1/ «Un piano pastorale può prendere al massimo il 15% delle attenzioni, mentre la vita ordinaria ha bisogno dell’85% del tempo». Cosa pensare di tale affermazione? Breve nota di Andrea Lonardo 2/ Dove si attacca la formazione delle persone al concreto della vita? Breve nota di Andrea Lonardo
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1/ «Un piano pastorale può prendere al massimo il 25% delle attenzioni, mentre la vita ordinaria ha bisogno del 75% del tempo». Cosa pensare di tale affermazione? Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (30/6/2019)
Un prete amico mi dice: “Ho sempre pensato che un piano pastorale diocesano debba prendere il 15% delle attenzioni del laicato e del tempo di un parroco. L'85% deve essere, invece, deve essere rivolto alla vita ordinaria. Se l’attenzione fosse spostata oltre il 15% delle attenzioni e del tempo sarebbe grave per la vita delle parrocchie e del laicato che già sono totalmente presi dai loro impegni”.
Resto immobile, in ascolto, perché nessuno mi aveva mai posto in maniera così chiara un aspetto del problema del rapporto fra diocesi e parrocchie o ambienti pastorali. Resto immobile, in ascolto, perché, essendo una prospettiva nuova, mi accorgo che può essere chiarificatrice, sia che la si accolga, sia che la si rifiuti.
Al di là della proporzione del 15% che potrebbe essere ampliata ulteriormente fino al 25%, rifletto fra me e me che è pericolosissimo dare l’impressione che il lavoro che già si fa in parrocchia o negli ambienti pastorali non sia fruttuoso e lo possa diventare solo a partire da una nuova progettazione. Perché ciò getterebbe nello scoraggiamento.
Il primo segnale che si deve dare, invece, è che le parrocchie meritano il grosso dell’attenzione. Che lo merita la catechesi, l’iniziazione cristiana, la cura dei bambini e dei giovani, l’accoglienza delle famiglie, la liturgia e la carità, la cultura e la formazione. Lì si gioca molto, anzi moltissimo, e se quello viene fatto male, non c'è piano pastorale che tenga - questo vuol dire che quel 75% deve restare tale e non essere fagocitato da altre attenzioni.
Si potrebbe utilizzare, in questo senso, un linguaggio del tipo: “Con questo progetto pastorale, noi intendiamo venire in aiuto a ciò che voi già fate con tanta passione e frutto, ma il grosso sarà sempre ciò che voi già fate: pensiamo solo che ciò che da sempre si fa nelle parrocchie porterà ancora più frutto, grazie a qualche suggerimento e ad un’attenzione maggiore al contesto in cui viviamo che si sta trasformando e che è profondamente diverso rispetto a 20 anni fa. Ciò in cui vogliamo aiutarvi è solo capire i mutamenti del contesto, di modo che tutto sia meglio centrato rispetto ai mutamenti in corso. Ascoltando la voce dello Spirito, sarà possibile rendere il cammino ancora più splendido. Ma sia chiaro fin da principio: lavoreremo sul 15% del lavoro, perché l’85% va benissimo così come è e deve essere continuato. Lo Spirito ha voluto le parrocchie e l’iniziazione cristiana, la liturgia e la carità, Dante e Manzoni e se noi dimenticassimo tutto questo vorrebbe dire che avremmo trascurato lo Spirito Santo”.
L’altra possibilità è quella di una palingenesi, di una ristrutturazione totale: Ma essa, oltre ad essere problematica dal punto di vista teologico, ha di contro l’esperienza degli ultimi 50 anni di pastorale. Dove si è preteso di ricominciare, come in Francia, il risultato è stato peggiore del punto di partenza. Ma anche in Italia molti dei progetti palingenetici di parrocchia pensati negli anni ’70 o ’80 sono oggi assolutamente insignificanti e non vengono più nemmeno nominati, a solo 40 anni di distanza. Diverso è il caso dell’attenzione agli ambienti, o alla cultura o alla politica, dove la latitanza della chiesa è stata evidente: si può agire dove le parrocchie non arrivano, ma la domanda è se ha senso ridiscutere le parrocchie stesse.
