[Siamo figli dell'«Homo oeconomicus»; siamo esponenti di una concezione della vita che gravita intorno alla ricchezza. Anche se non la possediamo, la ricchezza è il cardine della nostra vita moderna; ad essa tende il nostro lavoro; di essa parla la nostra cultura superiore e la nostra conversazione familiare, di essa gode e soffre la nostra gente. Questa osservazione non è un vanto, è il riconoscimento d'una realtà. E quasi una confessione. Come arrischiare un colloquio decente fra noi e Francesco? Come presentarci, senza sentirci da lui respinti, o a lui offensivi?] Non si vive per l'economia, anche se si deve vivere di economia. Montini, allora arcivescovo di Milano in occasione del pellegrinaggio delle diocesi della Lombardia ad Assisi
Riprendiamo sul nostro sito il testo del discorso che monsignor Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo metropolita di Milano, tenne il 4 ottobre 1958 ad Assisi in occasione del pellegrinaggio delle diocesi della Lombardia. Il testo è tratto da G.B. Montini, “Discorso” (Assisi - 4 ottobre 1958), in Rivista diocesana milanese, 1958, pp. 491-493. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Politica ed economia.
Il Centro culturale Gli scritti (11/8/2019)
Magistrati e cittadini, Sacerdoti e fedeli della terra di Lombardia,
venuti con me pellegrini, in rappresentanza della nostra Regione e della intera Nazione, a questo sacro luogo per rendere onore al Patrono d'Italia, san Francesco d'Assisi, nel giorno sacro alla memoria del suo beato transito, offriamo al Santo una preghiera, semplice e difficile insieme, naturale e strana ad un tempo.
Una preghiera dobbiamo pur esprimerla; non sarebbe religioso il nostro atto, se al tributo del nostro omaggio non si unisse quello della nostra invocazione, della nostra fiducia. E la preghiera che dobbiamo fare deve tenere conto di ciò che noi siamo, e di ciò che Lui è; non sarebbe altrimenti, da parte nostra, sincera; non sarebbe altrimenti verso di Lui riverente e a Lui gradita. Ora noi siamo provenienti da una Regione che si caratterizza oggi — e forse domani, col Mercato Comune, ancor più — per il suo sviluppo economico e per l'impegno con cui a tale sviluppo essa lega i suoi pensieri, i suoi interessi, i suoi affanni, le sue speranze, la sua vita. Siamo figli dell'«Homo oeconomicus»; siamo esponenti di una concezione della vita che gravita intorno alla ricchezza.
Anche se non la possediamo, la ricchezza è il cardine della nostra vita moderna; ad essa tende il nostro lavoro, tanto progredito, organizzato, meccanizzato, teso e febbrile, intorno ad essa si dibatte, non conclusa, non sopita, la questione delle classi sociali; di essa parla la nostra cultura superiore e la nostra conversazione familiare, di essa gode e soffre la nostra gente. Questa osservazione non è un vanto, è il riconoscimento d'una realtà, che qui viene in evidenza, e quasi ci mette a disagio. E quasi una confessione: noi siamo uomini abituati a porre nella ricchezza la nostra stima, la nostra speranza.
Quale preghiera possiamo noi rivolgere a san Francesco d'Assisi?
Il disagio cresce, dobbiamo rivolgerci al Santo della Povertà che non solo soffrì, ma volle la Povertà, così da farla simbolicamente sua sposa, da professarla come sua scelta sociale, da immedesimarsi, sempre più in essa, come fonte della sua spiritualità: «Poscia di dì in dì l'amò più forte» (Par. XI 63).
Se non sapessimo quale «ignota ricchezza», quale «ben verace» (ib 82) di umanità, di poesia di grandezza morale, di sapienza, di civiltà, di santità si nascondono sotto la misera veste del Poverello d'Assisi, saremmo subito tentati di uscire di qui, come avessimo sbagliato la méta, o di starcene un istante come turisti, che si contentano di osservare la singolarità di un ambiente artistico, suggestivo e misterioso, ma totalmente estraneo al loro spirito.
