sillabici, a segni
alfabetici: quindi, come si vede, l’alfabeto è proprio l’ultima tappa
dell’evoluzione della scrittura e questa avviene, secondo un sistema piuttosto complesso,
in area semitica: sia l’assiro che il babilonese sono lingue semitiche orientali, mentre
lo sviluppo avviene piuttosto nell’area semitica nord-occidentale di cui fa parte il
fenicio. Nelle lingue semitiche le vocali hanno una funzione solo grammaticale, non lessicale,
indicano cioè la natura grammaticale della parola, mentre il significato concettuale
viene portato dalla struttura consonantica, dalle consonanti. Dato che ogni sillaba è
costituita da almeno una consonante e una vocale, ecco che l’aspetto fondamentale di una
sequenza di sillabe nelle lingue semitiche è dato, per così dire, “dallo
scheletro consonantico”, sono le consonanti quelle che portano il valore lessicale e
quindi le vocali poi si regolano un po’ di conseguenza in base alla natura grammaticale
della parola (se è un nome, un verbo, una determinata forma verbale, una determinata
forma nominale, il singolare, il plurale o un caso specifico). Quando le lingue semitiche
utilizzano i sillabogrammi li utilizzano essenzialmente per la loro valenza consonantica, tanto
è vero che nelle lingue semitiche si parla di radici “trilittere”,
“bilittere”: è un fatto interessante, poiché si parla di lingue, ma
si fa riferimento alle lettere.
Le lettere dell’alfabeto fenicio vennero adattate in greco, ed erano tutte consonanti:
attenzione, quindi, il greco adatta alcune consonanti superflue per il suo sistema, e le adatta
come vocali. L’alfabeto greco occidentale da Cuma, colonia greca in Campania, viene
adottato, attraverso gli Etruschi, a Roma, e quindi diviene l’alfabeto latino.
Il percorso si conclude a questo punto, ma in realtà c’è tutta una serie
di aspetti molto interessanti, in cui l’alfabeto non ha soltanto una funzione, come dire,
utilitaristica, pratica, ma anche una funzione estetica: è l’esempio riportato a
pag. 9 in basso, una iscrizione in caratteri arabi kufici. Sembra un disegno, e in
realtà è invece un’iscrizione che significa “Dio sia lodato”,
in arabo naturalmente, perché immagino che sia anche interessante sapere a che cosa
corrisponde la forma in arabo: Al-amdu lillāh “la lode per Dio”. Sembra
un disegno, e se uno non sapesse che è un’iscrizione potrebbe tranquillamente
confondersi.
Mi avvio alla conclusione perché mi pare che i tempi siano quasi conclusi - e forse
anche la vostra pazienza -, per chiudere il cerchio e tornare al rapporto fra oralità e
scrittura. Che sono due mondi separati, tanto è vero che abbiamo potuto parlarne
dividendoci i compiti, ma non sono due monadi. Se c’è, come so che
c’è, qualche filosofo in sala dico che ovviamente il richiamo a Leibnitz non
è casuale: non sono due mondi separati, non comunicanti, ma in realtà si
influenzano reciprocamente. Lo scritto influenza il parlato, così come il parlato
influenza lo scritto, anche certe volte più di quanto noi stessi siamo in grado di
accorgerci. Lo scritto influenza il parlato: questo sembra strano perché di solito
avviene il contrario, invece succede per espressioni formulari che sono proprie della lingua
scritta e che poi passano di peso nel parlato. Ma soprattutto per le sigle: le sigle sono una
forma essenzialmente scritta, perché nello scritto è comodo risparmiare spazio,
risparmiare fatica di scrivere per esteso tutte le parole di una sigla, tipo IVA invece di
Imposta sul Valore Aggiunto e poi la forma scritta, l’abbreviazione, in una frase
“non ho pagato l’IVA”, ormai è diventata una parola comune percepita
senza nessuno stupore. Ci sono anche casi piuttosto divertenti, in cui le sigle vengono
fraintese nel passaggio fra lo scritto, che di solito è colto o semicolto, e il parlato,
che spesso può essere semicolto o non colto: tipo la sigla, il marchio su alcune
attrezzature, giochi, macchinari, che spesso è citato come Marchio CEI, invece di CEE
(naturalmente fa riferimento alla Comunità Economica Europea), e così sembra
richiamare l’autorità episcopale, che sui giocattoli o altro non credo abbia alcun
interesse di esprimere valutazioni.
Ancora, un ultimo campo di influenza dello scritto sul parlato è il cosiddetto
“burocratese”, che talvolta entra, penetra malignamente anche nella lingua scritta:
uno dei casi, per esempio, che mi vengono in mente è “dazione”, che viene
dal gergo giudiziario e che ho sentito più volte utilizzare nella lingua parlata.
Naturalmente spesso è il contrario: spesso lo scritto è influenzato dal parlato,
e questo lo vediamo in molti fenomeni, per esempio già nella totale o quasi totale
perdita del congiuntivo nello scritto quotidiano, ancor più nella lingua della posta
elettronica e, se andiamo ancora un gradino più sotto, nella lingua degli SMS già
richiamata precedentemente. Insomma, lo scritto tende ad essere influenzato in modo
inarrestabile, io direi che è difficile anche opporsi, non si tratta di essere puristi o
non puristi. Sapete ci sono grandi polemiche riguardo a questo, ma bisogna osservare le cose
con occhio storico: se un fatto deve avvenire, avverrà, c’è poco da fare.
Si tratta di cercar di spiegarne le cause e vedere quali sono le modalità del fenomeno
stesso.
Insomma, per concludere con una battuta, parafrasando un titolo molto noto, un esempio di
influenza del parlato sullo scritto, “io speriamo che me la sia cavata”.
Grazie.
Il progetto originario
del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
I fiori del male di Charles Baudelaire
Manzoni: la storia, la morale, il racconto ne I Promessi
sposi e La colonna infame
L´Eneide di Virgilio: la fatica della
civiltà
L´Orlando
Furioso di Ariosto: gli scherzi del desiderio
Anna Karenina di Tolstoj: disperazione e
felicità
Guerra e pace di L.Tolstoj
Paolo VI, Il signore dell'altissimo
canto: Dante Alighieri
Le sacre scritture e la letteratura.
La bibbia, un libro da non perdere
Dante a settecento anni dal viaggio della
Commedia
Il cristianesimo di Dante
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