1/ Gramsci e la religione, di Andrea Oppo 2/ Per Gramsci la religione è necessaria. Ottant’anni fa la scomparsa dell’intellettuale italiano, di Franco Lo Piparo
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N.B. de Gli scritti
Antonio Gramsci, rivalutando il valore della cultura - anzi ritenendola necessaria per un’“egemonia culturale”[1] che sola avrebbe portato poi alla dittatura del proletariato - ha di fatto aperto il marxismo ad esiti imprevedibili.
La sua attenzione al sentire “popolare” proprio di chi ritiene la cultura non una semplice sovrastruttura, bensì una realtà degna di attenzione, lo ha portato a non essere sprezzante verso la religiosità popolare e il substrato cattolico italiano, anzi a coglierne le potenzialità innovatrici.
Egli immagina così un’opposizione fra un cattolicesimo popolare e quello gerarchico, la quale, sebbene non reale, gli ha permesso di non giungere ad una condanna a priori della fede, come si legge invece in Marx ed Engels come in Lenin e in Stalin.
I due articoli che seguono forniscono elementi preziosi per cogliere questo aspetto della riflessione gramsciana.
1/ Gramsci e la religione, di Andrea Oppo
Riprendiamo dal web il testo di una relazione di Andrea Oppo tenuta a Ghilarza, Torre aragonese, il 3 dicembre 2015, ore 18, nel corso della conferenza “Gramsci e la religione”, con interventi anche di Adriano Prosperi e Silvano Tagliagambe (http://www.pfts.it/images/docenti/oppo_andrea/Gramsci_e_la_religione.pdf). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia, in particolare le sezioni Filosofia del novecento e Comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
Grazie di questo invito, a tutti. “Gramsci e la religione”, dunque. Un tema difficile. Non so chi l’abbia pensato di voi organizzatori, ma devo dire che ha avuto un’idea che metterebbe in crisi chiunque debba affrontare un tema simile.
Ma prima di entrare nel merito, o almeno prima di provare a farlo, vorrei non lasciare senza commento il fatto che più volte è stato sottolineato: e cioè che io sono di Ghilarza, il paese di Gramsci. Essere di Ghilarza significa essere cresciuti con l’ombra ingombrante di Gramsci; vuol dire avere una serie di informazioni biografiche, conoscere persone, storie; vuol dire avere giudizi e pregiudizi su Gramsci.
E come spesso capita nella vita, vedere da troppo vicino significa non vedere bene. Infatti, devo dire che io, personalmente, ho avuto una visione completamente diversa di Gramsci la prima volta che andai a Londra e vidi nella immensa libreria di Dillons, in Gower street, quanti pochi libri di autori italiani, tradotti in inglese, vi fossero esposti, pure in una libreria così grande.
Ebbene, fra questi (Dante, Petrarca, Manzoni e pochi altri) trovai Gramsci. L’opera omnia di Gramsci. Gramsci era tradotto in inglese, esposto in prima fila nella più grande libreria di Londra ed era uno dei pochi autori italiani esposti così. Quel solo fatto mi aprì la mente: “Questo non è semplicemente un pensatore politico italiano”, ho pensato, “il cui valore sta in ciò che ha fatto in Italia, nelle sue lotte per e con il partito comunista ecc. Non saranno queste cose che interessano così tanto agli inglesi”.
Un anno fa sono stato invitato a tenere un seminario di filosofia alla Scuola Superiore di Economia di Mosca (sì, perché in Russia si insegna filosofia in tutte le facoltà, anche a Medicina e Ingegneria, e non è un semplice retaggio dell’Unione sovietica, è qualcosa di diverso…): mi ha meravigliato vedere come gli studenti, riuniti numerosi, conoscessero non solo Gramsci ma anche Ghilarza. Pensavano a Gramsci, e anche alla Sardegna (perché qualcuno mi ha chiesto a proposito dell’eredità filosofica di Gramsci in Sardegna, del suo rapporto con la lingua sarda…), ma non nel modo in cui ci pensiamo noi.
Noi, questo ho capito, siamo visti da fuori, anche se non lo sappiamo o forse neanche lo immaginiamo. E questo è un dato di Gramsci che non si può negare: è una figura assolutamente sovranazionale, il cui senso è intatto in tutte le latitudini, dall’Inghilterra che certo comunista non è alla Russia post-sovietica di oggi, e potremmo allargarci al mondo orientale, al Sud America.