Preghiera umile e audace
Come arrischiare un colloquio decente fra noi e Francesco? Come presentarci, senza sentirci da lui respinti, o a lui offensivi? E come chiedergli qualche cosa che non sia in nostro danno, o a lui disdicevole?
Ecco perché la conversazione con lui quasi ci sembra insostenibile, e l'essere qui un errore, e proferire una preghiera impossibile.
Eppure dobbiamo trarre dal nostro spirito una preghiera, vi dicevo, umile e audace. Una preghiera che ci faccia buoni — e diciamo pure, Poveri — nella nostra ricchezza, e che renda la sua Povertà, in qualche modo, una dovizia, una salvezza per noi.
La preghiera è questa: Francesco, aiutaci a purificare i beni economici dal loro triste potere di perdere Dio, di perdere le nostre anime, di perdere la carità dei nostri concittadini. Vedi, Francesco, noi non possiamo straniarci dalla vita economica, è la fonte del nostro pane e di quello altrui; è la vocazione del nostro popolo, che sale alla conquista dei beni della terra, che sono opere di Dio; è la legge fatale del nostro mondo e della nostra storia. È possibile, Francesco, maneggiare i beni di questo mondo, senza restarne prigionieri e vittime? È possibile conciliare la nostra ansia di vita economica, senza perdere la vita dello spirito e l'amore? È possibile una qualche amicizia con Madonna Economia e Madonna Povertà? O siamo inesorabilmente condannati, in forza della terribile parola di Cristo: «È più facile che un cammello passi per la cruna d'un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli»? (Mt. 19, 24). Anche il nostro sant’Ambrogio ci aveva detto quelle parole tremende: «O ricco, tu non sai quanto sei povero!» (De Nabuth, 2, 4), ma non le ricordiamo più: e non le abbiamo mai bene comprese. E anche Tu, Francesco, non hai insegnato ai tuoi figli a lavorare, a mendicare e a beneficiare, cioè a cercare ed a trattare quei beni economici, di cui la vita umana non può essere priva?
Ma qui davanti a Te, Francesco, noi vogliamo avere un dono di luce, anche un lampo solo sulla ricchezza di cui siamo tanto appassionati, e vogliamo vedere, sì, senza fatica i due grandi pericoli che essa introduce nella nostra vita, e li vogliamo qui a noi stessi ricordare e denunciare.
Dono di luce sulla ricchezza
Ecco, meditiamo un istante. La ricchezza, facilmente troppo facilmente, fortemente, troppo fortemente s'impadronisce dei nostri pensieri e diventa fonte dei nostri desideri, s'impadronisce delle nostre anime, e le assorbe nei suoi calcoli e nelle sue vicende, li appesantisce di valori temporali, le incatena alla terra. La ricchezza toglie la libertà interiore; ci dà il gusto dei beni materiali e dei piaceri che da essi, sperati o goduti, possono derivare; ci attenua prima, ci toglie poi il senso dei beni spirituali, come fossero lontani, difficili, inadeguati alle ispirazioni umane. Ci fa amare le cose esteriori, e meno quelle interiori; ci fa cercare le cose temporali e dimenticare le eterne. Ci illude che il nostro destino finale sia qui, e ci preclude una diritta ricerca del nostro vero scopo vitale, ché sopra l'esperienza presente ed oltre il tempo presente. Ci cambia la direzione della vita, altera la bussola del nostro cammino. Ci offre beni fugaci e fallaci, e ci fa perdere il Bene unico e sommo, il Dio vivente ed infinito.
Ecco perché Cristo, il Maestro, ebbe a porre come primo articolo del suo messaggio: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt. 5).
Questo infatti è il primo pericolo della ricchezza economica, di farci inabili alla ricerca di Dio, ed immeritevoli di raggiungerlo.
Poi un secondo pericolo parimenti derivato dalla vita economica, rende in questo momento trepidanti i nostri spiriti; e sempre li dovrebbe rendere vigilanti: è quello di diventare egoisti. Chi possiede teme. Chi possiede si isola. Chi possiede si difende. Chi possiede si pone facilmente in posizione ostile verso i propri simili. Quel prossimo che dovremmo amare — amare come noi stessi, proprio perché è prossimo — ci riempie di diffidenza, d'invidia, di concorrenza, di inimicizia. Il mio e il tuo segnano confini non solo nell'ordine economico e giuridico, ma anche in quello morale e spirituale. La ricchezza crea la grande tentazione di fare dei nostri simili i nostri servi ed i nostri strumenti.
