Mettiamo a disposizione on-line la trascrizione della conferenza su
Alessandro Manzoni del ciclo “Leggere i classici” - organizzato
dall’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare e dal Centro culturale
L’Areopago - tenuta dal prof.Vincenzo Lavenia il 24 febbraio 2006.
Il prof. Lavenia si è formato e svolge la sua attività di ricerca alla Scuola
Normale Superiore di Pisa. Si occupa di storia moderna, e in particolare di storia
dell’Inquisizione romana, di storia della teologia e di storia del diritto tra Cinque e
Seicento. Ha scritto anche di storia della stregoneria e di storia del concetto di
“guerra giusta” e di “guerra santa”. E’ redattore delle riviste
“Il ponte” e “Novecento”. Per i tipi de Il Mulino di Bologna ha
pubblicato L’infamia e il perdono, Tributi, pene e confessione nella teologia morale
della prima età moderna (2004).
Il Centro culturale Gli Scritti
Ringrazio molto il Centro Culturale “L’Areopago” e
l’Associazione “Guido Sacchi – Il piacere d’imparare”
istituita in memoria di Guido, per l’invito a parlare con voi. La scelta del tema
dell’incontro ha comportato per me qualche problema. Non credo infatti che Guido amasse
Manzoni; non era tra i suoi autori preferiti, per quanto mi ricordi. Per di più alla
Scuola Normale, dove abbiamo studiato negli stessi anni, Manzoni è considerato
(c’è un mio collega tra il pubblico che potrà confermarlo), un letterato
mediocre, noioso e scolastico, di cui si capisce poco la grandezza. Alla fine, come vedete, ho
scelto comunque Manzoni soprattutto perché volevo un autore cattolico al modo di Guido:
cattolico e illuminato. Volevo un autore che fece del cattolicesimo (cattolicesimo
acquisito dopo una conversione; diciamo così ‘non primigenio’) una via per
accostarsi al mondo e al nodo della verità (era questo il problema che assillava
Manzoni: la verità, e la sua comunicazione a un pubblico vasto). E volevo un autore che
avesse trattato il problema della giustizia in un secolo, il Seicento, che è stato il
terreno sul quale io, che faccio ricerca storica, e Guido, fine interprete di testi letterari,
ci incontravamo. Poco prima di mancare Guido mi disse che voleva studiare le censure
dell’Indice e dell’Inquisizione romana (il mio campo di indagine) alla letteratura
italiana: un tema che ha una tradizione di studi che risale a un vecchio testo di un critico
letterario di nome Sorrentino. Il suo volume uscì negli anni Trenta, sotto il fascismo;
dopo di allora la questione della censura si è affacciata più volte
all’attenzione del mondo della ricerca, senza però che nessuno sia stato capace di
portare a termine un’interpretazione complessiva del problema, neppure dopo
l’apertura degli archivi voluta da papa Wojtyla nel 1998. Ecco, Guido avrebbe voluto
farci una ricerca che, come altri suoi progetti, non ebbe il tempo di avviare. Sono convinto
che sarebbe stato un gran bel lavoro, e che lui avesse la sensibilità più adatta
per trattare di quel tema. Prendete quello che dirò adesso come un omaggio
all’amicizia, ai lumi e alla religione di Guido.
Dato che Manzoni si studia nelle scuole, credo di potere dare per scontati alcuni presupposti
di ciò di cui parlerò, e di poter andare direttamente al nocciolo della
questione. Manzoni scoprì presto di non amare la lirica; a un certo punto
l’abbandonò perché gli interessava altro. Manzoni si diede alla prosa e
scelse il genere del romanzo: un genere che in Italia ha avuto e ha una certa
‘sfortuna’ perché la tradizione letteraria italiana è prevalentemente
poetica e lirica. Dunque Manzoni fece una scelta precisa: scrivere un romanzo. Adesso
potrà sembrarci un’operazione facile, tanto più che siamo in un’epoca
di decadenza della poesia, seppellita, mi dicono gli amici letterati, dalla musica leggera. E
tuttavia al tempo di Manzoni quella scelta di campo fu coraggiosa. Certo, nel XVIII secolo,
prima che Manzoni ponesse mano alla sua storia milanese, esistevano già alcuni esempi di
romanzo in lingua italiana; ma la scrittura della vicenda di Renzo e Lucia segnò
comunque uno scarto e l’adozione in Italia del genere nuovo del romanzo storico.
Adozione, non invenzione: perché la letteratura italiana, dopo il Cinquecento, non
inventò più nulla, e anzi si provincializzò. Quale scarto con il passato
medievale e rinascimentale, quando l’Italia potè vantare la cattedrale teologica
di Dante, la lirica di Petrarca, Boccaccio e la nascita della novellistica urbana, il poema di
Ariosto e il realismo di Machiavelli! A partire dagli anni Venti del Seicento, dopo il Marino
che Guido studiava, gli italiani cessarono quasi di inventare. Per di più un pubblico
per il romanzo mancò a lungo anche dopo Manzoni; e questo spiega perché i
letterati italiani abbiano continuato a scrivere (e spesso maluccio) pochi romanzi - e a
scriverne di poco romanzeschi. La tradizione italiana era, ed è rimasta fino a tempi
recenti, una tradizione aulica destinata a un pubblico ristretto.
Da Milano, che di tutte le città italiane del tempo era la meno provinciale, Manzoni si
pose il problema del romanzo e fu costretto a mettersi in sintonia con i dibattiti
contemporanei che appassionavano altri paesi europei. Basti ricordare dove nacque il romanzo:
in Inghilterra, tra Sei e Settecento. Londra era diventata la città più popolosa
d’Europa; i suoi abitanti compravano i primi giornali; la rivoluzione industriale, a
metà del XVIII secolo, scardinava i modi tradizionali del vivere rurale e commerciale.
Nasceva un pubblico che non si accontentava più del teatro e del melodramma, che fino al
Settecento fu anch’esso un fenomeno letterario di corte. Un pubblico che voleva storie
con gente comune. La letteratura scritta, per la prima volta, si pose il compito di superare un
pubblico ristretto, e lo fece inventando il romanzo moderno. Vi si raccontavano storie
ordinarie (ma con trame rocambolesche), e si mischiavano toni alti e toni bassi, argomenti seri
e argomenti ‘medi’, ‘commedia’ (si sarebbe detto con la teoria classica
dei generi) e ‘tragedia’. Insomma, il romanzo divenne la forma di comunicazione
più adatta a un pubblico esteso che aumentava con il relativo avanzare
dell’alfabetizzazione e dell’urbanesimo; con la maggiore disponibilità di
tempo libero. Era il pubblico di una nazione sviluppata e unificata.
