Il sacrificio di Cristo ed il suo significato nella narrazione allegorica di C.S.Lewis, ora sugli schermi nella versione cinematografica di Andrew Adamson Le cronache di Narnia: il Leone, la Strega e l’Armadio (tpfs*), di Andrea Lonardo
Riguardo all’altro nome di Aslan, vorrei davvero che fossi tu ad indovinare. C’è mai stato qualcuno in questo nostro mondo che: 1) giunse nello stesso periodo di Babbo Natale; 2) disse di essere il figlio del Grande Imperatore; 3) per la colpa di qualcun altro diede se stesso a degli uomini cattivi che lo derisero e lo uccisero; 4) tornò in vita; 5) viene alle volte chiamato l’Agnello (vedi la conclusione del Veliero)? Davvero non sai il Suo nome in questo mondo? Pensaci su e fammi sapere la tua risposta!
Così C.S.Lewis, autore dei tre volumi de Le cronache di Narnia da un episodio dei quali è tratto il film di A.Adamson in questi giorni sugli schermi, rispondeva ad Hila, una bambina americana lettrice delle sue fiabe[1]. La decisione di dare vita ad una allegoria di Cristo, nella sua creazione di fantasia, è evidente. Il leone Aslan è figura di Cristo che vince il gelo e la morte del mondo offrendo se stesso alla morte per la salvezza di uno dei bambini protagonisti della fiaba, Edmund, colpevole di tradimento, e risorge a vita nuova, per essere con i suoi nella battaglia finale contro la Strega Bianca e le forze maligne che la accompagnano.
Meno noto è che proprio la riflessione sul significato del sacrificio di Cristo, ripresentato dalla figura di Aslan, sia all’origine della conversione al cristianesimo dell’autore inglese.
Così egli stesso racconta ad Arthur Greeves la notte decisiva della sua vita - il 19 settembre 1931 - nella quale, fino alle 4.00 del mattino, si trovò a discutere con H.Dyson[2] e con J.R.R.Tolkien, l’autore de Il Signore degli anelli, della realtà della morte in croce di Cristo, finendo per esserne conquistato[3]:
Quello che mi ha trattenuto (perlomeno durante l’anno passato, all’incirca) non è stata tanto una difficoltà a credere, ma piuttosto a sapere cosa la dottrina volesse significare: non puoi credere a una cosa mentre ignori cosa questa sia. La mia difficoltà era la Dottrina della Redenzione nella sua interezza, in che modo la vita e morte di Cristo “avessero salvato” o “spalancato la salvezza” per il mondo. Capivo come una salvezza miracolosa potesse essere necessaria: uno può vedere dall’esperienza di tutti i giorni come il peccato (per esempio nel caso di un alcolizzato) possa portare l’uomo a un punto tale che egli sia destinato a raggiungere l’Inferno (la completa degradazione e miseria) in questa vita, a meno che un qualche aiuto o sforzo non semplicemente naturale prenda l’iniziativa. E potevo bene immaginare un mondo intero nella stessa condizione, e in maniera simile la necessità di un miracolo. Quello che non riuscivo a capire era come la vita e la morte di Qualcun Altro (chiunque questi fosse) duemila anni fa potesse aiutare noi adesso – se non nella misura in cui poteva esserci utile il suo esempio. E la questione dell’esempio, sebbene tanto vera e importante, non è il cristianesimo: proprio al centro del cristianesimo, nei Vangeli e in san Paolo, trovi qualcosa di completamente diverso e misterioso, espresso in quelle frasi di cui io mi sono fatto gioco così spesso (“propiziazione”, “sacrificio”, “il sangue dell’Agnello”), espressioni che riuscivo a interpretare solo in modi che mi parevano o sciocchi o scandalosi.
