Ancora su Aleksandr Men'. Antologia di testi
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Nel ventesimo anniversario dell’uccisione di padre Aleksandr Men’, riprendiamo alcuni testi di e su padre Men’ dal catalogo della mostra “Padre Aleksandr Men’. La Legge di un uomo vivo”, esposta nel corso del XXVII Meeting di Rimini, cui fanno riferimento i numeri delle pagine. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Nostri sono anche i titoletti, scelti solo per identificare più facilmente i brani. Su Aleksandr Men’, vedi ancora, su questo stesso sito, Aleksandr Men', a vent’anni dalla morte, di Romano Scalfi (con un'antologia di testi di padre Men').
Il Centro culturale Gli scritti (25/11/2010)
A. Men’, uomo di cultura e uomo semplice (p. 6)
da Ljudmila Ulickaja, scrittrice
Sono stata fortunata: ho conosciuto padre Aleksandr nel 1968. Nella mia vita, era la prima persona di cultura che credesse in Cristo. A quell’epoca era una grande rarità: fede e cultura si incontravano di rado. Del resto, neanche oggi è tanto frequente. La vita sovietica era soffocante da morire… e noi cercavamo a tentoni, barcollando verso un libro o una canzone che balenasse all’orizzonte, oppure buttandoci a capofitto su proposte intellettuali di dubbio valore. Ed ecco che tra questa umanità stramba, scapigliata e confusa, appare all’improvviso un volto della bella razza ebraica, un uomo colto, arguto, allegro, un sacerdote ortodosso! Colto, ma dotato di un sapere che andava bene per le vecchiette di campagna come per Sergej Averincev, Mstislav Rostropovič e Aleksandr Solženicyn, che in momenti diversi della loro vita erano venuti da lui per parlare dell’essenziale. Naturalmente, il suo sapere andava bene anche per noi giovani, che consideravamo il cristianesimo come una delle tante concezioni del mondo – affascinante per certi aspetti, inaccettabile per altri. Avevamo voglia di parlare di cose intelligenti. Ma quello che lui ci propose sfondava l’idea che ci eravamo fatti, e stravolgeva le nostre aspettative.
Tutto è possibile, Dio è vicino (p. 10)
da Sergej Averincev, filosofo
A quel tempo tutti si mettevano il cuore in pace, dicendo che l’impossibile è impossibile. Era evidente. A insegnarlo era la tragica esperienza. Ma ecco arrivare un uomo che rifiutava di accettare che l’impossibile fosse impossibile... Padre Aleksandr viveva della certezza che la Chiesa è stata mandata dal suo Fondatore a salvare gli uomini, gli uomini reali. E così accadde una cosa nuova: si dissolse la menzogna che insinuava che Cristo era una cosa lontana, del passato. Oh no, Lui è con noi, qui nel presente. E ci attende, nel futuro. Il Mistero traboccante di letizia era sempre con lui, ma forse ancora di più verso la fine, mentre il presentimento inespresso del destino che lo attendeva diventava sempre più netto, e la pienezza naturale di vita che gli veniva dal suo temperamento lasciava il posto a un’altra certezza, che non è di questo mondo.
La realtà dell’Apocalisse (p. 19)
da A. Men’
L’Apocalisse è uno dei libri più grandiosi per la forza del suo ottimismo, un libro che ci parla di tutto il travaglio con cui il mondo accoglie la parola di Dio, della lotta che il mondo ingaggia contro la verità, dei terribili, tetri periodi che insorgono quando l’umanità resiste alla verità... Questo libro però si conclude con la vittoria del Figlio dell’Uomo. Per questo è il libro più luminoso.
Il suo libro su Gesù, diffuso prima attraverso il samizdat (cioà la copiatura a mano), poi stampato (p. 26)
Il frutto più maturo della testimonianza resa da padre Aleksandr alla presenza viva di Cristo è il libro Il Figlio dell’uomo, a cui lavorò quasi 40 anni e intorno a cui si ordina la sua vasta produzione intellettuale.
Già a 14 anni aveva cominciato ad abbozzare un libro sulla persona di Gesù, che l’aveva profondamente colpito; negli anni dell’istituto continuò a coltivare il progetto, che doveva esprimere il suo rapporto personale con Cristo e insieme documentare la storicità della sua figura; avrebbe poi continuato a scriverlo per tutta la vita (lo mise in circolazione per la prima volta nel 1958, per i suoi parrocchiani, e ne terminò l’ultima redazione – la quarta – pochi giorni prima di morire). Il Figlio dell’uomo – così si intitola il volume – è stato diffuso prima attraverso il samizdat;nel 1968 è stato stampato a Bruxelles (l’autore figurava con lo pseudonimo di A. Bogoljubov) e quindi rispedito clandestinamente in URSS; dopo la perestrojka ha potuto essere distribuito attraverso i canali del mercato librario, in oltre 3 milioni di copie.
