Presentiamo on-line la trascrizione della conferenza sull’opera di C.Baudelaire del prof.Sergio Zatti, ordinario di Letteratura italiana e docente di Storia della critica letteraria presso l’Università di Pisa. Il tema faceva parte del ciclo “Perché leggere i classici?”, progettato dal prof.Guido Sacchi. L’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare ed il Centro Culturale L’Areopago hanno voluto riprendere questo progetto per onorare la memoria di Guido, una volta che il Signore lo ha chiamato a sé. Le prime conferenze tenute da Guido Sacchi su Tolstoj, Virgilio, Ariosto, Dante sono disponibili on-line sul nostro sito www.gliscritti.it. Informazioni sulle prossime conferenze che seguiranno saranno a disposizione nella Bacheca dello stesso sito oppure sul sito www.ilpiaceredimparare.com
L’Areopago
PROF. ZATTI
Grazie a tutti quanti che siete qui. Il motivo per cui io sono qui è stato appena
detto: ero un amico di Guido, ero anche un suo professore. Lui venne appunto, giovane
normalista e ci fu questo incontro proficuo per entrambi. Allievo che subito si era messo in
mostra per la particolare brillantezza ed intelligenza, ma anche, come voi sapete meglio di me,
per la sua grande disponibilità e simpatia umana. Non vado oltre perché
sennò mi emozionerei.
Io sono qui per parlarvi di uno dei classici che Guido aveva in mente di illustrarvi: è
un poeta a me molto caro, ritengo che sia il più grande poeta della modernità,
intendendo la modernità dalla metà dell’800 in poi. “Les fleurs du
mal” vengono pubblicati nel 1857, quindi a metà, stavo per dire del secolo scorso
per inveterata abitudine, in realtà di due secoli fa, ormai, e vorrei cominciare subito
cedendo la parola a qualcun altro che vi è stato presentato avvertendovi che la nostra
prima lettura non è né una poesia, né tanto meno appartiene a “Les
fleurs du mal”: è una brevissima prosa, tratta da “I piccoli poemi in
prosa” di Baudelaire, mezza paginetta che rappresenta un documento fondamentale, è
la testimonianza di come è cambiata la storia della poesia, di come, dopo la svolta
romantica, la poesia abbia preso altre strade e Baudelaire è stato il primo grande
innovatore, il vero poeta della modernità. Quindi invito Enzo Labor a leggere questa
prima prosetta
ENZO LABOR
Perdita d'aureola
«Ehilà! voi qui, mio caro? Voi in un postaccio? voi, il bevitor di quintessenza,
voi, il mangiator d'ambrosia?
C'è da essere stupito, davvero.
Mio caro, sapete il terrore che ho dei cavalli e delle vetture. Prima,
come attraversavo in gran fretta il viale, e saltellavo nella mota, attraverso quel mobile
caos dove la morte arriva galoppando da tutte le parti
contemporaneamente, la mia aureola, in un brusco movimento, m'è
scivolata dal capo nel fango della massicciata. Non ho avuto il coraggio di raccattarla. Ho
ritenuto meno spiacevole perdere le mie insegne, che non
farmi rompere l'ossa. E poi, mi sono detto, non ogni male viene per nuocere. Ora posso girare
in incognito, fare delle bassezze e darmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi in
tutto simile a voi, come vedete!
- Dovreste almeno mettere un annuncio riguardo all'aureola, o farla richiedere dal
commissario.
Assolutamente no! Mi trovo bene qui. Voi, voi solo m'avete riconosciuto. Del resto, la
dignità m'è venuta a noia. Poi, mi piace il pensiero che qualche
poetastro la raccatterà e se ne cingerà sfacciatamente. Far felice uno, che
piacere! e soprattutto, felice uno che mi farà ridere!
Pensate a X, o a Z! Sarà proprio buffo, no?»
PROF. ZATTI
Allora, perché comincio da qui? Comincio da qui perché, come avete capito, si
tratta di una prosa che è insieme allegorica e insieme satirica. Allegorica di che cosa?
Voi sapete tutti che i poeti, almeno i poeti da Dante e Petrarca in poi, erano i cosiddetti
“poeti laureati”, laureati nel senso che avevano in testa una corona
d’alloro, una corona d’alloro significava la sanzione, la consacrazione, la
funzione sacrale diciamo della poesia e del poeta. Petrarca verrà addirittura incoronato
in Campidoglio con la corona d’alloro. Bene, questo poeta invece ha perso la sua aureola:
non scambiatela con l’aureola dei santi, è la corona d’alloro dei poeti.
Però i poeti sono in qualche modo, se non proprio dei santi, anzi Baudelaire come
vedremo è essenzialmente un peccatore, un satanico piuttosto che un santo o un angelo,
però i poeti hanno o almeno avevano, e questo è il punto, avevano una loro
sacralità, i sacerdoti della poesia, la coscienza della collettività, della loro
società, di cui erano in qualche modo portavoci legittimati ed investiti di questa
funzione.
Che cosa ci racconta qui Baudelaire? Ci racconta, in forma di aneddoto, di uno strano episodio
cittadino, in cui questa aureola gli cade dal capo, e naturalmente l’incidente è
da leggersi in senso allegorico. Il poeta ha perso la sua aureola, ha perso la sua corona
d’alloro, cioè ha perso, fuor di metafora o fuor di allegoria, ha perso la sua
sacralità, la sua investitura, non è più la coscienza critica della
società, il portavoce dei suoi ideali, non è più cioè quello che si
chiamava un tempo “il poeta-vate”, il poeta oracolare, il poeta-sacerdote, insomma
la coscienza collettiva di una certa società. E’ come se, a causa di certi
cambiamenti epocali di cui adesso vedremo anche le ragioni, il pubblico avesse ritirato il suo
mandato al poeta, avesse ritirato la sua investitura, gli avesse tolto insomma quel carisma,
quella sacralità che appunto si identifica allegoricamente nell’aureola.
Ma esaminiamo più da vicino questa brevissima e pure fondamentale prosa, costituita
essenzialmente da un breve dialogo. Le prime battute parlano dello stupore di un incontro di
questo personaggio anonimo che si imbatte nel poeta e gli dice: “Come, qui voi,in questo
postaccio!”. In realtà cos’è questo postaccio, dov’è che
è stato incontrato il poeta? è stato incontrato all’uscita di un bordello.
Non è esattamente il luogo che frequentano i poeti, anzi, in questa scelta
c’è tutta la portata provocatoria, polemica di Baudelaire. Il poeta non viene
più fuori dalle accademie, dalle istituzioni, dai salotti buoni, viene fuori da un
bordello. E gli è anche successo un incidente a causa del traffico cittadino: voi dovete
immaginare la Parigi di metà del secolo diciannovesimo, appunto, dove lo choc del
traffico, di queste carrozze, di questi cavalli lanciati e scatenati per le strade oggi ci fa
un po’ ridere che sia considerato un traffico vertiginoso e persino mortale. Però
Baudelaire dice, quasi sono stato investito, tramortito e ucciso da una carrozza lanciata al
galoppo, ho salvato la vita ma ho perso le mie insegne: nel ritrarmi sul marciapiede è
cascata la mia aureola, è finita nel fango. Anche qui ovvia allegoria, ovvia metafora
della degradazione, questa aureola che sta in cima al capo adesso è finita nel fango ed
è finita nel fango perché è stata travolta dal traffico cittadino.