Ora, quello che Dyson e Tolkien mi hanno mostrato era questo: che se io incontro l’idea del sacrificio in un racconto pagano questa non mi crea alcun problema: anzi, che se mi trovo davanti un dio che si sacrifica, ne sono attratto e misteriosamente commosso: ancora, che l’idea del dio che muore e risorge (Balder, Adone, Bacco) mi colpisce così tanto a condizione che io la trovi ovunque tranne che nei Vangeli. La ragione è che nei racconti pagani io sono stato preparato a percepire il mito nella sua profondità e suggestione di significati oltre ogni mia capacità di comprensione, anche se poi nella freddezza della prosa io non riesco a dire “cosa significhi”. Ora la storia di Cristo è semplicemente un mito vero: un mito che agisce su di noi come gli altri, ma con la tremenda differenza che questo è davvero avvenuto. [...]
Cioè, le storie pagane sono Dio che esprime Se stesso attraverso la mente dei poeti, facendo uso delle immagini che vi ha trovato, mentre il cristianesimo è Dio che esprime Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”. Perciò è vero, non essendo una “descrizione” di Dio (cosa che una mente finita non potrebbe racchiudere) ma la via attraverso cui Dio sceglie di mostrarsi alle nostre facoltà. Le “dottrine” che tiriamo fuori dal vero mito sono certamente meno vere di questo: traducono in concetti e idee quello che Dio ha già espresso in un linguaggio più adeguato, la vera incarnazione, crocifissione e resurrezione. E’ sufficiente tutto questo per credere al cristianesimo? In ogni caso adesso sono certo che: A) in un certo senso, questo è il metodo con cui il cristianesimo deve essere avvicinato, così come mi accosto agli altri miti; B) fattore più importante e ricco di significato, sono quasi certo che sia tutto accaduto per davvero.
Fino a quella notte Lewis si era sì accostato al cristianesimo, trovandolo l’unica visione “non noiosa” del mondo, ma non ne aveva ancora preso in seria considerazione la possibile verità[4].
Il testo fantastico de Le cronache di Narnia, nell’episodio Il leone, la strega e l’armadio[5], ci presenta la legge della giustizia, stabilita dal grande Imperatore – fuor di metafora, da Dio - per la quale chi ha fatto il male (in questo caso Edmund, uno dei quattro fratelli, che più volte per ottenere piccoli vantaggi o per aver salva la vita ha tradito i suoi fratelli) è responsabile delle conseguenze di morte che ha generato:
– Tu hai un traditore qui, Aslan – cominciò a dire la strega. Naturalmente tutti sapevano che alludeva a Edmund, ma il ragazzo, dopo tutto quello che aveva passato e dopo il colloquio della mattina con Aslan, non ci pensava più: guardava il grande leone senza curarsi di quel che diceva la Strega Bianca.
– Ebbene, quel traditore non ti ha recato nessuna offesa – obiettò Aslan.
– Hai dimenticato la Grande Magia?
– Diciamo che l’ho dimenticata – rispose gravemente il leone.
– Parlamene tu.
– Devo parlartene io? – chiese la strega con voce stridula. –
– Devo ripeterti quello che è scritto là, sulla Tavola di Pietra? Devo farti ricordare che proprio su quella tavola sono scritte le stesse cose che la spada ha inciso profondamente nella roccia infuocata della Collina Segreta? E anche quello che è inciso sullo scettro dell’imperatore d’Oltremare? Sai bene qual è l’incantesimo che l’imperatore ha gettato su Narnia fin dall’inizio dei tempi. Sai bene che ogni traditore mi appartiene, è mio per legge. Ogni tradimento mi dà diritto a un’uccisione!
– Ah, capisco! – esclamò il castoro, con tono ironico. – Quella là crede di essere la regina e invece funziona da boia per conto dell’imperatore d’Oltremare. Capisco... capisco...
– Buono, buono, mio caro castoro – disse Aslan, e fece sentire un ringhio soffocato.
– Quell’essere umano mi appartiene – continuò imperterrita la strega. – Ho diritto a confiscargli la vita, a prendermi il suo sangue.
– E vieni a prendertelo, allora! – esclamò il toro con la testa d’uomo: la sa voce assomigliava a un profondo muggito.