Dovunque. “Perché?”, mi chiedo. Cosa vede quella gente che non sa nulla delle beghe interne della politica italiana in un pensatore così? Che cosa ha da dire loro? Ma non voglio insistere su questi aspetti, il tema è un altro.
Volevo solo dare alcune suggestioni di partenza su un tema che proviamo ad affrontare, la religione, che tutto è fuorché locale o nazionale. È antropologia pura, almeno per Gramsci. Ancora una volta: Gramsci e la religione. Provo a impostare la questione, a impostarla in una maniera tale possa essere una base comunque di discussione per il filosofo e lo storico che ho accanto e che parleranno dopo di me: il prof. Tagliagambe e il prof. Prosperi. Non ci siamo parlati prima d’ora, non ci siamo messi d’accordo. Di fatto, stiamo improvvisando un dialogo: proprio per questo provo, appunto, a trovare una piattaforma comune.
Che cos’è la religione per Gramsci? Partiamo da qui. E diciamo che la religione interessa a Gramsci in quanto è connessa all’azione, all’agire umano. È un esito, non una causa. È un fatto, non un’idea.
E in quanto fatto Gramsci la giudica, la valuta. Nel Vangelo si dice: l’albero si vede dai frutti. Ecco, questo è esattamente l’atteggiamento di Gramsci. Non è sempre facile od opportuno accostarlo al Vangelo, ma questa frase gli si addice proprio. Questa differenza radicale, tra fatto e idea, tra azione e contenuto di qualcosa, che, posta così, potrà non dirci molto, guardate, è invece centrale.
E conduce ad esiti che forse qualcuno neanche sospetta, che vi dico a mo’ di esempio. Nei Quaderni 10 e 11, forse i più filosofici tra tutti, quelli in cui Gramsci, come ha osservato molto bene Fabio Frosini nel suo ultimo studio, ha necessità di tornare alla filosofia per risolvere alcune aporie della politica, ebbene in quei quaderni Gramsci si definisce filosoficamente: rispetto a Hegel e a Croce soprattutto, ma anche rispetto alla filosofia cristiana e al positivismo.
In particolare, parlando della oggettività del reale, verso cui Gramsci ha più di un dubbio, egli sostanzialmente identifica le posizioni della filosofia neoscolastica, la filosofia cristiana “ufficiale”, con le posizioni scientifiche di Engels.
Sì, nessuno ha sentito male: Gramsci associa Engels alla filosofia ufficiale della Chiesa cattolica. E lo scrive testualmente a proposito della critica al Saggio popolare di Bucharin: scrive che “il neoscolastico Casotti quando crede già esistenti la vita e l’organismo reale si avvicina alle tesi di Engels dell’Anti-Dühring”.
Qui occorre qualche spiegazione. Eugen Dühring era un professore di Berlino, positivista, che aveva recensito molto negativamente Il Capitale di Marx definendo le sue tesi come pseudoscientifiche e quasi mitologiche. Ebbene Engels si premura di difendere Marx dall’accusa di anti-scientismo e così facendo scrive l’Anti-Dühring, tradotto in italiano in La scienza sovvertita del signor Dühring (1878).
Ma, così facendo, mostra, secondo Gramsci, il vero volto del socialismo scientifico: quello di teoria trascendente. La materialità del mondo, per Engels, è dimostrata dalle scienze naturali: per Gramsci aver fede in questo equivale ad avere fede in un Dio, né più né meno.
Per capirci meglio, se uno, magari anche qui, fra di noi, affermasse: “Io non credo in Dio perché credo solo in ciò che vedo e che tocco”, questa affermazione per Gramsci è una affermazione metafisica. Mi verrebbe da dire un’affermazione quasi teistica.
Ciò che si vede e si tocca, per Gramsci, in quanto oggetto fuori della nostra portata (oggetto di scienza, di misura in sé), è oggetto metafisico. L’ateismo di questo tipo è per Gramsci “fede nel trascendente”. Dire “non ci credo perché non lo vedo” è frase priva di senso da un punto di vista gramsciano.
Non importa ciò che esiste e si tocca: queste cose non hanno alcuna ragione per essere degne di attenzione o di fede. Lancio una provocazione: se Gramsci fosse qui direbbe che persone come Richard Dawkins (il guru conclamato dell’ateismo odierno, l’uomo della “materia” per eccellenza) sono persone “credenti”, “metafisiche”. Gramsci lo dice e lo scrive in tutta la sezione “La così detta realtà del mondo esterno” dei Quaderni dal carcere.