Rifletto, in relazione alle parrocchie, che la stima verso di esse e verso il lavoro che già svolgono è la corretta applicazione della sussidiarietà, elaborata dalla dottrina sociale della chiesa, alla pastorale. Una diocesi non può sostituirsi alle parrocchie, bensì il suo compito è sostenerle ed incoraggiarle. La sussidiarietà, come concetto sociale, intende mostrare che tra lo Stato e il singolo esistono le realtà intermedie, sulle quali tutto si regge. Dove tutto si sposta sull’individuo, si entra nel capitalismo e nel liberismo più sfrenati. Dove tutto viene centralizzato, si entra nei sistemi collettivisti di destra o di sinistra.
Se si apporta, invece, un aiuto (“subsidium” da cui “sussidiarietà”) a ciò che le realtà intermedie già sono e fanno, lasciandole compiere il loro lavoro, ecco che la sussidiarietà permette, invece, uno scambio arioso. Ma guai a dare l’idea che tutto comincia con lo Stato. Sono le famiglie a costituire l’ossatura, sono le parrocchie e gli ambienti, ad essere le cellule già vive, che possono e debbono essere “sussidiate”: se le si dovesse ricreare ex novo, si fuoriuscirebbe dall’idea di una società che si regge sui corpi intermedi e si entrerebbe nell’idea che le realtà “più grandi” debbono creare quelle “intermedie”, che invece hanno già vita e la infondono a ciò che è più grande, la infondono non solo a ciò che è più grande, ma ancor più a ciò che non avrebbe vita senza i corpi intermedi.
Lo Stato e la diocesi non sono in grado di dare vita ai corpi intermedi: sono essi a poter vivere solo se hanno già vita i corpi intermedi. Essi l’hanno questa vita, se solo si ascolta il soffio dello Spirito e si leggono correttamente i segni dei tempi.
Una prospettiva diocesana più ampia potrebbe invece occuparsi, oltre che del rinnovamento del 15% delle attenzioni delle parrocchie, di ciò che le parrocchie non sono in grado di affrontare per definizione: una visione teologica comprensibile, un’attenzione ai cambiamenti culturali, un discernimento sulle novità culturali e sociali, una pastorale della scuola e del lavoro, la formazione di nuovi politici, ecc. ecc.
Affermava recentemente il sociologo Luigi Frudà: «In un contesto così altamente frammentato e differenziato [come quello di Roma] non è per nulla secondario il ruolo svolto dalle parrocchie romane, che vengono a costituire veri e propri presidi territoriali e che in alcuni casi costituiscono, per così dire, gli unici ‘avamposti’ sociali e comunitari possibili. […] Le parrocchie costituiscono un dono, una risorsa preziosa per la città che è già, totalmente, al servizio di ogni comunità e può ulteriormente rendersi disponibile ed essere coinvolta in azioni di coesione, conoscenza e integrazione sociale e culturale» (intervento al Consiglio Pastorale Diocesano, Vicariato di Roma, 5 novembre 2015) .
Ancor più autorevole, ovviamente, la voce di papa Francesco che ha scritto: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione» (EG 28).
Non si deve poi dimenticare che, come insegna papa Francesco, le grandi “conversioni” personali e pastorali avvengono per testimonianza, non per pianificazioni pastorali. In ogni epoca Dio suscita dei santi il cui esempio e la cui parola di predicazione sono così convincenti che il popolo li segue, anche se non hanno precisi piani pastorali. Sono le testimonianze di vita e i contenuti della predicazione appassionata e convincente che smuovono i cuori e le comunità per l’85%, ma guai a dimenticare che anche un piano pastorale ha una sua importantissima efficacia per il 15% e quella parte è decisiva perché permette di capire meglio dove si sta andando e dove si intende andare.