Quando Manzoni scriveva, l’Italia non era né unificata né dotata di una
grande capitale. La più grande città era Napoli: serbatoio di antico regime
lontanissimo dai modelli di Londra e della stessa Parigi. Manzoni, dunque, si pose come primo
problema quello della lingua in cui scrivere un romanzo per il pubblico italiano, e si
scontrò con l’evidenza di una tradizione letteraria troppo alta ed elitaria per il
racconto moderno di vicende ‘comuni’. Pensate alla lingua di Foscolo, pensate al
neoclassicismo. Manzoni fece perciò quello che Dante aveva fatto cinque secoli prima:
inventò, per la seconda volta, l’italiano scritto. Ci sarà un terzo momento
in cui il nostro paese reinventerà la sua artificialissima lingua, nata sulla pagina e a
lungo estranea alle masse, e sarà l’avvento della RAI, negli anni Cinquanta del
Novecento: con “Lascia o Raddoppia”, i teleromanzi e i telegiornali (non più
con la pagina letteraria) l’italiano divenne davvero la lingua unificata di una nazione
unificata già da un secolo. Del resto, il buon Manzoni aveva fatto,
nell’Ottocento, quel che aveva potuto e fin dove aveva potuto: trasformare un italiano
alto, aulico, in una lingua comprensibile per tutti, o, per meglio dire, per tutti coloro che
lo potevano comprendere. Va ricordato, infatti, che lo stesso pubblico ‘ideale’ di
Manzoni corrispondeva comunque a fascia ben ristretta della popolazione italiana.
Con la lingua, la seconda questione che si pose Manzoni fu un problema schiettamente
illuministico e religioso insieme: il problema della verità. Questo spiega perché
il suo romanzo non poteva che essere storico. Il genere del romanzo ha i suoi sottogeneri,
ovviamente; e il sottogenere che trionfava all’inizio dell’800 era quello del
romanzo storico, appunto, in un secolo in cui la Storia divenne l’asse centrale della
cultura occidentale. Lo divenne, va ricordato, per reazione alla Rivoluzione francese, di cui
Manzoni era stato un moderato simpatizzante, perché l’universalismo rivoluzionario
(l’idea di esportare ovunque e allo stesso modo i valori di libertà, uguaglianza e
fraternità) si era rivelato, soprattutto dopo l’avvento di Napoleone, un modo per
giustificare la conquista di popoli stranieri. Idee nate per liberare erano diventate, come
spesso è accaduto nella storia umana, parte di un giogo che aveva oppresso la Germania,
la Spagna e la stessa Italia. Quando il regime di Napoleone collassò, i paesi
dell’Europa cominciarono a riscoprire le proprie tradizioni nazionali, in opposizione
all’illuminismo e all’idea, piuttosto astratta, che la cultura dei lumi potesse
unificare e superare facilmente i confini statuali. Ciò comportò un ritorno alla
Storia, che ebbe come risvolto una rivalutazione del medioevo che l’illuminismo, al
contrario, aveva condannato come epoca oscura (epoca di superstizioni e di completo dominio
della Chiesa). L’Ottocento finì così per riabilitare la religione e il
cristianesimo, non solo come fattore d’ordine ma anche come elemento di identità
storica nazionale. Nacquero inoltre le filosofie della Storia (Hegel, ma non solo) e si
affinò la tecnica degli storici di mestiere. Si cominciò, per esempio, ad andare
negli archivi e a scrivere libri di storia in cui la prova documentaria, magari citata a
pie’ di pagina, divenne sempre più centrale (si pensi all’opera di Ranke).
Insomma, l’Ottocento, almeno fino agli anni Cinquanta, fu il secolo della Storia e,
insieme, del romanzo storico. E’, questa, una delle due facce (la più
‘sobria’) del fenomeno romantico (l’altra è quella lirica e titanica).
Ma va ricordato che Manzoni fu romantico fino a un certo punto.
I romanzi storici ebbero fortuna e pubblico molto vasti. Quando Manzoni si apprestava a
raccontare la storia della peste di Milano, i romanzi di Walter Scott (ambientati nel medioevo
inglese) erano tradotti in tutta Europa perché i lettori potessero appassionarsi alle
gesta dei cavalieri. Manzoni, tuttavia, non voleva scrivere una storia di eroi: voleva scrivere
una storia ‘dal basso’, primo fattore che rivela, io credo, quanto la religione
abbia contato nelle sue scelte letterarie. Il cristiano Manzoni evita così i cavalieri e
rompe con la tradizione italiana; sceglie di raccontare la storia di due contadini e di non di
ambientarla, come avveniva in altri esempi di romanzo europeo, nel mitico medioevo cristiano.
Perché, è lecito chiedersi? Perché, anzitutto, lo interessava ragionare
della decadenza dell’Italia: si poteva forse scegliere un’età, il medioevo,
in cui l’Italia fu all’apice della ricchezza e della cultura per ragionare di
decadenza? Non era meglio guardare alla dominazione spagnola e al Seicento, tanto più
che l’Italia, a contrario della Francia e dell’Inghilterra, non poteva inventarsi
un’epopea nazionale?
Nacque così, per tappe, la storia degli sposi le cui nozze furono ostacolate: come
ricorderete, il testo ebbe tre stesure, l’ultima del 1840; la Colonna infame tre
pure, l’ultima del 1842. E tuttavia Manzoni non si limitò a scrivere: aveva,
infatti, fin troppa consapevolezza di ciò che faceva come letterato. L’operazione
di Manzoni - questo si vuole dire - fu allo stesso tempo un’operazione di scrittura e di
riflessione sulla scrittura. Non è un caso che ci abbia lasciato un’opera che fu
pubblicata nel 1845 ma che, come spesso accadde in Manzoni (che era solito arrovellarsi,
cancellare e riscrivere molte volte le stesse pagine), risaliva – almeno come progetto -
a molti anni prima. Si tratta dell’opera Del romanzo e in genere de' componimenti
misti di storia e invenzione. In quelle pagine Manzoni si pose il problema di come scrivere
un romanzo e tentò di focalizzare il nodo del rapporto tra invenzione e vero, specie nel
romanzo storico. Per Manzoni, infatti, scrivere era uno sforzo tanto più morale quanto
meno si inventava. Un paradosso, quasi, per un letterato! Nel corso della sua vita di uomo e di
scrittore Manzoni cancellò l’iniziale cotta per le ‘favole’ fino a far
coincidere il proprio lavoro con quello di uno storico di professione. Manzoni, insomma, parte
da lirico e muore da storico, scrivendo veri e propri libri di storia e ponendosi questioni di
storia (il ruolo dei longobardi in Italia, per esempio). E’ come se, nel corso della sua
vita, Manzoni abbia voluto approdare a una completa e sofferta soppressione della letteratura.
Se il suo problema fu quello di stabilire i confini morali, oltre che estetici,
dell’invenzione letteraria, ciò era tanto più controverso affrontando il
nodo della natura del romanzo storico, che aveva pretese di vero. Cosa inventare e cosa non
inventare, come descrivere una storia, come aderire al vero e nello stesso tempo conservare la
struttura letteraria, che è una struttura di invenzione? Riecheggiando Vico, Manzoni
scrisse: «la letteratura nacque, in epoca primitiva, come storia» (cito appunto dal
testo del 1845). L’Iliade e l’Odissea erano la storia dei greci:
nessuno, leggendole, si poneva il problema di distinguere il vero e il falso. Dopo di allora la
poetica letteraria aveva invece contemplato una netta distinzione tra il vero e il falso, tra
finzione e storia. Nel corso dei secoli i due elementi si erano divaricati fino quasi a
confliggere. Il cruccio di Manzoni fu di capire come fare a reincollare due piani che si erano
scollati in oltre due millenni di letteratura occidentale. La soluzione, a suoi occhi, era
l’adozione del genere del romanzo storico. Ma si trattava, scrisse, di un genere comunque
precario, perché il conflitto tra vero e invenzione vi si risolveva solo in apparenza.