Intorno a questo tema centrale (negli ultimi anni aveva scritto anche un Vangelo per ragazzi), padre Aleksandr concepì e realizzò un grande progetto editoriale in sei volumi, che portano il titolo Alla ricerca della Via, Verità e Vita, e costituiscono una sorta di percorso di riflessione cristiana sulla storia della religiosità umana, come espressione dell’innato senso religioso dell’uomo, che trova la sua risposta ultima nella Rivelazione, in Cristo e nella Chiesa.
La fede trasmessa da mia madre (p. 30)
da A. Men', gennaio 1971
Fra l'intelligencija di prima della rivoluzione c'erano molta diffidenza e incredulità nei confronti della Chiesa, e una concezione positivista. Molti della mia generazione sono giunti a Cristo da soli, indipendentemente dai propri genitori. Io invece ho avuto la fortuna di nascere nell'ortodossia. Mia madre ha sempre vissuto una fede profonda in Cristo e me l'ha trasmessa in anni in cui questa fede era perseguitata e sembrava in via di estinzione, in anni in cui molti, che erano stati cristiani praticanti, se ne andavano. Era un'epoca tragica, in cui molti vacillavano. Non posso che essere grato a mia madre per aver conservato la fiaccola della fede e avermi fatto scoprire il Vangelo. Il sacerdote che ci aveva battezzato, l'archimandrita Serafim, discepolo degli starcy di Optina e amico di padre Aleksej Mečëv, per molti anni fu la guida spirituale di tutta la nostra famiglia, e dopo la sua morte la sua opera fu continuata dai suoi seguaci, gente di grande forza spirituale, monaci di grande saggezza e chiaroveggenza.
In dialogo con il mondo (p. 31)
da A. Men', gennaio 1971
La mia infanzia e adolescenza sono trascorse all'ombra di san Sergio. Là ho vissuto sovente presso la defunta monaca Marija, che ha determinato la mia formazione spirituale e la mia vocazione. Donna di grande ascesi e preghiera, sempre colma di gioia pasquale, di profonda fiducia nella volontà di Dio, ricordava un po' san Serafim di Sarov o san Francesco d'Assisi. È stata lei, 23 anni fa, a benedire la mia strada al sacerdozio e il lavoro sulla Sacra Scrittura. Madre Marija aveva una caratteristica che la avvicinava agli starcy di Optina, e che mi è molto cara: l'apertura alla gente, con i suoi problemi e le sue ricerche. Proprio questo fece si che ad Optina si rivolgessero i migliori esponenti della cultura russa. Optina, infatti, riprese dopo un lungo intervallo il dialogo della Chiesa con la società, un'impresa di straordinaria importanza. Ebbene, la prosecuzione vivente di questo dialogo l'ho potuta vedere di persona, in padre Serafim e in madre Marija. Per questo ho sempre avuto ben chiara l'idea che non si poteva interrompere questo dialogo, che dovevo parteciparvi con le mie povere forze. Non posso non ricordare con profonda gratitudine i miei vecchi amici della comunità di padre Mečëv che negli anni dell'adolescenza mi hanno aiutato e guidato spiritualmente e intellettualmente. A partire dagli anni dell'università, particolarmente importanti sono stati per me l'esempio e le indicazioni di padre Nikolaj Golubcov, che fino alla morte non mi ha mai lasciato senza sostegno e mi ha dato un altro grande modello di "apertura", di servizio al mondo. All'insegna di questo dialogo si è sempre svolto e si svolge il mio servizio nella Chiesa.
Il creato come teologia (p. 32)
da A. Men’
Sin da quando ero bambino la contemplazione della natura è stata la mia “theologia prima”. Entravo in un bosco o in un museo come in un tempio. E anche adesso un ramo in fiore e un uccello in volo mi rimandano a Dio almeno come un’icona. Però il panteismo mi è sempre stato estraneo. Ho sempre percepito Dio come una persona, come Colui che si è rivolto verso di me.
Per la società comunista, il cristiano era il deficiente (p. 36)
da S. Averincev
Aleksandr Men’ fu ordinato diacono quando la guerra per l’eliminazione del cristianesimo era meno sanguinosa, ma non certo meno distruttiva… La società imponeva al credente non il ruolo del dissidente – altro che! – ma quello del perfetto deficiente.