– Imbecille! – replicò la strega con un sorriso che era quasi una smorfia crudele. – Credi dunque che il tuo padrone possa togliermi i miei diritti con l’uso della forza? Lo sa bene, lui, cosa stabilisce la Grande Magia: se non avrò il sangue di quel traditore, Narnia sarà distrutta dall’acqua e dal fuoco! Questo dice la Grande Magia!
– E’ vero – mormorò Aslan. – Non posso negarlo.
– Oh, Aslan! – esclamò Susan, e poi, avvicinando le labbra all’orecchio di Aslan, sussurrò: – Non possiamo permetterlo. Voglio dire che tu non lo permetterai, vero? Non si può far nulla per rompere l’incantesimo? Voglio dire, tu non puoi fare qualcosa contro la Grande Magia?
– Qualcosa contro quello che l’imperatore ha stabilito dall’inizio dei tempi? – chiese Aslan volgendo verso la fanciulla uno sguardo lievemente accigliato.
Aslan si ritira per un incontro a tu per tu con la Strega Bianca. Al termine del loro colloquio non spiega ai fratelli ed al suo esercito radunato ciò che avverrà, ma tutti avvertono che qualcosa di grande sta per accadere:
E la discussione tra il leone e la strega continuava. Finalmente si udì la voce di Aslan che disse:
– Tranquillizzatevi, va tutto bene. Ho sistemato la faccenda. La strega rinuncia ai suoi diritti sul sangue di vostro fratello. Allora si udì uno strano suono, come se tutti, che fino a quel momento non avevano osato neanche respirare, ora tirassero insieme un gran sospiro di sollievo. La Strega Bianca se ne stava andando: aveva sul volto un’espressione di gioia feroce. A un certo punto si fermò e voltandosi disse:
– E come faccio a essere certa che manterrai la promessa?
– Raaauuug – ruggì il leone, e fece l’atto di alzarsi dal trono dove stava seduto.
La Strega Bianca restò a guardarlo un attimo, sbalordita. Poi Aslan spalancò maggiormente la bocca, lei si raccolse la gonna tra le mani e fuggì a gambe levate.
Solo le due sorelline seguono il leone, nella notte, fino al luogo nel quale si rivela il segreto del colloquio fra Aslan e la Strega Bianca. Susan e Lucy, vedendo il leone che si fa legare e porre sull’altare, sulla Tavola di pietra, senza reagire, capiscono che Aslan ha offerto la sua vita in cambio di quella di Edmund. Le due bambine assistono così alla sua terribile morte, offerta in sacrificio:
Eppure, se il leone avesse voluto, una sola zampata poteva significare la morte dei suoi assalitori. Non reagì, invece, neanche quando i suoi nemici cominciarono a stringere i nodi, tirando le corde così forte che esse sembravano sul punto di segargli la pelle; poi lo trascinarono verso la Tavola di Pietra.
– Basta, ora – comandò la strega. – Dobbiamo sistemargli la criniera, prima di tutto!
Dalla folla dei suoi seguaci si levò un altro coro di risatacce volgari. Un orco si fece avanti: teneva in mano un paio di forbici e, zac-zac-zac, cominciò a tagliare ampie ciocche di peli dorati. Quand’ebbe finito, e sul terreno si ammassava il resto della lunga criniera, l’orco si tirò da parte. Le due ragazzine poterono allora vedere, sempre nascoste tra i cespugli, che il povero Aslan sembrava ben diverso da prima. Anche i nemici si accorsero della differenza.
– Be’, dopo tutto non è che un gattone! – gridò uno.
– E noi avevamo tanta paura di quello là! – esclamò un altro. Tutti si misero a sbeffeggiarlo con frasi idiote, come: “Micio, micio... quanti topolini hai acchiappato oggi?” oppure: “Vuoi un po’ di latte nel piattino, micetto?”