Manzoni infatti sentì tutta l’impossibilità di unire letteratura e storia,
e lo dimostrò nella scrittura stessa del suo romanzo, a cui fece seguire
un’appendice non di finzione: la Colonna infame. Manzoni ritenne i due testi
un’opera unica; ma in verità con la Colonna egli seppe praticare un genere
del tutto nuovo, in Italia e forse anche all’estero: il genere del libro-inchiesta, come
indagine giudiziaria e storica con tanto di fonti riportate.
Ma torniamo al romanzo e a Manzoni: un cattolico influenzato dai Lumi e dal giansenismo, e
sposato a una ex calvinista. Date queste premesse biografiche, la spiritualità di
Manzoni non poteva che essere segnata da Sant’Agostino e da una sorta di pessimismo
antropologico. Un radicale pessimismo antropologico, per la verità: gli uomini, riteneva
Manzoni, sono votati al male perché marchiati dal peccato originale. La storia, dunque,
non può che essere una sequela di crudeltà e di insensatezze, interrotta, qua e
là, da barlumi di Vero. E’ soltanto attraverso il rapporto fiduciario con Dio,
infatti, che si può superare l’insensatezza della storia e della città
terrena, agitata dalla tentazione del male. Se si guarda attentamente alla trama del romanzo,
il pessimismo di Manzoni cova sotto traccia nell’intera vicenda degli sposi promessi, al
punto che si potrebbe interpretare l’opera come un romanzo della follia umana. Gli uomini
compiono il male gli uni contro gli altri in continuazione; e la Storia appare una sequela di
accanimenti insensati, arbitrari; una catena di soprusi destinati a sopraffare soprattutto i
più deboli di ogni tempo.
Tuttavia il cattolico Manzoni vedeva ciò che un calvinista, forse, non saprebbe vedere:
il riscatto della carità, elemento che rompe il pessimismo antropologico che sottende a
tutti i Promessi Sposi. L’immagine pessimistica e la tragedia della follia e della
carità che Manzoni mette in scena nel romanzo precipita nei capitoli dedicati alla peste
(XXXI-XXXIV). Sono pagine piuttosto note, in cui la grande storia si intreccia con tenere
vicende umane, diversamente dalle parti dedicate all’avvio della guerra dei
Trent’anni e alla disputa per il possesso del Monferrato, prima e ampia digressione
storica in un romanzo di finzione. I capitoli della peste prendono il via con la descrizione
dell’arrivo del morbo a Milano. Ebbene, se rileggete quelle pagine vedrete che si tratta
quasi di un crescendo rossiniano: man mano che si va avanti, la vicenda si accelera. La peste
infatti penetra lentamente, con un solo morto, e si diffonde tra la perplessità e il
troppo buon senso di coloro che avrebbero dovuto governare la struttura di polizia sanitaria
dello Stato di Milano. E’ come se oggi, dato l’allarme per l’aviaria, i
ministri e i nostri medici ci tranquillizzassero lasciando che la pandemia si diffonda. La
peste dunque penetra, e man mano che avanza è come se la follia stessa penetrasse nel
corpo sociale; è come se l’umana tela dei rapporti sociali e religiosi, di
carità e di semplice buon vicinato, si sfasciasse nel panico generale. Segue una seconda
follia: la follia della classe politica; e qui Manzoni rivela tutta la sua adesione alla
tradizione cattolica: una tradizione fatta di diffidenza nei confronti della politica e della
capacità degli uomini di riformarsi attraverso il governo civile. Voltate le spalle ai
Lumi, in Manzoni la politica sembra incapace di tenere a bada la bestia umana, che, complice la
peste, può scatenarsi in una città abbandonata. La gente inizia così a
rubare, a non seppellire i cadaveri, a non avere pudore dei morti decomposti, a non sapere
più reggere le strutture ospedaliere. Manzoni scrive che solo la carità dei
cappuccini e degli ordini religiosi riuscì a evitare la catastrofe di una città
la cui umanità appariva completamente dilaniata. Ai capitoli XXXI e XXXII segue quello
in cui don Rodrigo muore con in mano il crocifisso: una pausa finzionale, edificante e
terribile, che si prolunga fino al XXXIV capitolo, aperto dall’arrivo di Renzo a Milano.
Egli cerca Lucia e torna così una seconda volta sul luogo che aveva lasciato dopo il
drammatico assalto ai forni, dopo il suo primo contatto con la grande storia (che nel
palcoscenico della grande città, e con il contorno della folla, amplifica,
evidentemente, i suoi esiti di follia). Il disfacimento è all’apice, e Manzoni non
risparmia alcun colore della tavolozza per dipingerlo; non risparmia né i toni
dell’alto, né quelli del basso, alternando superbe scene elegiache e quadri di
‘commedia’ per tutto il capitolo. Io ho scelto di leggere con voi due brani: uno
alto, per l’appunto, e uno basso. Quello alto è ovviamente il quadretto della
madre di Cecilia, che certamente molti di voi ricorderanno dalle letture fatte a scuola.
Promessi Sposi, dal capitolo XXXIV
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui
aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza
velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella
bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla ne1 sangue lombardo. La sua andatura era
affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse
tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta
consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la
indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento
ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni,
morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo,
come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto
appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera
spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della
madre, con un abbandono più forte del sonno; della madre, ché, se anche la
somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due
ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie
però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro,
senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per
ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, apri una mano, fece
vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi
continuò:
- promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di
farlo e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto
premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato,
che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po’ di posto sul carro per
la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto,
ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio,
Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto
per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, -
voi -, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla
finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte
in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il
carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté
fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme?
come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia,
al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina:
hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza.
Grazie anche alla bella lettura che ne è stata fatta, si può ricavare davvero
tutta l’intensità lirica del brano (che si chiude appunto con una lirica). Ma non
è solo lirica quella che abbiamo ascoltato: si tratta, infatti, di una vera e propria
sacra rappresentazione, di un compianto della Madonna-Cecilia (due madri). Non deve
sorprendere, in un autore di inni sacri e di testi di religione (uno dedicato alla messa).