Ma chi è allora questo ateo, che è Gramsci, che è più ateo del “più grande ateo al mondo”? Anzi, per il quale “il più grande ateo al mondo” è… “credente”?! Che cos’è, dunque, l’immanenza, l’ateismo di Gramsci? Riprendo un esempio, un’immagine dei Quaderni, che è molto chiara e intuitiva a questo proposito. Gramsci parla del verbo “vedere” come intimamente connesso a questo modo di pensare e a questa fede per lui assurda nel mondo esterno in quanto tale (dunque nel materialismo in quanto tale, da cui potremmo quasi tirar fuori una formula paradossale, ma intimamente gramsciana, se capita in quest’ottica: il materialismo è trascendente).
Il verbo vedere, a differenza di guardare, non è propriamente un’azione volontaria, e se lo è lo è in modo riflesso. Lo stesso si potrebbe dire dei verbi sentire e ascoltare. Insomma è la differenza che Kant pone tra le leggi di natura a cui la volontà è soggetta e le leggi di natura la cui natura è soggetta a volontà.
In questo secondo caso, la volontà è causa degli oggetti. Per Gramsci non è vedere l’azione che conta, ma guardare. Io posso entrare in un museo e vedere molti quadri, ma quelli che decido di guardare sono il fatto reale, quello che conta per davvero, la mia “immanenza”.
Questa è immanenza per Gramsci: ciò che decido di fare, e l’esito che da questa decisione deriva. Il verbo “guardare” è curioso, se ci pensiamo: non ha radice latina, viene dal germanico, in tedesco è warten, aspettare, è quella radice wa- forse indica proprio l’intenzionalità se è vero che wachen significa “fare la guardia”, bewachen “custodire”, e le voci inglesi to wake e to watch indicano ugualmente “coscienza”, “presenza della volontà”, “presenza a se stessi”.
Se consideriamo il greco antico, che è sempre ricchissimo di verbi, ma ancora più nell’ambito della “vista”, ci sono tante sfumature e modi di vedere (opsomai, blepo sono solo alcuni), ma il verbo derkomai è particolare nella sua accezione intenzionale: da una metatesi della radice deriva la parola “drago”. Il drago è colui che ti fissa con l’occhio vigile, così come il serpente. Uno dei passi più realistici del Vangelo (Mt, 10) invita ad essere “astuti come i serpenti”.
E questo forse intende Gramsci con la sua metafora del agire/guardare anziché vedere: non essere ingenui, fare la guardia, appunto, guardare. Il metafisico, potremmo dire, vede e analizza la sua visione; il filosofo della prassi guarda e si occupa degli esiti di quel guardare.
Per comprendere quanto Gramsci sia dentro questa dimensione si pensi all’attenzione e all’importanza che riserva a San Paolo rispetto a Gesù Cristo: è San Paolo che agisce e fa il cristianesimo, non Cristo. Una visione diametralmente opposta a Nietzsche se vogliamo, il quale nel suo Anticristo (che dovrebbe più correttamente intitolarsi Anti-Paolo) difende la purezza di Cristo dalla “azione corrosiva” di San Paolo.
Ma non così per Gramsci, per il quale il cristianesimo delle origini, sino all’editto di Milano, ha valore di spinta e rivoluzione, è religione positiva. E ogni volta che nella Chiesa ci si richiama al cristianesimo delle origini, per lui, è segno di rinascita e rivoluzione.
Ma nei secoli a seguire la religione cristiana, letta per questa via fattuale e pratica, per Gramsci non ha realizzato le sue premesse e le sue aspettative. Valutandola come “fatto”, come un “pensiero agito”, Gramsci giunge alla sua celebre analisi che dopo la Controriforma e la Rivoluzione francese, la religione (cristiana) non conduce più al minimo atteggiamento pratico.
Dunque, oggi, per Gramsci, la religione è “oppio dei popoli”, cioè un’ideologia inutile. E aggiungerà: “La più gigantesca utopia metafisica apparsa nella storia, perché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica”.
Il giudizio è forte, è pesante. Ma faremmo un errore imperdonabile a considerarlo “giudizio su un’idea”, per esempio l’idea cristiana; giudizio su un contenuto dottrinale, su una verità, per esempio la verità del cristianesimo: perché di queste cose, delle verità del mondo in se stesse, a Gramsci non importa praticamente nulla.