Baudelaire, come vedremo presto, è il grande poeta della città, cioè della
città che si sta trasformando in quella che è oggi la metropoli, o forse la
megalopoli attuale. Ma già allora, la Parigi di metà ottocento, era un luogo del
traffico, del mercato, delle carrozze, dei cavalli lanciati, e soprattutto il luogo della
folla: vedremo che al centro della riflessione di Baudelaire c’è la folla come una
fiumana indistinta, anonima, caotica, un fiume nuovo che si è riversato per le strade
della città e nel quale il poeta si è perso perché è diventato un
individuo fra gli altri, è diventato un anonimo nella massa indistinta dei senza nome,
non è più riconoscibile e infatti dice il suo stupore, se ricordate nella lettura
“voi, voi solo mi avete riconosciuto”. Il poeta ha perso la sua identità, ha
perso le sue insegne, ha perso insomma i segni della sua diversità e della sua funzione
sociale, del suo ruolo, un ruolo riconosciuto, una sorta di investitura sacrale, per cui
appunto il poeta-vate, il poeta che porta il messaggio di una società, adesso è
ridotto ad un individuo qualunque, sconsacrato e depresso, che gira solo per le strade della
città; la folla anonima e frettolosa non lo riconosce, lui stesso frequenta ambienti che
di solito non sono gli ambienti frequentati dai poeti, e come reagisce a questo trauma? Come
vediamo nel corso di questo breve aneddoto cittadino, sostanzialmente Baudelaire assume il
disastro, la catastrofe che ha colpito lui in quanto poeta, lo assume con una sorta di
sberleffo amaro che nasconde l’orgoglio ferito. Cosa risponde all’amico che dice
beh, ma insomma possiamo ritrovare questa aureola, rimettertela in testa, oppure possiamo
addirittura andare al commissariato di polizia e troveremo qualche detective che la trova e poi
te la rimette sulla testa e non avrai perduto nulla. Lui dice, no, no assolutamente, in fondo
mi va bene che sia così: senza questa aureola io non ho più bisogno di avere la
mia dignità, di avere la mia buona coscienza, di essere insomma l’uomo delle
istituzione, il portavoce della coscienza collettiva. Sono un individuo e posso anche
fregarmene del mondo e posso andare al bordello tutte le volte che mi pare.
Naturalmente qui bisogna vedere tutte le due facce di questa dialettica psicologica: il poeta
ha subito un trauma, perdendo la sua legittimazione sociale, ma reagisce provocatoriamente
dicendo “ben venga questo trauma, questa caduta, questa catastrofe, farò di questa
caduta una forza” e quindi riscatta in orgoglio quella che è una perdita.
L’orgoglio è quello di essere finalmente svincolato dal dovere sociale, di essere
il poeta che parla soltanto per se stesso e che non ha bisogno di coltivare e di veicolare
messaggi positivi perché può parlare soltanto del proprio io e può
coltivare dentro di sé anche “i fiori del male”. Appunto il fiore del fango
cittadino, il fiore della caduta del poeta, il poeta che si rappresenterà, lo vedremo
presto in una poesia, come un angelo decaduto, un angelo che è caduto dai cieli nel
traffico, nel fango cittadino e in fondo mostra o forse finge disperatamente di godere di
questa condizione che non ha scelto ma in cui gli toccherà vivere. Da allora in poi i
poeti sono sempre stati più emarginati dalla coscienza collettiva della società:
altri vati, altri profeti, altri imbonitori forse li hanno sostituiti.
Questo è un testo capitale, un testo che appunto in poche righe, mezza pagina, racconta
un trauma epocale, una catastrofe. E’ una catastrofe dell’individuo ma è
anche una catastrofe del ruolo e quindi di una funzione collettiva, una società insomma
che perde il suo portavoce, il portavoce soffre e al tempo si inorgoglisce di questa
emarginazione, di questo essere cacciato ai margini della società.
Questo trauma inaugura la poesia della modernità: da allora in poi le cose non saranno
più uguali e tutti i poeti, fino a quelli oggi viventi, contemporanei, sono in qualche
modo figli o nipoti, comunque gli eredi, di Baudelaire e di questa condizione, di questo
trauma.
Volevo cominciare, appunto, come si dice in retorica, in medias res; adesso cerco di
recuperare qualche cosa che abbia anche carattere informativo dal punto di vista storico.
Charles Baudelaire, giovane poeta parigino, scrive un libro di versi che vede la luce nel 1857:
sono poesie, strane, anomale, poesie provocatorie e spesso di contenuto osceno, tanto è
vero che ci vuole un editore coraggioso, perché le pubblichi. Basti dire che di questa
dichiarata voglia di provocazione, di scandalo è testimonianza il fatto che una della
sezioni di questa raccolta si chiamasse “les lesbiennes”, le lesbiche. Immediata
è la reazione del perbenismo borghese: una recensione malevola del “Figaro”
determina addirittura l’intervento della magistratura, proprio di quella stessa
magistratura che aveva messo sotto processo un altro grande testo, ma questo narrativo,
pubblicato in quegli anni, e cioè “Madame Bovary” di Gustave Flaubert.
Lì tema dell’adulterio è trattato in modo che appunto suscitasse scandalo.
Baudelaire come Flaubert sono condannati e tuttavia Baudelaire continua a progettare una
seconda edizione arricchita di questa raccolta che compare nelle librerie nel febbraio del
1861. E’ un testo aumentato di trentacinque nuovi componimenti, diviso in sei sezioni
rispetto a quelle che erano prima cinque, aggiunta una intera nuova sezione, i “Tableaux
parisiens”, fondamentalissima, cioè “I quadri parigini”, e introdotta
da un’apostrofe in versi che poi leggeremo: “Al lettore”.
Il testo non segue una sua cronologia, una cronologia di composizione. Baudelaire dice a
più riprese che non ha voluto scrivere una raccolta di poesie, ha voluto costruire un
libro e c’è una sorta di sfida al lettore del tempo e al lettore di ogni epoca, a
riconoscere quella che Baudelaire chiama “l’architettura segreta” di questo
libro; un libro, cioè, in cui i vari componimenti e le varie sezioni sono come capitoli
di una storia e quindi sono organizzati non in modo cronologico ma in modo tematico e
strutturale.
Baudelaire lavora tutta la vita sostanzialmente ad arricchire questo suo libro così
provocatorio e scandaloso. Naturalmente deve fare i conti intanto con problemi personali, la
malattia e i problemi familiari, poi deve fare i conti appunto con le controversie con gli
editori che non erano tanto d’accordo con l’idea di andare incontro alle reazioni
della morale pubblica e alle contese legali. E quindi c’è anche tutto un gioco di
dissimulazione, insomma, a cercare di filtrare tra le maglie della censura e riuscire a
pubblicare queste poesie che approdano infine alla terza edizione de “Les fleurs du
mal” stampata nel 1868. E quello il testo che oggi noi leggiamo.
Dunque, che cos’è questo libro, questo canzoniere, potremmo dire: non è
appunto una raccolta, non è un diario nel senso in cui si può intendere
romanticamente l’idea che il poeta riversa sulla pagina la propria soggettività,
la propria anima, la propria interiorità, ecc. Baudelaire dice che questa è una
costruzione, una narrazione, un continuum narrativo, naturalmente non articolato come
può essere articolato un romanzo, ma un continuum fatto per frammenti: ogni poesia
è una tappa, un capitolo di una storia, e si tratta di individuare il disegno di questa
costruzione, quella che appunto lui chiamava “l’architettura segreta”.
Dicevamo, non è un diario romantico, non è l’anima del poeta riversata
dentro la pagina e tuttavia Baudelaire dice che questo è un libro atroce, un libro in
cui c’è una materia passionale, sentimentale, fortissima, che è però
soltanto la genesi di questo libro. Altre invece sono le forme in cui è scritto questo
libro, cioè l’anima non viene riversata con tutta la sua passionalità e
tutti i suoi aspetti che abbiamo visto prima, osceni, scandalosi, ecc., ma viene riversata
attraverso filtri di varia natura tra cui la dimensione allegorica e altre forme che devono
mitigare questa calda materia vitale entro forme che Baudelaire dice di “rigida e gelida
architettura”. Quindi c’è una sorta di contrasto inerente “Les fleurs
du mal” che sono infatti, a partire dal loro titolo, una costruzione poetica tutta
fondata su antitesi, appunto una calda materia, una passione che però si dissimula entro
forme rigide, entro forme neutre, entro forme quanto più possibile allontanate e
distanziate da questa adesione immediata alla natura che era tipica della poesia romantica, e
invece Baudelaire vuole stabilire una rottura rispetto a questa tradizione.