L’episodio della madre di Cecilia è un intervallo di fede, un’apparizione
della stessa madre di Dio, in una sequela di follia che riparte esattamente dal punto in cui
finisce il brano che abbiamo letto. Renzo cammina per le strade di Milano e, in conseguenza di
una delle sue tante mosse ingenue o maldestre, viene scambiato per un untore, inseguito subito
da una folla inferocita convinta che stia avvelenando Milano e pronta a linciarlo. Manzoni
descrive allora il salvataggio di Renzo; un atto di bene che, come spesso accade tra gli
uomini, avviene attraverso il male (le vie della Provvidenza sono infatti oscure). Renzo
accosta un carro di passaggio guidato da monatti; e poiché anch’essi lo ritengono
un untore, e dunque per un poco di buono che ha il merito di favorire i loro guadagni
(più morti, più gente da seppellire, più lavoro), decidono di salvarlo.
Renzo salta sul loro carro e il racconto assume allora un tono opposto rispetto al brano della
madre di Cecilia:
Promessi Sposi, dal capitolo XXXIV
- Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano il
convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil cosa com'era, sui
cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. - Bravo! bel colpo!
- Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa conto d'essere in chiesa, - gli
disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato.
I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se
n'andavano, non lasciando di gridare: - dagli! dagli! all'untore! - Qualcheduno si ritirava
più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a
Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria.
- Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido
cencio l’annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una
fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: - aspetta, canaglia! -
A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e
calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un –
uh! - prolungato, come per accompagnar quella fuga.
- Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: - val
più uno di noi che cento di que' poltroni.
- Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio con tutto il
cuore.
- Di che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai
bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non
quando son morti;
che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la
morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa; e i
monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.
- Viva la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l'altro; e, con questo bel
brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le scosse del
carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: - bevi alla nostra salute.
- Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, disse Renzo: - ma non ho sete; non ho proprio
voglia di bere in questo momento.
- Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, disse il monatto: - m'hai aria d'un
pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore.
- Ognuno s'ingegna come può, - disse l'altro.
- Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, -
ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui
in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella
carrozzata.
E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava
il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e
fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si contenta, padron mio, che un
povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam
quelli che l'abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro
signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.
E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si
voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di
compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine;
ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto -. E tra un
nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra.
- E noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone,
tracannato quanto ne volle, porse, con tutte e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi
simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il
collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: -
viva la morìa! - Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito
alla sua voce s'accompagnaron tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista
al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de'
cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva
amaramente il cuore de' pochi che ancor le abitavano.
Il brano è davvero sinistro: una specie di trionfo della morte con tanto di carro
funebre. Un macabro carnevale descritto in un tono che fa abbassare il registro romanzesco per
tentare una realistica messa in scena di classi sociali e umane infime. Non possiamo dire che
la mimesi sia del tutto riuscita (non poteva anche per ragioni di lingua letteraria); ma certo
Manzoni prova a rappresentare l’abisso dopo aver messo in scena il sublime. Ecco, questa
è la grandezza del romanzo: all’interno di un solo capitolo quadri di
carità e di umana follia. Verità, insomma.
Ma i capitoli sulla peste sono, come dicevo, anche i capitoli in cui precipita il problema di
Manzoni: il nodo della verità e del rapporto fra finzione e storia. Egli chiude
così il XXXII capitolo ponendosi il problema di come descrivere un fatto attraverso
l’oggettività delle fonti. Si pone cioè un problema che è
schiettamente storico, di verità documentata passo passo. Un romanziere può anche
pennellare, limitarsi a rappresentare un secolo per come vuole immaginarlo. Manzoni invece si
pose il problema di dire esattamente la verità come davanti a un tribunale. Il
romanzo, del resto, attinge a una cronaca secentesca: quella stilata da Ripamonti per
raccontare Milano all’epoca di Federico Borromeo, di cui era storico diciamo
‘ufficiale’. I tratti agiografici di Borromeo, evidenti nel romanzo, riprendono in
qualche modo da quelli della cronaca. Ma Manzoni seppe andare al di là di una sola
fonte, per stilare una vera e propria storia della paura delle unzioni (limite estremo di
follia in cui precipitano il malgoverno, il collasso del sistema sanitario, le ruberie e i
soprusi, l’incapacità della giustizia terrena e la stessa cecità umana).
Una storia che trabordò dai capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi per divenire
un’opera a sé. La storia di un processo e della colonna infame di Milano.
La peste del 1630, in Italia e non solo in Italia, ripropose un timore che era già
comparso all’altezza della prima grande peste dell’età moderna (quella del
1576): la credenza nelle unzioni. Vi ricordere, almeno da Boccaccio, della prima peste nera del
1348: ebbene, già a quel tempo si parlò di avvelenamenti di pozzi. Due secoli
dopo la paura fu ancora più forte: la voce che, in qualche modo, il morbo si diffondesse
per la volontà criminale di alcuni uomini e donne fu quasi unanime. Oggi, nell’era
degli antibiotici, sappiamo che si trattava di contagio; e tuttavia anche in quel tempo non
mancavano le conoscenze mediche e le strutture sanitarie in grado di arginare l’epidemia.
Inoltre non mancarono quanti, ragionevolmente, sospettarono che si trattasse non di veleni, ma
di contagio. Eppure la paura dilagò quasi senza contromisure. Perché, potremmo
chiederci? Perché le unzioni erano una variante della credenza nella stregoneria
diabolica, dell’idea che esistessero persone che attraverso un patto con il diavolo,
talvolta adorato nei sabba raggiunti dopo un volo notturno, assumevano poteri di maleficio
capaci di danneggiare i loro simili. La credenza nelle streghe e la loro caccia, che tutti
pensano risalire al medioevo, in realtà furono fenomeni della prima età moderna,
esplosi (pensate un po’) nell’epoca del Rinascimento. All’altezza del 1630 si
toccava il culmine dei roghi, anche se in quegli anni se ne accesero pochissimi in Italia
(merito questo dell’Inquisizione romana, che smise di dare credito alla accuse senza
tuttavia mai sconfessare la credenza). Con la peste il bersaglio non furono le presunte
streghe, ma un genere maschile: quello degli untori, appunto, che, come le maliarde (ma
non necessariamente con mezzi diabolici) maleficiavano e avvelenavano le città. Di
fronte al collasso della capacità di governo di Milano il bisogno di individuare capri
espiatori fu molto forte. Lo è sempre, quando le autorità civili o religiose
devono coprire i loro fallimenti, o quando si deve spiegare l’inspiegabile; quando si
deve calmierare una paura. Ebbene, le autorità di Milano non fecero nulla per
sconfessare una credenza che si diffuse dal basso e arrivò fino ai vertici. Frutto della
convenienza o della credulità, o dell’una e dell’altra, la paura negli
untori coprì del tutto l’ipotesi che la peste derivasse da contagio, con esiti
assai funesti.
