«L’aspetto più originale dell’analisi di Congar è di segnalare che, più che l’esplicita rottura con il pontefice, sono decisive alcune scelte teologiche, talvolta “parziali”». Vera e falsa riforma nella Chiesa: il caso della Riforma protestante nella prospettiva di Y. Congar, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un lavoro scritto da Andrea Lonardo per il seminario dottorale della Pontificia Università Lateranense che aveva per tema il volume di Yves Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa. I diversi studenti dovevano presentare e commentare le diverse parti del volume, a turno. Il testo qui pubblicato riguarda, perciò, solo alcune parti dell’opera e non il volume nel suo insieme. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecclesiologia e Protestantesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (21/7/2020)
Si intitola Riforma e protestantesimo la terza e ultima parte dell’opera di Congar Vera e falsa riforma nella Chiesa[1]. In tale sezione il teologo francese, dopo aver considerato il problema della vera e falsa riforma più in generale, si sofferma[2] sul movimento protestante del cinquecento per compiere una verifica delle sue tesi a partire dal caso di riforma più eclatante e problematico verificatosi nella storia della Chiesa. Congar vuole individuare così, dalla prospettiva della sua ricerca, il perché il protestantesimo sia giunto ad una rottura e ad una scissione e non a un rinnovamento nella comunione.
La chiave di lettura che egli propone - in relazione alla sua tesi sulla vera e sulla falsa riforma - è che la Riforma abbia talmente assolutizzato taluni aspetti, trascurandone altri da non riuscire più a considerarsi parte di un tutto: «In fondo l’eresia è, in radice, una varietà intellettuale dello scisma, un rifiuto di comportarsi ut pars»[3]. Congar riflette, quindi, sul fatto che il lavoro dei riformatori del cinquecento abbia trascurato quella che egli individua come la seconda condizione necessaria, in ogni epoca, per una riforma senza scisma[4].
1/ Le problematiche irrisolte nella Riforma
L’aspetto più originale dell’analisi che Congar compie di tale parzialità dell’opera dei riformatori è che egli la coglie non tanto nell’esplicita rottura con il pontefice e con la Chiesa cattolica tutta, ma, innanzitutto, in scelte teologiche “parziali”.
Egli ne sottolinea tre.
In primo luogo i riformatori hanno identificato nella “parola” il mezzo che rende cristiani. Essi hanno così semplificato il processo per cui si giunge alla fede quasi che l’uterus della Chiesa non sia il Battesimo, ma esclusivamente la Scrittura[5]. In questo senso il “ritorno alle fonti” - anch’esso necessario per Congar come condizione di una vera riforma - viene ristretto alla sola Scrittura, mentre il movimento che preparò il Concilio Vaticano II, quando invitò a riandare alle fonti, seppe includervi anche il recupero dei Padri della Chiesa e la storia della Liturgia[6]. Il Concilio, insomma, ha proposto un “ritorno alle fonti” più armonico, mentre la Riforma ha scelto fra le fonti una pars, pur “ispirata” e benedetta come è la Scrittura, dimenticando di abbracciare tutte le modalità con le quali Dio ha guidato la Chiesa (dalla Bibbia ai Padri, dalla Liturgia alle figure dei santi e così via). La spiritualità dei padri conciliari si è nutrita ed ha rilanciato un concetto allargato delle “fonti”, senza restringere il “ritorno alle origini” alla sola esegesi.
In secondo luogo, secondo Congar, la Riforma ha trascurato, in nome dell’aver privilegiato il rapporto dell’anima con il Cristo, la communio sanctorum, di modo che la Chiesa non è più pensata come il corpo di salvezza[7]. L’idea di Chiesa proposta dai riformatori cinquecenteschi prescinde dalla carne, dalla storia, dalla concretezza. La fede giungerebbe così all’uomo a prescindere dall’incontro storico con un annunziatore del Vangelo, con un martire, con la comunità cristiana. È un’idea di Chiesa che dimentica la carne e sottolinea esclusivamente il pur vero rapporto che esiste fra Dio ed ogni singola anima. Ancora una volta la Riforma propone qualcosa di vero, ma lo separa da un contesto più ampio.
