«Perché in Avvento usiamo ancora il viola, se non è propriamente un tempo penitenziale? Non dovremmo forse scegliere un colore che esprima meglio la sua attesa lieta?». Risposta di Giuseppe Costa

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /11 /2025 - 10:17 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito da Facebook un testo di Giuseppe Costa. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Liturgia.

Il Centro culturale Gli scritti (30/11/2025)

CHIEDILO AL LITURGISTA

«Perché in Avvento usiamo ancora il viola, se non è propriamente un tempo penitenziale? Non dovremmo forse scegliere un colore che esprima meglio la sua attesa lieta?»

I colori liturgici sono una delle forme più immediate con cui la Chiesa parla per “signa sensibilia”: attraverso segni che toccano i sensi e aprono all’intelligenza del mistero (cf. SC 7). Prima ancora di essere una convenzione, il colore è un’esperienza: lo vediamo, lo percepiamo, lo sentiamo vibrare. Per questo la liturgia lo assume come un linguaggio capace di esprimere ciò che le parole non sempre riescono a dire.

I colori, molto prima di essere una scelta estetica, sono un modo di raccontare il mondo. Ogni cultura li riconosce come linguaggi: custodiscono memorie, suggeriscono emozioni, rivelano appartenenze. Non sorprende che anche la liturgia, che parla per segni e attraverso i sensi, li abbia assunti nella sua grammatica spirituale.

E tuttavia, é doveroso dire che per molti secoli, la tavolozza liturgica rimase fluida: nelle comunità del primo millennio si sperimentavano toni diversi, a seconda delle disponibilità e delle tradizioni locali. In questa varietà viveva una sapienza simbolica ancora in fermento.

Solo con papa Innocenzo III, nel XIII secolo, Roma fissò cinque colori, destinati a entrare stabilmente nel Messale soltanto nel 1570.

Il rito ambrosiano, libero da questa regolamentazione, conservò per l’Avvento il suo morello – un colore sospeso tra il viola e il rosso, come se la notte vi custodisse già il segno discreto di un’alba imminente.

È un dettaglio che dice molto. Perché l’Avvento non ha il timbro “austero” della Quaresima, e non è annoverato tra i tempi penitenziali: il canone 1250 del Codice di Diritto Canonico ricorda che l’unica stagione penitenziale universale è la Quaresima, (insieme ai venerdì dell’anno). L’Avvento non compare nella lista. La sua penitenza, quando c’è, è quella mite di chi sta preparando una casa, non quella severa di chi si ritira nel deserto.

Però il colore, si sa, influenza lo sguardo. E il viola, nella sua storia millenaria, porta con sé stratificazioni simboliche che rischiano di sovrapporsi. Non è un colore come gli altri: fisicamente è il limite dello spettro visibile, quasi una soglia tra ciò che si vede e ciò che sfugge. I Fenici ne ricavavano questa colorazione da migliaia di conchiglie, facendone un pigmento più prezioso dell’oro. A Bisanzio, gli imperatori nascevano in stanze rivestite di questo colore; da lì il titolo di “nati nel viola”. Anche in Giappone solo i ranghi più elevati potevano indossarlo. È un colore che, da Oriente a Occidente, ha parlato sempre di dignità, di potere, di mistero regale. Questa nobiltà simbolica si è riversata anche nella vita della Chiesa (non è un caso che la talare dei vescovi sia viola).

Nel Medioevo, quando si cercò di armonizzare l’uso dei colori liturgici, si stabilì che il rosso fosse il colore della Passione e dello Spirito, il bianco quello della Pasqua, il nero quello del lutto e della penitenza. Il viola, definito subniger, era considerato una variante attenuata del nero: un modo per esprimere gravità senza precipitare nell’oscurità. Così, in alcune regioni, iniziò a sostituire il nero nell’Avvento. Non perché l’Avvento dovesse diventare penitenziale, ma perché si cercava un colore che raccontasse il suo clima spirituale: serio, sì, ma non cupo; un tempo attraversato da una promessa.