Quindi è una poesia che non è il prodotto immediato di quella che romanticamente
si chiamava l’ispirazione, la visitazione delle muse, ma è il prodotto
dell’intelligenza, il prodotto del calcolo: la poesia non è effusione immediata ma
lavoro ed è significativo che un poeta che vive a metà dell’800, in una
città come Parigi che si stava organizzando in forme di capitalismo industriale e
vedremo che la grande rivoluzione epocale entra nella poesia di Baudelaire e improvvisamente il
capitalismo maturo, il capitalismo industriale diventa il nemico, il nemico da combattere, il
nemico della poesia e tuttavia in qualche modo questo determina anche l’idea che il poeta
non deve essere un nulla facente, uno che semplicemente aspetta che le muse vengano a visitarlo
per scrivere le sue poesie. No, anche lui si organizza secondo idee di produzione, di
produttività, fare poesia è un lavoro, quindi il cosiddetto “labor
limae”, di cui parlava già Orazio, il lavoro della lima, la raffinatezza formale,
diventa lo strumento di un lavoro. Anche il poeta nel momento in cui si sente emarginato
perché è una figura improduttiva, tende quindi a replicare mimeticamente le
funzioni della società industriale dove tutto ciò che conta è legato al
mercato, alla produzione, all’utile, ecc. Naturalmente questo è, proprio come nel
caso della perdita di aureola, una sconfitta che il poeta cerca di riscattare in orgoglio
compositivo e si arriva quindi a questa costruzione, che adesso vi racconto molto brevemente, e
poi ci fermeremo a parlare essenzialmente del titolo.
Come cominciano “Les fleurs du mal”? Cominciano con un’apostrofe al lettore
che adesso leggeremo perchè, per il suo carattere, è assolutamente anomala,
provocatoria; poi è seguita da una prima sezione, potremmo dire un primo capitolo, che
si intitola “Spleen et idéal” noia esistenziale, depressione (ma su spleen
dovremmo ragionare un attimo) e ideale, aspirazione all’assoluto dove al centro della
riflessione è proprio la figura del poeta, il poeta parla insomma di se stesso, della
sua condizione di essere poeta nella società capitalistica industriale.
Il poeta è essenzialmente un angelo decaduto come abbiamo appena visto nella
“Perdita di aureola”. Che cos’è lo spleen? Lo “spleen”
è quella parola inglese che è entrata nel vocabolario francese grazie a
Baudelaire ed ha cittadinanza anche nel nostro vocabolario. Spleen è quella condizione
che sta fra la noia e la malinconia e tuttavia ha anche una dimensione più forte, arriva
fino alla depressione, all’umor nero. Lo spleen, secondo Baudelaire, è la
condizione dell’uomo moderno nella desolazione delle sue metropoli, nell’assenza di
valori, nella caduta appunto di questo angelo che è il poeta che tutt’al
più può frequentare bordelli, parlare di temi ripugnanti e osceni, insomma
trasformarsi in una sorta di satana, proprio perché è caduto da una sua
condizione di angelo. Lo spleen è il tedio, l’ennui, la depressione che ci prende
nella vita delle grandi metropoli: a questo cosa si oppone? Si oppone lo slancio verso
l’alto, l’idéal, i cieli azzurri, i paradisi intravisti che però
possono essere raccontati solo come rimpianto come nostalgia. La condizione dell’uomo
moderno è una condizione urbana, metropolitana, quindi spleenetica, se si può
passare questa parola, e tuttavia resta l’aspirazione all’alto, al sublime, al
cielo, ma resta soltanto come possibilità perduta. Baudelaire soltanto in rare occasioni
si mostra ottimista rispetto a questo recupero dei paradisi perduti e vedremo anche che le sue
vie di fuga sono piuttosto discutibili.
La sezione seguente, appunto i “Tableaux parisiens”, i quadri di vita cittadina ed
è un tentativo appunto del poeta di confrontarsi con la città e con il suo tedio,
il suo ennui, il suo spleen. Poi seguono quattro altre sezioni che sono, potremmo dire, la
presa d’atto di questo fallito tentativo di uscire dalla condizione spleenetica della
metropoli e quindi sono, sostanzialmente, la testimonianza di una integrazione fallita e sono
altrettanti tentativi o di negazione della condizione moderna o di evasione rispetto a questa
realtà inaccettabile. Quali sono le vie di fuga possibili? Una è l’evasione
esotica, cioè l’idea che fuori, lontano dalla città esistano dei luoghi
incontaminati dove la natura è ancora vergine, innocente e ci si può forse
rifugiare. Baudelaire infatti partirà anche per l’oriente, per i Mari del Sud,
alla ricerca di questo esotismo pacificatore e appunto evasivo. Ma poi vedremo, leggendo le
ultime poesie, vedremo come le cose vanno a finire anche da questo punto di vista.
Poi ci sono quelle che chiamavo le altre vie di fuga, più discutibili, quelle che lui
chiama “i paradisi artificiali”. Il linguaggio di Baudelaire, lo dico subito,
è un linguaggio intrinsecamente cattolico, preso dalla religione, però da una
religione che appunto parla sostanzialmente della perdita di Dio, quindi di una religione che
è diventata la condizione satanica dell’uomo moderno. Infatti cosa sono questi
paradisi artificiali? Una sezione si chiama “Il vino”, una sezione si chiama
“La droga”. Baudelaire era notoriamente un fumatore di hashish e di oppio e insomma
questi paradisi artificiali stanno fra il fascino della distruzione allucinatoria e forme di
erotismo perverso, di erotismo appunto malato e afflitto da sensi di colpa.
Dopo la via della fuga esotica e la fuga nei paradisi artificiali, alla fine c’è
un’ultima sezione che è quella che chiude il libro, che si chiama “La
morte”, perché la morte è considerata l’ultima possibilità di
fuga, e la morte è l’attraversamento dell’ignoto, la fuga senza sapere dove.
C’è una bellissima poesia, di cui leggeremo soltanto una sezione, che dice
sostanzialmente “io sono di quelli che credono che il viaggio sia fatto per chi parte per
il solo gusto di partire” e non perché si deve arrivare a qualche meta. Il viaggio
vale di per sé, il viaggio è una fuga verso l’ignoto alla ricerca del
nuovo, alla ricerca di territori incontaminati, alla ricerca di territori innocenti, quelli che
nella società massificata sono sempre più difficili da trovare, lo sappiamo bene
noi che veniamo 150 anni dopo Baudelaire, e che qui vediamo un nostro, come dire, progenitore
sostanzialmente, intuire come il mondo si omologhi dentro una dimensione metropolitana che non
lascia spiragli e vie di fuga verso la natura. Perché anche quando si ritrovano questi
supposti paradisi, oggi si chiamano le Seychelles o le Maldive, in realtà sono luoghi
già colonizzati, luoghi in cui l’industria culturale è già arrivata
e quindi noi non facciamo altro che vivere esperienze di falsa natura, di artificialità
dell’esperienza. Baudelaire già all’epoca intuiva questa dimensione
dell’impossibilità dell’idillio naturale, della fuga esotica,
l’evasione nella natura. Allora partire sul vascello della morte alla ricerca del nuovo e
dell’inconnu, dell’ignoto, significa anche l’ultimo approdo possibile per il
poeta. Il poeta ha sempre dalla sua un’ancora di salvezza, nel fallimento delle sue
esperienze vitali, esistenziali, la poesia, la poesia è considerata una ancora di
salvezza, una salvezza individuale o collettiva a seconda dei casi. Tutta la poesia moderna
nasce, o almeno gran parte della poesia moderna nasce dentro questa esperienza della caduta,
del trauma e del fatto, della morte di Dio in qualche modo, e di una religione che viene
sostituita dalla fede nell’arte. Baudelaire è colui che intravede la forma della
salvezza nell’arte, nella capacità della parola di esplorare territori nuovi e
sconosciuti e quindi diventa una sorte di religione laica, tutta individuale, tutta sostitutiva
proprio perché il sofferente della modernità, come Baudelaire ama chiamarsi,
sente che appunto nella realtà contemporanea si sono perduti quei valori e la disperata
ricerca di questi approda sostanzialmente ad un fallimento.