Infine - ed è questo per Congar l’elemento determinante - la Riforma ha privilegiato la dialettica che dall’interiorità conduce all’esteriore, ma lo ha fatto trascurando il fatto che, nella concretezza della storia e della salvezza, l’uomo accoglie la fede per l’azione della grazia non astrattamente intesa, bensì incarnata in gesti e persone che sono “al di fuori” di colui che giunge a credere[8]. Lutero dimentica, insomma, il fatto che è ciò che è esteriore a generare i cambiamenti del cuore e a sostenere la stessa fede. Certo - ricorda Congar - Lutero difende la Chiesa contro gli entusiasti o contro la rivolta dei contadini[9], ma, nella sua prospettiva, la comunità cristiana non è causa della fede. In fondo, per la Riforma protestante la Chiesa non è madre: solo la grazia genera la fede, ma è una grazia disincarnata al punto che la dimensione materna dell’ecclesiologia non è un tema centrale.
Quest’ultimo punto diviene chiarissimo, quando Congar sottolinea che la Riforma ha trasformato i sacramenti in segni di una fede che l’individuo già possiede a prescindere da essi. I gesti della liturgia non sono più eventi che generano e nutrono la fede. Il teologo francese ricorda, contro i critici semplicistici di Lutero, come il riformatore tedesco riconosca l’eucarestia come presenza reale di Cristo. Eppure, nonostante questo, Lutero ritiene che l’eucarestia sia solo un segno e che l’azione della grazia di Dio non agisca in essa, ma a fianco di essa, di modo che la Liturgia viene da lui considerata solo come un “segno” di un’azione invisibile.
In questa maniera il riferimento alle Scritture, la valorizzazione di una vera conversione dell’anima e la celebrazione come segno della vera fede non divengono aspetti di una riforma che includa contemporaneamente gli altri elementi, ma quei tre punti vengono assolutizzati in opposizione ad altre dimensioni della fede che vengono trascurati[10].
Vale la pena ricordare come Ivereigh, nel sottolineare quanto il testo di Congar sia stato decisivo nella formazione del giovane Bergoglio, precisa come per il futuro papa sia problematica ogni interpretazione ideologica della fede, cioè «un’interpretazione parziale in cui alcuni valori erano esaltati e altri demonizzati»[11].
Contro il rischio di tale assolutizzazione di alcuni elementi a discapito di altri, fin da giovane e poi nel suo magistero pontificio, Bergoglio ha colto come esista una dimensione popolare della fede[12]. Ivereigh utilizza il termine “vaccini” per indicare quegli aspetti della vita ecclesiale che per il futuro papa, proprio a partire da Congar, gli permetteranno di mantenere tutta la ricchezza della fede, senza amputazioni e parzialità. Fra essi ve n’è uno decisivo: «Il primo [è] l’idea del santo popolo fedele di Dio: secondo Congar la potenza di Dio si discerneva non già nei disegni di un’élite, bensì nei comuni poveri che credevano in Lui»[13]. È evidente come per i cristiani semplici e non letterati la dimensione sacramentale e la pietà popolare siano un reale nutrimento della fede e non semplicemente dei gesti esteriori da superare. La vicinanza ad essi permette di sfuggire alle unilateralità di scelte come quelle della Riforma.
Anche l’insistenza di papa Francesco sul fatto che esistano non solo periferie materiali, ma anche spirituali ed esistenziali[14] appartiene a questa dimensione popolare della fede e permette al suo magistero di sfuggire ad una lettura ideologica, quasi che l’unica pars da porre in evidenza sia l’opzione preferenziale per i “materialmente” poveri.
Insomma lo scegliere una sola pars all’interno dell’unità armonica della fede è il grande problema della Riforma individuato da Congar. Quando prevale la propria visione delle cose - l’ideologia - si perde non solo il legame con il successore di Pietro, ma prima ancora il legame con la Chiesa reale, con la Chiesa che vive nella storia.
Congar sottolinea il fatto che, se si trascura la visibilità “apostolica” - e cioè il fatto che la fede raggiunge gli uomini proprio tramite la successione dei testimoni che da Cristo in poi hanno trasmesso la fede -, viene a mancare quella dimensione di concretezza che è così decisiva nella genesi della fede di tanti non credenti e nella riscoperta della fede di tanti già battezzati.