I capri espiatori, infatti, ebbero un volto quando una mattina due donne si affacciarono dal
balcone di casa e videro un commissario della sanità di Milano che stava ispezionando
delle pareti, forse proprio per accertare se c’erano o non c’erano unzioni (vittima
egli stesso della credenza per cui avrebbe patito). Bene, le donne diffusero subito la diceria,
diventata ben presto fama, che l’uomo stesse avvelenando Milano. Si chiamava
Guglielmo Piazza, arrestato poco dopo quando la voce arrivò a un magistrato. Tradotto in
carcere, Piazza viene torturato. Oggi, pur in un’epoca di ritorno alla tortura (negli
ultimi anni è diventato di moda per gli occidentali ricorrere alla tortura), ciò
può apparire efferato; e tuttavia la tortura nel sistema giudiziario dell’epoca
(nella “procedura inquisitoria”, che risaliva al diritto romano, ma venne
perfezionata dall’Inquisizione papale a partire dalla sua nascita, e poi adottata anche
nel sistema penale secolare) era altra cosa da come potremmo intenderla noi: un castigo
applicato al di fuori delle regole. Il sistema giudiziario dell’epoca, infatti, prevedeva
questo: che per essere mandata a morte, per meritare giuridicamente la pena capitale, una
persona indiziata per via della fama doveva essere inchiodata soprattutto da due prove: la
testimonianza identica di due testimoni “contestes” (cioè che riferivano la
stessa cosa) e la confessione dell’accusato. Bisognava confessare e sottoscrivere la
confessione, senza la quale non si poteva essere mandati a morte perché non esisteva la
prova ‘regina’ della colpevolezza. Per avere la confessione dell’imputato,
dunque, si applicava la tortura, che non era, ripeto, una pena, ma parte della procedura penale
inquisitoria (cioè mossa da un ufficio giudiziario). La tortura aveva tuttavia le sue
regole: il diritto dell’epoca, infatti, non ammetteva che si potesse essere squassati a
totale arbitrio del giudice (salvi, è ovvio, i casi di violazione della corretta
procedura). Il sistema di tortura più frequente era quello della fune, con la quale
l’imputato veniva sollevato e strattonato a forza con le braccia legate dietro. Ma
ciò poteva avvenire soltanto per un tempo limitato, con una serie di ripetizioni
previste dal diritto, e consultati i medici. L’orrore, ecco il punto, aveva una sua
codificazione.
Durante la tortura Piazza, a cui viene promessa l’impunità, si pente e si dice
colpevole, cominciando a fare i nomi dei presunti complici (era previsto infatti che sotto
tortura si potesse, in alcuni casi, chiedere dei complici). Coinvolge così un barbiere
di nome Mora, che viene arrestato subito anche perché la sua, in tempi di contagio,
appariva una professione sospetta (la parola ‘barbiere’ indicava allora il mestiere
di una specie di medico di primo livello, un po’ infermiere, un po’ chirurgo, un
po’ dentista, un po’ ortopedico, un po’ farmacista votato a intrugliare
pozioni). Mora viene a sua volta arrestato e torturato e anch’egli spiffera i nomi di
altri presunti complici, tra i quali è un cavaliere spagnolo (occorreva uno straniero
per un complotto degno di questo nome). Si chiamava Padilla ed era figlio del governatore di
una piazza militare. Viene arrestato anch’egli, ma, al contrario degli altri, salva la
pelle perché di classe sociale superiore, e quindi in grado di pagarsi un buon avvocato
(anche oggi, quelli che vengono condannati alla pena di morte, nei paesi dove vige questa
barbarie, sono spesso i poveri). Altri imputati sono i Migliavacca, padre e figlio, che ci
rimettono le penne, con tanto di confisca dei beni. La casa di Piazza, uomo immeritevole di
pietà, viene demolita e sulle sue macerie viene eretta una colonna in memoria del
complotto: un monumento, insomma, come dal XX secolo in poi siamo abituati a farne in onore del
milite ignoto o dei nostri morti più illustri. La colonna di Piazza non era però
una stele che monumentalizzava una memoria esemplare, ma triste. Per questo a Milano fu subito
conosciuta come la “colonna infame” che dannava la memoria degli untori.
Padilla, come ho detto, salvò la pelle perché l’avvocato riuscì a
smontare il meccanismo con cui i giudici erano giunti a moltiplicare il numero degli accusati.
Mentre la peste cominciava a diminuire e cessava l’emergenza di trovare e punire untori,
fatti fuori i primi quattro, cinque imputati, la macchina processuale si raffreddava.
L’avvocato seppe approfittarne, dopo avere ottenuto copia degli atti di un processo che
seppe volgere a vantaggio del suo iberico cliente. Quegli atti sono oggi scomparsi, ma
sopravvive proprio la copia appartenuta all’avvocato di Padilla, su cui si basa la
ricostruzione di tutte le storie del caso. Nel Settecento essa fu riscoperta da un mezzo
parente di Manzoni. Si tratta di Pietro Verri, celebre illuminista italiano, fondatore di una
rivista letteraria e autore un libro intitolato Osservazioni sulla tortura. In quel
testo, in cui si servì anche degli atti del processo agli untori, egli sostenne una tesi
semplice e lineare: che gravi errori giudiziari come quello di un secolo e mezzo prima si
spiegavano solo con il fatto che si applicava la tortura, che portava inevitabilmente a
confessioni false ed estorte e alla chiamata di correo verso innocenti. Aboliamo
l’istituto, scrisse con illuministica fiducia, e avremo abolito anche il male. Nel
frattempo il suocero di Manzoni, Cesare Beccaria, scriveva uno dei testi più fortunati
dell’illuminismo: il trattato Dei delitti e delle pene, in cui sostenne che,
insieme con la tortura, era bene cancellare anche la pena di morte. Entrambi i nobili milanesi
centrarono i loro obiettivi: sotto l’illuminato dominio austriaco, infatti, ottennero
l’uno, Verri, l’abolizione della tortura (e la demolizione della colonna infame,
che viene ancora descritta da Parini in una delle sue odi), e l’altro, Beccaria,
l’abolizione della pena di morte dall’ordinamento giuridico dell’Austria
asburgica e dell’Austria italiana.
Le Osservazioni sulla tortura, che apparvero nel 1777, precedono di circa mezzo secolo
la prima stesura dei Promessi Sposi e la seconda della Colonna infame. La prima,
infatti, era stata stilata come appendice al Fermo e Lucia, cioè insieme con il
primo progetto di romanzo. Manzoni, allora, scrisse un’appendice storica che negli anni
seguenti avrebbe rifatto due volte, fino alla versione del 1842 che intitolò,
semplicemente, Storia della colonna infame. L’uscita del testo, pubblicato per
molto tempo insieme con il romanzo, veniva annunciata già in un passo dei Promessi
Sposi del 1840. Se si legge un brano dello stesso capitolo insieme con
l’incipit della Colonna si capisce quanto i due testi siano legati, quasi
come siamesi.
Promessi Sposi, dal capitolo XXXI
Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto d'esaminare e di confrontare
quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella
peste; sicché l'idea che se ne ha generalmente, dev'essere, di necessità, molto
incerta, e un po' confusa: un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per
verità ci fu dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare),
un'idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado
scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo,
cioè senza intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando
e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d'una
inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam
cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato
ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli
avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi
voglia farsi un'idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali:
sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre
nell'opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di
distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli
nell'ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d'essi,
d'osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché
qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel
disastro.
Uniamo adesso ciò che nelle scuole viene di solito diviso:
Colonna infame, dall’introduzione
Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta, d'un avvenimento complicato, d'un gran
male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare
osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non così immediata, non meno
reale.
Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell'intento
speciale, c'è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa,
prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la barbarie della giurisprudenza, e
riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore
dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in fisica può
produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non
s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia
dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in
opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire
a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati
colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le
verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e
dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi abbiam
cercato di metterla in luce, di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti, che
essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione
che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli,
per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con
caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e
ricorrere a espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia.
La parola chiave, nel brano e in tutta l’opera di Manzoni, è ovviamente
“verità”; e tuttavia nel racconto delle unzioni il Manzoni illuminista e il
Manzoni cristiano non parlano più la stessa lingua. Un illuminista come Verri avrebbe
scritto (e scrisse) che la riforma della giustizia umana poteva incidere sulla storia: abolendo
l’istituzione della tortura si sarebbe abolito il male di processi costruiti sulla
violenza. Il cattolico Manzoni sostiene un punto di vista quasi contrario: perché mai
giustificare l’errore umano in presenza di istituzioni malate? Cessa forse la
responsabilità personale (potremmo dire, con parole più teologiche, ‘il
libero arbitrio’) se in un secolo si agisce con forme giuridiche poco illuminate? Anche
nelle epoche più tristi e oscure, fece osservare Manzoni, l’uomo può agire
per il bene ed evitare di colpire innocenti. E tuttavia, come poteva intervenire il libero
arbitrio nel processo che Verri aveva raccontato per primo? Se la procedura del tempo
prescriveva la tortura, come evitare che da essa sortissero accuse contro uomini innocenti?
Manzoni studiò il diritto dell’epoca e giunse a sostenere che la tortura poteva e
doveva essere applicata diversamente da come avevano fatto, in quel frangente, i giudici
milanesi degli untori: dopo aver accumulato indizi a carico valevoli a comminarla; per molto
meno tempo; con adeguate garanzie; con il sospetto che la confessione potesse essere falsa;
senza dar seguito alla accuse; cercando magari le prove per convalidarle e senza promettere in
modo indegno un’impunità che non fu mantenuta. Quei giudici, non tutti i giudici
del tempo, avevano sbagliato; quei giudici che avevano agito come se la giustizia umana fosse
superiore a quella divina. Dovevano per forza applicare la pena di morte; seguire la vox
populi che chiedeva sangue e vendetta in nome di una credenza a cui molti, ma non tutti,
davano seguito? Il cristiano Manzoni non ne è convinto e si indigna. Non sono le
istituzioni che, nel bene o nel male, mettono al riparo dall’imperativo irriducibile
della scelta, supremo dovere dell’anima individuale dotata di libero arbitrio. Manzoni
dunque cerca di superare Verri in una questione che assume una piega etica, prima che storica,
e per farlo si butta a capofitto nelle fonti secentesche. Immaginatevi Manzoni che prende quasi
tutti i trattati di diritto dell’epoca per capire se i giudici degli untori avevano agito
in base ai principi probatori del tempo. La risposta che ne cava è che no, non avevano
rispettato le regole. Lo smontaggio del processo può apparire noioso e micragnoso come
molte cose in Manzoni; ma si tratta di un atto di coraggio che consiste nel dire fino a che
punto, nonostante la stoltezza di un’istituzione come la tortura, nonostante la credenza
nei venefici, era comunque consentito agire bene e chiudere il processo senza morti innocenti.
Il rimando alle fonti è continuo, e si tratta spesso degli stessi documenti già
usati da Verri, ma con un di più, in quantità e in qualità.
Per concludere, la Colonna infame non è facile da leggere, ma si tratta di un
testo di alto valore che ha avuto una fortuna controversa. Nell’Ottocento finì per
essere eclissato dal romanzo e da nuove mode letterarie; nel Novecento riapparve per essere di
nuovo sotterrato dalla scuola critica che faceva capo al filosofo Benedetto Croce. Per Manzoni
la Storia, come contesto e - per così dire - come ‘spirito dei tempi’, non
giustifica tutto; al contrario, per lo storicismo crociano tutto ciò che è stato
reale è in qualche modo razionale. Banalizzando, la storia non può che essere
quella che è stata, date alcune premesse. Agli occhi di Croce e dei crociani la
Colonna apparve così come un’inutile e moralistica declamazione, incapace
di calarsi nei tempi che pretendeva di descrivere. Un allievo di Croce, l’archivista
Fausto Niccolini, nel 1937 scrisse addirittura un intero libro (Peste e untori nei Promessi
Sposi) per ribadire che Manzoni non aveva capito nulla del diritto dell’epoca, e
quasi nulla delle carte del processo che aveva letto. Insomma, i singoli giudici non meritavano
alcuna postuma condanna, tanto più che erano le procedure il problema. Tornava, insomma,
la distinzione, già propria di Verri, tra istituzione e colpa individuale. E tuttavia
nel 1937 siamo in pieno fascismo. Non so se Niccolini fosse fascista (non lo era certo Croce);
ma possiamo immaginare che il regime non amasse una lettura in cui si ammetteva, dato un
ordinamento giudiziario malato, la scelta e la responsabilità individuale, buona magari
ad arrestare una macchina infernale applicata per eliminare gli avversari politici...
La fortuna della Colonna è esplosa solo nel secondo dopoguerra, con molte
contraddizioni e la solita divisione tra un partito pro e un partito contro. A proclamare la
grandezza del testo è stato soprattutto Leonardo Sciascia, che ne curò in prima
persona un’edizione nel 1981, dopo aver lavorato alla sceneggiatura di un film tratto dal
libro, che circolò poco. Non deve sorprendere che Sciascia amasse tanto il testo
manzoniano, dato che rifletteva proprio in quegli anni sugli abusi della legislazione
antiterrorismo, che metteva in seria crisi un ordinamento giudiziario garantista come quello
italiano. Ma Sciascia era anche ossessionato dal problema della legislazione antimafia,
convinto, come fu negli ultimi anni di vita, che le leggi sul pentitismo rischiavano di
incriminare ingiustamente persone innocenti. La lettura della Colonna divenne, per
Sciascia, un modo di ragionare dell’applicazione della giustizia in Italia; e la fortuna
del testo, da allora, è stata legata anche a dibattiti civili di questa natura. La
fortuna e la sventura, visto che ad attaccare il moralismo manzoniano è stato, negli
stessi anni, un giurista che collabora con il quotidiano «La repubblica», Franco
Cordero. In un libro intitolato La fabbrica della peste egli ha ripreso le tesi
crociane, sostenendo che Manzoni declama e mira così a salvare le istituzioni
condannando gli uomini in nome di una visione della storia che non ha non ha nulla di
illuministico e nessuna fede nella riformabilità della storia.