– Oh... come possono fare una cosa simile! – mormorò Lucy mentre le lacrime le rigavano il volto. – Sono dei bruti, delle belve! Ora che avevano superato il primo momento di sorpresa, Lucy e Susan si accorgevano che, così tosato, Aslan sembrava anche più bello, più coraggioso, più paziente che mai.
Se tutti deridono l’impotenza di Aslan che non si ribella, non così avviene per Susan e Lucy.
Vedendolo morire così, le bambine comprendono di trovarsi dinanzi ad un evento che supera tutto ciò che finora hanno visto in vita[6].
– Vigliacchi! Vigliacchi! – singhiozzava Susan. – Hanno paura di lui anche adesso! Quando questa operazione fu compiuta (e Aslan era un unico ammasso di corde!) sulla folla cadde un profondo silenzio.
La Strega Bianca, regina del male, prima di spezzare la vita del leone Aslan, pronuncia la sua terribile condanna. E’ l’ultima illusione del male che, togliendo di mezzo Cristo, sa che, con la sua fine, anche l’uomo è perduto. E’ straordinario lo scambio di parole del testo evangelico: il Cristo sembra “non aver potuto salvare gli altri”, oltre che se stesso!
– E allora? Chi ha vinto? E tu, pazzo, credi che con questo salverai quel traditore? Io ti ucciderò al posto so, come era nel nostro patto: così la Grande Magia sarà rispettata. Ma quando tu sarai morto, chi mi impedirà di uccidere anche lui? Chi lo strapperà dalle mie mani, allora? Mi hai consegnato, e per sempre, tutto il paese di Narnia. Hai perso la tua vita, ma non hai salvato quella di lui. Capiscilo finalmente e muori nella disperazione! Le due sorelline non videro il momento preciso in cui la malvagia strega vibrò il colpo. Non avrebbero mai potuto sopportare un simile spettacolo: perciò si coprirono gli occhi con le mani.
Quando tutti hanno abbandonato la scena, per precipitarsi a sconfiggere l’uomo nella grande battaglia e quando anche le bambine stanno per abbandonare il luogo della morte di Aslan, il sepolcro, ecco la meraviglia della resurrezione:
– Oh, Aslan! – esclamarono entrambe fissandolo impaurite e contente al tempo stesso. – Non eri morto, allora, caro Aslan?
– chiese Lucy.
– Non lo sono più – rispose il leone.
– Non sei... non sei un... – domandò Susan con voce tremante. Non sapeva decidersi a dire la parola “fantasma”. Aslan si avvicinò, piegò un poco la testa e le diede una leccatina sulla fronte. Susan sentì il calore del suo fiato e quella specie di profumo che sembrava diffuso intorno a lui.
– Ti sembro un fantasma? – chiese Aslan.
– Oh, no! Sei vivo, sei vivo! – gridò Lucy, e tutt’e due si lanciarono verso di lui, ripresero ad abbracciarlo e accarezzarlo e coprirlo di baci.
– Ma cosa significa tutto questo? – chiese Susan quando si furono un po’ calmate. Aslan rispose:
– Significa che la Strega Bianca conosce la Grande Magia, ma ce n’è un’altra, più grande ancora, che lei non conosce. Le sue nozioni risalgono all’alba dei tempi: ma se lei potesse penetrare nelle tenebre profonde e nell’assoluta immobilità che erano prima dell’alba dei tempi, vedrebbe che c’è una magia più grande, un incantesimo diverso. E saprebbe così che, quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro!
– Oh, è meraviglioso! – esclamò Lucy battendo le mani e saltando dalla gioia. – E ora, come ti senti, Aslan?
– Sento che mi ritornano le forze e, bambine mie, prendetemi se vi riesce!
Aslan è realmente morto. Non si è trattato di una morte apparente. Ma la sua vita di risorto è altrettanto reale. C’è un orizzonte più grande della Grande Magia della giustizia, c’è la presenza originaria di Dio e della sua bontà e misericordia, ciò che la Strega Bianca ignora, non volendo amare e credere.