A Engels importa, a Feuerbach anche. Ma non a Gramsci. E se noi non capiamo questo suo disinteresse per i contenuti in sé, per le dottrine in sé, semplicemente non abbiamo capito che cos’è la filosofia della prassi.
Gramsci non è contro il cristianesimo, semplicemente perché lui non è contro nulla che sia oggetto del mondo in quanto oggetto: non crede agli oggetti di per sé, come può esservi contro? Crede alle azioni: e quelle valuta. E le azioni cambiano, mutano nel tempo e nella storia. Sono liquide, non statiche.
La sua valutazione del cristianesimo, inteso come esito, come azione, non differisce dalle sue valutazioni di tutto il resto. Se l’azione va verso un fine buono, lui la valuta positivamente; viceversa, se va verso un fine cattivo, la valuta negativamente.
Il cattolicesimo che valuta negativamente è, in particolar modo, quello che inizia con la Controriforma e arriva fino al tempo che a lui è dato di vedere. È su quello, sul cattolicesimo come azione ed evento storico che occorre concentrarsi, per capire i giudizi di Gramsci: giudizi che, ripeto, variano a seconda degli esiti e della storia.
Ma torniamo per un momento all’idea più generale di religione che Gramsci ha. Gramsci intende la religione in senso antropologico, su una linea che sostanzialmente ha inizio con Montesquieu (Lo spirito delle leggi, 1745) in cui si opera una distinzione tra la religione vera e la religione utile.
È quest’ultima che interessa, la religione utile, e in quest’ottica l’antropologo americano Clifford Geertz, in tempi recenti, definisce la religione come un “sistema simbolico che agisce per instaurare atteggiamenti morali”. Non si sta parlando di teologia qui. Questa è la definizione che interessa a Gramsci.
La religione, come fatto immanente, come simbolo che produce una moralità, è una grande opportunità per Gramsci, è un evento estremamente positivo, se agisce bene, se agisce verso il bene. Ugualmente, se il cristianesimo agisce per il bene, verso il bene, esso è una grande opportunità, di cui magari un giorno non vi sarà più bisogno (parliamo di una “escatologia marxista”, tema che sia Marx che Gramsci pongono abbastanza chiaramente), ma per intanto, se fa così, è un fatto positivo.
Sono tante le conclusioni che si possono trarre. Davanti a un pensiero radicale – e quello di Gramsci lo è, è pensiero della rivoluzione a tutti gli effetti, rivoluzione vera, del pensiero che diventa immediatamente azione – si può reagire ignorando le provocazioni, addolcendo gli spigoli, oppure ascoltando e provando a mettersi nell’ottica di quel pensiero.
L’ottica della filosofia della prassi è quella di lasciar perdere le cose in sé e dunque evitare di cristallizzare la stessa filosofia della prassi come cosa in sé. Cosa che purtroppo molti interpreti gramsciani inevitabilmente fanno. Va da sé che è più facile ragionare su ciò “che si vede” che su ciò “che si fa” o “che agisce”.
Vorrei chiudere con qualche provocazione, ma che serve a capire, credo, a fondo le intenzioni di Gramsci. Cosa avrebbe da dire Gramsci a, poniamo un cattolico, che prega, va in Chiesa, crede nei dogmi della teologia e nel culto dei santi? Avrebbe da dirgli: “Non credere più”? “Non pregare”? “Abbandona la tua fede perché la tua dottrina è errata”?
Non penso che direbbe questo: non foss’altro perché si contraddirebbe nelle sue stesse premesse, iniziando, di fatto, a occuparsi di dogmi e contenuti, di oggetti statici ed esterni, cosa che non ha mai fatto. Gli direbbe piuttosto un’altra cosa, quasi “kantiana” (se mi è permesso, con Gramsci), anche se di un Kant molto pragmatizzato (ragion-pratica, più che ragion-pura-pratica): “Fa’ che l’esito della tua preghiera o della tua fede trascendente sia un effetto universale e in ogni tempo perché tutta l’umanità, a partire dai subalterni, ritorni e ridiventi più umana”.