2/ La questione decisiva: trascurare la dinamica che parte dall’esteriore e conduce all’interiore
A questo punto Congar si sofferma su quella che ritiene la questione decisiva dell’atteggiamento della Riforma e precisamente l’assenza del movimento che conduca dall’esteriore all’interiore. Lutero non sbaglia a sottolineare la dinamica che dall’interiore conduce all’esteriore, dalla fede ai segni della testimonianza e della carità, ma egli dimentica la dinamica simmetrica, quella per la quale la fede si nutre di ciò che la Chiesa opera. Il riformatore mette in ombra che la grazia opera tramite la celebrazione, solo per fare un esempio: i discepoli di Emmaus hanno bisogno che il Cristo spezzi il pane per “comprendere”.
Congar insiste sul fatto che per Lutero l’esteriore, in fondo, appartenga al solo “regime naturale” e non a quello della grazia: egli non capisce come la grazia agisca proprio nella concretezza e nella realtà materiale della Chiesa e dei suoi sacramenti.
Il teologo francese ricorda come Lutero abbia «l’impressione che, in una ecclesiologia di tipo cattolico (papista), in cui si dà al termine capo o testa un senso giuridico di autorità, al di là del suo senso di principio di vita spirituale, si abbassa il Cristo al piano naturale, si fa di lui un capo di Turchi e di pagani, dunque, in stile luterano, un capo di ladri, di briganti, di cortigiane e di plebaglia […]. Tutto questo perché, nella prospettiva del riformatore, nessuna cosa esteriore possiede in se stessa un valore - anche se ricevuta da Dio o per istituzione divina»[15].
Congar coglie in questa prospettiva di Lutero il germe di ciò che sarà sviluppato più ampiamente da Barth quando contrapporrà la fede, come unico evento benedetto e positivo, alla religione, come realtà da abbandonare. Per Barth - sottolinea Congar - «Dio sopravviene con una libertà sovrana; egli tocca il nostro mondo come una tangente tocca un cerchio, in punti successivi e discontinui; egli non lo penetra. Evidentemente, in una tale prospettiva […], non vi è nessun legame intrinseco tra le operazioni della Chiesa visibile e la produzione della realtà della grazia o della salvezza. Il mezzo occasionale può derivare dal Cristo venuto nella carne; l’operazione proviene solamente da Dio o dal Cristo celeste»[16].
Questo è, invece, il punto nevralgico di ogni teologia pastorale. Congar afferma con grande lucidità in proposito: «Pensiamo che vi sia non soltanto un’analogia, ma una corrispondenza di principio e di struttura tra l’ecclesiologia, da una parte, e la maniera di concepire il dogma sacramentario, più precisamente quello della presenza eucaristica di Cristo dall’altra»[17].
3/ La trasformazione della Chiesa in comunità
Tutto questo spinge il pensiero dei Riformatori a trasformare la Chiesa in comunità, dove tale termine è da intendersi al plurale. Talvolta il termine utilizzato da essi è quello di “congregazioni”[18]. Congar sottolinea come Lutero quasi non utilizzi il termine Kirche, preferendogli quello di Kristenheit (cristianità) o di Gemainde (comunità)[19].
Lutero e la Riforma ragionano a partire dalla paura che qualsiasi cosa venga attribuita alla Chiesa non possa che essere sottratta a Dio. In questo modo qualsiasi visibilità della Chiesa e del ministero è carnale e non spirituale, estranea a Dio e alla salvezza. Per mantenere il primato di Dio, Lutero lavora in maniera che la Chiesa cessi di essere una “causa” di salvezza. Non può esserci qualcosa “di carne” che venga da Dio[20].
Ne consegue che per tutti i Riformatori nella scia di Lutero, la vera Chiesa sia invisibile. Questa linea tocca il suo culmine con Zwingli[21], mentre è meno evidente in Calvino[22].
Questa assenza della rilevanza dell’opera della Chiesa per la salvezza spiega la difficoltà che poi la Riforma trova nel comprendere il tema della predestinazione. Infatti, la salvezza viene ridotta a qualcosa che Dio solo conferisce nel suo imperscrutabile disegno.