La poesia quindi, e l’arte in genere, rappresenta una sorta di religione sostitutiva, di
religione laica che propone una salvezza tutta individuale. Ma è significativo che
Baudelaire usi il linguaggio della religione, il linguaggio della religione cattolica, ma per
andare da un’altra parte sostanzialmente o forse per dissimulare una grande nostalgia di
fronte al vuoto, una grande nostalgia della pienezza dei valori che si sono perduti.
Logicamente verrebbe prima il titolo “I fiori del male”. Ho detto che la poesia di
Baudelaire è tutta fondata sulle grandi antitesi, come spleen ed ideale. I fiori del
male sono a loro modo un’antitesi, quelle che noi, abituati al linguaggio della retorica
e della letteratura, chiamiamo un “ossimoro”, cioè una violenta
contrapposizione. Perché come fanno i fiori ed il male a stare insieme? Il fiore
è il simbolo stesso dei valori, è l’emblema di quello che la poesia
romantica aveva esaltato come sentimento, bellezza, bontà, ecc. ecc. Invece questi fiori
baudelairiani sono il frutto, il fiore malato, prodotto da quel fango che abbiamo visto, dal
male sostanzialmente, perchè la natura è male secondo Baudelaire e i fiori che vi
crescono sono fiori malati che possono anche essere scambiati per un ornamento, una bellezza
della nostra esistenza Ma in realtà dobbiamo sapere che questo fiore affonda le sue
radici in una terra, in una natura che si è corrotta e quindi lui diventa
provocatoriamente il poeta del male, dei fiori del male. Non più il fiore romantico, la
bellezza, il valore, ecc., ma la sua antitesi, sempre come conseguenza di quel trauma che
dicevamo prima: il poeta una volta che ha perduto la sua investitura, la sua sacralità,
si sente libero, maledettamente libero di cantare anche non più i valori positivi della
coscienza collettiva, si sente libero di cantare i loro opposti, di cantare satana piuttosto
che Dio, però mantenendo una profonda nostalgia di Dio, della natura buona, della natura
romantica, ecc.
Dato però che poi tutto Baudelaire è profondamente pieno delle valenze
più diverse, bisogna anche dire che il fiore è anche la rappresentazione di
qualche cosa che pure è erede di quella concezione romantica: il fiore è
ornamento, è bellezza, è un prodotto della natura che non ha una valenza
immediatamente produttiva, il fiore non è utile a nessuno, almeno in prima istanza
pratica e allora celebrare dei fiori, anche se i fiori del male, per Baudelaire vuol dire anche
giocare la carta polemica contro una società profondamente mercificata, in cui tutto ha
un valore di mercato, persino la poesia diventa qualcosa che va sul mercato per vendersi in
concorrenza con altre poesie, e quindi il fiore diventa sostanzialmente la negazione della
merce, la negazione di una bellezza che assume un valore di mercato. La sua bellezza sta nella
sua gratuità, sta nella sua improduttività, proprio perché il mondo
è stato invaso dalle merci e la città è stata contaminata dal mercato.
Io direi che a questo punto possiamo leggere questa apostrofe “Al lettore”. Questa
è la poesia che apre “I fiori del male”, è la dedica al lettore.
ENZO LABOR
Al lettore
Stupidità e peccato, errore e lésina
ci assediano la mente, sfibrano i nostri corpi,
e alimentiamo i nostri bei rimorsi
come un povero nutre i propri insetti.
Son testardi i peccati, deboli i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le nostre confessioni,
e torniamo a pestare allegri il fango
come se un vile pianto ci avesse ripuliti.
Sul cuscino del male Satana Trismegisto
lungamente ci culla e persuade
e 1'oro della nostra volontà,
alchimista provetto, manda in fumo.
È il Diavolo a tirare i nostri fili!
Dai piu schifosi oggetti siamo attratti;
e ogni giorno nell'Inferno ci addentriamo d'un passo,
tranquilli attraversando miasmi e buio.
Come il vizioso in rovina che assapora
il seno martoriato di un'antica puttana,
arraffiamo al passaggio piaceri clandestini
e li spremiamo come vecchie arance.
Dentro il nostro cervello, come elminti a milioni,
formicola e si scatena un popolo di Demoni;
la Morte, se respiriamo, nei polmoni
ci scende, fiume invisibile, con sordi gemiti
E se stupro o veleno, lama o fuoco
non ci hanno ancora ornato di gustosi ricami
il trito canovaccio del destino
è solo, ahimè, che poco ardito è il cuore.
Ma in mezzo agli sciacalli, alle pantere, alle linci
alle scimmie, agli scorpioni, agli avvoltoi, ai serpenti,
ai mostri guaiolanti, grufolanti, striscianti
del nostro infame serraglio di vizi,
uno è ancora più brutto, più cattivo, più immondo!
Senza troppo agitarsi né gridare,
vorrebbe della terra non lasciar che rovine
e sbadigliando inghiottirebbe il mondo:
è la Noia! - Occhio greve d'un pianto involontario,
fuma la pipa, sogna impiccagioni...
Lo conosci, lettore, quel mostro delicato,
- ipocrita lettore, - mio simile, - fratello!
PROF. ZATTI
Non servirebbero commenti a dire quanto può essere provocatoria, soprattutto se la
pensate scritta centocinquanta anni fa per un pubblico romantico, l’apostrofe al lettore
che doveva aprire un libro di poesia. Essa doveva essere caratterizzata da quello che in latino
si chiama la “captatio benevolaentiae”, cioè bisognava un po’
arruffianarsi il lettore e dire, caro lettore, adesso ti parlo di bellezza e di valore, del
bene e del giusto: Baudelaire fa esattamente il contrario. Se c’è
un’operazione polemica, distanziante, persino ripugnante, bene questa gliela sbatte in
faccia al lettore, subito ad apertura di libro: uno apre il libro, legge questa poesia, lo
richiude e va a casa a leggere qualcos’altro. E invece no, perché appunto
Baudelaire gioca su una identificazione che è in fondo una chiamata di correo: “tu
lettore sei simile a me, tu sei mio fratello nel male, non essere ipocrita”. Tu conosci,
lettore, quel mostro delicato, che è la noia: la noia è la personificazione,
è l’ultima di una serie di peccati, di vizi che Baudelaire ha elencato: questi
vermi, queste carogne, questi essere ripugnanti che popolano il nostro cervello non sono altro
che la nostra anima, non sono altro che la personificazione dei vizi che ci accompagnano.