In un’altra opera, Il cristianesimo così com’è[7], che C.S.Lewis scrisse per esporre la fede cristiana a chi non la conosce, il nostro autore si sofferma a presentare estesamente il significato della morte redentrice di Cristo, al cuore dell’esperienza cristiana della vita:
Ci viene detto che Cristo è stato ucciso per noi, che la sua morte ha redento i nostri peccati, e che morendo Egli ha reso impotente la morte stessa. Questa è la formula. Questo è il cristianesimo, ed è questo ciò che dev’essere creduto. Qualsiasi nostra teoria su come la morte di Cristo abbia operato tutto ciò è, a mio parere, affatto secondaria; è solo un disegno, uno schema da lasciare da parte se non ci aiuta, e da non confondere, anche se ci aiuta, con la cosa essenziale. Alcune di queste teorie, nondimeno, meritano di essere considerate. La più nota è (che)... abbiamo ottenuto il perdono perché Cristo si è offerto di essere punito al posto nostro. Apparentemente, è una teoria assurda. Se Dio era disposta a perdonarci, perché mai non l’ha fatto? Che senso c’era a punire, invece, un innocente? Io non ne vedo alcuno, se pensiamo a una punizione in senso giudiziario. D’altra parte, se pensiamo a un debito, è molto sensato che una persona provvista di mezzi lo paghi a nome di chi non ne ha. O ancora, se all’espressione “pagare la penale” non attribuiamo il significato di subire un castigo, ma quello più generale di “far fronte a un impegno” o di “saldare un conto”, è esperienza comune che quando uno si è messo in qualche impiccio, il disturbo di tirarlo fuori tocchi di solito a un buon amico. Ebbene, in quale “impiccio” si era messo l’uomo? Aveva cercato di agire per conto proprio, di comportarsi come se appartenesse a se stesso. In altri termini, l’uomo caduto non è soltanto una creatura imperfetta che ha bisogno di migliorarsi: è un ribelle che deve deporre le armi. Deporre le armi, arrendersi, chiedere scusa, capire che ci si è messi su una strada sbagliata ed essere pronti a ricominciare la vita dalle fondamenta: è questo l’unico modo di uscire dal nostro “impiccio”. Questa operazione di resa – questo fare macchina indietro a tutta forza – è ciò che il cristianesimo chiama pentimento. Ora, il pentimento non è un gioco da ragazzi. E’ una cosa molto più ardua che cospargersi il capo di cenere. Vuol dire disimparare tutta la presunzione e la caparbietà cui da migliaia d’anni siamo avvezzi. Vuol dire uccidere una parte di sé, subire una specie di morte. In realtà per pentirsi occorre essere persone buone davvero. E qui viene l’intoppo. Solo una persona cattiva ha bisogno di pentirsi: e solo una persona buona può pentirsi perfettamente. Peggiori siamo, più abbiamo bisogno di pentirci, e meno ne siamo capaci. La sola persona che potrebbe farlo perfettamente sarebbe una persona perfetta – e non ne avrebbe bisogno. Badate bene: questo pentimento, questo volontario sottomettersi all’umiliazione e a una specie di morte, non è qualcosa che Dio esige da noi prima di riaccoglierci, e da cui potrebbe esimerci se volesse; è semplicemente una descrizione di ciò in cui consiste l’atto di tornare a Lui. Se chiedi a Dio di riaccoglierti senza questo atto, Gli chiedi in realtà di lasciarti tornare senza tornare. Non è possibile. Benissimo, dunque: dobbiamo compiere questo atto. Ma la stessa cattiveria che ce lo rende necessario, ci rende incapaci di compierlo. Possiamo farlo