Ecco una legge morale kantianogramsciana! Tradotto in termini più nostrani: “Tu, teista e trascendente, non puoi permetterti di essere ingenuo. La tua fede, che tu lo voglia o no, produce degli effetti e tu non puoi esserne ignaro”. “Non puoi pregare, pensando che quella tua preghiera sia fuori dal mondo; o non stia già generando qualcosa, di buono o cattivo, ma, cosa grave, tu non lo sai perché non te ne occupi”.
Parlando di preghiera, Edith Stein (ebrea, atea, assistente di Husserl all’Università, convertita al cristianesimo, suora di clausura carmelitana, infine internata ad Auschwitz e morta, come Massimiliano Kolbe, scambiando la sua vita con un altro detenuto al quale l’ha, infatti, salvata) nel suo credo era quanto di più trascendente potesse esserci (dalla fenomenologia di Husserl agli studi sull’empatia, a Tommaso, al Carmelo, a S. Teresa d’Avila): eppure nel 1933 scrisse al Papa Pio XI per dirgli di parlare apertamente di Hitler, del male che quest’ultimo faceva. Eppure litigò con le altre suore di clausura per la loro preghiera sterile, eppure non fuggì in America quando poteva farlo e infine si lasciò catturare quasi come Socrate, non sfuggendo al proprio destino. E lo condizionò pure, perché lei non sarebbe dovuta morire neanche nel campo di concentramento.
Mi domando, in un’ottica di filosofia della prassi, qual è il giudizio su questa donna, nata tra l’altro nello stesso anno di Gramsci e morta ad Auschwitz nel 1942? Siamo davanti a un caso in cui la trascendenza non porta certo all’inazione.
Detto questo Gramsci è scomodo, non lo nego. Perché fa continuamente i conti in tasca al trascendente: a qualunque trascendente. Non dimentichiamolo: il problema di Gramsci, io credo, non è con la fede in genere o con la Chiesa in quanto tali.
Il suo problema è col trascendente sterile. E questo trascendente non è solo nella religione teista. Io capisco che un teista stia male a leggere Gramsci: perché si trova davanti a uno sguardo per lui forse disincantato, che gli fa i conti in tasca proprio nel bel mezzo di un’estasi. Sente una disillusione in atto, che non piace a nessuno.
Ma non piacerebbe neppure al musicista, chiuso nel suo mondo musicale; all’artista che crede che un quadro abbia una sua verità trascendente (idea romantica nell’arte che oggi ha praticamente vinto e si è imposta dovunque nell’arte), che non dipende da noi; a chi creda che esistano cose come il genio, l’assoluto, il bello in sé, il sogno, il romanticismo nel senso di Novalis di una vita dedicata all’arte come l’unica degna di esser vissuta, il “lasciatemi in pace coi miei sogni”: a tutti costoro Gramsci fa i conti in tasca.
E questo non è comodo per nessuno, non è solo un problema di fede teista. Lo scienziato che crede nella scienza come valore in sé è messo in questione da Gramsci. L’artista che identifica forma e contenuto, cioè uno che crede nell’arte (su questo Gramsci è esplicito nei Quaderni, attaccando con chiarezza quel tipo di fede nell’arte).
Probabilmente l’intero meccanismo di produzione del sapere delle università americane di oggi (che è, di fatto, pura classificazione e infine dominio degli oggetti/enti del mondo esterno) sarebbe oggetto della “messa in guardia” gramsciana. Nessuno è al sicuro con Gramsci.
La fede religiosa, in quanto trascendenza, è forse “la più grande” delle utopie trascendenti, ma di utopie del genere, per lui, il mondo è pieno. E lo sarà sempre di più, dopo la sua morte. Sì perché è esattamente la trascendenza che ha vinto in questo mondo odierno dominato dall’Occidente americano, che ha di fatto imposto un modello trascendente in tutto: nella scienza materialistica, nell’arte, nella politica, nella religione.
Nessuno, con le proprie utopie, è al sicuro con Gramsci. Il suo pensiero è scomodo, ripeto, non solo verso i cattolici. E io non penso che se fosse vivo oggi attaccherebbe tanto la religione cattolica come la più grande delle utopie trascendenti, ma, credo, il senso comune trascendente che ne è derivato, e che ormai pervade tutto.
Io personalmente posso avere delle riserve sulla filosofia della prassi radicale di Gramsci. Posso non seguirlo nella sua radicalità precisamente nel fatto che do valore anche (o soprattutto) all’utopia improduttiva, alla trascendenza che non dà frutti nella prassi: posso credere, con Heidegger, in un’opera d’arte come identità di forma e contenuto; o con Pasolini in un valore del Vangelo come “archetipo in sé” che rivela e magari non agisce secondo i criteri che vorrebbe Gramsci.