È Cristo solo che fa divenire qualcuno cristiano, senza alcun intervento significativo da parte di uomini[23].
3.1/ Il dilemma sulla natura mondana della Chiesa
En passant, Congar ricorda una questione subordinata e conseguente ad una visione di Chiesa che la consideri solo una comunità invisibile, generata direttamente da Dio a differenza di quella visibile e “carnale”. Poiché di fatto anche nella Riforma esiste poi concretamente una Chiesa, essa viene forzatamente sottoposta, nella visione dei riformatori, all’autorità civile, proprio perché non è di pertinenza della Parola e della Predicazione, come lo è invece la Chiesa invisibile che vive solo nelle anime dei chiamati.
La Chiesa concretamente esistente in terra viene così legata al potere temporale. Questa visione entrerà in crisi - ricorda Congar - con l’avvento del nazismo, quando diversi teologi protestanti si accorsero, invece, che è esattamente compito della Chiesa concretamente esistente opporsi al potere politico e, per fare questo, è necessario tornare ad identificare la Chiesa di Dio con la concreta Chiesa dei credenti visibilmente organizzata[24].
Congar sottolinea così come dinanzi al nazismo sia emersa nuovamente la questione dell’importanza della Chiesa come corpo, come organismo visibile, finanche la necessità di un diritto canonico che ne regoli il suo statuto differentemente da quello civile.
4/ Oltre la Sola Scriptura, il problema di un’interpretazione unilaterale della Scrittura
Congar giunge contestualmente a rilevare più volte come la visione teologica “parziale” della Riforma, ut pars, che coglie cose vere, ma ne trascura altre, non possa che giungere anche ad una lettura unilaterale delle Scritture. La sua prospettiva di una riforma che avvenga nella comunione lo porta a sottolineare come la grande questione della Riforma non sia data semplicemente dall’unilateralità del principio della Sola Scriptura, ma anche dall’accentuazione di punti di vista parziali all’interno della propria visione esegetica.
In particolare il teologo francese sottolinea come i riformatori abbiano la tendenza a leggere in chiave negativa l’Antico Testamento, identificandolo troppo facilmente con la Legge e, quindi, con una carnalità lontana da Dio e, ancor più, identificando la Legge tout court con il negativo.
Non solo: l’esegesi dei fondatori della Riforma tende poi a proiettare sul ministero e sulla strutturazione ecclesiale, che è chiaramente presente nel Nuovo Testamento, la pre-comprensione negativa che già ha delle “strutture” e del “sacerdozio” veterotestamentari[25]. Ad esempio, la presenza di “vescovi” e “presbiteri” nel Nuovo Testamento viene assimilata a quella dei sacerdoti veterotestamentari e riletta in negativo.
Più volte Congar insiste sul fatto che il libro biblico che è decisiva per Lutero non è tanto la Lettera ai Romani, quando quella ai Galati e il teologo francese definisce “galatismo estremo”[26] l’impostazione presente in numerose affermazioni della Riforma, intendendo con tale posizione il fatto che qualsiasi struttura o funzione sia vista come manifestazione della Legge in opposizione allo Spirito e, quindi, da superare come peccaminosa.
Insomma tutta la Bibbia è letta alla luce di un unico principio che è l’opposizione Lettera-Spirito. Tale prospettiva impedisce di cogliere la positività evidente della Legge e del ministero presente in entrambi i Testamenti[27].
Conclusione
Congar, con la terza parte della sua opera, non ha inteso tanto compiere una critica compiuta della Riforma del cinquecento, quanto, a partire da essa, mostrare il fatto che il rischio della parzialità sia sempre presente nell’opera di qualsivoglia nuova riforma. Chiunque voglia produrre un movimento di riforma nella Chiesa, con intenti nobili e con un vero desiderio di contribuire al superamento di mancanze evidenti nel vissuto della Chiesa, deve comunque fare attenzione al rischio di “parzialità”.
Per ogni futura riforma misurarsi con i problemi irrisolti della grande Riforma cinquecentesca è decisivo, secondo Congar, per comprendere come evitare il pericolo di agire ut pars, rompendo la comunione con il tutto della fede e della compagine ecclesiale.