Ma c’è anche una fortuna letteraria che ha arriso al testo, se solo si pensa che
con la Colonna Manzoni ha inventato un genere nuovo: quello del libro-inchiesta
giudiziario e/o storico. Basti guardare all’Affaire Moro o ad altre opere di
Sciascia per capire di che si tratta. Anche all’estero sono esistite opere del genere,
bene inteso. Per esempio, quando alla fine dell’Ottocento un ufficiale ebreo fu accusato
di avere complottato contro la Francia, il romanziere Emile Zola scrisse l’Affaire
Dreyfus per discolparlo e per bollare l’antisemitismo del tempo. Ma si trattava di
qualcosa di molto diverso dal testo manzoniano: cioè di un pamphlet polemico in
cui la parte documentaria non rivestiva un carattere essenziale. Non così nei testi che
si sono ispirati a quello di Manzoni, in cui la citazione di lettere, articoli, parti di
processo e altri documenti è un elemento integrante dell’inchiesta che si vuole
descrivere come atto di denuncia. Si tratta, in qualche modo, di un genere quasi italiano,
esemplificato, come dicevo, soprattutto da Sciascia, che ha dedicato un saggio proprio alla
Colonna. Nel libro sul caso Moro (che è costruito sulle lettere che lo statista
scrisse dalla prigionia) e in altri le citazioni di Manzoni abbondano. Un altro buon esempio
(ma si potrebbe trattare di una ripresa inconsapevole) è Il giudice e lo storico, un
testo scritto nel 1989 da Carlo Ginzburg, uno storico di professione, per demolire il processo
milanese contro Adriano Sofri in nome di una posizione innocentista difesa con lo smontaggio
delle carte dei magistrati. L’esempio migliore è tuttavia Corrado Stajano, attuale
collaboratore del «Corriere della Sera», che ha scritto vari libri-inchiesta basati
su celebri atti giudiziari. Nel lombardo Stajano la riflessione morale e l’affresco
storico diventano quasi una sola cosa come già in Manzoni. Se aprite Un eroe
borghese, anch’esso del 1989 (un anno che precede di poco Tangentopoli) le prime
pagine sono dedicate alla Milano degli anni Ottanta, una Milano corrotta a colpi di tangenti,
con una classe politica impazzita, nella quale muore Giorgio Ambrosoli, chiamato a liquidare il
Banco Ambrosiano dopo le vicende di Calvi che forse qualcuno di voi ricorderà. Ebbene,
Stajano apre il libro con le seguenti parole: «di nuovo la peste, di nuovo i monatti e
gli untori, questa volta untori veri, ben reali, che con unzioni parti bianche e parti gialle
hanno imbrattato e incrinato le fondamenta della città». La pagina continua a
descrivere una Milano appestata, rendendo chiara l’allusione al genere letterario che
Stajano usa in Un eroe borghese: quello, appunto, inaugurato dalla Colonna
infame. Milanese, illuminista e grande narratore e moralista, Stajano sa riflettere
magistralmente sul nodo della scelta morale dei singoli anche in tempi di corruzione e di
istituzioni malate, ponendosi come erede di Manzoni.
Chiudo davvero con un’ultima cosa, visto che si è parlato di Carlo Ginzburg,
figlio di Natalia e di Leone Ginzburg, antifascista e primo redattore della casa editrice
Einaudi. Carlo Ginzburg, negli anni Settanta del Novecento, ha saputo rinnovare anche il genere
del libro di storia. Non è stato né l’unico né il primo, beninteso,
perché gli storici hanno smesso di fare solo storia militare e politica da molto tempo.
Ma lo ha fatto in modo speciale, inaugurando un genere che da allora si chiama
microstoria. Un genere molto italiano, ma imitato all’estero, che consiste nella
scelta di raccontare un piccolo fatto, una circoscritta regione e assai spesso un singolo
processo giudiziario per farne un punto di partenza per l’analisi di temi più
grandi o una vicenda emblematica, un frammento di mondo. Questa ricetta è stata
applicata da Ginzburg in un libro famosissimo che si chiama Il formaggio e i vermi,
apparso per Einaudi nel 1978. Esso descrive un processo aperto dall’Inquisizione contro
un mugnaio ‘ateo’ nel Seicento friulano; e tuttavia attraverso la mentalità
di questo singolare eretico semianalfabeta Ginzburg sa fare emergere credenze antichissime,
analizzate in modo molto fine. Non si tratta, in questo caso, di fare denuncia; ma nel genere
della microstoria una qualche eco manzoniana è comunque rintracciabile. Si pensi
all’opera di un altro storico che ha praticato il genere, Carlo Maria Cipolla. Una sua
opera, manco a dirlo, è dedicata a un singolo anno e a una singola la città: alla
peste a Prato nel 1630…
Direi, e mi zittisco, che si può essere d’accordo con Ezio Raimondi, uno dei
più grandi interpreti di Manzoni. Nella sua lettura critica dei Promessi sposi
che ha per titolo Il romanzo senza idillio (risale a circa trent’anni fa) egli ha
scritto: «Nonostante la luce che emana dalla legge morale in varie parti dei Promessi
Sposi, il male resta un enigma, segno terribile della libertà
dell’uomo». E’ come se tutta la tragedia del libero arbitrio fosse racchiusa
in una sola e breve frase: «la sventurata rispose». Il soggetto è Gertrude:
una donna rinchiusa in un istituto che non ama, in tempi in cui la donna doveva finire
carcerata nel chiostro non per il desiderio di Dio, ma per salvaguardare i patrimoni dei figli
maggiori. E tuttavia la sventurata rispose, appunto, passando da vittima dei tempi a carnefice
in virtù di un libero arbitrio che non ha saputo usare. E conclude Raimondi «in
fondo, implacabile come un teorema calato nell’opacità e nella violenza di un
corpo, non è altro che l’agostiniano consentire o dissentire a partire dalla
propria volontà». Il romanzo di Manzoni, dice Raimondi, è il poema del
consenso e del libero arbitrio; potremmo aggiungere che la Colonna infame è
anch’essa una variante sul tema della verità e della scelta degli uomini nella
storia della città terrena. Grazie.
DOMANDA: Cosa puo’ fare un operatore della scuola per far amare Manzoni?