Quindi, tu lettore, sei corrotto come me, hai dentro tutti i tuoi vizi, le tue colpe e su
questo terreno noi possiamo ritrovare una complicità che non è la
complicità della buona coscienza, ma la complicità nel male. E quanto alla noia,
ribadisco quello che ho detto prima, la noia non deve essere intesa nel senso debole, moderno
della parola, perché altrimenti non capiremmo come mai questo lungo elenco di vizi si
concluda alla fine con il peggiore che li riassume tutti, l’ennui. L’ennui è
quello che altrove ha chiamato lo spleen, cioè questa dimensione non semplicemente del
fastidio esistenziale, ma proprio dell’umor nero, della depressione, dell’inerzia
spirituale. Baudelaire è pieno di immagini di qualche cosa che grava sulla testa e
sull’anima dell’uomo, qualcosa di pesante, le sbarre di una prigione, un tetto che
ci schiaccia, è l’umor nero, è la tetraggine esistenziale. I figli della
civiltà industriale e della vita metropolitana sono le vittime di questo che è il
peggiore di tutti i vizi capitali, perché avrete anche riconosciuto, non potevate farne
a meno, questo è un linguaggio non solo religioso, ma è un linguaggio
profondamente cattolico. Vi ricordo semplicemente: stupidità e peccato, i rimorsi, i
pentimenti, le confessioni e poi la figurazione di satana, satana trismegisto: questo Ermete
Trismegisto era il più dotto degli alchimisti, cioè quei signori che tentavano di
trasformare la materia povera in oro. Qui invece è satana che, secondo la sua funzione,
gioca al contrario, trasforma l’oro della nostra volontà, il metallo della nostra
volontà lo fa svaporare: “le riche métal de notre volonté est tout
vaporisé par ce savant chimiste”. E’ un alchimista che corrode, che intacca
il metallo prezioso della nostra volontà e ci fa preda dei vizi e quindi tutto il
linguaggio è un linguaggio religioso, anzi di più, è un linguaggio
cattolico. Pensate a quel verso “aux objects répugnants nous trouvons des
appas”, dai più schifosi oggetti, traduce Raboni, noi siamo attratti, appunto i
fiori del male, non siamo attratti dalla bontà, dal bene, dai valori, siamo attratti da
satana nella condizione alienata che è la condizione moderna. Viviamo di piaceri
clandestini, arraffiamo piaceri furtivi, siamo insomma tutto un elenco di vizi sulla base dei
quali noi ci ritroviamo fratelli in qualche modo. E’ insomma una fratellanza fondata non
sui valori positivi, ma sui valori che appunto sono quelli del vizio e della comune
appartenenza a satana.
E questa è anche una richiesta, cioè è una “chiamata di
correo” si potrebbe dire in linguaggio giuridico, ed è una richiesta di
complicità. In fondo se pensate ancora alla poesia che è stata da sempre, fino
all’età romantica, la sede di produzione dei valori estetici, morali e spirituali,
valori che si riconoscono in un intento di tipo educativo, pedagogico, quindi un tentativo di
elevare, di istruire, di migliorare, di perfezionare il lettore, secondo la vecchia formula che
risale a Orazio “docere et delectare”, cioè dilettare ma anche insegnare;
bene qui Baudelaire liquida tutto quanto, viene meno questo rapporto, come dire,
educativo-pedagogico fra poeta e lettore, e questo viene rifiutato in nome di un’ambigua
identificazione. basata sul riconoscimento di una comune degradazione morale e sociale che
è identificata, personificata allegoricamente nella figura dello spleen. (Sapete qual
è l’origine etimologica? Spleen in inglese vuol dire milza, la milza è
quella che secerne la bile e nell’antica teoria medica greca che risale a Ippocrate (la
cosiddetta teoria degli umori) appunto la milza che secerne la bile secerne anche il tedio
vitale, la tetraggine, la malinconia, la depressione, l’umore nero. E allora secondo
questa teoria degli umori, l’organo che produce la bile, cioè la milza è
diventato, ha dato il nome anche alla sindrome, questa depressione vitale.
Beh, a questo punto riconvoco il nostro fine dicitore, perché andiamo a leggere una
poesia celeberrima che è la più emblematica della condizione del poeta moderno:
L’albatros.
ENZO LABOR
L’albatro
Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.
L'hanno appena posato sulla tolda
e già il re dell'azzurro, maldestro e vergognoso,
pietosamente accanto a sé strascina
come fossero remi le grandi ali bianche.
Com'è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l'uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante.
PROF. ZATTI
Nella personificazione del poeta come albatro è l’allegoria appunto di quel
radicale cambiamento della condizione dell’artista nella società moderna che
abbiamo già visto all’inizio con la Perdita d’aureola. Soprattutto
celeberrima è l’ultima quartina di questo sonetto che contiene la similitudine fra
l’albatros e il poeta: le sue ali di gigante son diventate un ingombro, cioè
quello che permette al poeta di essere angelo, albatro nei cieli, meravigliosa creatura
celeste, distaccata dalla terra, una volta che viene catturata dai marinai e riportata in basso
diventa un essere comico e grottesco, addirittura viene schernito, perché i marinai gli
mettono in bocca una pipa, imitano zoppicando questa andatura maldestra di chi, essendo una
creatura del cielo, una volta caduta sulla terra, queste ali che gli permettevano di librarsi
nell’azzurro, son diventate degli ostacoli, son diventati degli impedimenti.
Qui Baudelaire essenzialmente mostra la caduta del poeta dal sublime al comico, al basso, al
ridicolo, al deforme, è diventato lo scherno, ma lo scherno di chi? se il poeta è
l’albatro, chi saranno i marinai, chi sarà l’equipaggio? L’equipaggio
è il nuovo pubblico borghese, quello che del poeta non solo non sa cosa farsene, ma
addirittura lo tratta come si tratta questo principe del cielo adesso caduto negli abissi della
terra: lo tratta schernendolo, lo tratta ridicolizzandolo, lo tratta appunto come un angelo
caduto. E qui direi che la parola chiave è la parola “esule”
“exilé sur le sol”, il poeta, questo albatro caduto, sulla terra è un
esule. E’ un esule perché a lui appartengono le sfere celesti, la terra è
soltanto un esilio, è un luogo dove a mala pena riesce a camminare, dove è
vittima della ridicolizzazione, dello scherno di chiunque passa, in particolare di un pubblico
che gli ha voltato definitivamente le spalle. Diciamo che questa poesia è la naturale
conseguenza di quella perdita di aureola: il poeta è qualcuno che ha perso la sua
investitura, la sua sacralità, di essere celeste, di essere angelico, si è
degradato sulla terra, sulla terra i suoi simili gli voltano le spalle, lo ridicolizzano, da
sublime è diventato comico, è un esule, un esule che appunto ha perduto la sua
patria.
Noi leggiamo solo poche poesie di Baudelaire, ma chi poi magari anche in conseguenza di questa
mia lezione, invece di chiudere definitivamente il libro di Baudelaire e di non toccarlo mai
più, volesse approfondire e leggere altre cose, si renderebbe conto continuamente di
come Baudelaire ha queste straordinarie immagini in cui di volta in volta si presenta come un
esule, un escluso, un figlio diseredato. Qui si potrebbero aprire squarci biografici sul fatto
che, figlio di una madre che resta presto vedova e che si risposa con un patrigno che
Baudelaire odierà per tutta la vita, lui si sentirà sostanzialmente un escluso
dall’amore materno, mentre ricorda in alcune lettere quei momenti dell’infanzia che
erano sostanzialmente un idillio a due, prima che un terzo venisse a incrinare quella
felicità, deprivandolo dell’affetto materno.
E’ inevitabile, anche per chi mastica appena appena un po’ non dico di
psicanalisi, ma di psicologia, osservare che questa condizione sociale del poeta ha trovato
spontanea e lacerante espressione in Baudelaire forse proprio perché lui aveva vissuto
nella sua biografia proprio un’esperienza di abbandono, di esilio, di esclusione e la
grandezza sua di poeta sta nel fare di un evento privato il simbolo della condizione moderna
del poeta.
Adesso corriamo con le letture perché è il momento di dire che
cos’è il poeta. Allora leggiamo. Allo spleen, a questa condizione di noia, ennui,
ecc., Baudelaire ha dedicato ben quattro poesie, noi ne abbiamo selezionata una:
“J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”.