Essa diventa uno dei fattori principali della formazione chiusa dei raggruppamenti sociali, e la posta di quel terribile gioco che è la lotta di classe. Ciò che doveva servire alla felicità umana si trasforma spesso nella sorgente degli odi sociali e della infelicità dei popoli: le guerre hanno sovente la loro infausta radice nel miraggio di conquiste economiche, nell'auri sacra fames. L'avarizia e la cupidigia soverchiano la valutazione e il rispetto della vita umana.
Sappiamo queste cose. Ma notiamo subito un fatto singolare: qui, nella penombra di questa Basilica, queste verità di comune esperienza acquistano una chiarezza penetrante e svelano i loro duri contorni impressi nella vicenda della storia nostra, quella di ieri e quella di oggi; e, superato il primo momento di interiore disagio, qui, la considerazione di questo quadro, in cui la conquista economica della civiltà assume aspetti paurosi, non ci disturba più. Anzi — che è? — subentra in noi quasi un senso di fiducia e di pace. È vero: la ricchezza può farci perdere la conquista di Dio, il Bene Sommo, e ci può guastare la convivenza amichevole con i nostri simili, ci può impedire la carità: la carità verso Dio e la carità verso il prossimo. È tremendo. Ma appunto perché è tremendo questo problema della ricchezza nella casa della Povertà, ci facciamo animo a studiare una sua soluzione: generica, iniziale fino a che si vuole, ma tale almeno da ridarci bontà nel cuore e fiducia, che ritornando domani al nostro lavoro, non faremo opera contro noi stessi.
Perché al nostro lavoro bisogna pur ritornare. Sarebbe mai possibile che in questo momento di mistico fervore, rinnegarlo? No, certo. E dobbiamo forse spogliarci, come questa «gente poverella» seguace del Santo d'Assisi, dei beni economici se Dio non ci fa dono di eguale vocazione? E se a quei beni è legato il benessere, la prosperità e la pace del nostro popolo?
Lezione Francescana: «Svelenire i beni economici»
Qui è la nostra preghiera a S. Francesco, che ci faccia grazia a svelenire i beni economici, come dicevamo, d'ogni loro funesto potere contro la carità di Dio e la carità del prossimo.
Proviamo a dire: è cattiva la ricerca dei beni economici quando essi servono all'uomo? Al pane, all'elevazione della vita, alla cultura, alla pace, allo sviluppo delle facoltà umane e dell'organizzazione civile del mondo? No. Questa ricerca si chiama lavoro; ed il lavoro è nell'intenzione creatrice di Dio, è nel suo piano penitenziale di redenzione, è nell'esempio, tanto più umile quanto più eloquente, di Cristo, è nel precetto apostolico ai primi cristiani, è nella stessa disciplina francescana tutta umiltà e fatica.
Questa ricerca si chiama produzione. Produrre i beni utili alla vita è, per sé, cosa buona, necessaria e grande. Se mai, chiederemo a S. Francesco che ci faccia ben comprendere come non si vive di solo pane; come la vita economica non possa essere l'unico fattore, determinante e finale, della nostra giornata terrena, come la vita economica debba perciò essere subordinata alla legge morale. Non si vive per l'economia, anche se si deve vivere di economia. Al di sopra del processo economico deve essere instaurato l'ordine umano.
Lo sviluppo produttivo non deve prescindere dall'esigenza d'un crescente rispetto al lavoro dell'uomo; ed il lavoro dell'uomo deve a lui aprire la vita ad un adeguato godimento dei beni a cui la produzione è rivolta, in modo che il lavoratore non si senta più estraneo nell'azienda, ma sia favorito a collaborarvi non per solo interesse precariamente equilibrato, ma per convinzione altresì di essere partecipe d'un comune interesse e di trovarvi riconoscimento e tutela della sua umana dignità.