Al termine della sua analisi, Congar pone anche la questione delle diverse possibilità di comprendere quello che è uno degli slogan caratteristici della Riforma, una Chiesa semper reformata, semper reformanda. Il teologo francese ricorda come, nella visione cattolica, ci siano aspetti della Chiesa che possano e anzi debbano essere perennemente riformati e altri che invece siano intangibili. Sempre deve essere riformata la vita del fedele dinanzi all’immutabilità della Chiesa. Congar - citando Möhler quando afferma: «Il cristiano non deve cercare di perfezionare il cristianesimo, ma voler perfezionarsi in esso»[28] - ricorda che si deve sempre tenere ferma la distinzione fra la persona e la funzione[29], per non attaccare ingiustamente quest’ultima: «La Chiesa è penitente. La Chiesa deve continuamente riformarsi, non nella sua struttura, ma nella sua vita»[30].
Il che ovviamente non significa che anche le strutture che non dipendono direttamente dall’ordinamento dato da Cristo alla Chiesa non possano e anzi non debbano essere riformate.
Note al testo
[1] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, traduzione dall’edizione francese del 1968. In queste pagine si analizzeranno le pp. 267-354.
[2] Sui limiti che Congar coglie nel 1967 a riguardo di questa parte, nella Prefazione alla seconda edizione scritta dopo il Concilio - la prima edizione dell’opera era precedente al Vaticano II -, cfr. pp. 13-14. Nonostante i limiti che il teologo francese intravede proprio in quel capitolo, a distanza di anni, egli lo ripresenta senza riscriverlo. Da un lato, egli dichiara che «è a proposito della terza parte dell’opera che noi ci siamo sentiti più esitanti [a ripubblicarla dopo anni dalla sua prima stesura] (p. 13)» per la nuova prospettiva ecumenica aperta dai padri conciliari, ma, d’altro canto, «essa ci sembra teologicamente necessaria per affrontare veramente il problema della natura e le condizioni di una vera riforma» (p. 13).
[3] Ibidem, p. 290.
[4] Cfr. su questo Ibidem, pp. 203-232.
[5] Ibidem, p. 290. Vale la pena sottolineare un’ulteriore “unilateralità” meno rilevata da Congar e precisamente il fatto che la Parola non si identifica con la Scrittura. Papa Francesco ha affermato che «la Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia» (papa Francesco, discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica, 12/4/2013).
[6] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, pp. 252-266, cfr. in particolare p. 256, coglie nel triplice ritorno alle fonti liturgiche, patristiche e bibliche una delle caratteristiche della riforma che andava preparando il Vaticano II e pone tale continuità con la tradizione come una delle quattro condizioni per una riforma senza scisma.
[7] Ibidem, pp. 290-291.
[8] Ibidem, pp. 291-292.
[9] Sugli Schwärmer - anabattisti, antinomiani, ecc. - cfr. Ibidem, pp. 311-312.
[10] Non sembrano distanti dai rischi cinquecenteschi di porsi “parzialmente” dinanzi al tutto quelle correnti contemporanee della teologia pastorale che ritengono di avere subito pronta una ricetta per risolvere ogni problema che travaglia la comunità cristiana. Non sono infrequenti teologi e pastoralisti che ritengono sufficiente - solo per fare qualche esempio - proporre itinerari di lectio divina o una catechesi familiare o un’Iniziazione cristiana di ispirazione catecumenale per risolvere ogni difficoltà, mentre bisogna abbracciare l’insieme e non sottolinearne solo una pars.
[11] A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano, Mondadori, 2014, p. 168.
[12] Per tale dimensione popolare del Bergoglio pontefice, basti citare alcuni passaggi del suo discorso alla Chiesa italiana riunita nel Convegno di Firenze il 10/11/2015: «La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».
[13] A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Milano, Mondadori, 2014, p. 168.
[14] «Voi sapete una delle periferie che mi fa così tanto male che sento dolore - lo avevo visto nella diocesi che avevo prima? È quella dei bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. A Buenos Aires ci sono tanti bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. Questa è una periferia! Bisogna andare là! E Gesù è là, ti aspetta, per aiutare quel bambino a farsi il Segno della Croce. Lui sempre ci precede» (dal discorso di papa Francesco ai partecipanti al Congresso internazionale dei catechisti, 27/9/2013).