se Dio ci aiuta? Sì, ma che cosa intendiamo parlando di aiuto divino? Intendiamo che Dio mette in noi, per così dire, un poco di Sé. Dio ci presta un poco del Suo raziocinio, ed è così che noi pensiamo; mette in noi un poco del Suo amore, ed è così che ci amiamo l’un l’altro. Quando insegni a scrivere a un bambino, gli reggi la mano mentre forma le lettere: il bambino, cioè, forma le lettere perché le formi tu. Noi amiamo e ragioniamo perché Dio ama e ragiona e ci regge la mano mentre lo facciamo. Se non fossimo caduti, tutto sarebbe facile. Ma adesso, sfortunatamente, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per fare qualcosa che Dio, nella Sua natura, non fa mai: arrenderci, soffrire, sottometterci, morire. Nulla, nella natura di Dio, corrisponde a questo processo. Sicché proprio quella strada per la quale soprattutto ci è ora indispensabile la guida di Dio è una strada che Dio, nella Sua natura, non ha mai percorso. Dio può spartire soltanto ciò che ha: e questo, nella Sua natura, non c’è. Ma supponiamo che Dio diventi uomo: supponiamo che la nostra natura umana, che può soffrire e morire, si amalgami con la natura di Dio in un’unica persona: allora questa persona potrebbe aiutarci. Potrebbe rinunciare alla Sua volontà, e soffrire e morire, perché è un uomo; e potrebbe farlo perfettamente perché è Dio. Voi e io possiamo compiere questo processo soltanto se Dio lo compie in noi; ma Dio può compierlo soltanto se diventa uomo. I nostri tentativi volti a questo morire possono andare a segno soltanto se noi uomini condividiamo il morire di Dio, così come il nostro pensiero può sussistere soltanto perché è una goccia del mare della Sua intelligenza: ma noi non possiamo condividere il morire di Dio se Dio non muore: ed Egli può morire soltanto essendo uomo. E’ in questo senso che Egli paga il nostro debito, e patisce per noi ciò che a Lui, in quanto Dio, non è affatto necessario patire. Ho sentito certuni obiettare che se Gesù era Dio oltre che uomo, le Sue sofferenze e la Sua morte perdono, ai loro occhi, ogni valore, “perché per Lui deve essere stato facilissimo”. Altri potrà (a buon diritto) biasimare la sgarbata ingratitudine di questa obiezione; io sono stupefatto dall’incomprensione che essa rivela. In un certo senso, naturalmente, chi la fa non ha torto. Anzi, si mostra fin troppo moderato. La perfetta sottomissione, la perfetta sofferenza, la perfetta morte non solo furono più facili a Gesù perché Egli era Dio: furono possibili soltanto perché Egli era Dio. Ma questo è un motivo ben strano per non accettarle. Il maestro può tracciare le lettere per il bambino in quanto è adulto e sa scrivere. Questo, naturalmente, gli rende le cose più facili, ma è soltanto grazie a questa facilità che egli può aiutare l’allievo. Se il bambino rifiutasse il suo aiuto perché “per gli adulti è facile”, e aspettasse di imparare a scrivere da un coetaneo che non sa scrivere nemmeno lui (e quindi non ha un vantaggio “sleale”), non farebbe molta strada. Se io sto annegando in un fiume vorticoso, un uomo che ha un piede sulla riva può tendermi una mano e salvarmi la vita. Dovrei gridargli (tra un rantolo e l’altro): “No, non è giusto! Hai un vantaggio... stai con un piede sulla riva”? Quel vantaggio – chiamatelo “sleale”, se volete – è la sola cosa che gli permette di essermi utile. Da chi cercheremo aiuto se non da chi è più forte di noi?