Così diremo d'un’altra fase del processo economico: la distribuzione della ricchezza, cioè il riconoscimento che i beni economici appartengono a determinate persone e ne costituiscono la proprietà. Anche questa è legge di natura, cioè voluta da Dio e risponde alla promozione dell'uomo a fini superiori. San Francesco, che si priva per sé d'ogni personale proprietà, non la condanna in altri, ma cerca di equilibrare con l'esempio e la pratica d'un eroico disinteresse l'eccessiva avidità con cui tanti uomini, anche cristiani, sono attaccati alle loro proprietà. E libero ormai d'ogni aderenza ai beni economici, avverte, con la sua mano tesa a mendicare, come questi siano troppo disugualmente distribuiti, e come la carità debba dare l'avvio a quella volontaria migliore distribuzione che si chiama l'elemosina, la beneficenza, e come questa debba porre alla coscienza dei giusti il problema di una più equa distribuzione dei beni economici, esattamente come ebbe più volte a proclamare il Sommo Pontefice, affermando che «Essa è e rimane un punto programmatico della Dottrina sociale cattolica» (Disc. IX, 216).
La lezione francescana si fa grave; ma ancora più salutare e moderna. E prosegue con note anche più severe e più chiare a ricordarci che il terzo momento del ciclo economico, quello del godimento della ricchezza, se da un lato è il più ovvio ed il più legittimo, perché finalmente a ciò tende l'economia, dall'altro è il più pericoloso, perché nel godimento della ricchezza più facilmente l'uomo si arresta, si compiace, e si corrompe idealmente, moralmente e socialmente. È perciò a questo punto che la lezione francescana incalza con maggiore voce, e ci ricorda come la felicità non consiste nella soddisfazione di molti e sempre nuovi bisogni, come sia invece saggezza, per ogni verso encomiabile, contenere nell'ambito delle necessità, della semplicità e della funzionalità i bisogni a cui Dio, e alla natura dell'umano consorzio che la ricchezza può dare soddisfazioni; come si debba allargare a godimento comune, a funzione sociale, il frutto della povertà, anche se esclusiva questa, quello deve essere più accessibile dal comune bisogno; come perciò la proprietà, di fronte al sovrano diritto di fratelli ci vuole, sia da considerarsi non dispotica e chiusa ma piuttosto una funzione pubblica, un'amministrazione sociale, da cui non si può escludere il bene comune dalla società; e come finalmente l'edonismo, il lusso, lo sfarzo, l'avarizia, l'orgoglio che la ricchezza genera nei suoi seguaci, siano perversione dannosa e deprecabile, sia per lo spirito umano, che per l'umana convivenza.
Vangelo per il nostro tempo
Non sono cose nuove, Francesco, quelle che ora ci predica, ma diventano Vangelo, per il nostro tempo. Non nuove per sé, ché derivano dalla dottrina di Cristo perennemente viva; ma, purtroppo, sempre nuove per noi che le sappiamo così male ricordare, e così male applicare. Non nuove, ma sempre sagge specialmente per noi, quando diventiamo amministratori del pubblico bene, che tante ricchezze richiede, tante maneggia, tante traffica e spende; e vuole le nostre mani monde e povere come le tue. Non nuove ma sempre difficili, e perciò bisognose di un esempio radicale e sublime come il Tuo, affinché noi riusciamo a meglio comprenderle ed a meglio seguirle, ed a ravvisarvi il principio di quella giustizia sociale, che forma l'aspirazione più nobile e più dinamica del nostro tempo.
Ecco, allora, Francesco, che la Tua Povertà ci diventa amica e maestra. Ecco che ammonisce coloro che mettono nei beni economici le loro somme speranze a mirare più in alto, a svincolare il cuore dall'amore delle cose terrene, e a saperle considerare come buone solo quando ci sono scala per salire le vie dello spirito e ci sono specchio per riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza di Dio; come Tu, povero, le hai viste, alla fine, cantandole, come libero poeta, nel Tuo cantico delle creature.
Così insegnaci, così aiutaci, Francesco, ad essere poveri, cioè liberi, staccati e signori, nella ricerca e nell'uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani, noi Lombardi, noi Italiani.
Assisi, 4 ottobre 1958
+Giovanni Battista Montini
Arcivescovo di Milano