Così papa Francesco ha parlato dei piani pastorali:
«La prima tentazione che può venire dopo avere ascoltato tante difficoltà, tanti problemi, tante cose che mancano è: “No no, dobbiamo risistemare la città, risistemare la diocesi, mettere tutto a posto, mettere ordine”. Questo sarebbe guardare a noi, tornare a guardarci all’interno. Sì, le cose saranno risistemate e noi avremo messo a posto il “museo”, il museo ecclesiastico della città, tutto in ordine… Questo significa addomesticare le cose, addomesticare i giovani, addomesticare il cuore della gente, addomesticare le famiglie; fare calligrafia, tutto perfetto.
Ma questo sarebbe il peccato più grande di mondanità e di spirito mondano anti-evangelico. Non si tratta di “risistemare”. Abbiamo sentito [negli interventi precedenti] gli squilibri della città, lo squilibrio dei giovani, degli anziani, delle famiglie… Lo squilibrio dei rapporti con i figli… Oggi siamo stati chiamati a reggere lo squilibrio. Noi non possiamo fare qualcosa di buono, di evangelico se abbiamo paura dello squilibrio. Dobbiamo prendere lo squilibrio tra le mani: questo è quello che il Signore ci dice, perché il Vangelo – credo che mi capirete – è una dottrina “squilibrata”. Prendete le Beatitudini: meritano il premio Nobel dello squilibrio! Il Vangelo è così. […] Su questa strada del “sistemare le cose” avremo una bella diocesi funzionalizzata. Clericalismo e funzionalismo. Sto pensando – e questo lo dico con carità, ma devo dirlo – a una diocesi – ce ne sono parecchie, ma penso a una – che ha tutto funzionalizzato: il dipartimento di questo, il dipartimento dell’altro, e in ognuno dei dipartimenti ha quattro, cinque, sei specialisti che studiano le cose… Quella diocesi ha più dipendenti del Vaticano! E quella diocesi, oggi – non voglio nominarla per carità – quella diocesi si allontana ogni giorno di più da Gesù Cristo perché rende culto all’“armonia”, all’armonia non della bellezza, ma della mondanità funzionalista. E siamo caduti, in questi casi, nella dittatura del funzionalismo. È una nuova colonizzazione ideologica che cerca di convincere che il Vangelo è una saggezza, è una dottrina, ma non è un annuncio, non è un kerygma. E tanti lasciano il kerygma, inventano sinodi e contro-sinodi… che in realtà non sono sinodi, sono “risistemazioni”. Perché? Perché per essere un sinodo – e questo vale anche per voi [come assemblea diocesana] – ci vuole lo Spirito Santo; e lo Spirito Santo dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo. Chiediamo al Signore la grazia di non cadere in una diocesi funzionalista. Ma io credo che, secondo quello che ho sentito, le cose sono ben orientate. E andiamo avanti» (discorso di papa Francesco alla diocesi di Roma, San Giovanni in Laterano, 9/5/2019).
2/ Dove si attacca la formazione delle persone al concreto della vita? Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione L’arte di educare.
Il Centro culturale Gli scritti (30/6/2019)
Un prete mi dice che nella formazione non si può partire solo dal fornire risposte, dall’offrire una visione spirituale, dal porgere un modello di persona.
Mi spiega che, a suo avviso, bisogna prima aprire la questione dell’oggi. Lui - mi dice – non riesce a parlare di cosa sia la spiritualità senza prima aiutare a capire il dramma dell’uomo di oggi!
Ritiene che il rischio di non mostrare prima quale sia il contesto attuale, culturale ed esistenziale, sia quello di appiccicare cose anche giuste, senza che esse siano integrate dalla persona in formazione e, in fondo, senza incidere.
Sostiene che per formare qualcuno bisogna che quello che noi diciamo faccia presa, si “attacchi” a qualcosa che è stato prima elaborato e mostrato nella sua problematicità: come si attacca meglio qualcosa dove c’è una superficie ruvida e non liscia.
La fede viene messa in crisi in tanti modi, oggi, e, se non si fa il lavoro di mostrare come e perché questo avviene, ecco che le risposte, pur giuste, non si “legano” alla situazione in cui la persona vive e dovrà vivere come educatore.