S.Tommaso d’Aquino aveva parlato[8] della redenzione dell’uomo mediante la passione di Cristo come realtà consona sia alla giustizia che alla misericordia di Dio. La morte in croce di Cristo, pur non necessaria secondo una “necessità di coazione”, è necessaria secondo il volere di Dio. L’Aquinate così presentava cinque aspetti di essa: il sacrificio di Cristo, dando all’uomo di conoscere quanto Dio lo ami, mostrandoci l’esempio perché “anche noi ne seguiamo le orme”, redimendoci dal peccato ma anche meritandoci la grazia giustificante e la beatitudine, insinuando in noi con più forza l’esigenza di conservarci immuni dal peccato ed, infine, rispettando la nostra natura di uomini poiché l’uomo Gesù, e non solo Dio, ha vinto la morte subendola, era più “conveniente”. “Conveniente” è uno straordinario termine teologico medioevale con il quale si indica ciò che è proprio dell’essere e dell’agire della Trinità, lo stile che è inconfondibilmente unico e appropriato dell’essere divino – era conveniente che fossimo liberati dalla passione di Cristo, piuttosto che dalla semplice volontà di Dio!
C.S.Lewis ha avuto il coraggio di riavvicinare il suo ed il nostro tempo al grande mistero della redenzione umana avvenuta attraverso l’amore ed il dolore di Cristo stesso.
Note
[1] Lettera del 3 giugno 1951, in C.S.Lewis, Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, BUR Rizzoli, Milano, 2005, pagg.98-99.
[2] Professore di Letteratura Inglese all’Università di Reading, cristiano anglicano e futuro , membro degli “Inklings”, gli “Imbrattacarte” o gli “Scribacchini”, noti anche come i “cristiani di Oxford”, il circolo letterario che si riuniva il giovedì sera nelle stanze di Lewis al Magdalene College per discutere e leggere le novità che ognuno dei membri si trovava volta per volta a scrivere.
[3] Lettera del 18 ottobre 1931, in C.S.Lewis, Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, BUR Rizzoli, Milano, 2005, pagg.88-90. I neretti sono dello stesso C.S.Lewis.
[4] L’avvicinarsi al cristianesimo è descritto retrospettivamente da C.S.Lewis, attraverso la crescente consapevolezza che la letteratura di ispirazione cristiana era quella che gli appariva più capace di leggere la profondità della problematica esistenziale della vita umana. Lewis così si esprimeva: “I cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi”, parafrasando una celebre frase della Chanson de Roland, "Paien unt tort et crestiens unt dreit", "I pagani hanno torto e i cristiani hanno ragione". Così scrive estesamente (in C.S.Lewis, Sorpreso dalla gioia. I primi anni della mia vita, Jaca Book, Milano, 2002, pagg,155-157) descrivendo il suo approccio alla letteratura a partire dal 1922:
“Nell’estate del 1922 diedi gli ultimi esami. Poiché non c’erano cattedre di filosofia libere, o comunque nessuna che io potessi assumere, il mio paziente genitore mi offerse un quarto anno a Oxford, durante il quale studiai inglese, aggiungendo una seconda corda al mio archetto...
Ero appena entrato alla facoltà di inglese, quando presi parte al corso di discussione di George Gordon. E lì mi feci un nuovo amico. Le prime parole che pronunciò valsero a distinguerlo dagli altri dieci o dodici presenti; mi andò subito a genio,e questo, per di più, a un’età in cui le amicizie immediate della prima giovinezza andavano facendosi sempre più rare. Si chiamava Nevill Coghill. Scopersi subito con stupore che egli – senza dubbio il più intelligente e colto della classe – era cristiano e sovrannaturalista convinto...