E tuttavia anche a un “utopista trascendente” come me il messaggio di Gramsci ha da dire qualcosa che non è affatto una dichiarazione di guerra a ciò che sono, o sarà che non la vivo così. Ma è più semplicemente ha da dirmi: “Stai attento”; “Non essere ingenuo, non permettere che mentre tu sogni altri manovrino quel sogno”; “Tutto, in fondo, si declina in una azione”.
Questo è il messaggio di Antonio Gramsci. Posso accusarlo di non capire o riflettere su ciò su cui ha riflettuto Heidegger, di non dare valore alle essenze delle cose, di non aver capito il cristianesimo dei Vangeli nella sua essenza, o quella che secondo me lo è (non quella che agisce di San Paolo, ma quella “inerme” di Cristo), ma lui, proprio non occupandosene, non contrasta questi valori, non impedisce da un punto di vista teorico alle cose di essere ciò che sono, e credo non lo faccia con nessuno.
Piuttosto mette in guardia, come il drago del verbo derkomai, che ti fissa mentre tutti sognano o vedono cose qua e là. Se gli altri vedono, lui guarda. Non necessariamente le cose sono in contrasto.
Così il metafisico con il filosofo della prassi non sono nemici sulle idee, ma saranno i frutti delle loro azioni a mostrare il risultato finale della loro amicizia. E, come scrisse in una famosa lettera a sua madre, donna di fede cristiana, che lui ammirava e stimava: “…alla fine ti accorgerai che eravamo più vicini di quanto non pensassi”.
2/ Per Gramsci la religione è necessaria. Ottant’anni fa la scomparsa dell’intellettuale italiano, di Franco Lo Piparo
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 26/4/2017 un articolo di Franco Lo Piparo, Professore di filosofia del linguaggio all’università di Palermo e vincitore nel 2012 del premio Viareggio saggistica con il libro «“I due carceri” di Antonio Gramsci» (Donzelli editore). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia, in particolare le sezioni Filosofia del novecento e Comunismo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2019)
«La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo».
Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole” dell’edizione torinese dell’«Avanti!» il 4 marzo 1916. L’osservazione antropologico-filosofica è parte di un articolo che prende lo spunto dalla notizia di una fattucchiera che aveva visto aumentare la sua clientela in seguito alle vicende belliche.
Tesi simili lo studente Gramsci le avrà lette in testi di Croce, Gentile e Bergson. La frase che immediatamente segue ne è la spia: «L’uomo grosso non ha sostituito (perciò diciamo che è grosso) nulla alla religione. La vita si chiude per lui nel cerchio delle occupazioni quotidiane».
Registriamo che la religione non è né l’oppio dei popoli e nemmeno una sovrastruttura destinata a collassare una volta cambiato l’assetto socio-economico su cui si regge. «È un bisogno dello spirito». Ha a che fare con la natura dell’uomo indipendentemente dai modi in cui quel bisogno nella storia si declina.
Le numerose annotazioni, disseminate nei Quaderni, sulle religioni e sulla fede che le sorregge non mettono mai in discussione il principio. Lo ribadiscono e lo rafforzano. Il Quaderno 6, ad esempio, cita, facendola propria, una pagina in cui Plutarco osserva che chi viaggia per il mondo potrà imbattersi in «città senza mura e senza lettere, senza ricchezze e senza l’uso della moneta, prive di teatri e di ginnasi. Ma una città senza templi e senza dei, che non pratichi né preghiere, né giuramenti, né divinazioni, né i sacrifizi per impetrare i beni e deprecare i mali, nessuno l’ha mai veduta, né la vedrà mai». Detto con parole se è possibile ancora più chiare: non esistono società dove non venga praticata una religione.
Questo è solo un punto di partenza. Nei Quaderni circola con insistenza una tesi che solo gli occhiali marxisti o marxisteggianti degli interpreti non hanno consentito di porre nella giusta luce. Se le religioni si fondano sulla fede (e così stanno le cose), le religioni-fede non sono un fattore aggiuntivo, anche se ineliminabile, delle società umane ma il cemento strutturale necessario che fa di una molteplicità di individui un gruppo sociale coeso, sia esso partito politico o popolo-nazione o chiesa o altro ancora.