Eliminazione e selezione dei sacerdoti (p. 36)
da L. Ulickaja
L’attacco alla chiesa veniva sferrato su due fronti: il KGB eliminava sistematicamente i sacerdoti di vecchio stampo e all’interno della Chiesa si faceva una rigida selezione, a cui sopravvivevano solo gli elementi più malleabili, i più ossequienti e disposti al compromesso.
Energia creativa della chiesa e sua corruzione (p. 36)
da A. Men’
Verso i 17-18 anni, mentre mi preparavo intensamente al sacerdozio e studiavo patristica, ho cominciato a farmi un’idea abbastanza chiara dei compiti che mi attendevano. Vedevo che molte persone, soprattutto la gente di una certa cultura, teste pensanti, erano attratte dalla fede. Come sacerdote, quindi, dovevo essere ben preparato. E non per una questione “tattica” o di “propaganda”: l’esempio dei Padri della Chiesa era abbastanza eloquente. Non si trattava di assimilare la cultura semplicemente per trovare un linguaggio comune con un certo ambiente, ma perché il cristianesimo come tale è un’energia creativa efficace… Le tradizioni della cultura cristiana dei Padri si contrapponevano al nichilismo apocalittico e al conservatorismo ritualista…
A quel tempo avevo notizie della Chiesa cattolica solo attraverso la letteratura antireligiosa, ma non appena ho potuto avere a disposizione fonti più obiettive, mi sono reso conto che in essa la creatività e l’apertura al mondo erano molto sviluppate. Da questa “scoperta” sono partite le mie convinzioni ecumeniche…
Verso i 21-22 anni a Irkutsk ho avuto l’occasione di dare una mano in curia, nel tempo libero dall’Istituto, e di toccare da vicino la corruzione esistente negli ambienti ecclesiastici, cosa che inizialmente mi angustiava molto. Ma grazie a Dio ho superato la tentazione di ritenere che la nostra Chiesa fosse morta. Mi sono reso conto che il marasma era dovuto alle condizioni mostruose in cui la Chiesa era costretta a vivere, che era un male comune, legato alle debolezze umane e non alla nostra confessione….
La parrocchia come comunità (p. 41)
da A. Men’
Quando sono diventato prete ho cercato di fare della parrocchia una comunità e non semplicemente un aggregato fortuito di persone che si conoscono appena. Ho cercato di fare in modo che i membri si aiutassero gli uni gli altri, che pregassero insieme, insieme studiassero le Scritture e si comunicassero.
Quando ci permetteranno di parlare...
Aleksandr Men’ ripeteva sovente: «Il momento più difficile per la Chiesa verrà quando ci permetteranno di parlare. Allora ci vergogneremo di non essere pronti a testimoniare, e sfortunatamente, non ci stiamo preparando a farlo».
Sulla porta (p. 42-43)
da Ljudmila Ulickaja
Intorno a padre Aleksandr turbinavano folle delle persone più disparate: attempate e ambiziose matrone, pretesi intellettuali, adolescenti vanitosi, geni incompresi e un’intera legione di donne infelici di tutte le categorie (mogli abbandonate, fidanzate deluse, madri umiliate). Si rivolgevano a lui spinte da ricerche interiori, o più spesso semplicemente dal proprio dolore, chiedendogli in cambio ciò che possedeva: fede, libertà e letizia. Una volta, essendo giovane e sventata, gli chiesi perché si tenesse sempre appresso quella coorte di gente stramba, un po’ pazza. Lui era così magnanimo, così capace di leggere nel profondo, che non mi fece alcun rimprovero, ma si limitò a dirmi che Cristo è venuto per i poveri e i malati, e non per i ricchi e i sani. Dopo un po’ di tempo, anch’io cominciai a capire di più: lui amava come “prossimo” tutti quelli che arrivavano senza scegliere i migliori, amava tutti quelli che avevano bisogno di lui. Era il suo popolo, la sua gente – barbari, ignoranti, moralmente immaturi, ma erano suoi. E tutta questa gente si rivolgeva a lui giorno e notte. Gli telefonavano, gli scrivevano, bussavano alla sua porta. E lui era sempre li ad aspettarli “sulla porta”- come diceva di lui una mia vecchia amica, ora defunta, che sapeva bene chi è la “Porta delle pecore”.
