«Ridare agli studenti il senso del passato». Un’intervista di Bianca Garavelli a Nicola Gardini
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Riprendiamo da Avvenire del 2/8/2011 un’intervista di Bianca Garavelli a Nicola Gardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia e la sezione Letteratura
Il Centro culturale Gli scritti (3/8/2011)
Nicola Gardini da alcuni anni insegna Letteratura italiana all’Università di Oxford, ma prima ha fatto esperienza nei licei e nelle università italiani. È traduttore, poeta e narratore; ha condiretto la rivista 'Poesia', ha pubblicato un memoir delle sue vicende universitarie, I Baroni. Come è perché sono fuggito dall’Università italiana (Feltrinelli), e molti saggi di critica e letteratura, tra cui il recentissimo Per una biblioteca indispensabile (Einaudi), catalogo anticonformista di libri (e non di autori) «in cui trionfino il rispetto del pensiero e la condanna dei pregiudizi».
Lei adesso vive nel Regno Unito: che percezione hanno della cultura italiana gli studenti inglesi?
«Gli studenti undergraduate, cioè quelli che seguono i corsi universitari di base, non si può dire che abbiano un’idea generale di cultura italiana. Il sistema universitario inglese – e Oxford dove insegno non è un’eccezione – rilutta alla fabbricazione dei grandi affreschi. Si lavora su una selezione molto precisa di testi e di quelli si discute in profondità. Difficile affermare che una lettura approfondita del Furioso o del Principe dia allo studente un’opinione sulla cultura di un intero paese. Credo che agli inglesi qualcosa del genere interessi poco».
E quando torna in Italia, che impressione ne ha lei? C’è davvero un abbassamento del livello culturale?
«L’abbassamento, sì, c’è. La pervasività della televisione ha creato una comunanza di impressioni fasulle, di linguaggi aggressivi e approssimativi e di modelli di comportamento che fanno orrore. Pochi, ormai, sanno parlare. Pochi sono disposti ad ascoltare. Non vedo impegno, studio, dignità. Le eccezioni ci sono. Ma vanno cercate. Io, quando torno, osservo violenza, malcostume, materialismo e presunzione in ogni momento della giornata. Nessuno pensa all’altro. L’Italia è un paese di narcisisti egoisti».
Pensa che la scuola, e l’università, abbiano qualche responsabilità in questo?
«Sì. La scuola non deve dimenticare che ha un compito educativo essenziale. Sento docenti di italiano che dicono che per coinvolgere i loro studenti si mettono a leggere con loro la 'Gazzetta dello sport' o cosine commerciali che parlano della loro vita. L’importante, dicono, è che leggano. Niente affatto! La scuola ha il dovere di mostrare ai giovani che esistono altre dimensioni che il loro mondo quotidiano. 'La Gazzetta' se la leggano da soli! La scuola deve dare un senso della storia, del passato; deve mostrare che la vita non è tutta qui e ora, ma avviene da molto prima che noi abbiamo avuto la fortuna di capitarci. Crediamo di favorire un giovane leggendo con lui, a scuola, le cose che leggerebbe comunque da solo e invece lo priviamo di qualcosa di essenziale, di un passato; gli accorciamo la vita».
Bisognerebbe cambiare il 'catalogo' degli autori a scuola, anche per rappresentare meglio l’immagine dell’Italia?
«Non è solo questione di catalogo. Prima di tutto credo che bisognerebbe leggere di più, a scuola. E per trovare tempo per la lettura occorre rinunciare a certe cose. Io abolirei lo studio della letteratura. Fonderei i programmi sui libri individuali. Che importano, alla fine, le etichette? I decadentismi, i romanticismi, i classicismi? Sono invenzioni, niente più. I libri, invece, sono pezzi di realtà. Questa, la realtà, la concreta formazione dei discorsi, è ciò che va studiato».
Come dovrebbe essere letto un libro? Analisi e smontaggi oppure lettura libera?
«Dipende da quel che ci si aspetta dalla lettura. Analisi e smontaggi vanno benissimo se non si limitano a distruggere l’unità del discorso, ma invece consentono di evidenziare lo sviluppo del pensiero e la coerenza dell’immaginazione. La lettura libera non esiste, in fondo; neanche quando leggiamo con metà cervello. Anche distrarsi è una forma di attenzione: si legge sempre con lo specchio delle nostre fantasie davanti. Basta esserne coscienti».
Che cosa intende quando parla di «conoscenza letteraria non inferiore a quella scientifica», e perché è sottovalutata?
«Ormai, in ambito accademico e politico, si tende a presupporre che la vera conoscenza sia solo quella quantificabile della ricerca scientifica. Insomma, il sapere avanza solo nei laboratori. È il vecchio conflitto tra scienze e lettere (ovvero tra filosofia e poesia) che si originò già con Platone. Sarebbe ora che i letterati rivendicassero l’importanza del sapere che l’umanità riceve dai libri, cioè dalla letteratura: il sapere dell’immaginazione, quello che consente di interpretare le manifestazioni più disparate della vita, di entrare nel senso delle parole, nella costruzione del pensiero, nella diffusione di certe immagini. Questo è un sapere profondamente etico, che non distingue l’informazione dalla formazione dell’individuo e delle società e sostiene i valori della vita e della civiltà: la memoria storica, il rispetto degli altri, la bellezza».
Tornerebbe a lavorare nell’apparato scolastico italiano?
«Direi di no. Oxford è diventata una parte fondamentale della mia vita e della mia identità. L’università italiana mi aveva tanto disgustato! So che ci sono eccezioni. Ho molti amici che ci insegnano, persone che rispetto e che non hanno idee molto diverse dalle mie. Ho ricordi bellissimi degli anni in cui insegnavo latino e greco nei licei. In fondo, credo che in Italia abbia già insegnato abbastanza. Scrivo. Scrivo per gli Italiani. Questo sì».