Occorre una precisazione semantica sulla parola «fede». Fides è il termine con cui nella vulgata latina del Nuovo Testamento viene tradotta la parola greca pístis. Il termine, nel lessico filosofico greco, indica lo stato d’animo di chi ha fiducia in qualcuno o qualcosa perché è persuaso, per un qualche motivo, della sua verità e/o giustezza. La pístis-fede ha quindi a che fare con la persuasione e la credenza. «Essere persuaso che...» ha lo stesso significato di «credere che...». Non a caso i fedeli sono anche credenti.
Questo è il significato della parola fede-fiducia che dalla Retorica di Aristotele giunge al Nuovo Testamento e da lì si diffonde nel lessico delle lingue moderne. Con questo senso Gramsci usa la parola fede nei Quaderni.
Sulla fede-fiducia in determinati valori culturali e nelle istituzioni che li incarnano poggia il potere invisibile che ciascuno di noi si porta dentro e che ci fa agire in un modo e non in un altro perché fortemente persuasi che sia giusto comportarsi in quel modo. Questo potere invisibile il Gramsci giovane lo chiamava prestigio e, nei Quaderni, lo chiamerà egemonia.
Persone e istituzioni di cui ci si fida e alle cui regole culturali di comportamento ci si conforma per consenso spontaneo sono, nel giudizio silenzioso di chi ne subisce il fascino, persone e istituzioni che, godendo prestigio e ispirando fiducia, esercitano egemonia. Quaderno 12: «Il consenso (...) nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione».
Una pagina del Quaderno 11 si sofferma a lungo sull’argomento. «Nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede». Le argomentazioni razionali, anche se importanti, hanno in ultima analisi un valore strumentale. Se l’argomentazione razionale fosse preminente, «a un uomo del popolo (…) potrebbe capitare di dover mutare le proprie convinzioni una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore». Questo non accade perché «l’elemento più importante della sua concezione del mondo è indubbiamente di carattere non razionale, di fede». E continua: «Ma fede in chi e in che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui». Ed ecco la conclusione: ai fini della diffusione popolare di una nuova concezione del mondo «la forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall’essere decisiva».
Una fede-egemonia realizzata vive come insieme di certezze di senso comune che chi vi aderisce dà per scontato che non vale la pena mettere in dubbio. L’insieme di certezze indubitabili nella sistemazione teorica che ne fa Gramsci è simbolicamente rappresentato dal mito-Principe che per questo «non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta» (Quaderno 13). «Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico».
La Chiesa cattolica è assunta nei Quaderni come esempio paradigmatico di fede-egemonia ben riuscita. Sono molte le pagine in cui l’argomento viene trattato. I punti forti del successo sono fondamentalmente due, tra loro complementari.
L’alto livello della elaborazione teorica non è disgiunto dalla capacità politica tradurre in apparati culturali popolari la teoria. Le figure fondanti della Chiesa sono due: Cristo generatore di una nuova e rivoluzionaria Weltanschauung, san Paolo organizzatore della Weltanschauung. «Essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta» (Quaderno 7).
La Chiesa cattolica non è elitaria ma sa fare convivere e interagire l’alto e il basso, i suoi intellettuali e il popolo dei credenti. «La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione intellettuale di tutta la massa “religiosa” e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che “ufficialmente” si formino due religioni, quella degli “intellettuali” e quella delle “anime semplici”. (…) risalta la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori artefici di questo equilibrio» (Quaderno 11).
Le filosofie immanentiste hanno provato a seguire l’esempio della Chiesa ma hanno fallito. «Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i “semplici” e gli intellettuali».
Sorgono delle domande che Gramsci non pone. E se la causa del fallimento risiedesse tutta nell’immanentismo di quelle filosofie? Una filosofia che non può e non sa dare risposte appaganti alle domande sul senso ultimo della vita e della morte può diventare religione e Chiesa?
E se le filosofie immanentiste non fossero capaci, per motivi di principio, di fuoriuscire dalle egemonie-fedi settoriali? Il cristianesimo non è solo una egemonia-fede ma una egemonia-fede globale: non si occupa di questo o quell’assetto socio-economico ma del senso del vivere. E se il fallimento egemonico delle filosofie immanentiste nascesse dalla presunzione di occupare un terreno che non appartiene a loro? Gramsci questo non lo dice ma non è incompatibile con lo spirito liberal-democratico che anima i Quaderni.