[15] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, p. 300. Lutero non avrebbe così potuto capire il valore che il Vaticano II attribuisce al Cristo operante nella liturgia, come ha affermato Betti: «A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva» (U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Torino-Leumann, LDC, 1967, p. 234).
[16] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, pp. 333-334. A ragione J. Ratzinger, nell’Excursus Strutture del cristianesimo in Introduzione al cristianesimo (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 2003, originale del 1968, pp. 235-236), afferma: «Per noi uomini di oggi lo scandalo fondamentale dell’essere-cristiano è rappresentato innanzitutto dall’esteriorità in cui l’esperienza religiosa sembra finita. Ci scandalizza il fatto che Dio debba esser comunicato mediante apparati esteriori: tramite la chiesa, i sacramenti, il dogma, o anche solo tramite la predicazione (kerygma), dietro la quale ci si ripara volentieri per attenuare lo scandalo, ma che resta egualmente qualcosa di esterno. Di fronte a tutto ciò, ci si chiede: Dio abita proprio nelle istituzioni, negli eventi o nelle parole? L’Eterno non tocca forse ciascuno di noi interiormente? Orbene, a questo interrogativo bisogna rispondere subito e con semplicità in maniera affermativa e aggiungere: se esistesse soltanto Dio e una somma di singoli, il cristianesimo non sarebbe necessario. [...] Per la salvezza del singolo semplicemente non ci sarebbe stato bisogno né di una chiesa, né di una storia della salvezza, né di una incarnazione e passione di Dio nel mondo».
[17] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, p. 330. Quale luce potrebbe venire da un’attenta considerazione della grazia che nutre tramite il valore dell’esteriore che tocca l’interiore a quelle posizioni che ritengono che solo dopo una fede matura si possa concedere l’accesso ai sacramenti e che concepisce parimenti la Confermazione come sacramento delle persone cristianamente mature! Ma, al contempo, quale luce potrebbe venire alla riflessione pastorale dalla considerazione che il rito del sabato è presente già in Genesi 1, prima ancora che esista Israele e chela pedagogia riconosca come i bambini giungano alla fede tramite il rito e come il catecumenato antico obbligasse i catecumeni alla Liturgia della Parola domenicale, prima ancora che fossero battezzati, perché non nasce la fede dove non c’è la liturgia e l’anno liturgico che struttura il tempo, con i suoi segni
[18] Ibidem, pp. 338-339.
[19] Ibidem, p. 319.
[20] Ibidem, p. 301.
[21] Ibidem, pp. 325-327.
[22] Congar lo definisce il “genio più lucido della Riforma”, poiché è più sistematico di Lutero e avverte l’esigenza di organizzare la Riforma (Ibidem, p. 316).
[23] Ibidem, p. 307. Con grande equilibrio, invece, Balthasar ricorda che la comprensione cattolica della “vocazione” permetta di superare il dilemma posto dalla predestinazione, a motivo del fatto che nella Chiesa chi è chiamato è sempre chiamato per chiamare altri ed ogni vocazione è sempre una pro-vocazione per altri e mai ad esclusione di altri (cfr. H.U. von Balthasar, Vocazione, Roma, Editrice Rogate, 1981, pp. 15-18; 21-22.
[24] Cfr. su questo Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, p. 334, ma anche p. 297.
[25] Cfr. su questo Ibidem, pp. 308-309, ma anche p. 329 in relazione a Calvino.
[26] Cfr. ad esempio Ibidem, p. 291.
[27] A nostro avviso è possibile intravedere tale unilateralità anche in termini moderni scelti dall’esegesi storico-critica, come ad esempio l’individuazione di un documento di provenienza Sacerdotale, il cosiddetto Priestercodex, come fonte del Pentateuco, dove su tale denominazione viene proiettata una visione negativa del sacerdozio che ha radici nella propria teologia di riferimento. Cfr. su tale questione A. Lonardo, La bellezza originaria. I racconti di creazione nella Genesi, Castel Bolognese, Itaca, 2017, pp. 71-76.
[28] Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 2015, p. 351.
[29] Ibidem, p. 318.
[30] Ibidem, p. 354.