RISPOSTA: Anzitutto preferisco non chiamarti “operatore della scuola”, ma
“insegnante”: termine e professione nobilissimi. E poi dirti, in poche parole, che
penso che il mondo della ricerca non abbia molto da insegnare ai professori di scuola. Per di
più io non faccio ricerca letteraria, ma storia, e ti posso dire, anche in virtù
di esperienze altrui, che insegnare storia a scuola, quando non si tratti di Hitler, Stalin e
altri ammazzamenti novecenteschi, è diventato un serio problema. Dare il senso di una
prospettiva storica lunga non è affatto facile. Per Manzoni la sciagura è che ne
hanno fatto un monumento della cultura nazionale, una mummia anzi. Io sono convinto che sia
stato un bene monumentalizzare Manzoni rispetto ad altre opere della tradizione letteraria
italiana, se vuoi il mio modesto avviso. Immagino cosa sarebbe avvenuto se, come invece sarebbe
piaciuto a molti retori e professori universitari, avessimo monumentalizzato Gabriele
D’Annunzio. Meglio il suicidio! Qual è la differenza fra D’Annunzio e
Manzoni, appunto; in cosa consiste lo scarto di valore? Questa sì è una cosa che
si potrebbe insegnare a un ragazzo: la differenza fra vero e falso, tra moda e classico. Si
può discutere del moralismo manzoniano, si può credere o no in Dio, si può
avere fastidio verso il paternalismo conservatore di Manzoni. Si possono prendere i Promessi
Sposi, paragonarli a una pagina contemporanea di Balzac, di Tolstoj, di Flaubert (non di
Hoffmann, magari) e concludere, sono il primo a dirlo, che Madame Bovary è
più grande (penso che piaccia di più anche agli studenti). E tuttavia insegni
letteratura italiana. Ebbene, io credo che sia possibile far comprendere
l’operazione di Manzoni, con tutti i limiti che ha avuto; che sia possibile insegnare la
grandezza di un uomo che comunque, in quell’universo culturale, in quel contesto, scrisse
per primo a quel modo. Circondato da tromboni neoclassicisti che parlavano alle accademie,
Manzoni seppe rompere con un vizio antico. Tutti leggevano poesie, magari quelle belle del
lirico di Recanati; ma per europeizzare la cultura italiana ci voleva ben altro che Foscolo,
che non mi risulta abbia inseguito un problema importante come quello della verità. La
verità di Manzoni è monca, certo, come ammaccato era l’uomo Manzoni nella
sua vita personale; ma certamente egli ha compiuto un’operazione coraggiosa. Non so come
si possa restituire tale coraggio a scuola, né penso che la Colonna infame (un
testo che comunque meriterebbe di essere accompagnato ai Promessi Sposi) sia facile a
leggersi. Si potrebbero trarne delle parti, e ragionare del lascito sotto traccia che il genere
manzoniano del libro-inchiesta ha avuto in Italia. Si potrebbe poi puntare a una scelta
extra-letteraria. Manzoni è un antitodo contro la viltà morale, contro
l’accettazione dello spirito dei tempi. Può non piacere (e a me in parte non
piace) la tesi che la riforma delle istituzioni è secondaria rispetto alla conversione
personale al bene. Manzoni era cattolico, era un aristocratico, un conservatore. Può non
piacere, ripeto. E tuttavia i suoi testi sono grandi perché posseggono una dialettica.
Il mondo, possono dirci, non va accettato così com’è, ‘a
prescindere’, come direbbe Totò. Bisogna che in istituzioni malate si agisca con
rettitudine. E’ vero però che Manzoni non piace. Neppure Dante piaceva fino
all’Ottocento… Io non so se si possa ‘descolarizzare’ Manzoni,
né so come si possa farlo. Penso però che un professore possa ricordare,
leggendolo, che egli si è posto il problema del pubblico e della verità; e si
può parlare della fortuna dei suoi testi, non so. Meglio di me può dire un
insegnante!
DOMANDA: Lei ha tenuto questo stesso incontro questa mattina, in una scuola superiore,
secondo le intenzioni dell’Associazione Guido Sacchi e quelle dell’Areopago. Ha
potuto usare lo stesso linguaggio ed ha avuto la stessa attenzione di questa sera?
RISPOSTA: No, non mi sono permesso di parlare così stamattina, non era
possibile, perché la scuola è diventata difficile (e questo possono dirlo i
professori presenti meglio di me). Diciamo che per venti minuti c’è stato bisogno
di domare le urla. Le scuole son diventate così, non tutte; ed esiste un problema di
attenzione degli studenti (un problema di attenzione degli esseri umani in genere). Questa
virtù sta collassando, vittima di un rapporto con il testo scritto che si è fatto
quasi insanabile. Questo è un serio problema, e non si capisce come salvaguardare la
pagina a stampa… Non è la stessa cosa leggere i testi su internet, io non ne sono
convinto. Purtroppo i ragazzi scambiano forme di lettura più o meno improvvisata per un
accostamento alla tradizione. Ma forse è proprio la tradizione che sta per collassare.
Come cambiano le facoltà cognitive con la televisione, con internet, con lo zapping?
C’è poi un problema che riguarda il come ci si percepisce dentro la cultura
occidentale, che è certamente una cultura di efferato dominio, ma anche di
libertà. Insomma, se uno riuscisse sempre ad insegnare allo stesso tempo
dov’è il dominio e dov’è la libertà, e a farlo attraverso la
tradizione culturale, attraverso la profondità dei testi letterari, avremmo risolto
molti mali, forse… Ma c’è una rinuncia a educare; c’è una
rinuncia a ogni principio di responsabilità.
DOMANDA: L’insegnante deve essere come un trasmettitore che insegna i diversi
autori – e le diverse prospettive - da un punto di vista neutrale o deve esporre i suoi
punti di vista?
RISPOSTA: Io non penso che l’insegnante si debba neutralizzare.
L’insegnante deve fare qualcosa di simile a quello che si fa qui, insieme, con la
formula: Perché leggere i classici. Ora, io non posso dire che Manzoni sia il mio
classico del cuore. Se avessi dovuto parlare di un letterato che in questo momento mi
entusiasma, avrei fatto una conferenza su Philip Roth (magari la rimandiamo).
L’educazione non è stare un passo indietro e neutralizzarsi; l’insegnante
non è come lo psicanalista freudiano. L’insegnante è parte in causa in un
processo educativo, e quindi dirà che cosa gli piace e che cosa non gli piace, lo
motiverà, non sarà ideologico. Il problema non è che cosa
l’insegnante preferisce, o che cosa ritiene più opportuno per l’educazione.
Il problema è il tasso di ideologia che non deve scaricare nell’atto di educare.
Ideologia non vuol dire presa di posizione politica, religiosa, morale. Senza partigianeria
c’è solo ignavia. L’ideologia è il processo di falsificazione della
verità, propria e altrui; è il di più. Ecco, io sono laico e amo Manzoni,
che è cattolico. Quello che ho tentato di dire è che Manzoni in tutta la sua
opera resta un uomo lacerato: come letterato che tende alla storia; come uomo di fede che si
dispera per gli errori del libero arbitrio e della cecità umana; come scrittore
cattolico che ha necessità di fare apologetica in favore di una fede che ha abbracciato
tardi, e come scrittore tout court che tende a non scadere in una caduca oratoria; come
illuminista e come cristiano; come realista romantico. E’ in virtù di tale
tensione che Manzoni è grande; poi si potrà spiegare anche perché non
piace, riconoscendone la grandezza. Io l’ho sempre adorato, anche quando andavo a scuola.
Ma forse sono una specie di mosca bianca…
Il progetto originario
del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
I fiori del male di Charles Baudelaire
Dalla voce alla penna: parola detta, parola scritta
L´Eneide di Virgilio: la fatica della
civiltà
L´Orlando
Furioso di Ariosto: gli scherzi del desiderio
Anna Karenina di Tolstoj: disperazione e
felicità
Guerra e pace di L.Tolstoj
Paolo VI, Il signore dell'altissimo
canto: Dante Alighieri
Le sacre scritture e la letteratura.
La bibbia, un libro da non perdere
Dante a settecento anni dal viaggio della
“Commedia
Il cristianesimo di Dante
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