ENZO LABOR
LXXVI Spleen
Ho dentro piu ricordi che se avessi mill'anni.
Un gran mobile ingombro di verbali e romanze,
letterine d'amore, bilanci, poesie
e grevi ciocche avvolte in ricevute,
non nasconde i segreti che nasconde
il mio triste cervello. E’ una cripta, una piramide
immensa, con più morti della fossa comune...
- lo sono un cimitero che la luna aborrisce
e dove lunghi vermi vanno, come rimorsi,
all' assalto dei morti che ho più cari;
un salotto decrepito, gremito
d'oggetti fuori moda fra le rose appassite,
i pastelli lagnosi, i pallidi Boucher
che profumano, soli, come boccette aperte.
Niente uguaglia in lunghezza quei giorni zoppicanti
che sotto i fiocchi grevi delle annate di neve
la noia, triste frutto dell'incuriosità,
prende misura d'immortalità.
- E tu ormai non sei altro, materia della vita!
che un granito assediato da un labile terrore,
immerso nella bruma d'un Sahara profondo;
vecchia sfinge obliata dal mondo indifferente
e che le mappe ignorano e soltanto
ai raggi del tramonto ferocemente canta!
PROF. ZATTI
Lo spleen sappiamo che cos’è. Qui cambia la personificazione allegorica, prima
avevamo un albatro, un uccello caduto sulla terra, qui abbiamo invece altri spazi, altri
luoghi, un mobile: Baudelaire si paragona ad un gran mobile ingombro di verbali, romanzi,
lettere d’amore, poesie, cioè di amori passati evidentemente, anzi questo mobile
più che lui è il suo triste cervello, il cervello abitato e ottenebrato dalla
noia, peggio ancora è un cimitero che persino la luna non vuole visitare dove appunto
c’è tutta questa materia ripugnante e formicolante di cui Baudelaire si compiace.
I vermi che sono simili ai rimorsi e che vanno a turbare il sonno dei morti. E poi ancora un
salotto decrepito gremito di oggetti fuori moda dove le rose sono appassite, gli acquarelli
sono stinti. Il mobile, il salotto, due ambienti per definizione borghesi che sono i luoghi
appunto della buona coscienza borghese, del perbenismo borghese e invece sono luoghi segnati
dalla morte, tanto è vero che poi questi due spazi confluiscono nel cimitero. Il
cimitero di nuovo è un luogo, un luogo topico (un topos, come si dice in retorica)
cioè un luogo che tanta poesia romantica aveva visitato,quanti idilli amorosi anche
vicino ai cimiteri, perché gli innamorati romantici fanno anche passeggiate di quel tipo
dove c’è sempre una luna che illumina il loro cammino e rende meno sinistro il
luogo. Invece qui persino il cimitero è ripudiato dalla luna e d’altra parte il
mobile è ingombro di cose che appartengono ad un passato dimenticato, vecchie lettere
d’amore, e poi ancora il salotto decrepito, gli oggetti fuori moda, le rose appassite,
nei quali il poeta successivamente si identifica. Là si identificava con l’albatro
caduto a terra, qui si identifica con dei luoghi, degli oggetti della società borghese,
gli arredi della società borghese ma sono arredi fuori moda, sono oggetti che hanno
perduto la loro funzionalità, che non hanno nessun valore nel presente e sono una
pallida testimonianza del passato, sono rose appassite, amori che sono finiti: è insomma
un grande deposito, questo armadio che è il suo cervello, un grande magazzino di
esperienze defunte, di memorie defunte.
E anche qui appunto vediamo come i luoghi dell’esistenza borghese sono diventate
allegorie di un cervello abitato dall’ennui, dalla noia, dalla depressione. Quindi tutte
queste personificazioni allegoriche vogliono sempre ripetere essenzialmente la stessa cosa,
appunto la morte dell’arte, la morte della poesia, la morte della poesia nella
società contemporanea.
Tutte queste allegorie vogliono dire qualche cosa che Baudelaire ripete continuamente:
“Io sono la personificazione di colui che è sofferente della modernità,
sono insomma la vittima della modernità, sono colui che porta come delle stimmate, tanto
per stare dentro un linguaggio che come abbiamo visto è sempre tipico di Baudelaire
anche quando è rivoltato in senso satanico. Il poeta è colui che si porta addosso
le stimmate della modernità, è colui che per primo ha vissuto l’esperienza
alienante della metropoli, è colui che per primo si è confrontato con il
traffico, con la folla massificata, con il mercato, è colui che per primo insomma ha
vissuto la condizione dell’alienazione, della reificazione ed, essendo lui il poeta
portatore di valori alti almeno per tradizione, è colui che sente più forte lo
choc di questa frattura, di questa sconfitta, E’ il figlio diseredato dalla Tradizione:
l’orfano della Bellezza, dei Valori e dei ruoli garantiti per secoli ai poeti.
La poesia che andiamo a leggere adesso è un’altra poesia molto celebre. E’
l’incontro tipico della folla cittadina, lo sguardo incrociato per un attimo con una
donna anonima, misteriosa, enigmatica, di cui per un attimo incrociamo lo sguardo e che poi
travolta dalle due fiumane contrapposte della folla si perde per sempre. Questo incontro che
dura lo spazio di un attimo, diventa una sorta di epifania, cioè di momento di
illuminazione, di grazia, per un attimo si ha la sensazione di essere illuminati come San Paolo
sulla via di Damasco, cioè la grazia ci ha toccato, ma è uno sguardo che dura
meno di un secondo, poi la donna viene inghiottita dalla folla. Questa è
l’apparizione folgorante della bellezza: la donna sconosciuta passa e va e diventa come
tale l’occasione perduta, l’occasione che avrebbe potuto riscattare una vita, una
vita che si sarebbe potuta vivere all’insegna della bellezza, dei valori e che invece la
folla ha travolto.
Quindi vorrei leggere e poi riprendere il commento.
ENZO LABOR
A una passante
Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l'orlo della sua veste sollevò con la mano.
Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d'una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.
Un lampo... e poi il buio! - Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m'hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,
che altrove, là, lontano - e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t'avrei amata, e so che tu lo sai!
PROF. ZATTI
Questo incontro è un incontro nel segno della possibilità intravista per un
attimo, di una vita all’insegna della bellezza, della felicità, le vite che
sogniamo perché sono alternative a quelle che conduciamo nella routine della vita
quotidiana. Un incrocio di sguardi, un incontro casuale nella folla e poi questa donna che per
un momento emerge, portata in alto, come dire, affiorante dalla marea della folla e che appare
in tutta la sua bellezza di idolo, le sue lunghe gambe sono quelle di una scultura antica,
insomma è una donna sì ma è anche qualcosa di più, è una
statua, è un idolo: è veramente l’incarnazione di una bellezza. E qual
è l’effetto che ha sul poeta: l’effetto è paralizzante, ossesso,
istupidito, in francese si dice “crispé comme un éstravagant”,
cioè rattrappito, paralizzato come un vagabondo. E’ la folgorazione, è la
folgorazione della bellezza, non è altro che uno choc, un trauma a sua volta.
Trauma perché è un’apparizione improvvisa, ma trauma anche perché
è immediatamente una perdita: questa è l’esperienza vera della
modernità, qui allegoricamente personificata dall’incontro casuale nella folla
cittadina: un’apparizione che non si può catturare, che dura lo spazio di un
attimo e poi esiste soltanto nella perdita, esiste soltanto nella memoria, esiste soltanto nel
lutto. E osservate come il poeta ha giocato proprio con una nozione quasi psicanalitica di
transfert perché in realtà il lutto è trasferito alla donna:
“longue, mince, en grand deuil”, la donna esile, alta, in lutto. E’ la donna
che è in lutto, ma in realtà chi è in lutto è il poeta che la vede
e la perde nel momento stesso in cui la vede. La Bellezza, il Valore nella società
metropolitana massificata non appaiono che per barlumi, destinati come sono a dileguarsi nel
caos cittadino senza che sia possibile goderne durevolmente.