Perché la chiesa? (p. 44)
da A. Men’
Voglio dirvi un’ultima cosa. Più volte mi è stato chiesto: “La dottrina di Cristo è stupenda. Il Vangelo è una cosa meravigliosa. Ma la Chiesa qui che c’entra? Ha tanti aspetti negativi…” Si, il negativo c’è e c’è sempre stato. Ma prima di respingerla dobbiamo ricordare che la Chiesa è di Cristo. È lui che l’ha fondata duemila anni fa, è Lui che ci ha detto che le porte degli inferi non prevarranno, è Lui che è presente in essa e lo sarà fino alla fine del mondo. Se è così, vuol dire che Egli non ha voluto che noi trovassimo la Verità in solitudine, ciascuno nel suo piccolo mondo isolato, ma ha voluto che la trovassimo insieme. Certo è un cammino arduo, perché ogni consorzio umano racchiude in sé tentazioni, pericoli, attriti. Ma così Egli ha voluto. Ripeto ancora una volta, questa è la sua volontà. La sua Chiesa, il suo Spirito, presente in lei anche oggi, qui ed ora.
Le vere riforme (p. 46)
da A. Men’
Cara Šuročka,
Ho ricevuto la tua lettera, dove mi scrivi dell’agitazione di G. Per me non è una novità, glielo dicevo già prima che partisse. Temo che abbia impostato male il problema. Non bisogna far conto su nessuno. La Chiesa siamo noi, noi stessi. Non dobbiamo star lì ad aspettarci qualcosa, dobbiamo metterci in moto noi. Non pensare che io non creda a quanto mi racconti. Sono ben informato, e mi sono fatto un’idea abbastanza chiara della crisi seguita al Concilio. Svolte di questo genere non possono non lasciare un segno. Ma non è affar tuo. Non sta a te preoccuparti della “politica del Vaticano”. Sono questioni umane, non è qui che si gioca la verità della Chiesa. Le riforme del rito sono sempre un esperimento e un esperimento doloroso. La nuova generazione le maturerà. Si calmerà con il tempo l’onda di «sinistrismo». Sono tutte mode, come ce ne sono state tante nella storia (G. farebbe bene a rinfrescarsele). Anche da noi le riforme della Chiesa hanno suscitato delle crisi (a partire dai vecchi credenti fino agli innovatori). La vita è una faccenda complessa, e i cristiani vi sono immersi fino in fondo… La cosa più importante resta il piano della vita spirituale. Non lo si risolleva con decreti e riforme. Si ridesta nel profondo. E quando lo vediamo decadere, dobbiamo moltiplicare la nostra responsabilità.
pp.46- 47
Ricordo un apologo narratomi da una persona molto saggia, a proposito dell’evoluzione degli organismi e quindi anche delle Chiese. Alcuni organismi si sono difesi dagli agenti esterni con la corazza. Così si sono conservati meglio, ma sono più retrogradi e meno dinamici (la Chiesa conservatrice); altri si sono liberati dalla corazza, restando così più indifesi (la Chiesa mondanizzata). Il vero progresso però è stato quello dei vertebrati, che hanno evitato di rinchiudersi in una corazza ma si sono costruiti invece un robusto tronco, uno scheletro (una fede aperta al mondo, ma solidamente fondata sulla preghiera e sull'esperienza di vita). Questo è il modello più arduo da realizzare, che solo in parte e raramente riusciamo a tradurre in vita, sia loro che noi. In Russia assistiamo al fenomeno opposto: molti che sono alla ricerca di una religiosità viva passano al cattolicesimo o alle sette, perché la religiosità retrograda, ritualista, conservatrice e intellettualmente povera della nostra Chiesa non li attrae. A me sembra che la decisione veramente «radicale» non stia nel passare da una parte all'altra (pur essendo un diritto di ciascuno), ma nell'approfondire lo spirito, laddove il Signore ti ha posto. Ciò che troviamo nelle confessioni diverse dalla nostra in realtà può essere raggiunto anche senza «passaggi»: proprio per questo sorgevano, in passato, comunità, ordini, fraternità religiose. Nelle riforme occidentali sono insiti, certamente, molti rischi e inevitabili errori. L'apertura ai problemi del mondo può risolversi in un doloroso compromesso. Ma altrettanto pericoloso è chiudersi in sé. In questo caso la Chiesa può trasformarsi in una sorta di museo o di circolo per amatori. La verità, come sempre, ci riporta al cuore...
p.47
Ricorda che anche la preghiera più debole è forte. Non tralasciarla. La fede è come un viaggio sul fiume. Sembra che le rive siano monotone, ed ecco invece all'improvviso una nuova ansa, una nuova scoperta. E tutto fiorisce. Come l'amore, anche la preghiera ha bisogno di essere fortificata e alimentata, e può crescere. Dio si cela a noi. E proprio questa è la sua misericordia nei nostri confronti. Se egli ci si mostrasse in modo evidente, noi ci sentiremmo come delle formiche, saremmo smarriti. Egli si prende cura di noi finché non arriviamo a incontrarlo. Ma non bisogna mai smettere di bussare alla Sua porta. È l'inizio di un rapporto...
p. 47
gennaio-febbraio 1981
Le «radici» di per sé sono una bella cosa, ma possono essere anche pericolose. Infatti, furono proprio le «radici» a impedire ai farisei di accogliere Cristo. Il passato va tenuto in considerazione, ma non fino al punto da impedirci il movimento. È un problema vecchio come il mondo. Il cristiano è sempre al confine tra l'avere radici e l'essere uno sradicato. La nostra radice autentica è il Vangelo. «Non abbiamo qui una patria stabile»...