Tutti i libri cominciavano a rivoltarmisi contro. In effetti, dovevo essere stato cieco come un pipistrello per non avere colto da un pezzo la ridicola contraddizione tra la mia teoria esistenziale e le mie reali esperienze di lettore. George MacDonald aveva fatto per me più di qualunque altro scrittore; naturalmente, era un peccato ch’egli avesse il pallino del cristianesimo. Era valido a dispetto di esso. Chesterton aveva più senso di tutti gli altri moderni messi insieme; e indipendentemente dal suo cristianesimo. Johnson era uno dei pochi autori di cui sentivo di potermi fidare ciecamente; abbastanza stranamente, aveva lo stesso pallino. Per una curiosa coincidenza, lo avevano anche Spenser e Milton. Era possibile scoprire lo stesso paradosso anche tra gli autori antichi. I più religiosi (Platone, Eschilo, Virgilio) erano senza dubbio quelli cui potevo realmente attingere. D’altro canto, gli scrittori non afflitti dalla religione e che in teoria avrebbero avuto diritto alla mia più totale simpatia – Shaw e Wells e Mill e Gibbon e Voltaire – avevano tutti un’aria un po’ sparuta; quel sapore che da ragazzi chiamavamo “di latta”. Non che non mi piacessero. Erano tutti (specialmente Gibbon) divertenti; ma niente di più. In essi non sembrava esserci profondità. Erano troppo semplici. Nei loro libri, la ruvidezza e la densità della vita non trasparivano. Ora che leggevo più inglesi, il paradosso andava sempre più peggiorando. Il Dream of the Rood mi commosse profondamente; Langland ancora di più; Donne (per qualche tempo) mi inebriò; Thomas Browne mi soddisfece profondamente e durevolmente. Ma il più allarmante di tutti fu George Herbert. Ecco un uomo che mi sembrava eccellesse su tutti gli altri autori nell’illustrare la vera qualità della vita come realmente la viviamo di momento in momento; ma il pover’uomo, anziché farlo direttamente, insisteva nel rimeditarla attraverso ciò ch’io avrei ancora chiamato “la mitologia cristiana”. D’altro canto, la più parte degli autori che si potevano considerare precursori dell’illuminismo moderno mi sembravano robetta e mi annoiavano a morte. Di Bacon trovai che fosse (per dirla francamente) un solenne e presuntuoso somaro, della Restoration Comedy un unico immenso sbadiglio e, dopo essermi virilmente battuto per arrivare in fondo a Don Juan, scrissi sulla pagina finale: “Mai più”. I soli non-cristiani che mi parve conoscessero veramente tutto furono i romantici; ed erano in buona parte minacciosamente contagiati da qualcosa che somigliava alla religione, e a volte persino dal Cristianesimo. Il succo si poteva più o meno esprimere in una corruzione del grande verso di Roland nella Chanson:
I cristiani hanno torto,
ma tutti gli altri sono noiosi.
La mossa più naturale sarebbe stata di accertarsi un po’ più da vicino se i cristiani avessero, dopo tutto, torto. Ma non la feci. Pensavo di poterne dimostrare la superiorità senza quella ipotesi. Assurdamente (ma molti idealisti assoluti hanno condiviso tale assurdità) pensavo che “il mito cristiano” aprisse alle menti non filosofiche quanta verità, cioè di idealismo assoluto, fossero in grado di afferrare, e anche quanta li poneva al di sopra degli irreligiosi. Chi non riesce a elevarsi alla nozione di assoluto si accosterebbe alla verità più credendo in “un Dio” che non credendo affatto”.
[5] C.S.Lewis, Le cronache di Narnia, Mondadori, Milano, 2001, I volume, pagg.139-259.
[6] Così Andrew Adamson, regista del film, in una intervista a Buena Vista, si è espresso intorno alla complessità del personaggio di Aslan, nella sua versione cinematografica:
“Aslan è stato una sfida. È un personaggio molto importante nel libro e, naturalmente, molto complesso da riprodurre. Ma è molto difficile creare in particolare un personaggio onnipotente che sia anche accessibile. Vorresti provare compassione ed empatia quando va verso la sua morte... ma per fare questo deve essere umano e profondo e allo stesso tempo potente e feroce... come cita una frase del libro... non è un leone addomesticato. Liam Neeson possiede un grandissimo calore, ha una voce potente ed è anche capace di sprigionare una grande forza quando va in collera. Per cui è stata una grande sfida riunire tutte queste caratteristiche in un personaggio”.
Purtroppo la scelta, in fase di doppiaggio della versione italiana, della voce di Omar Sharif, non ha permesso un analogo risultato.
[7] C.S.Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi, Milano, 1997, pagg.83-88.
[8] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, p.III, q.46.
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