Per questo ho parlato anche di una possibilità religiosa: può essere
l’apparizione sacrale della bellezza, come l’apparizione sacrale sulla via di
Damasco. E in fondo, poiché la poesia è fatta anche dalla tradizione, è
inevitabile pensare al fatto che la poesia italiana nasce essenzialmente per le strade di
Firenze quando Dante incontra Beatrice: l’apparizione di Beatrice è
l’apparizione di un essere solitario ed angelico circondata dalle sue dame, e Dante, come
qui Baudelaire, rimane abbacinato, perché Beatrice è la donna-angelo, è la
folgorazione del sacro. Anche Dante rimane folgorato, e da questa esperienza devastante
nascerà una poesia che è quella della lode di Beatrice, dell’amore di
Beatrice, del saluto di Beatrice, la donna-angelo che è venuta dal cielo alla terra
“a miracol mostrare”, cioè in poche parole a salvare il poeta. Qui invece si
potrebbe dire al contrario che questa donna ha perduto il poeta, poiché è
un’apparizione talmente scioccante che poi si traduce in un grande lutto, in un grande
sentimento della perdita. Forse l’esperienza che noi viviamo nella convulsa vita delle
nostre metropoli è un’esperienza fatta di frammenti, di possibilità
perdute, di incontri che poi non hanno luogo e restano soltanto come un culto della memoria e
quindi si caricano dei colori del lutto.
Concludo, perché vedo che l’ora si è fatta tarda e vorrei anche dare lo
spazio a possibili domande. Possiamo leggere l’ultima poesia, o meglio una sezione di una
poesia che si chiama Le Voyage, Il viaggio, e l’ultima sezione è anche quella che
chiude I fiori del male così che abbiamo compiuto tutto il tragitto propostoci da
Baudelaire.
ENZO LABOR
Il viaggio
VIII
Su, andiamo, Morte, vecchio capitano!
Salpiamo, è tempo, via da questa noia!
Son neri come inchiostro terra e mare,
ma i nostri cuori, vedi, sono colmi di luce.
Versaci per conforto il tuo veleno!
Quel fuoco arde il cervello: giù nel gorgo profondo,
giù nell'Ignoto, sia l'Inferno o il Cielo,
scendiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo!
PROF. ZATTI
Sono i versi che concludono l’ultima poesia de Les fleurs du mal, Le voyage. Ci sono
tante altre perle dentro questa poesia, per esempio quella grande verità appunto che
è “mais les vrais voyageurs sont ceux la seuls qui partent pour partir”,
“ma i veri grandi viaggiatori sono solo coloro che partono per il gusto di
partire”. Qui Baudelaire ci invita a lasciare gli ormeggi: imbarchiamoci sulla nave della
morte, vecchio capitano portaci dove vuoi tu, purchè sia l’evasione da questo
mondo dell’ennui, dello spleen, della depressione, salpiamo, è tempo di andare
via, via da questa noia, ritorna la solita parola come una specie di martellante cifra di tutta
la poesia.
Allora, certo quando si salpa, soltanto perchè si è viaggiatori che partono per
il gusto di partire, non si sa dove si arriva, soprattutto se ad essere guida e capitano di
questa nave è la Morte. Ci porterà comunque, questo è certo, in territori
sconosciuti perché la morte certo ci porta da qualche parte che è per definizione
l’ignoto. Sarà inferno o sarà cielo? Su questo grande interrogativo si
chiude appunto la poesia e la storia di Baudelaire. Si chiude un libro ma, in compenso, si apre
l’intera storia della poesia moderna e quindi è una fine che è anche un
cominciamento, la fine di un libro per il cominciamento di tanti altri, di tanti eredi. E sul
battello della morte, il vecchio capitano ci porta chissà dove, inferno o cielo,
però una cosa è certa ed è importante che sia “au fond de
l’inconnu pour trouver du nouveau”, viaggiamo pure al fondo dell’ignoto ma
purchè troviamo qualche cosa di nuovo. La poesia è un’esplorazione del
nuovo, è una fuga dalla condizione alienante della società moderna, si affida
alla morte e può essere satano o Dio che la guida, ma l’importante è
trovare dei nuovi approdi, trovare dei nuovi lidi e quindi scoprire nuovi territori per la
poesia e per la condizione dell’uomo moderno.
Mi fermo qui, grazie.
DOMANDA
Insistendo sulla questione del linguaggio nel testo come unico luogo di sublimazione, se
vogliamo di catarsi, ad un certo punto Baudelaire parla anche di natura come foresta di
simboli. Se il testo è l’unico luogo dove si può incontrare la bellezza, un
luogo dove esperire la bellezza, qual è l’eredità lasciata alla letteratura
che c’è dopo, che seguirà Baudelaire, su questo concentrarsi sul testo come
luogo di grande incontro tra bellezza e contaminazione, come neutralità dove si
incontrano forze opposte e quindi questo concentrarsi sul testo come unica cosa importante, che
ci dà senso, che ci dà salvezza?
DOMANDA
Il nuovo: lei ha fatto un paragone fra Baudelaire e Dante - la donna vista anche come
Beatrice. Ma il nuovo può essere anche assimilabile ad una ricerca di conoscenza, sempre
in Dante, ulissiaca?
PROF. ZATTI
Dicevo che il linguaggio di Baudelaire è tutto intriso di un lessico cattolico e
questo, anche se poi è una condizione religiosa in cui forse è più satana
che Dio, o comunque l’aspirazione a Dio si deve sempre scontrare con questo infernale
alchimista che svapora il metallo della nostra volontà e allora la domanda che lei
faceva e che è molto pertinente, riguarda l’idea che da Baudelaire in poi la
poesia si è fatta una sorta di sostituto laico di una religione, e quindi sia una forma
di salvezza individuale: il testo è ciò che ci salva. Naturalmente la poesia
moderna ha tantissime voci però una della caratteristiche forti è questa: la
poesia come salvezza, come salvezza individuale nel deserto dei valori, nella waste land
direbbe Eliot, e allora la poesia diventa non solo elemento di salvezza individuale, ma anche
in qualche modo autoreferenziale nel senso che come lei diceva la salvezza è tutta nel
testo. Il che, di nuovo direi che, è, tornando all’inizio, la condanna e il
privilegio del poeta, il suo orgoglio e la sua maledizione. Perché? Perché se il
poeta ha perso l’aureola, come abbiamo visto, vuol dire anche che il poeta non è
più chiamato a parlare dei valori, non è più il poeta-vate, non è
più il poeta che parla della coscienza collettiva, è un poeta che è stato
emarginato: faccia quello che vuole, perda la sua dignità, vada al bordello, parli di
quello che più gli piace, ma insomma alla fine questo poeta destituito e diseredato
trova soltanto nella sua poesia un’ancora di salvezza, ma proprio perché in
qualche modo gli è stato sottratto il territorio dei valori collettivi che prima invece
era l’orgoglio della coscienza poetica.
E quindi questo porta anche ad un pericoloso scambio, ognuno valuta come vuole questo fatto,
fra una religione che si è laicizzata nella contemplazione del bello, di una salvezza
individuale, del testo, della poesia così com’è.