Un traghettatore (p. 50)
da Ljudmila Ulickaja
Il cristianesimo di padre Aleksandr era gioioso. Lui era ortodosso, di un’ortodossia che punta diritto alla fonte, a Cristo stesso. Padre Aleksandr conosceva perfettamente la storia della Chiesa e, cosa stupefacente, duemila anni di cristianesimo storico, pieni di lotte con eresie, scismi di vario genere, inquisizioni, crociate, infami lotte confessionali non per la verità ma per affermare ambizioni e poteri, non erano assolutamente per lui un inciampo. Né il formalismo né la rigidità del modello ortodosso russo del XIX secolo gli impedivano di essere ciò che era, un traghettatore verso l’altra sponda, dove ardeva un fuoco su cui cuocevano alcuni pesci, e dove il Risorto sedeva attendendo i suoi discepoli.
Unità nella diversità (p. 57)
da A. Men’
Ogni tentativo di omologazione è sbagliato per il semplice motivo che il cristianesimo deve esprimersi nelle forme vive delle persone e delle culture individuali. Ogni cultura ha un proprio volto individuale. Per questo il cristianesimo non può avere lineamenti sbiaditi, ma fisionomie vive, fresche e rispondenti alle concrete civiltà in cui vive. Il cristianesimo in India dev’essere indiano e possedere i tratti tipicamente russi in Russia, è naturale!... La gente invece non lo capisce, continua a credere che il suo ambiente culturale, la sua psicologia nazionale sia l’unico modello per tutti.
pp. 57-58
da A. Men’
Da lungo tempo la gente oscilla tra la chiusura nazionale e l’omologazione spersonalizzante. Anche i cristiani si trovano dinanzi a questa difficile alternativa. Come conciliare le parole dell’apostolo “non c’è più né greco né ebreo” con la multiculturalità? Il desiderio di tutelare il patrimonio nazionale sfocia sovente nell’ostilità per tutto ciò che è estraneo. Spesso si ritiene vera solo una delle forme in cui si è incarnato il cristianesimo, cioè la propria. Quando si distrugge la fioritura polifonica delle Chiese divampano conflitti, rivalità, scismi. La tendenza opposta all’omologazione conduce al tentativo di ridurre o ignorare l’irrepetibile bellezza di ogni volto storico della Chiesa. In realtà il cristianesimo universale è simile a un monte ammantato di boschi, arbusti, prati e ghiacciai, che insieme lo rivestono e così raggiungono una propria unitarietà. Non ci si può attendere che la luce del Vangelo si rifranga ovunque in modo uniforme. Andando al cuore dei diversi popoli, esso crea paesaggi spirituali sempre nuovi. È interessante osservare come il cristianesimo non abbia generato un’unica cultura, com’è avvenuto, ad esempio, per il buddismo o l’islam. La teologia di sant’Agostino e di san Tommaso, le icone russe e il gotico sono semplicemente sfaccettature della creatività cristiana nei diversi ambienti e periodi. Il pluralismo non annulla il principio dell’unità, al contrario: quanto più ricca e varia diventa la vita della Chiesa, tanto più urgente si fa la necessità di un perno unificante. Questo perno sono le formule dottrinali e l’assetto canonico delle comunità.
p. 58
da A. Men’
Per custodire quest’unità la cosa fondamentale è l’apertura di cuore che ci consente di vedere dei fratelli nella fede anche in coloro che professano in maniera diversa la fede in Cristo Salvatore e nel Verbo divino tramandataci nella Bibbia. Dobbiamo guardarli con benevolenza e pazienza, ricordando sempre le parole di sant’Agostino: “Nell’essenziale l’unità, nel dubbio la libertà, in tutto la carità”. Restando saldamente attaccati alla Tradizione nella nostra Chiesa, non dobbiamo disprezzare e umiliare gli altri, perché tutte le divisioni hanno un’origine terrena, umana, mentre agli occhi di Dio siamo tutti figli, redenti dal sangue Cristo.