Oggi questa storia ci interroga di nuovo. Se l’Avvento è “tempo di devota e lieta attesa”, allora il suo colore non può essere semplicemente il viola quaresimale. Molte comunità, con fine sensibilità pastorale, hanno iniziato a usare toni più chiari, più luminosi, che sfiorano il morello o lo richiamano (OGMA 321d). Non si tratta di una licenza estetica: la stessa liturgia riconosce che nelle solennità la qualità del segno può prevalere sulla rigidità cromatica. È come se la veste liturgica fosse chiamata non a ripetere automaticamente un codice, ma a interpretarlo, lasciando trasparire la teologia viva della celebrazione.

Perché, in fondo, l’Avvento è un tempo liminare: una notte che trattiene il respiro, ma già si lascia rischiarare; un grembo che custodisce una promessa; una soglia che invita a vigilare non con timore, ma con stupita fiducia. È il tempo in cui la penitenza, quando accade, ha il volto luminoso di chi si prepara all’incontro.

Forse il colore dell’Avvento dovrebbe dire proprio questo: non la severità del deserto, né la brillantezza del Natale già arrivato, ma la vibrazione interiore di un inizio che avanza piano. Un colore che sappia raccontare la notte senza spegnerla, e l’aurora senza anticiparla.

Un colore di soglia, di promessa, di attesa abitata. Un colore – potremmo dire – in cui il cielo comincia a schiarire, mentre è ancora notte.

Domandarsi quale colore sia davvero capace di raccontare l’Avvento non è un esercizio da rubricisti puntigliosi, né il tentativo di scovare il “pelo nell’uovo” liturgico. È, piuttosto, un atto di fedeltà al linguaggio dei segni che la Chiesa custodisce e continuamente offre alla sua preghiera.

Non si tratta – va da sé – di sostituirsi all’autorità delle Conferenze episcopali, né di piegare la liturgia a sensibilità soggettive, ma di lasciarsi provocare dalla forza simbolica della norma stessa. Rimanere nel viola, colore proprio dell’Avvento secondo il Messale Romano (OGMR 346d), può allora diventare un gesto di intelligenza spirituale: non semplice adesione cromatica, ma traduzione viva di un senso, di una tonalità dell’anima capace di dire l’attesa vigilante, la penitenza dolce e la speranza trattenuta che prepara il mondo al suo kairos. Un segno reso eloquente, secondo la grammatica simbolica della Chiesa.

Un viola che, pur rimanendo fedele all’indicazione del Messale Romano, possa lasciar trasparire lo spessore dell’attesa attraverso la bellezza dei materiali, la sapienza iconica dei motivi tessili e la forza evocativa delle loro fattezze. Il viola dell’Avvento può essere sfumato, screziato, trapunto: non per contraddire la norma, ma per liberarne la potenza espressiva. Si può per esempio “lavorare” il viola con altre cromie non dominanti, che restino subordinate ma significative: fili d’oro che accennano alla regalità umile dell’Atteso; trame d’argento che suggeriscono il brivido della stella nel freddo della notte; riflessi blu che ricordano la gravità vigilante del cielo che trattiene il respiro; motivi rosati appena percepibili, memoria profetica di una gioia non ancora dischiusa ma prossima.

Nella liturgia, nulla è puramente ornamentale: ogni gesto, ogni postura, ogni tonalità entra in quel dialogo tra Dio e il suo popolo che passa attraverso i sensi prima ancora che attraverso le parole. Il colore delle vesti non è un dettaglio marginale, ma un frammento di quella sacramentalità diffusa che rende visibile l’invisibile, che prepara il cuore alla preghiera e dispone la comunità a riconoscere il mistero che celebra.

Non si tratta dunque di fissarsi su sfumature, ma di lasciarsi educare da esse: perché il segno, quando è eloquente, non chiama all’esteriorità, ma alla profondità. Così il viola dell’Avvento diventa evento: non colore che decora, ma colore che interroga, che forma uno sguardo, un sentimento, una postura del cuore.

Non è un viola nostalgico, ma escatologico; non malinconico, ma profetico. E così anche la scelta del colore dell’Avvento diventa un invito a contemplare il tempo che viviamo: un tempo che non vuole essere confuso con la penitenza quaresimale, né anticipare la festa natalizia, ma custodire la promessa, sussurrarne la luce e orientare i nostri passi verso Colui che viene. Non è rubrica sterile, è incanto del segno.

Non è pignoleria, è cura dell’annuncio. È il desiderio di far sì che anche le vesti, come tutto nella liturgia, parlino con verità del mistero che avvolge e trasforma la vita della Chiesa.