L’altra domanda riguardava Ulisse. Questo finale del Voyage si può leggere
effettivamente come l’ennesima incarnazione di Ulisse: credo che l’Ulisse dantesco
sia stato un mito per la modernità continuamente rivisitato. Qui l’idea è
veramente di qualcuno che parte lasciando le colonne d’Ercole, sorpassando le colonne
d’Ercole, in un territorio del tutto sconosciuto, attratto dalla sola idea
dell’ignoto, e Ulisse ci mette la conoscenza, ci mette anche la virtù. Forse
Baudelaire sulla virtù aveva meno ottimismo, però condivideva la voglia del
nuovo, in compagnia della morte. Qui si deve presupporre che, come il buon Ulisse, anche
Baudelaire farà prima o poi naufragio, ma intanto è approdato metaforicamente ad
un territorio suo, ad un territorio nuovo. Al fondo dell’abisso in cui Ulisse naufraga
c’è però il nuovo, c’è quindi un’ultima possibile forma
della conoscenza e quindi in questo senso è anche un erede di Ulisse.
DOMANDA
Tu all’inizio hai detto che con Baudelaire in un certo senso è nata la poesia
moderna. Quali sono stati, anche tra gli italiani, quelli che sono stati più
influenzati, anche fino ai nostri tempi? Per esempio la cosiddetta poesia ermetica che abbiamo
avuto qualche decennio fa, è stata influenzata anche da Baudelaire oppure no?
PROF. ZATTI
La tua domanda mi fa rimpiangere l’unica poesia che non abbiamo letto e cioè
“Le corrispondenze”, perché lì è l’atto di battesimo
della poesia simbolista. Baudelaire dice “la natura è un tempio, la natura
è una foresta di simboli che ci parla di linguaggi che noi abbiamo dimenticato, e
compito del poeta è ritrovare questo valore sacrale simbolico nella parola ma con la
coscienza che è un linguaggio dimenticato, la funzione del poeta è di riportarlo
a galla e decifrarlo di nuovo. In fondo questa è l’esperienza
dell’ermetismo. Uno pensa a Ungaretti “ogni parola che scrivo è scavata
nella mia anima come in un abisso”. Scavare dentro di sé per trovare, per
attingere un linguaggio che è un linguaggio fortemente debitore, fortemente erede di
questo simbolismo, un linguaggio simbolico, un linguaggio che non è quello della parola
di tutti i giorni. E qui ho nominato Ungaretti e l’ermetismo.
Se passiamo all’altro grande poeta italiano del Novecento, la prima poesia de “Gli
ossi di seppia” (1925), quindi parlo di Montale. “Ascoltami, i poeti laureati si
muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”, dice Montale. Montale apre la sua
fondamentale raccolta di poesia novecentesca con una polemica contro i “poeti
laureati”, cioè quelli che hanno ancora in testa l’aureola e lui invece si
sente l’erede dei diseredati, se mi passate il gioco di parole. Lui è
l’erede di Baudelaire, di quelli che l’aureola l’hanno persa. Che vuol dire?
che Baudelaire naturalmente diceva queste cose in rapporto alla tradizione romantica, ai suoi
padri poetici che potevano essere Victor Hugo e i poeti romantici. Montale rispetto a chi lo
dirà? Lo dirà rispetto al poeta laureato per eccellenza a cavallo fra l’800
e il 900, cioè D’Annunzio, il poeta del sublime, quello che va sempre in giro con
la corazza e l’elmo in testa e l’aureola. Insomma il poeta del sublime. Montale
inaugura la poesia novecentesca nel segno invece della perdita dell’aureola, cioè
il sublime deve diventare appunto una poesia della prosa, una poesia dimessa, cioè una
poesia che chiude col sublime inteso come retorica e invece diventa una poesia della
quotidianità ma anche della conoscenza. L’inizio è: “Ascoltami, i
poeti laureati” io non sono un poeta laureato. La poesia si chiama “I limoni”
e dice “io, quando vado in giro nella natura, vado a cercare i limoni chiusi negli orti e
non vado nei parchi dove stanno bossi, licustri e acanti”. Il bosso è una pianta
ornamentale, preziosa che si coltiva nei giardini, così come i licustri e gli acanti,
quindi rinvia ad un’idea di poesia alta, sublime, aristocratica, ecc. No, a me piacciono
i limoni –dice il poeta- e io parlerò il linguaggio dei limoni, il linguaggio
della quotidianità.
ENZO LABOR
Corrispondenze
È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l'uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un'unità profonda e oscura,
vasta come le tenebre o la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Profumi freschi come la carne d'un bambino,
dolci come l'oboe, verdi come i prati
- e altri d'una corrotta, trionfante ricchezza,
con tutta l'espansione delle Cose infinite:
l'ambra e il muschio, l'incenso e il benzoino,
che cantano i trasporti della mente e dei sensi.
DOMANDA
Io non volevo fare una domanda, volevo fare solo un piccolo collegamento perché mi sono
sentita addosso una sensazione ed è che tutta questa noia, tutta questa tetraggine, la
conosciamo bene. Io non sapevo niente di Baudelaire, è la prima volta che ne sento
parlare, però, da quello che è stato detto, ho colto fortemente un collegamento
con il tema di questo ciclo di conferenze e con lo spirito che Guido ci ha trasmesso: il
piacere d’imparare. Abbiamo ascoltato chiaramente in un verso: “La noia è
frutto dell’incuriosità”. E’ come se la ricerca, anche quella finale
dell’ultima poesia sulla morte, sul viaggio, sul fatto che andiamo alla ricerca di
qualcosa di nuovo, è come se la curiosità, la ricerca, lo scoprire,
l’imparare quindi - ed è questo che mi ha emozionato in queste letture - sia
perfettamente collegato con la vita e la luce, rispetto alla depressione e al buio. E allora
Guido, con il suo piacere d’imparare, ci ha lasciato un’eredità fondamentale
che ben si collega anche a questo poeta.
PROF. ZATTI
Sì, certo, la noia è figlia dell’incuriosità e riallacciandomi a
quello che chiedeva prima il ragazzo, la curiositas è quella che spinge Ulisse oltre le
colonne d’Ercole. Anche Ulisse va incontro alla morte. Baudelaire ne è addirittura
cosciente. Ulisse non lo sapeva, Baudelaire lo sa ma proprio per questo ci prova lo stesso.
Beh, persino la morte non è proprio la negazione di tutto. Al fondo della morte ci
può essere del nuovo e quindi forse un principio di vita, qualcosa che ricomincia.
E’ curioso che questo libro che lui stesso ha chiamato “atroce”, che abbiamo
visto è pieno di mostri e in cui si percorre tutta una serie infame di vizi però
non rinunci alla speranza; è come se la condizione alienante della società
moderna, della società satanica, della società priva di valori, in fondo
lasciasse sempre questo spiraglio, lo spiraglio finale verso l’azzurro. Forse
l’albatro un giorno potrà tornare nei cieli o forse sprofondare negli abissi ma
poi tutto ritorna in circolo, in fondo agli abissi ci potrebbe essere di nuovo il cielo e
quindi la luce. Per esempio un’altra poesia di Baudelaire si chiama
“Elevation”, cioè è tutto attraversato dall’idea della caduta e
dello slancio, la città e la natura, la corruzione e la purezza, come se fossero sempre
le due polarità contrapposte e certe volte si ha l’impressione che al fondo della
caduta ci possa essere l’elevazione e lo slancio, perché appunto in fondo
frequentare satana vuol dire continuare ad avere nostalgia di Dio.
Il progetto originario
del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
L´Eneide di Virgilio: la fatica
della civiltà
Manzoni: la storia, la morale, il racconto ne I Promessi
sposi e La colonna infame
Dalla voce alla penna: parola detta, parola scritta
L´Orlando
Furioso di Ariosto: gli scherzi del desiderio
Anna Karenina di Tolstoj: disperazione e
felicità
Guerra e pace di L.Tolstoj
Paolo VI, Il signore dell´altissimo
canto: Dante Alighieri
Le sacre scritture e la letteratura.
La bibbia, un libro da non perdere
Dante a settecento anni dal viaggio della
Commedia
Il cristianesimo di Dante
Per altri articoli e studi sui classici e la letteratura presenti su questo sito, vedi la pagina Letteratura nella sezione Percorsi tematici